Janacek Leos

Sinfonietta – Messa Glacolitica

“The Glagolitic Mass” è una composizione molto diversa dalle altre Messe convenzionali di Bach, Mozart, Beethoven, Bruckner e cosi via. Una volta che ci si abitua al linguaggio duro di Janacek, e al sapore scontroso slavo diventa più semplice ascoltare questa musica. L’interpretazione di Simon Rattle tende al liricismo. Di questo spartito mi hanno colpito il penultimo e ultimo movimento. Il primo per il suono vivace e profondo dell’organo, il secondo per il finale in cui il tutti all’unisono competano gloriosamente questa Messa.
Compreso in questo CD vi è una buona interpretazione della famosa Sinfonietta dove la sezione fiati e legni si intrecciano formando un mosaico di note veramente bello. Ottime le due orchestre. Audio perfetto. Una registrazione che merita di essere annoverata tra le grandi incisioni del secolo scorso. Registrazioni eseguite dal 1982 al 1988 e rimasterizzazione effettuata nel 1999.

Sinfonietta, VI/18

La Sinfonietta di Leós Janàček non mostra i segni inconfondibili della forma concertante. Non almeno in modo immediato, diretto, persuasivo. Ed è per questo motivo che all’opera sinfonica (relativamente) più popolare di Janàček, nata nel 1926 per ragioni assolutamente esteriori ed occasionali, tocca un angelo custode “d’ufficio”, nominato sul campo per l’imprevista mancanza dell’angelo titolare. Se però il giovane bruno e non musicante che appare tra il suonatore di liuto e il suonatore di violino fosse davvero, come sostengono alcuni studiosi, l’autoritratto di Caravaggio “visto allo specchio”, allora a Janàček non toccherebbe un angelo custode supplente, ma addirittura l’Angelo (o il Demonio) in persona. Ambiguità che non sarebbe certo dispiaciuta (basta pensare a Kat’a Kabanova o alla Emilia dell’Affare Makropoulos) al “vecchio” Janàček.
La Sinfonietta, in effetti, almeno dal punto di vista dell’anagrafe, è un’opera matura che il compositore ceco, settantaduenne, scrive per assecondare la richiesta del Festival Musicale dell’Organizzazione Ginnastica “Sokol” di Brno, ma che poi viene dedicata all’Esercito Nazionale Ceco. In realtà dietro l’impalcatura esteriore ed occasionale della Sinfonietta si nasconde un preciso disegno di carattere “politico”. Nella memoria del compositore è ancora scritta a caratteri cubitali, nel ’26, la data del 28 ottobre 1918, il giorno in cui, grazie alla sconfitta della monarchia, viene realizzato un sogno vecchio di tre secoli: la nascita dello Stato nazionale ceco. Janàček, nazionalista acceso e fervente, coglie allora l’occasione del festival di Brno per compiere una passeggiata musicale nei luoghi della città liberata e per disegnarne una nuova mappa sonora. E difatti ogni movimento reca la precisa indicazione topografica di un luogo vero, autentico, della città.
È proprio questa forte, energica motivazione etica e politica al tempo stesso ad aver cancellato probabilmente dalla Sinfonietta ogni traccia di stanchezza senile: delle settantadue primavere messe in fila, insieme alle altre stagioni, dal vecchio Leós non esiste, in questa partitura, la minima traccia. Anzi la scrittura orchestrale corre via con un passo talmente spedito, ottimistico ed energico da far sospettare il desiderio di Janácek di trovarsi ancora sulle barricate per combattere l’odiata, regressiva, repressiva monarchia ceca. Un impegno così vivo e palpitante che ha impedito all’autore di Jenufa qualsiasi compiaciuto e nostalgico “esercizio di memoria”: non c’è infatti alcuna traccia, nell’opera, di prestiti, autoimprestiti, citazioni, calchi, rifacimenti o contrafacta: dal suo sacco generoso il musicista ceco tira fuori solo farina nuova e rigorosamente declinata al tempo presente. E si ha quasi l’impressione che questi venticinque minuti di musica, nonostante le suddivisioni interne, pretendano in realtà di scorrere senza alcuna soluzione di continuità, governati soltanto da uno spirito sotterraneamente concertante che entra in ogni piega della scrittura.
Gli episodi-chiave dell’opera sono infatti costruiti con grande lucidità architettonica sul principio del contrasto: di uno strumento solista con il tutti dell’orchestra, di una famiglia orchestrale con un’altra, di un concertino con un ripieno. Nel primo movimento, ad esempio, intitolato Fanfara, il gioco concertante è condotto da un gruppo di tredici ottoni che espongono a più riprese una sorta di tema ciclico dalle sonorità squillanti e militaresche. Ma anche il secondo movimento (Il castello) è costruito secondo una precisa logica “oppositiva”: tra l’ostinato iniziale del clarinetto e la melodia popolaresca dell’oboe, nelle prime misure, ma anche, poco dopo, nel crescendo che conduce alla riapparizione del tema militaresco di apertura, tra le sonorità contrapposte di oboi, corni, archi acuti e archi gravi. Ma il contrasto più spiccatamente “teatrale” avviene nel cuore della Sinfonietta, il movimento centrale intitolato Il Monastero della regina: all’aura lirica e ostentatamente rêveuse disegnata nella prima parte dagli archi con sordina, dal corno inglese e dall’oboe si oppone in modo sfacciato e stridente il suono “barbaro” e selvaggio degli ottoni, del flauto e dell’ottavino spinti fino ai limiti estremi del registro acuto e “obbligati” a violentissimi glissando. Dopo l’innocente Scherzo monotematico del quarto movimento (La strada), lo spirito del Concerto torna a materializzarsi nel movimento conclusivo (Il Municipio), anche se nella forma, che del resto unisce Vivaldi a Béla Bartók, del “Concerto orchestrale”: di volta in volta sono i flauti, gli archi, i legni, i clarinetti, a guidare il gioco concertante, fino al nuovo ingresso, perfettamente circolare, delle fanfare iniziali, che siglano con uno scoppio di ottimismo militaresco l’inno che Janàček ha dedicato alla “libera città di Brno”.

