Handel Frideric George
Israel in Egypt
Charles Mackerras è stato un direttore di Handel meraviglioso, eseguendo oratori come Israele in Egitto, Giuda Maccabeo e Saul e in ultimo, a mio parere, la migliore composizione di Handel, il famosissimo Messia. “Israele in Egitto” è uno dei primi oratori Handelliani (1738). Sembra che Handel abbia composto il testo, essendo stato un grande studioso della Bibbia. Più di ogni altro suo Oratorio, “Israele in Egitto” ha come punto focale il coro. Molti brani eseguiti dal coro sono eccitanti, energici, come “He gavette Hailstones for rain”, “He rebuked the Red Sea”, “The Right Hand, O Lord” e altri. Una musica cupa e solenne dipinge gli israeliti ridotti in schiavitù prima e durante il loro esodo. I duetti sono più numerosi della arie. Il cast composto da Heather Harper/Patricia Clark /Michael Rippon/Christopher Keyte/ Alexander Young e Paul Esswood è eccellente. Un plauso al Leeds Festival Chorus ed alla English Chamber Orchestra per la loro superba interpretazione. Registrazioni eseguite dal 1970 al 1971. Altamente raccomandato.
Israel in Egypt, HWV 54
Georg Friedrich Händel diresse la prima esecuzione di Israel in Egypt il 4 aprile 1739, quaranta giorni dopo aver compiuto i cinquantaquattro anni d’età. Durante il suo soggiorno quasi trentennale in Inghilterra si era dedicato principalmente all’allestimento di opere italiane, nella doppia veste di autore ed impresario. Furono gli ultimi disastrosi rovesci economici di questa attività a convincere il compositore dell’opportunità di abbandonare l’opera e di ricercare il successo del pubblico per altre strade. Assai più che da un’intima esigenza religiosa – come pure talvolta si è sostenuto – l’approccio al genere oratoriale ebbe origine dunque da esigenze di puro mercato, da quell’ottica di consumo immediato che sovrintende a tutta, o quasi, la produzione barocca. I primi oratori inglesi di Händel (primi dopo le sporadiche esperienze giovanili italiane), Esther, Deborah, Athalia, dei primi anni 1730, Saul e Israel in Egypt, della fine di quel decennio, furono eseguiti nelle stesse sale che accoglievano le ultime opere italiane del compositore, alternative edificanti a queste ultime (e giova ricordare che neanche in seguito, nonostante il contenuto edificante, gli oratori ebbero destinazione religiosa, bensì sempre profana).
Israel in Egypt, dunque, rientra nella prima fase dell’oratorio händeliano, ricca di incertezze e di ripensamenti. Infatti gli esiti dei primi oratori presso il pubblico inglese erano stati piuttosto stentati, e lo stesso compositore esitò non poco prima di impegnarsi decisamente nel nuovo genere; per convincersene basta osservare il lasso di tempo che intercorre fra l’Athalia del 1733, e i due oratori composti nell’estate-autunno del 1738, Saul e Israel in Egypt. ben cinque anni, nel corso dei quali l’autore compose undici nuove partiture operistiche. La spinta decisiva a tentare il nuovo corso venne dal disastroso naufragio del Serse, nell’aprile 1738; la nuova stagione operistica, annunciata alla fine di maggio, suscitò un interessamento così modesto che venne cancellata il 25 luglio. Il giorno seguente Händel iniziava la composizione del Saul. Subito dopo il completamento del Saul – nel corso della cui gestazione, peraltro, venne abbozzata anche l’opera Imeneo – seguì Israel in Egypt.
Occorre dunque confinare nel limbo delle idealizzazioni romantiche la diceria secondo la quale il nuovo oratorio avrebbe visto la luce senza commissioni esterne, ma sotto la spinta di motivazioni “interiori”, come testimonianza di ringraziamento per la riacquistata salute, dopo la paralisi che aveva colpito l’autore nel 1737. È vero piuttosto che Händel avvertiva la necessità di sondare nuove strade, che gli consentissero di mantenere il suo riconosciuto primato nella patria d’adozione. A queste motivazioni generali se ne possono forse aggiungere altre più specifiche. Già nel 1909 R.A. Streatfeild, e più recentemente Winton Dean, hanno sostenuto che Israel in Egypt sarebbe stato concepito in origine non già come oratorio, ma come anthern, cioè come inno
sacro, la cui commissione sarebbe da porsi in relazione con il clima di guerra del momento (il paventato conflitto con la Spagna).
