Chopin Fryderyk
Sonate per pianoforte 2 – 3
Registrazioni eseguite dal 1985 al 1986. Audio super. Altamente raccomandato.
Sonate per pianoforte nn. 2 & 3
Rispetto alla molta cattiva letteratura che fiorì sulla Sonata in si bemolle minore op. 35(1837/39) l’ultima Sonata pianistica di Chopin, op. 58 (1844), rimase quasi nell’ombra: sebbene egli sia uno dei musicisti romantici che offre minori pretesti a riferimenti extramusicali, proprio la Sonata op. 35 provocò macabre fantasie, soprattutto a commento del Finale che Mendelssohn dichiarava di aborrire e che perfino Schumann non riusciva ad accettare.
Nella loro assurdità, di cui è fin troppo facile sorridere, tali commenti tentavano di fornire una qualche giustificazione a ciò che appariva intollerabile, o almeno sospetto nella Sonata op. 35, alla evidenza e alla coerenza cioè con cui si definisce il suo carattere di introspettiva esplorazione di abissi della coscienza mai prima indagati, di sconvolgente meditazione sulla morte, sul nulla.
Più che mai essa offerse spunti alle moralistiche perplessità sulla natura “malata” dell’arte di Chopin, e in proposito basterà ricordare la celebre osservazione di Schumann sul carattere “repulsivo” della Marche funèbre, cui egli avrebbe preferito un Adagio in re bemolle maggiore.
Lo stesso Schumann si domandò se era legittimo chiamare “sonata” una composizione in cui Chopin aveva riunito “quattro delle sue creature più bizzarre”, e in seguito divenne un luogo comune considerare le Sonate di Chopin come la prova delle difficoltà che egli avrebbe incontrato nel rapporto con le “grandi forme” classiche. In realtà solo un ideale di Sonata astrattamente ancorato a modelli viennesi, visti in una prospettiva irrigidita e stereotipata, poté impedire a lungo di riconoscere nelle Sonate pianistiche della maturità di Chopin due fra i contributi più coerenti e compiuti al rinnovamento del genere in un’epoca in cui esso aveva assunto un carattere in qualche modo eccezionale. Fra l’altro le analisi di Alan Walker (1966) hanno contribuito a chiarire l’interna coerenza unitaria del materiale delle Sonate op. 35 e 58.
Nell’op. 35 la coerenza è immediatamente evidente dal punto di vista espressivo: se è vero che centro poetico della Sonata (i cui tempi sono tutti in tonalità minore) è la Marche funèbre, va sottolineato che essa fu anche il punto di partenza della composizione, il pezzo, datato 1837, intorno al quale solo due anni dopo, nel 1839, si aggregarono gli altri tempi. Walker ha sottolineato i legami sotterranei tra il materiale tematico della Marcia e il resto della Sonata. All’analisi si colgono affinità (riconoscibili attraverso trasposizioni d’ottava) tra il motivo di tre note del basso nella brevissima introduzione e il drammatico primo tema, dall’andamento ansioso, ansimante, chiuso in una insistenza ripetitiva sullo stesso disegno ritmico (e inizialmente sull’accordo di tonica). Dagli intervalli di terza minore e seconda maggiore (decisivi nel profilo del primo tema) prende le mosse anche il secondo tema: tali affinità strutturali, verosimilmente inconsapevoli, si stabiliscono fra idee che segnano dal punto di vista espressivo un contrasto nettissimo, non mediabile: alla rotta, affannosa concitazione del primo tema si contrappone, con l’intenso canto del secondo, una immagine più compatta, dopo la quale una nuova idea conclude l’esposizione.
Il teso e serrato sviluppo si concentra sul primo tema e sulla brevissima introduzione: proprio una esigenza di concentrazione e di non convenzionale equilibrio strutturale induce Chopin a rompere lo schema tradizionale, facendo iniziare la vera e propria ripresa direttamente con il secondo tema.
In realtà l’ultima parte dello sviluppo sovrappone in un certo senso la propria funzione a quella di una ripresa non letterale del primo tema: questa ellissi per sovrapposizione fu accademicamente considerata come una “debolezza” strutturale. (Nella Sonata op 58 la omissione del primo tema si realizza come
una ellissi di natura diversa).