Glagolská mše (Messa glagolitica), III/9

Forse il primo, comunque fra i primissimi in Italia, già negli anni Trenta Fedele d’Amico diede l’allarme a proposito di Janàček: «Attenzione, siamo in presenza di un grande, una specie di Musorgskij moravo, con in più le esperienze musicali recenti, da Strauss all’espressionismo, fino ai confini della crisi tonale». E, di rincalzo, Gianandrea Gavazzeni, in uno scritto del 1935, ripubblicato in Musicisti d’Europa (1954), annotava, tra l’altro: «Tra i moderni, Janàček è nel folto gruppo dei protagonisti. Senza istituire raffronto o graduazione di valori egli è in quel mondo, in quel quadro di vita musicale che va da Ravel a Stravinsky, da Falla a Szymanowski. Anche gli altri nomi di certa musica europea contemporanea, venuti dopo di lui, non gli sono lontani, quanto a immediatezza di attività e di ruoli: siano essi Honegger o Bartók. Eppure nonostante negli ambienti artistici gli venga riconosciuta importanza, Janàček,

la sua musica, le sue creature drammatiche, stanno un poco al di fuori dalle strade maestre, da quadrivi ove fermenta la vita musicale d’oggi». Ed ancora nel 1957, Massimo Mila principiava la recensione della première d’un’opera di questo compositore al Maggio Musicale Fiorentino con le seguenti parole: «Se Janàček fosse stato francese, oggi sarebbe importante e famoso quanto Ravel».
Ancor prima di individuare la peculiare cifra stilistica della produzione di Janàček, e della Messa glagolitica in particolare, va precisato che l’originalità di questo musicista è da cogliersi già nel dato biografico. Per gran parte della sua esistenza (1854-1928) Janàček fu un maestro della provincia morava votato all’insegnamento della disciplina musicale, che nel tempo libero s’applicava allo studio del folclore, specialmente del linguaggio e del canto popolare negli andamenti ritmici e melodici, e saltuariamente alla composizione. Soltanto a cinquantanni, nel 1904, dopo dieci anni di lavoro alla stesura dell’opera La sua figliastra (nota in Occidente come Jenufa), il compositore sembrò poter uscire dall’anonimato, ma il tanto atteso allestimento a Praga, dopo le rappresentazioni a Brno, dovette attendere il 1916. Al successo praghese fu presente Max Brod che di li a poco avrebbe scritto la prima biografia di Janàček e contribuito in prima fila all’affermazione internazionale del compositore moravo, traducendo Jenufa in tedesco. Saranno la pubblicazione di questo spartito per i caratteri della Universal nel 1917, la première di Jenufa alla Hofoper di Vienna nel febbraio 1918, protagonista il soprano Maria Jeritza, e, soprattutto, la liberazione della terra patria dal giogo asburgico con la sconfìtta degli imperi centrali, a segnare il punto di svolta dell’esistenza, non meno che dell’operosità creativa di Janàček.
Alla base dell’inconfondibile personalità di questo musicista vi furono i lunghi studi sulla curvatura melodica del canto e del linguaggio parlato, «l’elaborazione di un sistema armonico eterodosso rispetto alla sintassi tonale, l’adesione alle correnti democratiche della cultura e della politica boeme, il crescente distacco delle posizioni del nazionalismo romantico o tardoromantico di Smetana e Dvoràk» (Pestalozza). Al fondo della sua produzione, «c’è innanzi tutto un temperamento morale: Janàček era uomo profondamente religioso, ma non in senso mistico; il sentimento religioso era per lui essenzialmente il fondamento morale di una fermissima adesione al mondo di quaggiù» (d’Amico). Al punto che tutta la sua musica, «dietro una parvenza di romanticismo modernamente aggiornato, svela i peli arruffati e il prognatismo selvaggio della musica primitiva, il volto spaventoso del subconscio musicale. Ascoltare il canto di Janàček rappresenta la trasposizione in musica dell’angoscia in cui cade K. nel Castello di Kafka quando si accorge della mano palmata di una graziosa ragazza. Anche in Janàček l’efficacia espressiva della commistione nasce dall’innesto di un particolare atavistico, la melodia parlata, su un tessuto attraente. Si stratificano in lui la tradizione e l’innovazione: esse interagiscono nella sua opera in modo sottile e spesso sconcertante, simili a un linguaggio che si critica dall’interno con i suoi stessi presupposti iniziali. Un linguaggio che assomiglia a un tronco invecchiato che rifiorisce di quegli stessi germogli che ne rappresentano l’immagine originaria» (Pulcini).