Non a caso piuttosto oscura è la genesi dell’oratorio. Innanzitutto è inusuale, rivoluzionario, il fatto che il testo poetico provenga interamente dalle sacre scritture; prassi invece obbligata per gli anthems. lì testo è tratto dall’Exodus e dai salmi 105, 78 e 106, secondo un montaggio originale che in genere viene ascritto allo stesso Händel; e tuttavia non è da escludersi che nella definizione del libretto sia intervenuto Charles Jennens, il librettista che aveva già fornito il testo di Saul e che avrebbe collaborato ancora per L’Allegro, il Penseroso ed il Moderato, The Messiah e Belshazzar. Diffìcile, in secondo luogo, spiegare i motivi che possono aver indotto Händel a comporre l’oratorio partendo dalla seconda delle due parti (Moses’ song, abbozzata fra il 1° e l’11 ottobre, secondo le date riportate sull’autografo), per risalire poi alla prima (Exodus, abbozzata fra il 15 e il 20 ottobre).
Si aggiunga un altro fatto: che fra tutte le partiture oratoriali di Händel Israel in Egypt è probabilmente quella che fa ricorso in misura più massiccia, di gran lunga superiore alla media, a materiale preesistente, proprio di Händel e anche di altri autori. Una prassi legata frequentemente allo scarso tempo a disposizione, alla fretta, che sembra confermata dai rapidissimi tempi di stesura; ma per spiegare tale fretta occorre pensare a una precisa commissione esterna, poi rientrata. Fu così che Händel pensò verosimilmente di trasformare quanto aveva scritto in un oratorio in tre atti, premettendo in blocco all’Exodus e al Moses’ song, quale primo atto (ma con diverso titolo: Lamentations of the Israelites for the death of Josef), una sua precedente composizione, The ways of Zyon do mourn, l’anthern funebre per la regina Carolina, eseguito ai funerali della sovrana in Westminster Abbey il 17 dicembre 1737 (ed è questo il motivo per cui l’autografo dell’Exodus reca l’intestazione di “atto secondo”).
In questa versione di tre grandi anthems giustapposti, dunque, Israel in Egypt venne eseguito al King’s Theater il 4 aprile 1739, ottenendo un sostanziale insuccesso. Non è difficile comprenderne le ragioni. Da una parte venne discussa l’opportunità di impiegare testi sacri in teatro; dall’altra la composizione, ancorché data in quaresima, era veramente “penitenziale” per un pubblico teatrale, poiché comprendeva appena quattro arie solistiche contro circa quaranta cori. Non a caso alla seconda esecuzione l’oratorio venne complessivamente abbreviato (fu omessa la prima parte, desunta dall’anthem funebre) ma inframezzato da quattro nuove arie (una, in inglese, dall’Athalia; le altre tre, in italiano, dalle aggiunte scritte nel 1737 per Esther), tutte cantate da una beniamina del pubblico londinese, Elisabeth Duparc, detta “la Francesina”. Ma l’oratorio non incontrò consensi né in questa occasione, né nella ripresa dell’anno seguente, né nel recupero operato da Händel quasi venti anni più tardi, nel 1756, 1757 e 1758, quando le Lamentations of the Israelites for the death of Josef vennero definitivamente espunte e sostituite con il primo atto del Salomon in forma abbreviata.
Sir Charles Mackerras
Paradossalmente, proprio le cause all’origine di questo pertinace insuccesso – la presenza del testo sacro e la preponderanza corale – giovarono alle riprese di Israel in Egypt in epoca romantica, quando il lavoro si impose, a fianco del Messiah (altro oratorio anomalo), come capolavoro dell’ispirazione religiosa di Händel. L’identificazione fra la massa corale e il popolo d’Israele rispondeva in pieno alla ricerca, propria dei romantici, di una musica che esprimesse l’identità di un popolo. Così nel 1859 Henry Chorley poteva definire la partitura come «qualche cosa di completamente a sé stante, isolato, fra tutte le altre opere esistenti nel campo della musica corale descrittiva». Si aggiunga l’assenza di una vera e propria trama, di una drammatizzazione, che allontanava l’oratorio dall’ambito allora più che sospetto dell’opera metastasiana, per avvicinarlo al prototipo dell’opera religiosa romantica, segnata da un rapporto diretto, “personalizzato” fra l’autore e la divinità. Un sostanziale fraintendimento, insomma, cui corrispose in sede esecutiva il consueto allargamento degli organici a dimensioni elefantiache.
