Ludwig Van Beethoven

Tripelkonzert Op. 56

Pur risalendo al 1969 questa incisione resta tra le più importanti del mondo classico musicale. Beethoven, Karajan con i Berliner Phliharmoniker, Oistrakh (violino), Rostropovich (‘cello) e Richter (piano): cosa volete di più ? Per chi conosce il Triplo Concerto è una conferma di quanto bello sia, per chi non lo conosce è un’occasione da non perdere: veramente affascinante e sempre di gran impatto emotivo! Un abbinamento eccellente sotto tutti i punti di vista, assolutamente da avere! Quando mai ritroveremo un insieme di solisti di tal fatta nelle sale da concerto dei giorni d’oggi ?
Questa incisione è un UNICUM, rappresentativo della Vita Musicale degli anni ‘ 70 del Secolo scorso, tanto da essere un vero punto di riferimento per i musicisti odierni. Bravi! Registrazione eseguita nel 1969 e rimasterizzazione effettuata nel 1989. Audio più che buono. Imperdibile!

Triplo concerto in do maggiore per pianoforte, violino e violoncello op. 56

Il Grande Concerto in do maggiore per pianoforte, violino e violoncello, più noto come Triplo Concerto, viene scritto nel 1803-1804, ma viene pubblicato tre anni dopo, nel 1807, come op. 56.
Il 1803 rappresenta un anno proficuo per Beethoven: dopo l’intenso lavoro all’opera Leonora, si dedica alla revisione della Sinfonia Eroica, completa il Triplo Concerto e compone le Sonate per pianoforte op. 53 e op. 54, oltre ad abbozzare larghe parti dell’op. 57, l’Appassionata.
Alcuni commentatori avanzano l’ipotesi che originariamente l’opera sia stata concepita per il solo violoncello, vista la preponderanza virtuosistica che questo strumento ha nei confronti degli altri due solisti. Va comunque osservato che la prima esecuzione assoluta dell’opera, avvenuta a Vienna nell’estate del 1808, vide al violoncello il famoso virtuoso Anton Kraft, al violino il modesto Carl August Seidler e al pianoforte l’arciduca Rodolfo, poco più che un dilettante. Il violoncellista era l’unico quindi che potesse reggere il peso di una scrittura tecnicamente impegnativa. Anche se presenta qualche timida analogia col contemporaneo Quarto Concerto per pianoforte e orchestra, il Triplo Concerto è una partitura povera di elaborazione tematica, incline all’effettismo e all’enfasi; una pagina d’occasione, nella quale il genio beethoveniano strizza l’occhio al genere brillante e salottiero.
L’esposizione orchestrale del primo movimento, Allegro, si apre con un tema annunciato in pianissimo da violoncelli e bassi e poi ripreso da tutta l’orchestra in un graduale crescendo. Una serie di impetuose scale ascendenti (bassi e violoncelli) conducono alla tonalità della dominante, nella quale prima gli archi e subito dopo i legni presentano il secondo tema. Una breve coda, basata sulla testa del secondo tema, conclude l’esposizione dell’orchestra. È ora la volta dei solisti, che in regolare successione espongono il primo tema: prima il violoncello nel suo registro acuto, seguito dal violino e dal pianoforte in ottava. Un nuovo tema, solenne e un poco retorico, esposto da tutta l’orchestra in fortissimo, precede un’ulteriore ripresa del primo tema, affidato al violoncello e subito elaborato e variato dai tre solisti in un episodio sereno e spensierato. Il secondo tema, esposto in la maggiore, viene ancora una volta affidato al violoncello e viene seguito da un nuovo episodio di sviluppo motivico condotto principalmente dai tre solisti. Ancora il terzo tema, ora in fa maggiore, a tutta orchestra in fortissimo, precede l’ultima apparizione del primo tema, ancora nella successione violoncello-violino-pianoforte.
Lo sviluppo è piuttosto convenzionale e non evidenzia quelle tensioni drammatiche tipiche di Beethoven. È formato essenzialmente da due episodi: il primo basato quasi esclusivamente sulla testa del primo tema e condotto su energici arpeggi ascendenti e discendenti dei tre strumenti solisti, il secondo costituito da un nuovo motivo cantabile, esposto dal violoncello e subito raddoppiato dal violino. La ripresa è regolare e prevede il ritorno di tutti i temi uditi nell’esposizione, più il nuovo motivo cantabile apparso per la prima volta nello sviluppo; un’enfatica coda conclude poi il movimento.
Il secondo movimento, Largo, è una pagina delicata, molto lirica, nella quale le straordinarie capacità cantabili del violoncello emergono in tutta la loro potenza. Poche battute orchestrali (Tutti), poi la parola passa al violoncello solista, che espone il tema principale utilizzando il suo registro acuto; una breve transizione condotta dai corni e dal pianoforte conduce alla ripresa del tema principale. La melodia è ora affidata a violoncello e violino solisti, mentre pianoforte e corno sostengono armonicamente. Il sereno discorso musicale precedente si spezza poi bruscamente: tonalità minore, sospensione armonica, lunghi pedali preparano l’arrivo dell’ultimo movimento, Rondò alla Polacca, pagina leggera e spensierata, una delle poche concessioni beethoveniane alla moda dell’epoca. La sua struttura è quella tipica del rondò, con un refrain (tema principale) che si alterna a diversi couplet (episodi).
Il tema principale, esposto dal violoncello e subito ripreso dal violino, è un motivo semplice e accattivante, che subito circola in orchestra con facilità e scorrevolezza, spesso variato e abbellito. Il primo couplet, basato su scorrevoli scalette ascendenti, è affidato ai tre solisti e si presenta come ideale continuazione del tema principale; il secondo couplet, invece, ha il tipico piglio ritmico della Polacca e ha in comune col terzo couplet la tonalità minore. Un veloce e frenetico Allegro, sorta di «moto perpetuo» condotto dai tre solisti sulle delicate punteggiature degli archi, precede il finale, nel quale riappare per l’ultima volta il tema principale.

