Ludwig Van Beethoven

Sinfonia n. 9 “Corale”

La civiltà occidentale sarà sempre contrassegnata dalla sua capacità di liberarsi dai suoi errori di tirannia. Tale esecuzione di questa sinfonia è ciò che tutti i tiranni temono: gli artisti che celebrano la grandezza della libertà in un trionfo della dignità senza violenza, senza odio, con la promessa di libertà per tutto il mondo. Lenny durante l’ultimo anno della sua vita ha avuto una crescita esponenziale a livello di esecuzioni. Questo concerto è avvenuto in un momento storico molto importante, la caduta del Muro di Berlino. Bernstein inoltre ha modificato il testo di Schiller con parole inneggianti l’unione tra i popoli e il superamento di ogni forma di barriera tra le varie etnie. Beethoven e Schiller avrebbero potuto solo sognare una giornata di questo genere, che celebra quella libertà che non era dato loro vivere. Dvd imperdibile!

Sinfonia n. 9 in re minore, op. 125 “Corale”

«Abbracciatevi, siate avvinti, uniti». L’esortazione dei versi di Schiller, consacrati da Beethoven nel suo ultimo capolavoro sinfonico, rendono sempre attuale il valore – e il bisogno – di questi suoni: «diese Töne», la Nona Sinfonia.
Reca un messaggio quest’opera? Una cosa sembra comune a tutto quanto è stato scritto: attraverso i suoi quattro movimenti questa sinfonia è un grande percorso dal buio alla luce, il passaggio da uno stato di angoscia, frenesia affanno, attraverso la speranza, la dolcezza, fino ad arrivare alla gioia. Ma è ancora possibile considerarla ‘seriamente’? Ossia, contrariamente a ciò che riteneva Adorno, dopo Auschwitz e gli orrori del secolo scorso è ancora possibile un dialogo sincero con una musica che parla ancora il tono della humanitas? Oppure – considerando anche orrori ben più recenti – dobbiamo realisticamente lasciare la fratellanza universale celebrata nel Finale tra le grandi illusioni?
Emblema di ogni questione sulle possibilità espressive della musica, oltre che opera dal destino controverso, sospesa tra l’elevazione a mito della cultura europea e le pesanti critiche mosse alla costruzione del Finale, la Nona di Beethoven suscita sempre nel pubblico un’accoglienza rinnovata. In tale prospettiva, è davvero curiosa la dissonanza tra la grande devozione dei Millionen che da sempre affollano le sale da concerto quando la Nona è in programma, e una tradizione critica piuttosto consolidata che nell’ultimo movimento la vede come opera sgraziata: certamente di grande presa emotiva, ma debole dal punto di vista della perfezione formale rispetto ad altri capolavori del suo autore.
Dalle precedenti Settima e Ottava, entrambe del 1812, la Nona Sinfonia dista ben undici anni. Si tratta all’incirca dello stesso intervallo di tempo che Beethoven impiegò nel primo decennio del secolo per comporre tutte le altre sinfonie, emancipando tale genere musicale ricevuto dalle mani di Haydn e Mozart – musica di elevato intrattenimento – e portandolo già con l’Eroica alla concezione ottocentesca: ogni sinfonia deve essere ‘un mondo’, come sosteneva Mahler.
Il 1823 fu l’anno in cui si dedicò totalmente alla composizione della Nona mentre il decennio antecedente fu caratterizzato, in una prima fase, da una riduzione dell’ondata creativa: sono i cosiddetti ‘anni sterili’ i quali possono essere però visti come quel momento di necessaria sedimentazione dello ‘stile eroico’ da cui potranno emergere le ultime quattro sonate per pianoforte e le Variazioni Diabelli. Successivamente venne quel periodo di intenso lavoro che, basato su un rinnovato interesse per la vocalità antica – Palestrina anzitutto -, darà corpo in quattro anni alla Missa Solemnis.