I violenti contrasti intorno ai quali si organizza il primo tempo si ritrovano nello Scherzo, tra la prima parte e lo smarrito lirismo del Trio centrale, la cui melodia inizia in modo simile a quello della canzone polacca niepodobienstwo (“Impossibilità”: questa somiglianza ha provocato improbabili interpretazioni “programmatiche”).
È un disegno anticipato nelle ultime battute della prima parte dello Scherzo: nuovo esempio di integrazione tra momenti di opposto carattere espressivo. Il caso più significativo di integrazione riguarda però il rapporto tra l’idea principale della Marche funèbre e il primo tema del primo tempo (le prime cinque note sono il retrogrado del profilo melodico della Marcia).
All’analisi si possono riconoscere legami anche fra il Trio dello Scherzo e quello della Marche funèbre: simili rapporti contribuiscono a creare l’unità della Sonata al di sotto della violenza dei contrasti e del radicalismo “negativo” che indussero Schumann ad affermare che Chopin aveva riunito qui “quattro delle sue creature più bizzarre”.
Maurizio Pollini
Lo “scandalo” della Sonata op. 35 è dovuto soprattutto al carattere dei movimenti conclusivi, nella cui intransigente coerenza espressiva non trova riscatto la cupa tensione dei primi due tempi: dopo la desolazione della Marche funèbre (la cui natura potrebbe forse giustificare l’ipotesi di una allusione al destino della Polonia) il Finale è una pagina sconvolgente, di un radicalismo che ancora oggi sorprende.
Pur non riuscendo ad accettarlo, Schumann non mancò di coglierne il carattere enigmatico, “simile ad una sfinge dall’ironico sorriso”, e anche il suo commento negativo rivela una perplessa ammirazione per questa pagina dalle ardite concatenazioni armoniche, dalla gesticolazione spettrale, “senza melodia” (come nota Schumann) perché le due mani suonano in ottava una sorta di moto perpetuo “sottovoce e legato”, il cui tono inesorabile è sottolineato anche dalla limitatissima varietà delle indicazioni dinamiche (un solo crescendo oltre al fortissimo conclusivo).
La Sonata in si minore op. 58, composta nell’estate 1844, non presenta caratteri “repulsivi”, si apre ad una maggior varietà di accenti con straordinaria ricchezza fantastica (incline talvolta ad un incantato divagare) e con momenti di spaziata, luminosa cantabilità. Fin dal primo tempo la natura di questa luminosità del timbro pianistico contribuisce in parte a collocare in una luce particolare, “lontana” e riflessiva, questo ultimo ritorno di Chopin alla Sonata: un ritorno che condivide tuttavia solo in una certa misura e in modo più sfumato alcuni caratteri dell’ultimo pianismo chopiniano.
Una grande ricchezza di idee caratterizza l’Allegro maestoso: il primo tema appare segnato da una inquieta, frastagliata mobilità, e si collega al secondo attraverso una transizione densa di nuovo significativo materiale.
L’ampio respiro lirico del secondo tema dà luogo ad una fioritura di idee che con fruire ininterrotto si estende fino alla fine dell’esposizione. La prima parte dello sviluppo segna un ritorno a drammatiche tensioni, che sfociano quindi (nella seconda parte) in un fantasioso divagare su elementi lirici del secondo gruppo tematico. Da qui ci si collega direttamente alla ellittica ripresa, attraverso una breve pagina nuovamente frastagliata che richiama frammentariamente alcuni elementi della prima parte dell’esposizione (omettendone completamente l’inizio): la ripresa letterale e integrale comincia solo dal secondo tema.
All’analisi i due temi principali si rivelano basati su un nucleo comune, ed è strano osservare quanto a lungo sia rimasta in ombra, nei commenti alla Sonata in si minore, la coerenza e l’efficacia con cui Chopin organizza in un coerente svolgimento il continuo rinnovarsi delle idee in questo ampio primo tempo.