Decisiva a definire il retaggio artistico di Janàček fu però la produzione dell’ultimo decennio, in cui videro la luce, prima della Messa glagolitica (1926- 27), tre opere – Kat’a Kabanova (1919-21), Le avventure della volpe astuta (1921-23), L’affare Makropoulos (1923-25) – assieme alla Sinfonietta (1926) e a vari lavori da camera; e che, dopo la Messa glagolitica, venne completata dall’ultima opera Da una casa di morti (1928) e dal Secondo Quartetto per archi (1928).
Il primo germoglio di quella che diverrà la Messa glagolitica vide la luce parecchi anni addietro all’effettiva stesura di questa partitura ed è da identificarsi nell’abbozzo, vergato nel 1907-08 di una Messa latina in mi bemolle per coro misto e organo, che l’autore propose all’attenzione dei suoi discepoli alla Scuola organistica di Brno nella primavera del 1908 e che comprendeva soltanto un Kyrie, un Agnus Dei e parte d’un Credo. Quel frammento venne però accantonato, per riaffiorare nel 1926 al momento della prima stesura della Messa glagolitica. Agli allievi, Janàček raccomandò, in quella lontana circostanza: «Scrivere in latino ma pensare in lingua ceca». Di tale presupposto se ne rammentò, ancor prima del compositore, un suo studente che abbracciò poi la professione religiosa, padre Josef Martinek, il quale riferì d’aver appreso dallo stesso Janàček che nell’estate 1921 già stava adoprandosi per acquisire il testo della messa in “glagolitico” durante l’incontro con l’arcivescovo Leopold Precan a Hukvaldy. Sarebbero però trascorsi cinque anni, durante i quali furono portati a termine Le avventure della volpe astuta, L’affare Makropoulos, ma anche due lavori da camera come Gioventù (1924) e il Concertino (1925), per non parlare della Sinfonietta, ultimata il 15 maggio 1926, prima che Janàček decidesse di dedicarsi seriamente a scrivere la Messa glagolitica, traendo da un cassetto il testo fornitogli dal Martinek.
Qual è l’autentico significato del termine “glagolitico”? Janàček aveva avuto un ricordo lontano nel proprio passato, allorché, ancora studente a Brno, nel 1869 aveva assistito alle celebrazioni del millenario della morte di Cirillo, uno dei due santi assieme a Metodio che avevano evangelizzato la Moravia. Da quel proposito sarebbe disceso, al momento di comporre una Messa, l’intento di definirla secondo una precipua prospettiva, quella dell’impiego della versione in un’antica lingua slava di parti della Bibbia e dei Vangeli, adottando la scrittura “glagolitica”: una scrittura, derivata probabilmente dalla grafia greca del settimo e dell’ottavo secolo o da un alfabeto ancor precedente paleoslavo, il cui nome si lega alla parola “glagola” che è la traduzione del “dicit” latino. In certe contrade della Croazia, come è confermato da tracce tuttora esistenti sul litorale adriatico, v’è in proposito una tradizione che la Chiesa non ritenne scismatica, a differenza di quella cirillica, che trovò diffusione nei paesi slavi, traducendosi poi in scrittura.
Mentre iniziava la composizione di questa Messa, Janàček ebbe a dichiarare: «Mostrerò alla gente come bisogna parlare al Signore Iddio!». L’allusione è esplicita: etimologicamente, alfabeto “glagolitico” significa alfabeto “del Verbo”, dal momento che nel testo del Veruju, cioè del “Credo”, si ascoltano le seguenti parole: «I ze glagolal jest Proroky» («e che si è espresso tramite i profeti»). Una messa religiosa? Nient’affatto. Perché Janàček si premurò di render esplicita questa precisazione: «Ho voluto ritrarre la fiducia nella saldezza della nazione su una base non religiosa ma morale, che chiama Dio come testimone». Non va dimenticata, in proposito, la data d’origine di quest’opera, il 1926 in previsione delle celebrazioni, nel 1928, del decennale della costituzione della Repubblica Cecoslovacca. Ha ricordato, a questo riguardo, il Pulcini che, quando un critico di Brno, recensendo la Messa glagolitica, definì l’autore «un vegliardo uomo di fede», Janàček gli rispose inviando una cartolina illustrata che raffigurava un leone infuriato, con le parole: «né vegliardo, né credente!».