Sonata per pianoforte n. 17 in re minore “La tragica” op. 31 n. 2

È importante ricordare il momento spirituale in cui le Sonate op. 31, fra il 1801 e il 1802, vennero sotto la penna del loro creatore: momento di fermento, di pienezza inventiva e di spirito critico che è usanza veder condensato in una coeva affermazione di Beethoven tramandata dal suo scolaro Czerny: «Non sono soddisfatto dei lavori che ho scritto fino ad oggi; d’ora in poi voglio incamminarmi per un’altra via». Era la via che in breve avrebbe portato alla Sinfonia Eroica; ma prima, sul terreno privato, confidenziale del pianoforte, l’impulso produce un’ondata di scoperte nelle direzioni più varie, anche in contrasto fra loro sul piano del carattere, dell'”affetto”, ma tutte comunque sia segnate da una prodigiosa plasticità di rappresentazione. Il talento creativo di Beethoven è preso da una sorta d’ingordigia di fissare sulla tastiera ogni flessibilità e mutevolezza del linguaggio musicale; tale spinta all’originalità non si orienta sulla macroforma, come nelle Sonate “quasi una fantasia” di poco prima; la forma di sonata è ripristinata in piena regola; ma resta sullo sfondo;

ora a Beethoven interessa la microforma, battuta per battuta, nota per nota, dove tutto deve assumere vivacità di significato.
Un processo così profondo di sommovimento non può trovare soddisfazione solo nelle tre Sonate op. 31, ma secondo l’abitudine di Beethoven che lavorava a gruppi di opere, dilaga in altri lavori vicini e ritorna indietro in un sistema di vasi comunicanti; già i quaderni di schizzi e abbozzi documentano le interferenze, ma bastano le opere compiute a rivelare analogie e rispecchiamenti: attorno all’op. 31, nello stesso biennio 1801-2, son le tre Sonate per pianoforte e violino op. 30, le Bagatelle op. 33, le Variazioni op. 34 e 35, tutte segnate da estrosità, esperimenti e da un altro lato comune, un senso arioso del gioco, del capriccio, in una ilare, umoristica positività; cui non contrasta nemmeno la violenta espressività della Sonata in re minore op. 31 n. 2 (che ha il suo pendant nella seconda, in do minore, dell’op. 30): in cui la capricciosità si capovolge in drammaticità, incanalandosi tumultuosa nelle sponde del genere patetico e debordandone per lo slancio vitale che la anima. Tanta positività affermativa non ha mancato di sollecitare gli studiosi a rilevare il contrasto con l’angoscia che circondò nello stesso tempo Beethoven uomo e artista: il 1802 è infatti l’anno in cui la sordità e il connesso destino di solitudine accerchiano il compositore che ne lascia testimonianza nel famoso “Testamento di Heiligenstadt”; Beethoven si aggrappa al suo talento creativo e ne acuisce la potenza realizzativa foggiandosi uno strumento espressivo senza eguali.
La seconda Sonata, op. 31 n. 2, in re minore è dalla sua apparizione una delle più eseguite, discusse e amate in tutta la serie delle Sonate di Beethoven. Alla sua fama ha contribuito il racconto di Anton Schindler che nel 1823, quindi vent’anni dopo la sua composizione, aveva chiesto a Beethoven una chiave per intendere e interpretare questa Sonata e l’op. 57 in fa minore; dalla risposta – «leggete la Tempesta di Shakespeare» – l’op. 31 n. 2 avrebbe ricevuto il soprannome di “Tempesta” che l’accompagna tuttora (mentre l’op. 57, una volta battezzata “Appassionata” si è svincolata dal riferimento) nonché un primo , promettente quadro di riferimento (si può ricordare che una nuova attenzione a questa vecchia allusione si trova oggi in un ingegnoso articolo di Theodore Albrecht che riconduce la Sonata non solo, genericamente, a una suggestione di natura, ma a varie scene particolari e a situazioni rispondenti con la biografia di Beethoven nel periodo in cui fu concepita).