È alla nostra epoca, insomma – che ormai ha riportato in auge buona parte del teatro drammatico del compositore e che non è più vincolata all’immagine che voleva Händel grande solo per i suoi oratori – che spettano un più corretto approccio e una più meditata riflessione rispetto a questo capolavoro. Innanzitutto per Israel in Egypt si intendono oggi unanimemente le due parti Exodus e Moses’ song, private dell’anthem funebre come delle altre posteriori interpolazioni ed aggiunte. E tuttavia in questa veste l’oratorio non fu mai pensato dall’autore, che non avrebbe mai consentito che un suo lavoro si aprisse con un nudo recitativo (così infatti si apre l’Exodus); per ovviare a tale inconveniente si suole premettere all’Exodus una Sinfonia tratta da altri lavori.
Altro problema scottante è quello del ricorso a materiali preesistenti, anche di altri autori. Autoimprestiti sono quelli dalle fughe per clavicembalo, dal Dixit Dominus, dall’anthem The Lord my tight. Rispetto ai lavori di altri, Händel attinse in particolare ad Alessandro Stradella (la serenata “Qual prodigio”), Dionigi Erba (Magnificat), Francesco Antonio Urio (Te Deum), nonché J.K. Kerll e N.A. Strungk; così che su trentanove numeri della partitura, ben sedici devono qualcosa (e in qualche caso devono molto) a questi compositori. Una partitura come Israel in Egypt ha costituito, insomma, occasione di intimo diletto per i musicologi, impegnati ad identificare la provenienza di autoimprestiti e plagi, a ricostruire tassello per tassello il mosaico di citazioni che si intrecciano nella musica di Händel. Mosaico che, invece, interessa probabilmente assai poco il comune ascoltatore, il quale peraltro ha il diritto di stupirsi per la disinvoltura con cui il grande Händel impastava la farina del sacco altrui.
Per comprendere un simile comportamento occorre ricordare innanzitutto che l’unicità, l’irripetibilità dell’atto creativo è un concetto che appartiene all’estetica romantica – affermatosi attraverso l’ascesa economica del ceto borghese, il passaggio del compositore dallo stato di servo a quello di artista -, e attraverso questa è arrivato fino a noi; tuttavia tale concetto era del tutto ignoto ai contemporanei di Händel, che scrivevano non per la posterità ma per un consumo immediato che richiedeva serratissimi ritmi di produzione. Di qui il ricorso frequente all’autoimprestito, secondo una logica per la quale nulla che venisse creato e che fosse di buona qualità doveva andare “sprecato” in un’unica occasione. E tuttavia è innegabile che il plagio fosse avvertito come tale e fosse considerato riprovevole. A spiegazione della prassi si può osservare che essa era usuale, che vi fecero ricorso moltissimi grandi contemporanei (Vivaldi incluso). A giustificazione di Händel deve essere ricordata la teoria di Edward Dent secondo la quale con la paralisi del 1737, e lo stato di prostrazione che ne seguì, il compositore avesse subito una flessione, per quanto temporanea, nella vena inventiva. Comunque sia, senza voler arrivare alle esagerazioni giustificatorie del compositore William Boyce, secondo il quale Händel «prese pietre e le convertì in diamanti», occorre convenire con le parole di Winton Dean, che «La “questione morale” dei prestiti händeliani avrebbe una portata significativa qualora si dimostrasse che la reputazione di Händel dipende da quel ch’egli ha preso agli altri; il che, palesemente, non si dà».
In particolare in Israel in Egypt diversamente devono essere valutati i plagi relativi agli spunti tematici – che subiscono poi una rielaborazione globale da parte del compositore – dai plagi testuali, che appaiono limitati. E comunque plagi e autoimprestiti ci aiutano per altri versi a comprendere la portata dell’invenzione del compositore. Ad esempio, nel duetto fra i due bassi (n. 22) i ritornelli orchestrali sono tratti da Erba e la linea vocale da Urio, ma il risultato è un brano del tutto nuovo, dotato di una sua fisionomia e dell’impronta inconfondibile dell’autore. Come dire che i materiali preesistenti vengono poi manipolati in vista di un progetto globale; ed è appunto tale progetto che ancora oggi stupisce e desta ammirazione.
Di fatto, nel percorso incerto e ricco di contraddizioni che condusse Händel dall’opera italiana alla fondazione del genere nazionale dell’oratorio, Israel in Egypt appare un’opera isolata, senza confronti. In seguito l’autore volse le spalle al modello austero che questo oratorio rappresentava, privo di un preciso filo narrativo e dominato dalla massa corale. Anche laddove – come nel Messiah – non seguì una consequenziale azione drammatica, agita da precisi personaggi, Händel non limitò la partecipazione e l’impegno dei solisti di canto. Si è visto, a proposito del nostro oratorio, come la probabile genesi come anthem religioso piuttosto che come oratorio profano edificante abbia avuto una influenza determinante nel risultato definitivo. Eppure Israel in Egypt si distacca anche dagli altri anthem celebrativi di Händel, perché la materia viva dell’episodio biblico narrato – l’esodo degli ebrei dall’Egitto – si presta a soluzioni di grande evidenza drammatica; il compositore volge dunque forme e stilemi del genere sacro verso implicazioni in qualche modo profane.