La composizione vera e propria della Messa glagolitica si realizzò in un arco di tempo brevissimo: dopo alcuni abbozzi, a fine luglio del 1926 il musicista si recò alla stazione termale di Luhacovice, ove abitualmente trascorreva le vacanze, e tra il 2 e il 17 agosto vergò una prima stesura dell’intero lavoro recuperando la musica delle sezioni staccate scritte nel 1907/08 e articolando l’opera in sette sezioni con il seguente ordine: Uvod (Introduzione), Gospodi (Kyrie), Slava (Gloria), Intrada, Vèruju (Credo), Svet (Sanctus), Agnece (Agnus). Tornato a Brno, Janàček iniziò la revisione della partitura, che intitolò Misa slavnija (Missa solemnis), preoccupandosi di uniformarne il testo a quello tratto dalla traslitterazione d’un antico messale, rinvenuto a Kromériz, dal paleoslavo in latino. Modificò la successione degli episodi, trasferendo l’Intrada alla conclusione dell’opera: al termine della revisione, il titolo definitivo diventò M’sa glagolskaja (Missa solemnis): era il 15 ottobre. Una decina di giorni dopo, l’autore vi aggiunse il Varhany solo, cioè l’episodio affidato all’organo solo, ultimando questa sezione all’inizio di dicembre. Poi l’attenzione di Janàček si rivolse all’avvio della composizione dell’opera Da una casa di morti, e della Messa glagolitica, non si sentì più parlare, nell’Epistolario o nei taccuini del musicista, sino alla primavera successiva, allorché fu annunciata, per l’inverno 1927, la prima esecuzione assoluta, che ebbe luogo il 5 dicembre 1927 nella sala da concerto del Sokol Stadium di Brno, con la direzione di Jaroslav Kvapil: assieme al Coro e all’Orchestra del Teatro di Brno, i solisti di canto furono Alexandra Cvanovà (soprano), Marie Hlouskovà (contralto), Stanislav Tauber (tenore) e Ladislav Némecek (baritono), con Bohumil Holub all’organo. La première al di fuori della Cecoslovacchia si svolse il 28 febbraio 1929 a Berlino, sul podio Alexander von Zemlinsky. La prima esecuzione in Italia alla Sagra Musicale Umbra (Chiesa di San Pietro a Perugia) nel 1951 sotto la direzione di Fritz Stiedry; l’approdo a Santa Cecilia, novità per l’istituzione, il 16 aprile 1967, sul podio Lovro von Matacic.
Ad illustrazione dei significati, più o meno simbolici o allusivi, della Messa glagolitica vi sono due espliciti scritti di Janàček, il primo pubblicato il 27 novembre 1927 sul “Lidové noviny”, l’altro contenuto in una lettera inviata due giorni prima a Kamila Stòsslova, una giovane signora di Pisele di cui il musicista da alcuni anni si era invaghito ed alla quale avrebbe indirizzato, nell’estrema stagione dell’esistenza, oltre 700 missive.
Nell’articolo sul giornale Janàček scrisse, tra l’altro: «Perché questa musica? A Luhacovice piove a dirotto. Dalla finestra si guarda un tetro monte. Le nuvole si ammassano, la tempesta le lacera e le spazza via. Il crepuscolo diveniva sempre più denso. Già calava la notte scura, tagliata dai lampi. Accendo la lampadina tremolante appesa al soffitto. E abbozzo nient’altro che il motivo sommesso delle parole disperate: Gospodi Pomiluj (Kyrie eleison). Nient’altro che il richiamo gioioso: Slava, slava (Gloria). Nient’altro che logorante dolore nelle parole: Raspet ze zany, mucen i pògreben byst (Per noi crocifisso, martirizzato e sepolto). Nient’altro che rigore della fede e del giuramento nel motivo: Véruju (Credo). E la fine di tutti gli entusiasmi e i moti dell’animo nei motivi: Amen, amen! Esaltazione della santità in Svet, svet, (Sanctus), Blagoslovl’en (Benedictus), Agnece Bozij (Agnus Dei). Senza la tetraggine delle celle ecclesiastico-medievali nei temi, senza l’eco di imitazioni, senza risonanti reticolati di fughe bachiane, senza il pathos di Beethoven, senza il trastullarsi di Haydn […] Oggi, cara luna, sembri, nell’alto dei cieli, come su fogli pieni di note, domani s’insinuerà il sole curioso. […] E sempre soffiavano le foreste umide di Luhacovice, come incenso. Fra lontananze nebbiose sorse la mia chiesa, gigantesca come catena montuosa e volta del cielo: al servizio hanno provveduto le campane dei pastori. Ascolto un alto prelato nel tenore solista, un angelo-fanciulla nel soprano, il nostro popolo nel coro. Candele – alberi slanciati nel bosco, accesi dalle stelle. E durante la cerimonia, da qualche parte mi appare la visione principesca di San Venceslao. E percepisco la lingua degli apostoli della fede Cirillo e Metodio».