I due movimenti centrali presentano caratteri formali meno complessi. Il breve Scherzo in mi bemolle maggiore (con una sezione centrale in si maggiore la cui melodia ha un sapore popolare) è caratterizzato da una scrittura di aerea leggerezza, da una magica qualità del suono. Il Largo evoca un poco il carattere
di un Notturno: si nota, dopo poche battute di solenne introduzione, un piglio quasi vocale nella trepida cantabilità, nella miracolosa purezza melodica del disegno iniziale (legato da affinità al secondo tema dell’Allegro maestoso), in un clima sonoro di singolare raffinatezza.
Un particolare incanto sonoro caratterizza anche la sezione centrale. La natura di questo incanto, come la magia timbrica dello Scherzo, appartiene ai caratteri che consentono di collocare la Sonata op. 58 in una luce “lontana”, quasi di riflessione retrospettiva, di ripensamento. Nella stessa luce, tuttavia, non si può leggere l’inquieta concitazione, lo slancio febbrile, intenso e controllato (“Presto, non tanto”, è l’indicazione di Chopin) del Finale in forma di Rondò, dove ogni ritorno del tema è caratterizzato da un accompagnamento di crescente densità ritmica, con una energia che richiede un grande virtuosismo, all’interno di un disegno formale più semplice e più nitidamente delineato rispetto a quello del primo tempo.
Paolo Petazzi
Sonata n. 2 in si bemolle minore per pianoforte, op. 35, BI 114/128, CI 202
In una, lettera dell’agosto 1839 Fryderyk Chopin scriveva all’amico Julian Fontana di una sonata in cui avrebbe inserito la Marcia di cui lui già sapeva. Si trattava della Sonata in si bemolle minore op. 35, mentre la citata Marcia funebre era già stata composta due anni prima, nel 1837. Degli altri tempi di questa Sonata, la seconda di Chopin (la prima, la poco conosciuta Sonata in do minore op. 4, risale al periodo di apprendistato e la terza, la Sonata in si minore op. 58, nacque alcuni anni più tardi nel 1844) lo Scherzo fu concepito a Nohant negli ultimi mesi del 1839. I due tempi mancanti, il Grave – Doppio movimento e il Presto finale erano stati quanto meno abbozzati tra gli ultimi mesi del 1838 e l’inizio del 1839 durante il sofferto soggiorno con George Sand nell’isola di Maiorca alla Certosa di Valldemosa, un periodo terribile per il compositore, avvinto dal timore per il drastico peggiorare delle condizioni di salute e autenticamente suggestionato dai lugubri panorami invernali offerti dalla Certosa.
Certo la linea di fondo da cui si sviluppa l’intera Sonata lascia trasparire un tratto negativo, nichilistico, in una sorta di concezione drammatica del destino umano. Questo spiegherebbe l’accentuata insistenza sulle tonalità minori che caratterizzano fortemente con le loro tinte scure tutti i movimenti. I profili tematici sono spesso netti, bruschi, interroganti come succede nel Grave – Doppio movimento; oppure si traducono negli espliciti, mesti e cadenzati rintocchi di morte della Marcia funebre, o ancora sfilano via veloci senza una fisionomia chiara, quasi fantasmi senza volto come succede nel Presto finale,
che in epoca romantica venne fantasiosamente visto in senso descrittivo come «il vento che soffia tra le tombe».