Tutto ciò non fu senza influenze sui progetti di nuove sinfonie che rimanevano momentaneamente sospesi nell’animo del maestro. L’intenzione originaria era infatti di comporne due: una in re minore destinata alla Società Filarmonica di Londra e un’altra con cori in tedesco su testi religiosi e miti greci; solo nel 1822 i due progetti si fusero insieme in quello che diverrà la Nona Sinfonia le cui prime idee musicali sono abbozzate in vari quaderni di altri lavori dal 1815 al 1818. Va poi considerata la storia tutta particolare della Melodia della Gioia: già utilizzata, anche se in forma variata, nel lied Ungeliebten und Gegenliebe del 1794 e nella Fantasia corale op. 80 del 1808. Anche gli stessi versi di Schiller, amati da Beethoven fin dalla giovinezza, solo nel 1822 presero il sopravvento su altre ipotesi e si unirono alla melodia che arrivava da tempi remoti. Considerando tutti questi fattori si può ben dire che a differenza delle sinfonie precedenti, nate in maniera ‘scultorea’ sgrossando e chiarificando una – una sola – idea monolitica, la Nona è il risultato di una stratificazione geologica, è la sedimentazione di una vita.
Al termine della composizione Beethoven fu tentato di organizzare la prima esecuzione a Berlino. A ciò lo spingeva in parte anche il risentimento verso i viennesi in adorazione da qualche tempo dell’astro nascente di Rossini. Quando amici ed estimatori seppero di queste intenzioni fecero di tutto per convincerlo a non privare la loro città del privilegio di avere la prima esecuzione. Dopo alcune indecisioni Beethoven si arrese e la scelta cadde sul Teatro di Porta Carinzia a Vienna.
I preparativi furono estenuanti. L’orchestra era alle prese con una partitura intricata come non mai e con l’inserimento di nuovi elementi a rinforzare le file per l’occasione. Le parti vocali erano mostruosamente difficili, Beethoven venne supplicato di facilitare alcuni passaggi. A complicare il tutto c’era il pochissimo tempo a disposizione per le prove: neanche un mese. Nonostante tutto ciò, la sera del 7 maggio 1824 la Sinfonia fu accolta con enorme entusiasmo dal pubblico viennese. Vennero eseguiti anche l’Ouverture ‘La consacrazione della casa’ op. 124 e tre parti della Missa Solemnis. Il responsabile generale del teatro, Duport, ci teneva che Beethoven dirigesse personalmente l’esecuzione e questi accettò, anche se la sua sordità totale ormai da tempo non gli consentiva più di condurre un’orchestra come si deve. Fu così che Umlauf, l’anziano direttore, avvertì i musicisti di seguire solo i suoi gesti. Al termine Beethoven non si accorse dell’entusiasmo del teatro. Fu il contralto

Caroline Unger che prendendolo dolcemente per le spalle lo fece voltare per vedere il pubblico che lo acclamava sventolando un mare di fazzoletti bianchi.
La Nona Sinfonia è un’opera ‘ampia’, non tanto nella durata quanto nel suo espandersi in entrambi i mondi espressivi più caratteristici del suo autore. Come un grande viaggio di ritorno, essa ci riporta dalla sfera dell’ultimo Beethoven, cui il primo movimento tutto appartiene, al piglio eroico del Finale, anche se vi risuona un eroismo ben diverso da quello di vent’anni prima.
Nella sua ultima stagione creativa Beethoven approda a radicali mutamenti stilistici, ma quel che più conta è il cambiamento dell’idea di fondo che si avverte nelle sue opere. L’essenza del Beethoven ‘eroico’, quello che si è manifestato in modo lampante con la Terza Sinfonia e molte opere che sono seguite in quegli anni, è quella di una lotta: il famoso voler «afferrare il destino per la gola», che in molti lavori si concretizza nella tensione drammatico- dualistica della forma-sonata. La musica di quel periodo ha una ‘direzionalità’ certa, benché tormentata: muove spesso da un principio ostile verso un finale radioso conquistato con fatica. Nell’ultimo Beethoven si sente invece la posizione di un uomo che sa trarsi “in disparte” rispetto alla scena del mondo e approda a una visione più comprensiva. Non che vi siano eliminati i tormenti del vivere, ma il gesto deciso dell’uomo forte che si butta nella lotta, cede allo sguardo di un uomo – forse non meno forte – che sa cogliere questa nostra vita conscio delle sue ineliminabili contraddizioni.
A tale visione – superiore, se vogliamo – forse non si poteva approdare se non passando attraverso quegli anni di riflessione che vengono chiamati ‘sterili’. La Sonata Hammerklavier op. 106, nata a ridosso di quel periodo, è l’altra opera dall’arcata così ampia da lasciar risuonare attraverso i suoi quattro movimenti lo stesso tracciato che congiunge le due sfere espressive di Beethoven. Ma in quell’opera si partiva dal piglio eroico vittorioso del primo movimento per arrivare, passando attraverso l’arguzia fugace dello Scherzo e il grande abisso dell’Adagio, a quella regione magmatica pre-umana costituita dalla colossale tripla fuga finale, nella cui conflagrazione, come in quella della Grosse Fuge op. 133, pare dissolversi ogni umano sentire. A tale cosmo primordiale appartiene anche il primo movimento della Nona (significativo, forse, che i suoi abbozzi si trovino sullo stesso quaderno dei quelli dell’Hammerklavier). Toccherà dunque alla Sinfonia compiere il grande percorso a ritroso.
Il primo movimento (Allegro ma non troppo un poco maestoso) pare emergere dal nulla con quelle quinte vuote in cui echeggia l’indistinto delle origini. Siamo di fronte a una concezione spaziale fatta di molteplici piani sonori in cui nulla prevale davvero. La consueta tensione bitematica della forma-sonata è scomparsa a favore di relazioni più complesse (i gruppi tematici sono almeno tre). Lo sviluppo pur con la sua incandescenza non traghetta gli eventi a nuove aree emotive.
Il tutto viene a comporre una scena grandiosa di attonita contemplazione, dinamica e immutabile dal principio alla fine, nelle cui laceranti pieghe polifoniche e timbriche echeggia un cosmo imperscrutabile pur nella sua immanenza.
Il secondo movimento (Molto vivace), che condivide col primo la tonalità di re minore, non è affatto uno “scherzo” – se consentito il gioco di parole – ma un terreno di lotta drammatica. Già nei rintocchi iniziali di ottave si sente il piglio di una volontà attiva di fronte alla scena immane del movimento appena concluso. Il fugato frenetico e saltellante che segue non è un abbandono selvaggio, orgiastico, alle pulsioni più elementari. È innegabile che sprigioni grande energia ma non sfrenatamente incontrollata; si coglie invece uno sforzo accanito di volontà e razionalità come reazione al cosmo insondabile del movimento precedente. Tensione polifonica, rigidità ossessiva della figurazione ritmica e segni dinamici «f» (forte) disseminati a profusione in principio di battuta, sono forse l’espressione di tanto ossessivo accanimento.
L’oasi in re maggiore costituita dalla sezione centrale, in cui è prefigurata la Melodia della Gioia, non è che una quiete effimera destinata dapprima ad afflosciarsi su se stessa nell’unico ritardando di questo movimento affannato, e infine a rivelarsi per quello che è: un miraggio illusorio che svanisce in una battuta di silenzio.
La vera pace arriva con il terzo movimento (Adagio molto e cantabile). Due temi, entrambi di ampio respiro, vi si alternano. Il primo (Adagio) dal carattere celestiale ritorna ogni volta impreziosito da variazioni che ne ricamano la linea melodica, il secondo (Andante) dal tono più conviviale viene esposto la prima volta dagli archi mentre la seconda è affidato ai fiati. Dopo la severità dei primi due movimenti, il terzo è un paesaggio di sconfinata bellezza in cui la musica si espande quieta come una preghiera che risuona nel profondo dell’anima. Sentiamo il ‘risveglio’ di una voce interiore a lungo ignorata. «Com’om che torna a la perduta strada».

Leonard Bernstein

L’aura contemplativa di questo Adagio è illuminata sin dall’inizio da una luce via via più intensa che verso la fine del brano diventa fulgore abbagliante: gli squilli di tromba che si odono improvvisi e coinvolgono tutta l’orchestra – senza alcuna funzione di sveglia o minaccia – sono il vertice, inaspettato, di tanta introspezione. Di tali squilli forse si avverte un sotterraneo presagio nel passaggio che dalla seconda esposizione dell’Andante conduce alla seconda variazione dell’Adagio: nel pizzicato degli archi sotto l’umbratile dialogo dei legni. Dopo quest’attimo di fulgore tutto torna come prima e, sempre dolcemente, il terzo movimento si avvia alla conclusione.
L’Adagio non era un sonno beato ma un risveglio spirituale, dunque nel Finale non abbiamo un ritorno ‘alla vita’ ma, semplicemente, alla ‘ruvida quotidianità’ del vivere: ben presente in quell’attacco brutale dei fiati a cui violoncelli e contrabbassi si oppongono con un vigoroso recitativo strumentale. L’ultimo movimento non reca tracce di vita vissuta ma fremiti di vita vivente che, prima di riprendere, si volge indietro a contemplare un ‘cammino’: sono le reminiscenze dei movimenti precedenti che vengono richiamate alla scena, non per venir necessariamente ricusate ma più per farne viva memoria. Sarebbe bene non tener conto di quelle sei piccole frasi che Beethoven appuntò nei suoi abbozzi riferendole ai vari interventi del recitativo strumentale le quali inducono a sentire un tono di rifiuto indistintamente in tutti questi interventi degli archi gravi. Il credito assoluto dato a tali appunti – non presenti in partitura – ha molto compromesso un ascolto ‘pulito’, semplicemente musicale, del prologo-pantomima.
Terminato quest’ampio preambolo ecco la Melodia della Gioia ascendere, semplicissima, dalle profondità degli archi e contagiare via via tutta l’orchestra. Canto senza parole, la ‘Gioia’, prima ancora di rivestirsi delle belle parole di Schiller, è qualcosa che nasce nel cuore. La ‘fanfara del terrore’ (come Wagner ha ben indicato l’attacco del Finale) riesplode ancora in questo tripudio orchestrale. Questa volta è una voce vera, di baritono, che si leva «Amici non questi suoni! Ma altri intoniamone, più piacevoli e gioiosi». La massa corale si unisce alla Gioia sempre preceduta dal singolo o dai solisti, quasi a significare la radice anzitutto individuale di tale sentimento. Torna la voce del Beethoven eroico, ma con spirito mutato; «angenehm» (gradevole) scrive sopra la parte del baritono dove attacca la Melodia della gioia. Non è più lo scultore protervo che nel Finale della Quinta cassava il destino con otto colpi di martello in do maggiore, ma un uomo conviviale, amabile.
I modi poco raffinati e a tratti esibiti di questo Finale restituiscono nel modo migliore il trambusto della vita con la sua frammentarietà e incoerenza, ora però fecondate da una Gioia che come un sottile filo rosso, pur non togliendo la fatica del vivere, tiene insieme tutta questa dispersione. Altro che ‘bel canto’! Nella Freudenmelodie e nelle sue variazioni si deve avvertire fatica: la ‘fatica della gioia’.
A un certo punto le variazioni si arrestano a favore di un nuovo momento di intenso raccoglimento (Andante Maestoso – Adagio ma non troppo ma divoto). Qui i versi di Schiller esortano gli uomini all’unità «Seid umschlungen», all’abbraccio fraterno sotto la volta stellata sopra la quale deve certamente abitare un caro Padre, e Beethoven riprende armonie arcaiche con una declamazione ispirata ad antichi inni liturgici. Quando insieme al fremito delicato dell’orchestra il coro intona per l’ultima volta sottovoce «Über Sternen muß er wohnen» (sopra le stelle deve abitare), sembra davvero scintillare il cielo stellato. Come disse Walter Riezler, in questo passaggio «risuona l’infinito».
Poi la “volta stellata” scompare e una possente doppia fuga, che riconquista la tonalità di re maggiore fondendo insieme la vitalità della Freudenmelodie e l’anelito trascendente dell’arcaica melodia di «Seid umschlungen!», si impone come viatico definitivo: la Gioia, appunto quale è nella sua essenza: «Schöner Götterfunken» (bella scintilla divina); davvero divina ma ‘scintilla’, non pienezza di luce. Ed è solo con la debole forza di questa scintilla che è possibile abitare il mondo e attraversare la vita.
Verso la conclusione solisti e coro si alternano più volte in rapida successione: momenti di esultanza, concitati, sognanti, carezzevoli, frenetici, solenni. Beethoven termina quella che rimarrà la sua ultima sinfonia in maniera davvero scomposta. Ma la gioiosa scompostezza di questa stretta finale è come un’ulteriore parola di incoraggiamento per la nostra vita: anche nella dispersione della quotidianità – con tutto ciò che non torna – ad affrontarla con forza, con gioia.