Leoš Janáček

L’aspetto panteistico della spiritualità dell’autore viene evidenziato da queste parole all’amata Ramila: «In quest’opera mi sforzo di raffigurare la leggenda secondo cui, durante la crocifissione di Cristo, il cielo si aperse. Allora io faccio tuoni e fulmini […]. Oggi ho scritto alcune righe su come io immagino la mia chiesa. L’ho posta a Luhacovice […]. Dove altro potrebbe essere se non là ove
eravamo tanto felici! Questa chiesa è alta, si protende verso il cielo. Vi bruciano candele, alti abeti che in cima hanno stelline lucenti. E in chiesa vi sono campanelli di un gregge di pecore […]. Allodole, tordi, anatre, oche fate musica […]. Fine del sogno: tu dormi ed io di te deliro».
All’ascolto della musica di quest’opera si coglie lo stile dell’estrema creatività di Janàček: ritmica non molto ricca e varia, strumentazione per sezioni (archi, legni, ottoni), invenzione tematica a cellule melodiche brevi desunte dalla lingua parlata, un’articolazione che ricusa gli sviluppi formali ma elabora la ripetizione sempre leggermente variata delle medesime cellule musicali, tendenza al monotematismo, con l’intera visione d’insieme dei frammenti ripetuti che fa pensare a un mosaico bizantino. Nella scrittura orchestrale, come accadrà in Da una casa di morti, sono preferite le sonorità acute e basse, a scapito delle sonorità nel registro centrale, quasi a non voler interferire nelle linee vocali che non sono quasi mai raddoppiate: il canto appare, di conseguenza, incorniciato, in alto e in basso, dalla strumentazione che non lo sovrappone. Nell’orchestrazione assume una spiccata evidenza il contrasto tra l’asciutta trasparenza e la tesa massa sonora, che in alcuni momenti assume il carattere d’una tagliente violenza: «la scultorea essenzialità delle linee fa pensare a profondi “intagli” nel vuoto o alla “costruttività del colore” nei pittori fauve, e al loro disinteresse per il chiaroscuro» (Pulcini).
Se il contrappunto risulta ridotto al minimo, con l’eccezione dell’episodio per organo solo, ove i canoni, nell’inseguirsi rapidissimi, sembrano impazziti, tutta la dimensione vocale della Messa glagolitica si caratterizza per la propensione all’eccesso, il registro acuto fino allo spasimo, nelle invocazioni o negli effetti parlati, i fuggevoli accenti di devozione. Non meno incisiva, nella sua determinazione, la scansione ritmica, per lo più governata da un vigore primitivo e barbarico, irrefrenabile, del tutto innovativo rispetto alla tradizione, all’abituale atmosfera religiosa. Ed il culmine lo si coglie «nella sezione centrale dello Svet (Sanctus), in cui l’orchestra, fra festosi scampanìi, scandisce un orgiastico ritmo rock (che inizia dopo le parole Gospod, Bog Sabaoth) interrotto ad intermittenza dalle esclamazioni del coro. Nel segno di un ritmo solitamente poco consono allo spirito di una messa è anche l’Intrada finale, che costituisce la firma in calce all’opera: una di quelle firme che bucano il foglio da parte a parte» (Pulcini).