Di certo l’opera è di quelle che più sollecitano a squarciare i veli della forma, a spiccare il salto dal puro “musizieren” verso le soglie arroventate dei contenuti psicologici. Ma questa istanza è in realtà provocata dalla rappresentazione di puri gesti musicali resi pregnanti da quella stessa icasticità dell'”altra via”, da quel linguaggio musicale colto sul fatto che è la grande scoperta di tutta l’op. 31. Basta il proverbiale esordio a dare il senso d’un atto davvero creativo, di un

fiat miracoloso; poi tutto è movimento “in avanti”, con idee e figure che dell’impeto sembrano l’incarnazione musicale. Il brano è regolato dalla legge del contrasto, dell’opposizione, di accento, dinamica e disegni; anche incidendo nel più piccolo composto di melodia e accompagnamento, si riconosceranno elementi che “si sentono” fra di loro, attirandosi e respingendosi.
Al centro dello sviluppo, l’introduzione del “recitativo” crea un culmine emotivo che condiziona tutta la struttura della Sonata; quella ricerca della parola ivi registrata pone in quel punto il cuore del pezzo; in quel centro il quadro armonico è cromatico e improvvisatorio, con improvvisi confini spalancati da arpeggi dolcissimi in tonalità lontane; mentre esposizione e conclusione si agitano e cozzano entro un quadro ristrettissimo di tonica e dominante, sbozzate in rapida, quasi rozza sobrietà. Vastissima è poi la gamma affidata alla fantasia sonora, timbrica; d’ora in poi non si potrà più parlare di uniformità sonora del pianoforte; il vibrato degli strumenti ad arco è battuto in breccia da una serie di infinite gradazioni di attacco e pressione, non più affidabili a segni che, a volerli annotare tutti, sarebbero continui perché legati al respiro stesso della musica; al tocco è data via libera e il concetto stesso della moderna interpretazione musicale sembra nascere a contatto con questa pagina.
Il secondo movimento (Adagio) è regolato come il primo dal contrasto e dal dialogo, inseriti in una forma mista fra il Lied con variazioni e la forma sonata, e naturalmente rallentati entro un tempo vasto e spazioso dove ogni idea, anche il misurato rullo dei bassi, quasi timpani, ha qualcosa d’infallibilmente calcolato; l’apertura di certi squarci melodici ricorda la cantabilità giovanile del Lied Adelaide e ancora si noterà, in tutto l’Adagio, un senso di attesa aurorale (poi rimesso in opera nell’introduzione al finale della Sonata op. 53), nel contrasto fra addensamenti neutri nel registro basso e luminosità di arpeggi o di singole note svettanti di trepida chiarezza. Al principio del contrasto rinuncia per programma il Finale con il suo andamento da “moto perpetuo”; ma Beethoven non sarebbe lui se anche questa superficie lineare, già resa inquieta dal suo ironico guizzare, non fosse ogni tanto turbata da sforzati, ottave massicce, capricciosi mordenti; in qualche modo drammatizzata, sia pure con la misura necessaria a non togliere a questa conclusione della Sonata il carattere di una danza misteriosa e leggera, quasi vaporando dai roventi solchi del primo movimento.

Kerbert von Karajan