Pur essendo germogliata dal duro terreno della sua epoca e dalla vita dissestata del suo autore la Nona Sinfonia ha levato i suoi rami ad altezze insperate. Non è però, quella a cui perviene, l’altezza di una sintesi operata nell’ideale monolitico della Quinta, bensì quell’altezza da cui contemplare retrospettivamente l’itinerario umano compiuto, con un occhio desideroso di rintracciarvi una logica, una propria ‘unità’, pur nelle evidenti fratture. È forse un grande bisogno di ‘unità interiore’, nella dispersione della vita, ciò che rende sempre desiderata e amata quest’opera di Beethoven anche al secolo attuale. Benché in opere successive, quali ad esempio le sinfonie di Mahler, riecheggi maggiormente la frammentarietà del mondo moderno – globale ma non davvero ‘unito’ – queste ultime vengono forse ascoltate con un affetto fraterno: con la solidarietà che si può sentire con una musica la quale si trova nelle ‘stesse condizioni’ di coloro che oggi la ascoltano. L’affetto che invece la Nona di Beethoven riceve, oggi più che al tempo della sua creazione, è di tipo filiale. È un’insaziabile fame di ‘unità spirituale’ quella che ci porta a questa musica alla quale chiediamo quasi un’adozione perché ci ri-generi. In tale prospettiva se il tempo di Mahler è ormai venuto, possiamo constatare dalle attese dell’animo che quello della Nona di Beethoven non è mai terminato.
Ad essa spontaneamente ci rivolgiamo, come singoli e come collettività, nei momenti nodali della vita e della storia; quando vogliamo fermarci a contemplare il nostro passato non in chiave nostalgica ma in maniera feconda per l’avvenire: all’inizio di un nuovo anno, di una nuova stagione della vita, al cadere di muri di separazione. Quando vogliamo ripartire, come scrisse Beethoven nella Canzona di ringraziamento del Quartetto op.132 là dove essa modula – guarda caso – a re maggiore: «Neue Kraft fühlend», sentendo nuova forza.
Una visione del Finale come ‘traguardo’, meta beata, paradiso, fratellanza raggiunta – che venne supportata anche da Wagner – è ciò che non permette di cogliere la ‘vera’ perfezione formale di questa parte della Sinfonia. Se il Finale davvero alludesse a tutto questo, allora le critiche sarebbero fondate: come ‘paradiso’ suona un po’ sgangherato. Ma non lo è. Non sono masse di beati, di pacificati, quelle che intonano le variazioni corali, non è la voce di un’umanità migliorata ma quella di un’umanità che ‘si vorrebbe’ migliore, e che per tale anelito ha intravisto una strada – la Gioia – ritrovata nell’ascolto di una voce interiore a cui rimanere fedeli. Quelle imperfezioni che sono state spesso imputate al Finale (trattamento sgraziato della vocalità, accozzaglia di stili eterogenei, polittico sonoro di momenti slegati tra loro) assolvono invece nel modo più degno – «si che dal fatto il dir non sia diverso» – a veicolare l’essenza di questi suoni: non una gioia raggiunta al di sopra delle miserie terrene ma ‘dentro’ tali miserie.
Scarsa coesione? Accozzaglia di stili? È la varietà della vita! Adesso però tale dispersione è tenuta insieme dalla Freudenmelodie la quale, come scrisse giustamente Wagner: «diventa il Cantus firmus, il corale della nuova comunità».
Nel suo saggio su Beethoven Walter Riezler scriveva «nonostante tutta l’opposizione che essa [la Nona] incontrò all’inizio e che ancor oggi trova qua e là, questa sua efficacia è così possente e, soprattutto, così duratura, che può provenire solo da un’opera che deve la sua esistenza non a un capriccio umano, ma ad una qualche misteriosa legittimità».
Effettivamente questa sinfonia ha resistito a molti tentativi di svalutazione; ed ha resistito – bisogna ricordarlo – al suo stesso autore che meditò per qualche tempo di sostituirne il finale con un altro puramente strumentale. Uno sguardo diffidente nei confronti del Finale lo troviamo anche in un recente lavoro di Maynard Solomon che, pur senza scomodare il ‘paradiso’, vede l’abbraccio universale che vi è vagheggiato come una «unione all’ingrosso», una «spinta pericolosamente regressiva» in cui si vanifica quello che sarebbe il traguardo di una buona evoluzione: il sorgere di un individuo relativamente autonomo.