Articolata in otto sezioni, di cui tre esclusivamente orchestrali e cinque corrispondenti alle parti tradizionali della messa, la partitura della Messa glagolitica si apre con l’Introduzione di carattere festoso, quasi ad accompagnare l’ingresso del sacerdote in una cerimonia liturgica: il brano è bipartito, con due motivi contrastanti nella parte iniziale, che si alternano a blocchi, sino ad un accelerando delle percussioni, per poi dissolversi all’avvio della seconda parte, pure strumentale (Ùvod): un’energica fanfara di ottoni e timpani nello schema del rondò, dominato dall’irruenta scansione ritmica e dall’incessante trascorrere della musica attraverso varie tonalità, anche lontane, in un clima espressivo di marcata tensione, che richiama alla mente l’inizio della Sinfonietta. Il Gospodi pomiluj (Kyrie) più che un ambiente religioso sembra evocare un dramma umano: al centro della struttura tripartita, in cui c’è un frequente impiego degli intervalli di quarta e di quinta, emblematici della pratica melodica morava nel modo misolidio, c’è il disperato grido del soprano Cristo abbi pietà di noi, rinnovato tre volte, mentre gli interventi del coro e la partecipazione dell’orchestra intensificano l’urgenza drammatica, nei crescendo in fortissimo e nella continua instabilità tonale. La conclusione, dopo un’esile frase dell’oboe e delle viole, sfuma nel pianissimo.
Disposta nel succedersi di sei episodi è, in uno schema prossimo a quello del rondò, la sezione dello Slava (Gloria): ma la struttura, che formalmente sembra apparentarsi a quella adottata da Bach nella Messa in si minore e da Beethoven nella Missa solemnis, viene sottoposta da Janàček ad un ininterrotto processo di frammentazione nell’impiego di inusuali impasti strumentali. All’intervento del soprano subentra quello del tenore entro un ambiente espressivo che evoca, con il suo impeto popolaresco, certe scene di stampo folclorico della produzione teatrale di Janàček: ed anche qui le armonie aspre e dissonanti, i timbri acuminati, i ritmi taglienti caratterizzano in maniera inequivocabile l’incedere della musica sino agli esaltati Amen conclusivi, nell’accesa, incandescente partecipazione del coro, dell’organo e dell’orchestra in tutte le sue famiglie strumentali.
Vèruju (Credo) è la parte di maggior ampiezza della Messa glagolitica, e può apparire come una pagina autonoma, dominata dalla riproposta ciclica della parola “Véruju” (Credo): al cuore vi è inserito un interludio puramente strumentale, diviso a sua volta in tre episodi che intenderebbero raffigurare, secondo l’analisi di Ludvik Kundera, tre momenti della vita di Cristo: la preghiera nel deserto con l’Andante cantabile del flauto e del violoncello, l’entrata a Gerusalemme con la gioiosa fanfara degli ottoni, la Passione con il possente solo dell’organo. Torna poi in primo piano la vocalità che ripropone il tema iniziale del coro sino al trionfante Amen rinforzato dal canto spiegato degli ottoni.