Questo è vero soprattutto nella prima delle due parti, l’Exodus, che narra degli ebrei oppressi, delle piaghe d’Egitto, dell’attraversamento del mar Rosso. È dominata, questa prima parte, dall’elemento corale, che riguarda tredici dei sedici numeri (gli altri tre consistono in due recitativi del tenore-narratore e in un’aria del contralto). Un contralto solo introduce il primo coro (n. 2), un doppio coro in cui scrittura omofonica e fugata si alternano nella descrizione del lutto del popolo d’Israele e nella invocazione. Dopo un coro fugato (n. 4) l’aria del contralto (n. 5) inizia a narrare le piaghe d’Egitto: l’invasione delle rane (con il ritmo “saltellato” dei violini) e la pestilenza. Nel doppio coro n. 6 troviamo la contrapposizione fra i perentori accordi “He spake the word” (“Egli disse le parole”) e la rapidissima figurazione che evoca il volo degli insetti.
English Chamber Orchestra
Negli staccati del doppio coro n. 7 si può riconoscere la caduta della grandine (entrambe queste pagine derivano da Stradella). Brusca la contrapposizione con il n. 8, il coro suggestivo che, con trapassi armonici, ambienta la piaga delle tenebre; mentre gli incisivi accenti del coro fugato n. 9 si riferiscono allo sterminio dei primogeniti. Il coro n. 10 tratta in stilemi pastorali la lietezza del popolo d’Israele. IL n. 11 è ancora un fugato che si espande progressivamente. Segue, negli ultimi cinque numeri, l’attraversamento del mar Rosso. Il brevissimo n. 12 è il perentorio ordine per l’apertura delle acque; il n. 13, un brillantissimo doppio coro, vede l’attraversamento del mare da parte degli ebrei; il n. 14 è un coro omofonico, percorso da incisive terzine e animato dai timpani, che ambienta la chiusura delle acque sugli egiziani. Il n. 15 è una breve introduzione al coro finale (n. 16), commossa attestazione di fede.
In Moses’ song, invece, i cori rimangono sempre in assoluta preminenza (15 numeri su 23), ma, accanto ai due recitativi (nn. 36 e 38), trovano spazio tre duetti (nn. 19, 22, 32) e tre arie (nn. 28, 29, 34). Si tratta di un lungo canto di gioia, un inno alla divinità. Il n. 17 introduce grandiosamente una complessa doppia fuga (n. 18) con effetti antifonari e descrittivi. Segue un duetto fra i due soprani (n. 19), ripreso da Erba e dunque forzatamente in stile arcaico. Il n. 20 è ancora una introduzione per il n. 21, una austera fuga a quattro voci. Un altro duetto è il n. 22, per due bassi, tratto, come si è detto, da Erba e Urio. I numeri 23-27 costituiscono una successione di cinque cori, fra loro diversificati: il primo è una pagina con effetti pittorici (le onde e la caduta dei corpi nel
profondo); il n. 24 si basa su contrastanti effetti antifonali fra i due cori; il n. 25 introduce una maestosa fuga (n. 26); il n. 27 è nuovamente una pagina descrittiva (il “soffio” divino). Con i nn. 28 e 29 abbiamo due arie solistiche, per tenore e per soprano, che fanno ampie concessioni al virtuosismo degli interpreti. Il n. 30 introduce solennemente il seguente austero fugato in doppio coro. Le ultime pagine solistiche (il duetto contralto-tenore n. 32 e l’aria per contralto n. 34) incorniciano una pagina di somma efficacia, con il ritmo insistito degli archi che sostiene il timore dei popoli verso Dio e lascia spazio alla fine a suggestivi effetti figurativi. Con i cori gemelli nn. 35 e 37 (inframmezzati e seguiti da un recitativo), pagine brevi e perentorie, inizia l’ultima sezione dell’oratorio. Il coro finale (n. 39) viene aperto dall’invocazione del soprano solista, amplificata grandiosamente dai due cori; riprende poi il materiale del n. 18, chiudendo con logica circolare e stringente l’inno di gioia che attraversa il Moses’ song e l’intero oratorio.