Sarebbe un discorso troppo ampio da affrontare ma, rimanendo a Beethoven, possiamo osservare che la sua evoluzione non si fermò all’affermazione della propria forte individualità: a quella vittoria schiacciante e orgogliosa che echeggiava nel finale della Quinta Sinfonia e in molti altri finali sinfonici o cameristici di quel periodo. La sua evoluzione – vera evoluzione – lo portò ad un allargamento delle proprie vedute il quale si riflesse nella sua opera in due modi differenti. Cessarono i finali eroici e vennero finali che conducono a lontananze inimmaginabili: le variazioni verso regioni sublimi che concludono le sonate opus 109 e 111, gli strappi brutali che turbano l’Agnus Dei della Missa, la tripla fuga abissale e visionaria dell’Hammerklavier e quella, non da meno, che è la Grande Fuga, in origine finale dell’opus 130.
A fianco a questi finali ne scaturirono altri dal timbro più amabile, radicati nelle gioie semplici della vita quotidiana. Anche questi sono ‘il vero Beethoven’: la tenerezza domestica del secondo e ultimo movimento della Sonata per piano op. 90, il piglio spiritoso e bonario del Rondò conclusivo della Sonata per piano e violino op. 96 e quello collocato a nuovo finale del Quartetto opus 130. E infine quel finale-corale della sua ultima sinfonia: quel tema così semplice, quell’invito all’abbraccio e all’unione delle moltitudini, quell’accostamento spudorato di stili musicali così eterogenei… Musica indegna di un grande maestro! Come ha potuto ‘buttarsi via’ in questo modo?
Beethoven nel finale della Nona Sinfonia ha in buona parte ‘dimenticato se stesso’. È molto curioso il fatto che il suo brano musicale più popolare sia quello in cui viene meno uno dei tratti più peculiari della sua musica: la profonda coesione organica dell’insieme. La capacità di Beethoven di fondere nella perfezione della forma le strutture musicali e la ricchezza del suo mondo interiore, nel Finale della Nona non arriva a quella parola lapidaria, univoca, quali possono essere considerati i movimenti finali di tutta la sua produzione sinfonica precedente. Perché questo passo indietro? All’epoca della composizione della Nona capolavori come le ultime sonate per piano e le Variazioni Diabelli erano già ‘porte spalancate’ sugli ultimi quartetti.
È possibile che Beethoven abbia avvertito, anche inconsciamente, che per far risuonare nella sua musica un «bacio» che andasse veramente al «mondo intero», avrebbe dovuto parlare un linguaggio più popolare: un linguaggio in cui le sue personali conquiste sul piano espressivo venissero accantonate.

Ludwig van Beethoven

La Gioia di Beethoven-Schiller non doveva essere per una minoranza musicalmente evoluta ma per tutti, e a tale scopo il linguaggio dell’ultimo movimento si è spogliato di quelle pietre preziose conquistate dal suo autore negli anni immediatamente precedenti e si è anche rivestito – va riconosciuto – di una buona dose di istrionismo. Ma non è ‘involuzione’ questa scelta espressiva, consapevole o inconscia che sia stata. Questa mossa sembra invece
nello spirito di un ‘passo indietro’ rispetto alle proprie potenzialità, per quanto evolute. Forse l’individuo evoluto è quello che di fronte ai suoi simili sa mettere ‘tra parentesi’ la propria prepotente individualità, la propria spinta all’autonomia, per parlare un linguaggio costruttivo, che forse all’apparenza “vola un po’ basso”, ma sappia di maggior apertura.
Dunque accanto alle visioni mirabili, talvolta enigmatiche, degli ultimi quartetti, può tranquillamente vivere la semplicità popolare del Finale della Nona, senza che tale ‘passo indietro’ sul piano delle scelte espressive faccia pensare a una regressione. Esso è invece un adeguamento – proprio a livello formale – allo spirito più autentico della Gioia.
Viene alla mente il monito evangelico «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà». Beethoven nel Finale della sua ultima sinfonia ha saputo «raggiungere i cuori» con un linguaggio che anche i più piccoli potessero ascoltare.