Simon Rattle

Lo Svet (Sanctus) si apre con un’eterea e serena introduzione orchestrale, tocca poi al soprano accennare con dolcezza la triplice enunciazione Svet (Sanctus) che viene ripresa quindi dal tenore e dal basso, mentre i violini nel registro acuto ripetono l’incedere d’una specie di marcia che si fa sempre più ossessiva, trasformandosi, nella progressiva sua accelerazione, in una danza barbarica, un orgiastico ostinato da moto perpetuo. Per contrasto, l’Agnece Bozij (Agnus Dei) instaura un’atmosfera trasparente e limpida, sin dall’intervento del flauto, del corno inglese e degli archi, ma anche qui Janàček va contro corrente e non lesina i cromatismi, gli accenti emotivi accalorati, l’urgenza espressiva, i bruschi accelerando che rendono angosciosa la tinta malinconica della pagina nell’incalzare delle sincopi e dell’ostinato, mentre nella vocalità le parole iniziali, ripetute tre volte dal coro a cappella, vengono sviluppate dai solisti di canto con il coro che ritorna alla conclusione in un’atmosfera di disperata instabilità tonale. Seguono due episodi strumentali: il Solo d’organo, una sorta di passacaglia dinamicamente vigorosa, con un incedere quasi schizofrenico dei motivi introduttivi, che dall’Allegro trascorre ad Un poco più mosso, al Presto, al Prestissimo, collegandosi al materiale tematico e alla tonalità della sezione del Crucifixus del Véruju (Credo); e la finale Intrada che intende raffigurare l’accompagnamento del sacerdote e della congregazione ecclesiastica dopo la conclusione del rito, e che Janàček esplicita, secondo l’opinione di Jaroslav Vogel, come «un ingresso a tempo di marcia nella animata vitalità
dell’esistenza, riaffermata dalla rinnovata certezza della consapevolezza dello spirito slavo» (1963), e che con gli insistiti cromatismi, l’alternanza di ottoni e archi, ripropone gli incisi tematici e l’atmosfera espressiva dell’Introduzione, siglando la cornice ciclica di quest’opera indubbiamente tipica della inventiva dell’estrema stagione creativa del compositore moravo, e percorsa da una inesausta carica innovativa di fortissima suggestione.

Testo

2. GOSPODI POMILUJ
Gospodi pomiluj! Chrste pomiluj! Gospodi pomiluj!

3. SLAVA
Slava vo vysrìich Bogu i na zeml’i mir clovékom blagovol’enja. Chvàlim Te, blagoslovl’ajem Te, klahajem Ti se, slavoslovim Te. Chvali vozdajem Tebe velikyje radi slavy tvojeje. Boze. Otee vsemogyi. Gospodi Synu jedinorodnyj. Isuse Chrste. Gospodi Boze, Agnece Bozij, Synu Otee! Vzeml’ej gréchy mira, pomiluj nas. Vzeml’ej gre-chy mira, primi mol’enja nasà. Sédej o desnuju Otea, pomiluj nas! JakoTy jedin svét. Ty jedin Gospod, Ty jedin vysríij, Isuse Chrste so svetym Duchom, so slave Otea. Amin.