Fryderyk Chopin
Una sorta di «poema della morte», di canto solitario domina dunque la scena, soprattutto se pensiamo come l’intera Sonata si coaguli attorno al suo centro ideale, la Marcia funebre. Che non solo precede gli altri tempi in senso cronologico poiché, come detto, fu scritta prima, ma anche funziona da punto di equilibrio, da elemento stabilizzante in quanto perfetto regolatore
dell’organizzazione degli altri tempi (l’estrema, secca concisione del Finale, ad esempio, non sarebbe motivata in una sonata di impianto classico se non fosse semplicemente da considerarsi come una desolata, gelida appendice della Marcia la quale, questa sì, è davvero conclusiva). L’intera Sonata, inoltre, deriverebbe le proprie principali cellule motiviche da elementi costitutivi della Marcia stessa, che quindi ancor più, anche sotto l’aspetto tematico, funzionerebbe da centro strutturale e coesivo. Questo particolare valore di unitarietà e di omogeneità della Sonata, giustificata e filtrata attraverso il comun denominatore della Marcia, non fu del tutto compreso in epoca romantica; l’op. 35 fu invece via via percepita come «discontinua» (somma di movimenti autonomi e isolati), mancante di contrasti (tutti i tempi in modo minore) sino a trovare una sua adeguata collocazione solo nella particolare categoria di «bizzarria». Lo stesso Robert Scliumann scriveva apertamente: «Si potrebbe definire capriccio, se non tracotanza, l’averla chiamata Sonata, poiché egli ha riunito quattro delle sue creature più bizzarre per farle passare di contrabbando sotto questo nome in un luogo dove altrimenti non sarebbero potute entrare». Franz Liszt sosteneva che non si trattasse di una vera sonata ma di qualcosa di diverso, di «altra» composizione, seppur di originale bellezza. Si coglieva insomma la qualità intrinseca della musica senza però poterle dare una precisa collocazione formale. D’altronde sotto il profilo dell’adesione e dell’ortodossia alle regole ne avevano ben donde: l’equivoco di base stava nelle forti deroghe che Chopin si era preso nel costruire il proprio lavoro, guidato dal suo straordinario istinto musicale.
Vediamo, ad esempio, come nel primo movimento (Grave – Doppio movimento), dopo gli enigmatici accordi introduttivi si succeda nell’Esposizione un drammatico e ansante primo tema che, al contrario della norma, non tornerà nella Ripresa, dove invece campeggerà il morbido profilo del secondo tema; ma a ragione, perché già nello Sviluppo Chopin aveva pienamente sfruttato le potenzialità del primo elemento che, ripetuto, sarebbe risultato quanto meno pleonastico.
Il secondo movimento (Scherzo) si avvicina molto, per carattere, alla Marcia funebre. Lo dominano i forti contrasti: dal piglio brusco del primo gruppo si passa al composito insieme del secondo, laddove prende avvio una sorta di istrionica, raggelante danza degli scheletri che in poco tempo invade l’intera scena; poi, inaspettata, si apre la splendida oasi di quiete del Trio nella sua bella melodia dalle ampie campate che ricorda un placido, ispirato Notturno, prima del rutilante ritorno dello Scherzo iniziale.
Nella Marcia funebre i mesti rintocchi del motivo principale si stagliano sordi, tetri, immobili, sostenuti dalla lenta e ossessiva figura in ostinato della mano sinistra. Poi questo grigio canto di morte concede una tregua e si apre in un vivido messaggio di speranza emblematicamente spento nel finale dal cupo rullio del basso. Nella seconda parte della Marcia compare una melodia cantabile tipicamente chopiniana: tenera, ma triste e dolente, che pervade l’animo per il suo messaggio di calma rassegnata; solo alla fine torna a stagliarsi, implacabile, l’ombra ritmico-motivica costituita dal tema portante della Marcia funebre.
Il Presto conclusivo è la fine di ogni illusione, «una sfinge dall’ironico sorriso», come scrive Schumann. Niente temi, niente accenti, niente indicazioni agogico- dinamiclie eccetto il fortissimo finale, cosa decisamente sui generis per Chopin, così attento alle raffinatezze di tocco, alle dinamiche, ai torniti spunti melodici. Invece un continuum ritmico di impetuose terzine che si muovono tutte uguali a se stesse a distanza d’ottava, sempre sottovoce e legato, forma un circuito sonoro unico, freddo, indistinto. È la sconvolgente, geniale rappresentazione musicale del senso del nulla, del gelo spirituale, del vuoto misterioso che porta alla morte: ancora una volta fuori dalle regole – il brano è drasticamente accorciato, quasi un enigmatico epigramma – ancora una volta risolto con mezzi musicali personali, originalissimi. Schumann rimase sconvolto, ma anche ammirato, di fronte a tanta arte: «Quello che appare nell’ultimo tempo sotto il nome di Finale è simile a un’ironia piuttosto che a una musica qualsiasi. Eppure, bisogna confessarlo, anche da questo luogo senza melodia e senza gioia soffia uno strano, orribile spirito che annienterebbe con un pesantissimo pugno qualunque cosa, volesse ribellarsi a lui, cosicché ascoltiamo come affascinati senza protestare sino alla fine – ma anche, però senza, lodare: poiché questa non è musica».
Sonata n. 3 in si minore per pianoforte, Op. 58, BI 155, CI 203
Chopin scrisse tre Sonate per pianoforte: la prima «in do minore, op. 4» pubblicata, solamente, dopo la morte del compositore, ma posseduta dall’editore viennese Haslinger fin dal lontano 1828; la seconda, «in si bemolle minore, op. 35», scritta a Nohant, nel castello di proprietà di Georges Sand, nell’estate del 1839; la terza, la «Sonata in si minore, op. 58», pubblicata nel 1845 e dedicata alla contessa di Perthuis, consorte dell’aiutante di campo del re Luigi Filippo, grande ammiratrice del musicista polacco. Il primo tempo della Sonata (Allegro maestoso) esplode con l’attacco risoluto di un gruppo di semicrome che imprimono all’introduzione un carattere decisamente dinamico, che si acquieta, subito dopo, in una sonorità più calma senza che la natura del movimento iniziale venga deformata.
Fryderyk Chopin
Il secondo tempo, espresso in una sonorità dall’inflessione mollemente melodica, s’immerge in quell’albore stregato tipico di Chopin dove il sogno, l’abbandono, la nostalgia, la tristezza tessono i loro filamenti in un’atmosfera svaporante, sul sostegno di un accompagnamento flessibilissimo. Dopo un lungo sviluppo (in cui Chopin ha dimostrato, pienamente, la sua capacità di comprimere, nel quadro d’una architettura esatta e, deduttivamente, precisa,
l’essenza della sua ispirazione) il tempo si conclude in un crescendo, percorso da bagliori di fervido entusiasmo. A immateriale leggerezza, è improntato l’inizio del secondo movimento, lo «Scherzo», che ha potuto suggerire ad un celebre esecutore-critico l’impressione dell’assalto canoro d’uno stormo di allodole alla volta celeste. All’agile sventagliare di rapide note succedono armonie più ombrose e più segretamente calme, creando, per contrasto, una zona di raccolta concentrazione, ben presto fugata dall’alata riapparizione dell’attacco iniziale. Dopo quattro misure, ferocemente martellate, esprimenti una tragicità incombente, il «Largo» si distende in una cantilena dove geme l’essenza del più puro sogno chopiniano, corso, a tratti, da trasalimenti, inflessioni e sussulti di malinconia, in cui convergono gli elementi più imponderabili della réverie romantica: rimpianti di amori svaniti, nostalgia per la patria lontana, presentimento divinatore di una fine imminente e, ancora, riposto scontento trivellante l’animo con l’ostinazione di un indomabile tarlo.
Per il terso cristallo della sua purezza, per la durata del suo arco melodico, per il suo genuino fremito poetico, il «Largo» dì questa Sonata si lega, come è stato detto, per consanguinea parentela, ai tempi lenti dei due Concerti per pianoforte e orchestra dello stesso Chopin. Il finale (Presto non tanto) della Sonata sembra essere stato concepito espressamente per confutare le argomentazioni di coloro che in Chopin hanno visto solamente un’anima malata. Risoluzione, impeto, ardore, espressi musicalmente in un dinamismo senza requie dominano, invece, in quest’ultimo tempo della sonata. La febbre energetica che percorre questo tempo è tale che non trova parallelo alcuno né in Mozart, né in Haydn, né (ed è tutto dire) nella stessa dinamica beethoveniana. Nel fluire del tempo l’impeto, ad un certo punto, sembra quasi sminuire; ma è solamente un accorgimento, un momento d’intenzionale calma dalla cui soglia si riscatena l’irruenza selvaggia, ormai ridotta alla nudità di un ossessivo martellamento di bassi, generatore inesausto di vitalità travolgente, quale figurazione sonora dell’ardore patriottico di Chopin, certo della resurrezione dall’annientamento della sua patria martirizzata.