4. VÈRUJU
Vèruju v jedinogo Boga, Otea vsemogusTago, tvorca nebu i zeml’i, vidimym vsem i nevidimym. I vjedinogo Gospoda Isusa Chrsta, Syna Bozja jedinorodnago, i ot Otea rozdenago prézde vsech vék, Boga ot Boga, svét ot svéta, Boga istina, ot Boga istina-go, rozdena, ne stvor’ena, jedinosustna Otcu, jimze vsja byse, lze nas radi clovék i radi nasego spasenja snide s nebes. I voplti se ot Ducha sveta iz Marije dévy. Raspet ze za ny, mucen i progreben byst. I voskrse v tretij den po Pisanju. I vzide na nebo: sedit o desnuja Otea, i paky imat priti sudit zivym mrtvym so slavoju: jegoze césarstvju nebudet konca. I v Ducha svetago Gospoda i zivototvorestago, ot Otea i Syna ischodestago. S Otcem é i Synom kupno poklañajema i soslavima: ize glagolal jest Proroky. I jedinu svetuju, katolicesku i apostolsku erkov. I spovédaju jedino krscenje votpuscenje gfechov. I cajú voskrsenja mrtvych. I zivota budustago véka. Amin.

5. SVET
Svet, svet, svet! Gospod, Bog Sabaoth. Pina sut nebo zemlja slavy tvojeje! Blagoslovl’en gredyi vo ime Gospodne: Osanna vo vysnich!

6. AGNECE BOZIJ
Agnece Bozij, vzeml’ej gréchy mira, pomiluj nas.

2. KYRIE
Kyrie eleison, Christe eleison, Kyrie eleison!

3. GLORIA
Gloria in excelsis et in terra pax hominibus bonae voluntatis. Gloria Deo! Te deum laudamus, benedicimus Te, adoramus Te, glorificamus Te. Gratias agimus tibi propter magnam gloriam tuam, o Deus! Deus, pater omnipotens, Domine fili unigenite, o Jesu Christe. Domine Deus, Agnus Dei! Filius Patris! Qui tollis peccata mundi, miserere nobis! Suscipe deprecationem nostram. Miserere! Qui sedes ad dexteram Patris, miserere nobis. Quoniam tu solus sanctus, tu solus Dominus, tu solus altissimus, Jesu Christe! Tu enìm Deus in gloria Dei Patris. O Jesu Christe! Cum sancto Spiritu in gloria Patris, amen.

4. CREDO
Credo in unum Deum, Patrem omnipotentem, factorem coeli et terrae, invisibilium, visibilium omnium. Credo in unum Dominum, Jesum Christum, filum Dei Patris unigenitum. Et ex Patre natum ante saecula, Deum de Deo, lumen de lumine, Deum verum de Deo vero, genitum non factum,consubstantialem Patri, quo omnis facta sunt. Qui propter homines et propter nostram salutem descendit de coelis, incarnatus est de Spiritu sancto ex Maria virgine. Sic credo. Crucifìxus, passus et sepultus est. Resurrexit tertia die secundum scriptures et ascendit in coelum. Sedet ad dexteram Patris. Rerum venturus iudicare vivos et mortuos cum gloria. Cuius regni non erit finis. Credo in Sanctum Spiritum, Dominum vivificantem, qui ex Patre fillioque procedit, qui cum Patre et filio adoratur, conglorificatur, qui locutus est per Prophetas. Et in unam, sanctam, catholicam, apostolicam ecclesiam. Confiteor unum baptisma in remissionem peccatorum. Expecto resurrectionem mortuorum. Et vitam venturi saeculi. Amen.

5. SANCTUS
Sanctus, sanctus, sanctus Dominus Deus Sabaoth. Pieni sunt coeli et terra gloria tua! Benedictus, qui venit in nomine Domini. Osanna in excelsis!

6. AGNUS DEI
Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis.