Mendelssohn Felix
Sinfonie integrali
Fra i grandi cicli sinfonici dell’Ottocento, uno dei meno omogenei nei contenuti è sicuramente quello di Mendelssohn: non tanto perché vi coesistono pagine della fase matura e di quella adolescenziale (abbiamo a che fare con un artista di eccezionale precocità, che proprio tra i quindici e vent’anni ha creato molte delle sue composizioni più geniali), quanto perché eterogenea in sé è l’ispirazione di queste sinfonie, legate in parte alle esperienze di viaggio dell’autore e in parte a spunti celebrativi di indole religiosa (dal tricentenario della Confessione di Augusta a quello della Bibbia di Gutenberg). E non meno varie ed aperte sono le soluzioni contenutistiche e strutturali, dall’inserimento di temi liturgici luterani nella Sinfonia della Riforma (Amen di Dresda e corale Ein feste Burg ist unser Gott) all’ariosa concezione sinfonico-corale della Lobgesang, due terzi della quale sono occupati da un finale per soli, coro e orchestra su testi biblici che rivisita in chiave romantica l’universo delle cantate bachiane, la cui riscoperta aveva avuto proprio nel giovane Mendelssohn il primo pioniere.
Di fronte a un lascito così variegato, Karajan s’impone sicuramente tra gli interpreti più attenti a restituire a ciascuna composizione la sua esatta fisionomia inquadrandola nel contempo in un’organica visione d’insieme. La sua integrale è sicuramente la più riuscita insieme a quella di Abbado con la London Symphony Orchestra: quella più lieve e variata negli impasti sonori e più ariosa nei tempi e nel fraseggio, questa più tagliente nei particolari e più grandiosa nelle grandi linee. Qui assegnare un primato è davvero più che mai impossibile: le due letture sono perfettamente riuscite e tra loro complementari, e vanno conosciute entrambe.
L’approccio del maestro salisburghese risulta particolarmente fascinoso nelle atmosfere da romanticismo ossianesco della Scozzese, di cui ci elargisce una lettura tanto raffinata quanto grandiosa, centratissima nella scelta dei tempi, nella fluidità del fraseggio, in tutte le sfumature dinamiche e timbriche: davvero uno degli esiti più suggestivi nella sterminata discografia di questo capolavoro. E un atteggiamento analogo prevale anche nell’Italiana, che, se si segnala per la tagliente luminosità del primo e dell’ultimo tempo (già essi, comunque, affrontati con atteggiamento più serio e meno coloristico del consueto), trova gli accenti più autentici e originali nel mondo tutt’altro che mediterraneo dei movimenti centrali, carichi d’ombre e di Gemütlichkeit, con l’andamento processionale dell’andante e la scansione accentuatamente moderata di quel terzo tempo che Erik Werner ha definito “minuetto borghese”, ma che è in realtà l’antesignano di quegli intermezzi fluidi che avrebbero sostituito lo scherzo nelle prime tre sinfonie di Brahms.
Se c’è però in assoluto una sinfonia (non solo mendelssohniana) nella cui lettura si può asserire con certezza che Karajan riesca meglio di qualunque altro interprete, questa è sicuramente la Sinfonia della Riforma, le cui problematiche e multiformi strutture, dalla rarefatta e misteriosa atmosfera ieratica dell’andante introduttivo solcato dalle interiezioni sospese degli ottoni, alla grandiosità dell’allegro con fuoco (visto qui, e non solo per ragioni di tonalità, come un parente stretto del primo tempo della Nona di Beethoven), dalla composta giocosità dello scherzo, con un trio dolcissimo, sino alle polifonie di marca organistica del finale, acquistano sotto la sua bacchetta una coesione e una grandiosità mai raggiunte. Forse, eseguita così, sarebbe piaciuta perfino all’autore, che notoriamente faceva mostra di detestarla.
Registrazioni eseguite dal 1965 al 1977 e rimasterizzazione effettuata nel 1990. Audio ottimo. Altamente raccomandato.
Mendelssohn: l’Olimpo e oltre – Daniele Spini
In questa integrale, incisa nel 1971/72, Herbert von Karajan sembra aver avvertito il problema di stabilire un’interpretazione coerente per una serie di testi fra loro abbastanza diversi, raccolti in un corpus relativamente disorganico da molti punti di vista (compreso quello della maggiore o minore presenza in repertorio, e magari anche negli interessi di un direttore come lui).
Infatti, riordinate in base alle date di composizione anziché a una numerazione progressiva del tutto casuale, le Sinfonie di Mendelssohn si susseguono in quest’ordine:
Sinfonia n. 1 – 1824
Sinfonia n. 5 – 1829-30
Sinfonia n. 4 – 1830-33
Sinfonia n. 2 – 1840
Sinfonia n. 3 – 1841-42;
dove a una Sinfonia come la Prima, opera poco più che infantile, ancorché genialissima, dunque inevitabilmente ancora un po’ scolastica, fa seguito a distanza di qualche anno un pezzo francamente irregolare e scopertamente programmatico, anche per l’occasione celebrativa (il terzo centenario della Confessione di Augusta, donde il titolo di “Riforma”), quale riuscì la Quinta, primo confronto di Mendelssohn adulto con la forma sinfonica.
Herbert von Karajan
Subito dopo, un parziale ritorno alla regola, seppure con originalità assoluta nelle idee, nello stile, nella condotta formale, con il primo grande capolavoro di Mendelssohn nel ramo, l'”Italiana”; separata dalla “Scozzese”, gemella forse ancor maggiore, da un buon lasso di anni, e soprattutto dall’imbarazzante
inserzione di un ibrido fascinosissimo quale già nel sottotitolo (“Sinfonia- Cantata su parole della Sacra Scrittura”) si annuncia la Seconda. La quale peraltro accoglie nel suo tessuto tematico e nella sua condotta orchestrale una quantità notevole di assonanze con la Terza, destinata a prender forma di lì a poco: tanto che se da una parte siamo tentati di sottrarla dal computo delle Sinfonie “vere” di Mendelssohn, dall’altra ne siamo impediti proprio per le parentele strettissime che la legano al grande capolavoro successivo.
In un contesto così poco unitario Karajan sembra soprattutto cercare coerenza, come avviene del resto più o meno in tutte le altre grandi integrali sinfoniche da lui incise (o reincise) in questo periodo.
La cifra complessiva qui adottata parrebbe essere quella di un sistematico processo di dilatazione. Il suono è spesso spettacolare, con ampia risonanza nello spazio, grazie anche a un notevole lavoro di scomposizione del “tutti” sinfonico in una prospettiva acustica smisurata; fra l’altro sfruttando fino in fondo le risorse della stereofonia secondo una costante di queste imprese discografiche del Karajan anni Settanta, appoggiate a tecniche di riproduzione estremamente sviluppate non meno che al celebratissimo virtuosismo dei Berliner philharmoniker.
C’è inoltre una chiara enfatizzazione dei caratteri stilistici che più tendono ad assimilare Mendelssohn e le sue Sinfonie a un romanticismo impetuoso, quasi schumanniano. Donde il fraseggio abbastanza tormentato, l’alternarsi di passi tumultuosamente agitati e di ampi “rallentando”, la scoperta drammatizzazione della dinamica.
È una ricerca di eloquenza che una pagina come la Prima, così deliziosamente e prodigiosamente adolescenziale, non sembrerebbe postulare. Mentre Karajan vi sottolinea continuamente ogni intenzione espressiva, anche quando l’ispirazione del quindicenne, comunque favolosa, sembra girare un po’ a vuoto. Molto diverso il discorso per la “Riforma”, senz’altro già riconducibile al pensiero e al modus operandi della maturità di Mendelssohn.
Karajan esalta naturalmente tutti gli elementi di un sinfonismo estroverso e fantasioso, dall’entusiastica ricchezza dei timbri al gioioso emergere dei ritmi di danza; portando in evidenza ciò che fa della Quinta una Sinfonia giovanilmente vivace e sperimentale, piuttosto che non un monumento nazional-religioso.
In pratica la stessa operazione che viene compiuta, ovviamente con impegno assai più poderoso, sul “Lobgesang”. Qui Karajan si impone di rendere scattante e scalpitante un’opera solenne, imponente ed eloquente fino al farsi didascalica, nutrita di corale in senso dichiaratamente celebrativo (il “Canto di lode” commemora il quarto centenario dell’invenzione della stampa; assimilato, in quanto evento apportatore di luce, alla stessa Riforma).
Lo spirito austeramente luterano, da “Germania profonda”, che Mendelssohn omaggia così vistosamente, sembra suggerire a Karajan un correttivo stilistico
affine a quello escogitato in un’altra sua incisione importante di questi anni, quella dei “Maestri Cantori” di Wagner: scioltezza del ritmo e sonorità brillanti, piuttosto che non solennità sacerdotale, da scuola storica; e notevole tensione drammatica nella cantata che occupa lo smisurato finale.
Mentre l’introduzione strumentale, al pari di tutte le zone della Quinta non troppo compromesse sul versante luteran-germanico, viene ovviamente ricondotta dall’interpretazione di Karajan a una dimensione il più possibile prossima a quella delle due grandi Sinfonie “vere “, “Italiana” e “Scozzese”.
In queste Karajan cerca e ottiene i maggiori risultati interpretativi, definendo con esiti memorabili l’esperienza sinfonica di Mendelssohn come uno dei cardini del pensiero musicale romantico. Frase larga, rubati estesissimi e rapinosi, una costante inquietudine ritmica e fonica: certo non è l’immagine corrente del Mendelssohn olimpico, se non accademico addirittura; ma piuttosto quella del grande, più prudente e saggio, ma non meno ardito, gemello rivale di Schumann.
Ne scaturisce un'”Italiana” fremente di tensioni ritmiche in un virtuosismo direttoriale difficilmente superabile, esplosiva nei contrasti fonici fra “pianissimo” eterei e “fortissimo” incontenibili (e ovviamente da questo punto di vista il Saltarello conclusivo è pressoché insuperabile).
Ma anche ingigantita espressivamente nell’Andante, in cui la contemplazione paesaggistica, da sinfonico album d’un voyageur, sembra quasi concedersi, secondo una ben nota vena “decadentistica” di Karajan, l’abbandono a un certo spleen, estendendo al massimo il panorama emotivo di una Sinfonia che così dimostra di non accontentarsi di essere unicamente “solare” e mediterraneamente festaiola.
La stessa “Scozzese” dichiara un barometro abbastanza inquieto; a volte sottolineato dall’inseguirsi nervoso delle frasi, incalzate da una direzione quasi impaziente, con un tipico stilema karajaniano.
Anche la sonorità dei Berliner è resa tagliente, spesso dura: quasi a evitare caramellosi compiacimenti, e rappresentando in verità un Karajan più rigoroso e austero di quel che non si sia detto tante volte. D’altro canto, un’estrema chiarezza. Soprattutto sul piano di quella perfetta coesistenza polifonica che è una costante delle letture orchestrali di Karajan: dove tutte le parti (e tutti i timbri strumentali) emergono con piena riconoscibilità, senza sforzo; in modo che all’occorrenza una macchia di colore (un flauto, un clarinetto, soprattutto) possa insinuare la sua carica di suggestione, magari forte fino allo smarrimento, anche in un contesto solido e pudico come questo.
Gli elementi “anticlassici” qui come altrove, sono comunque messi sempre in evidenza: esemplare la sezione degli sviluppi nel primo movimento, con la breve sospensione e il rapido “crescendo” fino all’esplosione spettacolare della “tempesta”.
E soprattutto il collegamento strettissimo fra i diversi movimenti, rispettando (a differenza di altri, che viceversa tendono a mantenere una certa separazione) quella aspirazione alla continuità che resta uno dei dati più “irregolari” della “Scozzese”.
Felix Mendelssohn
La scelta forse più originale è messa in opera nell'”Adagio”: evitando qualsiasi psicologismo intenso, alla Bruckner, il cantabile degli archi scorre deciso e ben ritmato dai pizzicati dell’accompagnamento, quasi raccordandosi con la freschezza folcloristica del secondo movimento nel ribadire uno sfondo poetico evocativo di canzoni e danze scozzesi e forse anche, nel Finale, di romanzeschi quadri storici alla Walter Scott, in omaggio a uno dei miti più suggestivi della sensibilità romantica.
Su questi dati, come sulla luminosità latina dell'”Italiana” o sulle stesse ambizioni monumentali della “Riforma” e “Lobgesang”, interviene talora, quasi a distendervi una pagina preziosa d’oro vecchio, la pennellata grandiosa di un Karajan già alle soglie del suo regale e autocelebrativo tardo stile.
Con scelte a volte anche azzardate: ma sempre – controllare per credere – estremamente attento al segno scritto, specialmente in fatto di dinamica; con un equilibrio straordinario dei colori strumentali, raffinati al massimo ma sempre funzionali a un preciso e sensibilissimo disegno poetico.
Risalgono a metà degli anni ’80 queste registrazioni dell’integrale dell’opera sinfonica di Mendelssohn che Abbado eseguì con “la sua orchestra” di allora, la London Symphony Orchestra. L’interpretazione di Abbado riesce a valorizzare gli intenti del compositore più di ogni altro direttore, forse con l’eccezione di Karajan la cui lettura però mette in rilievo tutt’altro aspetto di queste sinfonie. Così come oggi, già allora Abbado “giocava” sul suono degli archi togliendo quel vibrato eccessivo che rende la musica di Mendelssohn eccessivamente “caramellosa” e sdolcinata, per far emergere una linea melodica pura che arriva diretta al cuore dell’ascoltatore. Insieme alle 5 sinfonie sono comprese molte delle Overtures composte da Mendelssohn, ognuna un vero e proprio gioiellino, ad iniziare dalla più famosa, A Midsummer night dream, la cui marcia nuziale allieta il 99% dei matrimoni celebrati in chiesa.
Completa la raccolta una delle due o tre più belle incisioni del concerto per violino e orchestra, con il giovane virtuoso Shlomo Mintz: la linea del canto é mantenuta semplice e pura con lo stesso procedimento che poi il “vecchio Abbado” avrebbe applicato a Mozart: poco vibrato, intesa perfetta fra legni, ottoni ed archi con il solista in quel “gioco facile da dire ma difficilissimo da realizzare”. Così emerge un totale affiatamento fra solista e orchestra, con una semplicità di esposizione dei temi, ma al contempo una chiarezza unica fra “canto del solista” e controcanto dell’orchestra. Solo Nathan Milstein con un giovane Abbado alla testa dei Wiener Philhalrmoniker, e Maxim Vengerov sotto la bacchetta di Kurt Masur riescono, secondo me, a reggere il confronto con questa splendida incisione, splendida anche se in ADD.
Non altrettanto bella la registrazione della seconda sinfonia, seppure in DDD, in cui il quarto tempo prevede un nutrito coro e diversi solisti e che risulta un po’ compresso e sonicamente “sfocato” nella registrazione.
A distanza di quasi 30 anni nessun altro direttore, se non Herbert von Karajan, ha eguagliato queste interpretazioni. Audio buono. Altamente raccomandato. Buon ascolto a tutte e tutti voi.
Sinfonia n. 1 in do minore per orchestra, op. 11 (MWV N 13)
La Sinfonia in do minore non è il debutto sinfonico di Mendelssohn, bensì il suo tredicesimo tentativo in questo genere. Già nel 1821-1823, tra i dodici e i quattordici anni, Mendelssohn aveva infatti scritto 12 Sinfonie per orchestra d’archi, destinate ai concerti che si tenevano ogni domenica nella casa paterna. Se queste composizioni, di cui il più largo pubblico è venuto a conoscenza solo da pochi anni, ci mostrano il giovane Mendelssohn per così dire durante la fase dell’apprendistato (avvenuto sotto la guida del rigoroso insegnamento di Carl Friedrich Zelter, il musicista preferito di Goethe), la Sinfonia in do minore, scritta nel marzo del 1824 poco dopo il suo quindicesimo compleanno e indicata in un primo momento come “Sinfonia Nr. XIII”, è quasi il saggio
conclusivo, ampliato questa volta all’orchestra al gran completo, di questo periodo di tirocinio. Anche in seguito, dopo aver composto partiture ben più complesse, Mendelssohn la ritenne degna di essere stampata, e la fece così pubblicare nel 1834 come Sinfonia n. 1 op. 11: sette anni dopo la prima esecuzione, che aveva avuto luogo a Lipsia il 1° febbraio 1827.
Più che al primo Beethoven, essa guarda ai tardi modelli di Haydn (Sinfonia in do minore n. 95) e di Mozart (Sinfonia in sol minore K. 550). All’interno di una forma altamente artigianale, ispirata al classicismo strumentale viennese, si individuano però già diversi tratti personali: per esempio, nel primo movimento Allegro molto, la vitalità ritmica, la ripresa accorciata e strumentata in modo diverso dall’esposizione, l’ampliamento della coda e un trattamento dell’orchestra che si potrebbe definire orientato verso timbri fiabeschi, romantici (clarinetti, corni). Il primo tema, presentato senza essere preceduto dall’introduzione lenta, ha uno slancio prorompente, tipicamente mendelssohniano, e acquista un’importanza, uno spessore sempre maggiori nel corso dello sviluppo, contrastando con l’oasi lirica, melodica (violini primi, oboe e flauto) del secondo tema in mi bemolle maggiore. Nel secondo movimento, Andante, il tema si espande in una tranquilla e fluente cantilena, alternando nella cantabilità archi e fiati: così che il movimento, anche in rapporto allo svolgimento ininterrotto, si può considerare nella forma di un rondò variato.
Il Menuetto è chiaramente ricalcato sul modello mozartiano (melodia cromatica sincopata degli archi e interventi di ripieno dei legni). Forse anche per questo motivo Mendelssohn lo sostituì, nelle esecuzioni della Prima Sinfonia che diresse alla Philharmonic Society di Londra durante il suo primo viaggio in Inghilterra (1829), con lo Scherzo in sol minore dell’Ottetto per archi op. 20 (1825). È interessante notare come in questo brano, appositamente orchestrato quale alternativo, si affaccino analogie con il prototipo dello Scherzo mendelssohniano (le alate musiche d’elfi del Sogno), a dimostrazione di un percorso che cominciava a farsi più attento alle vocazioni del proprio mondo poetico. Del tutto inconsueto (e davvero straordinario) il Trio del Menuetto, costruito su un assorto, devoto corale dei legni: pagina ineffabile, confinante con una meditazione spirituale, quasi religiosa.
L’ultimo movimento, Allegro con fuoco, è il più concentrato dei quattro. Vi si possono riconoscere correlazioni motiviche e ritmiche (a ritroso dal Minuetto al primo movimento) volte a istituire quel principio del legame ciclico che in seguito doveva risultare uno dei tratti essenziali della musica sinfonica di Mendelssohn: del tutto ancora scisso, però, da intenti programmatici o descrittivi. In secondo luogo spicca l’originalità del secondo tema, una frase di dodici battute degli archi eseguita pizzicato, e ripetuta subito dopo come
accompagnamento di un’ampia melodia del clarinetto (nella ripresa si aggiungerà il flauto). Nello sviluppo Mendelssohn impiega il materiale- tematico in forma di una fuga severa ma non accademica: dichiarando così nel contrappunto armonico di Bach l’altro polo del suo orientamento estetico.
Due ultime osservazioni. Di fronte a simili opere dichiaratamente (oltre che cronologicamente) giovanili si è inclini a considerare soprattutto gli influssi dei modelli e i semi che daranno frutti nell’opera futura. In questo caso, ciò che conta prima di tutto è riconoscere la leggerezza e la grazia di un’apertura fiduciosa al mondo che coincide con una stagione della vita. Da questo punto di vista la Sinfonia in do minore di Mendelssohn – per riprendere una metafora di Schumann – non imita la cipria e la parrucca di Haydn e di Mozart ma entra direttamente nelle loro teste, ricevendone l’ammaestramento e conciliandolo con una natura fresca e diretta, tanto portata alla calma interiore quanto destinata a una fiorita vita romantica. Secondo. Il maestro Sawallisch, che ama profondamente questa partitura e la presenta spesso nei suoi concerti, dimostra che proprio opere come queste possono essere anche per un interprete maturo abituato a ben altre complessità un biglietto da visita di un modo, olimpico, di intendere e vivere la musica.
Sinfonia n. 3 in la minore per orchestra “Scozzese”, op. 56 (MWV N 18)
Dopo l’esecuzione della sua Sinfonia n. 1 (la sua prima Sinfonia per orchestra completa, trasformazione dell’ultima delle tredici Sinfonie giovanili per archi), Mendelssohn si recò in Scozia, in compagnia dell’amico di famiglia Carl Klingemann, scrittore, librettista e allora anche consigliere di legazione a Londra.
Claudio Abbado
L’itinerario del viaggio condusse i due amici a Edimburgo, dove giunsero il 28 luglio del 1829 e dove rimasero particolarmente impressionati dall’Holyrood Palace. Il giovane Mendelssohn, ammiratore del teatro di Schiller, non poteva mancare di visitare i luoghi storici legati a Maria Stuarda, fra cui le rovine della cappella dove era stata incoronata la sventurata regina. Il 30 luglio il compositore poteva scrivere ai suoi familiari: «Oggi, in questa antica cappella, credo di avere trovato l’inizio della “Sinfonia scozzese”».
Mendelssohn avrebbe poi abbozzato il primo tempo della “Scozzese” nel corso del suo soggiorno romano del 1831, pressoché simultaneamente allo schizzo della Sinfonia “Italiana”, ma quell’abbozzo doveva rimanere per il momento nel cassetto. L’ambiente romano rendeva incapace il compositore «di ritornare indietro coi sentimenti nel brumoso paesaggio scozzese». Quel germe originato dal viaggio scozzese del 1829 avrebbe dovuto aspettare oltre un decennio per essere completamente sviluppato; sì che la Sinfonia “Scozzese” sarebbe rimasta in realtà l’ultimo dei cinque lavori sinfonici del compositore (anche se le complesse vicende editoriali delle differenti Sinfonie hanno poi portato a un ordine di pubblicazione differente da quello di composizione, da cui la numerazione svincolata dalla cronologia; la “Scozzese” è nota infatti impropriamente come la terza delle cinque Sinfonie).
Di fatto la futura Sinfonia op. 56 sarebbe stata ripresa solamente nel 1841, in un momento di intensissima attività. Conclusa nel gennaio 1842, la “Scozzese”
venne poi dedicata alla regina Vittoria ed eseguita in estate presso la Società Filarmonica di Londra, sotto la direzione dello stesso autore.
Colpisce, nella ricostruzione della lunga gestazione della partitura, la nitidezza dell’idea primigenia, la precoce e precisa determinazione di comporre una sinfonia “scozzese”. Per un giovane compositore della nuova leva romantica l’approccio con il genere sinfonico comportava certamente delle difficoltà che la precedente generazione di autori non aveva conosciuto. Difficoltà di ordine innanzitutto concettuale. Se il genere sinfonico era stato per Haydn, Mozart, il giovane Beethoven ancora un genere di intrattenimento, i capolavori sinfonici beethoveniani avevano donato al genere uno spessore intellettuale per cui la forma in quattro movimenti doveva essere veicolo di forti tensioni ideali. Le partiture beethoveniane, considerate esempi di inattingibile perfezione, costituivano anche delle pietre di paragone difficilmente emulabili. Lo stesso Schubert si era dibattuto per anni nella creazione di una “grande” Sinfonia, che poi proprio Mendelssohn avrebbe portato alla prima esecuzione postuma nel 1839 a Lipsia.
Di qui la necessità di rendere il genere sinfonico l’espressione di un percorso ideale, i cui contenuti erano però tutti da definire. La sensibilità romantica di Mendelssohn doveva portare il compositore a trovare anche in una tipologia paesaggistica, naturalistica, la giusta risoluzione del problema. Di qui l’idea di una Sinfonia “Scozzese”, come di una “Italiana”, i cui obiettivi non sono però certo descrittivi, i cui esiti non sono folcloristici. Non a caso nel corso del suo viaggio scozzese Mendelssohn guardò con sufficienza e quasi con astio alle melodie popolari e alla musica etnica con cui ebbe occasione di venire in contatto – nonostante poi la “Scozzese” ricrei a suo modo degli echi popolari. Piuttosto, la finalità era quella di rievocare atmosfere e impressioni del viaggio giovanile in modo da donare unità concettuale e continuità narrativa ai quattro movimenti della forma sinfonica – indicativo che l’autore volesse i quattro movimenti eseguiti senza soluzione di continuità.
Ecco dunque che la Sinfonia “Scozzese” si presenta come fortemente unitaria e insieme diversificata al suo interno. Il primo tempo è introdotto da un Andante con moto di impostazione grave e solenne, in cui la sinuosità del fraseggio e la tonalità minore si riallacciano alle impressioni della cappella di Maria Stuarda. La stessa atmosfera si proietta sull’Allegro un poco agitato che completa il primo movimento, in cui si impongono l’intonazione drammatica e l’orchestrazione massiccia; non viene mai meno tuttavia il ferreo dominio della forma e infatti questo primo tempo appare frutto di una complessa scrittura; i temi principali sbocciano l’uno dall’altro in continuità, donando varietà coloristica all’idea di base, e la sezione dello sviluppo procede secondo una complessa elaborazione che avvicenda plasticamente situazioni differenti ma coerenti. Una procella sembra venire evocata dalla lunga coda, ricca di passaggi cromatici e di forti contrasti.
Rispetto ai consueti canoni sinfonici Mendelssohn inverte i due tempi centrali, premettendo lo Scherzo al tempo lento. E il Vivace non troppo – che inconsuetamente segue la forma-sonata – è uno dei tipici movimenti “magici” di Mendelssohn, filiazione diretta di quello del Sogno di una notte di mezza estate, nella agitazione perpetua come nella scrittura sussurrata, trasparente, nell’intreccio delle voci strumentali. Caratteristico è il motivo pentatonico del clarinetto, all’inizio, come anche la conclusione in pianissimo. Una sorta di recitativo dei violini immette nel tempo lento, in forma di Lied, un Adagio dove la melodia innodica, intensa e plastica, viene accompagnata da pizzicati e trova un netto contrasto nella seconda idea, in minore e esposta dai fiati, quasi marcia funebre. Le riprese del tema vedono poi una veste strumentale impreziosita dall’aggiunta di voci secondarie e dal passaggio del tema alle voci gravi o ai fiati.
Aperto da uno scoppio folgorante, il finale, Allegro vivacissimo, è un movimento di grande forza drammatica, internamente percorso da una straordinaria energia ritmica, che lascia comunque spazio alla seconda idea, nitidamente scandita dai fiati. Lo sviluppo appare assai variegato, con elaborazioni fugate del materiale, preziosi giochi strumentali, improvvisi contrasti e sfocia in una ripresa abbreviata, che prende l’avvio dal secondo tema. Interessante è che questo movimento subisce una subitanea conversione nella conclusione; subentra infatti un Allegro maestoso assai, con un tema innodico in maggiore che si eleva in apoteosi, ottenendo il doppio risultato di offrire una chiusa di grande effetto e di riaffermare quella logica di varietà nella continuità che è una delle principali ragioni d’essere della mirabile partitura.
Sinfonia n. 4 in la maggiore “Italiana” , op. 90 (MWV N 16)
La lunga gestazione della Sinfonia Italiana sembra contraddire l’immagine di un Mendelssohn compositore dalla vena fluente. Il primissimo spunto dell’opera risale all’estate del 1829, allorché il giovane musicista di Amburgo si trovava in Inghilterra, insieme ai primi abbozzi della Sinfonia Scozzese. Durante i lunghi vagabondaggi in Italia, nei due anni successivi, il progetto si consolidò senza tuttavia mettere capo a una stesura completa del lavoro, e fu solo dietro un invito della Società Filarmonica di Londra, nel 1832, che il compositore si risolse a riprendere e ultimare il manoscritto messo da parte. La prima esecuzione ebbe luogo nella capitale britannica il 13 marzo 1833; malgrado il successo, Mendelssohn non giudicò opportuno dare l’opera alle stampe (nel suo ricchissimo epistolario con gli editori, pubblicato da R. Elvers nel 1968, non si fa neppure menzione dell’Italiana), e quattro anni piti tardi sottopose la partitura ad attenta rielaborazione. Altre modifiche e ritocchi vennero apportati negli anni seguenti, e solo la morte prematura dell’autore rese definitiva la versione che Julius Rietz fece conoscere nel novembre 1849 a Lipsia, alla guida dell’orchestra del Gewandhaus.
La più celebre sinfonia di Mendelssohn è un omaggio all’Italia, alla forma classica, e indirettamente alla grande arte di J.S. Bach. Vi si cercherebbero però invano temi popolari di chiara individuazione, come sarà in altri illustri affreschi sonori, da Caikovskij a Dvorak: il carattere ‘italiano’ della composizione andrà rintracciato piuttosto nella sua spumeggiante freschezza, nella cantabilità davvero mediterranea di molti temi, nella luminosità della magistrale strumentazione, che privilegia spesso i colori solistici sugli impasti, e fa un uso parsimonioso degli ottoni. La cornice formale è quella classica, in quattro movimenti con ordinati ritornelli e riprese, che nella snellezza delle proporzioni sembrano guardare soprattutto ai modelli haydniani e mozartiani, anche se è avvertibile qua e là (ampliamento degli sviluppi, ripresa variata), l’influsso della grande lezione beethoveniana. Ma in molti punti traspare anche il grande amore che Mendelssohn nutriva per Bach: emblematico è in tal senso l’Andante con moto, dove i contrappunti dei flauti al tema principale e soprattutto il movimento dei bassi sembrano realmente rievocare lo spirito barocco.
Il primo movimento, scritto nel trascinante ritmo di 6/8 tanto caro a Mendelssohn, presenta nella esposizione i due temi tradizionali della forma sonata: il primo guizza subito nei violini, su virbanti ottavi ribattuti dei legni, mentre a questi ultimi è affidato il più pacato secondo tema, accompagnato da arpeggi degli archi.
Claudio Abbado
Nello sviluppo, assai ampio, Mendelssohn introduce un terzo elemento tematico, che compare dapprima negli archi e viene subito sottoposto a una fitta elaborazione contrappuntistica, per poi intrecciare un serrato dialogo con il primo tema. La ripresa, magnificamente preparata da un lungo crescendo, è molto diversa dall’esposizione, e presenta una ulteriore elaborazione dei vari motivi; di particolare bellezza è la riproposta del secondo tema, affidato stavolta a viole e violoncelli che duettano per seste, su delicati arabeschi del flauto e del clarinetto. Di grande suggestione è l’inizio dell’Andante con moto che segue: archi e legni intonano all’unisono un solenne motto, basato sulla nota la, dominante di re minore; poi, sull’incedere dei bassi, l’oboe e i fagotti con le viole espongono la melodia principale, «leggermente malinconica, ma serena, che procede lenta come un dondolare di ninna nanna» (Della Corte e Pannain); nella sezione centrale i due clarinetti fanno udire un nuovo tema, sino al perentorio ritorno del motto di apertura che introduce la ripresa, sempre sostenuta dall’incessante moto dei bassi, cui è affidata la concisa coda. La venerazione di Mendelssohn per i grandi maestri del classicismo viennese traspare anche dal terzo movimento: che non è uno Scherzo, genere prediletto dall’autore, quanto piuttosto una nostalgica rievocazione dell’antico minuetto, pieno di grazia sfuggente e percorso specie nel trio, caratterizzato da marcati interventi di fagotti e corni, da una sottile inquietudine. La parentesi del Con moto moderato accentua ancora di più, per contrasto, l’esplosione di vitalità ritmica del celebre Saltarello finale, l’unico brano dichiaratamente ‘italiano’ della sinfonia. Si tratta di una sorta di stilizzata tarantella, autentico banco di prova per il virtuosismo di orchestre e direttori: dal turbinio di terzine degli archi agli spericolati passaggi in staccato dei legni, tutto il brano è un’apoteosi del ritmo, pur mantenendosi lontano dai toni dionisiaci della Settima Sinfonia beethoveniana, e presenta straordinarie assonanze con il mondo fiabesco delle musiche per il Sogno dì una notte dì mezza estate. Verso la fine flauti e clarinetti sembrano citare il tema del primo movimento, e la prorompente energia scemare d’intensità, prima della brillantissima chiusa.
Sinfonia n. 5 in re maggiore per orchestra “La Riforma”, op. 107 (MWV N 15)
Nel 1829, all’età di vent’anni, Felix Mendelssohn abbandonava erlino per affrontare un lungo viaggio europeo che completasse la sua formazione musicale e consolidasse la sua notorietà al dl fuori della sua città di residenza dove aveva colto, nel maggio dello stesso anno, una clamorosa affermazione dirigendo una feconda riesumazione della Passione secondo Matteo di Bach. È appunto a questo anno e a questo viaggio che risale la genesi della cosiddetta Sinfonia “della Riforma”; il numero d’ordine (n. 5) e l’alto numero d’opera (opera 107) non devono trarre in inganno relativamente alla posizione occupata dal brano nel catalogo del compositore; essi sono legati infatti alle vicende editoriali della partitura, pubblicata postuma e ultima fra le Sinfonie. Ma la “Riforma” è in realtà la seconda delle Sinfonie a piena orchestra di Mendelssohn, concepita al termine del viaggio in Gran Bretagna, fra il settembre del 1829 e l’estate del 1830.
Alla base della composizione si poneva l’idea di celebrare il terzo centenario della Confessione protestante di Augusta, che cadeva nel giugno 1830. Nata sulla spinta di un grande entusiasmo, la Sinfonia doveva incontrare in realtà un alto numero di ostacoli alla sua diffusione, fin dalla nascita. La prima esecuzione sarebbe dovuta avvenire a Parigi in coincidenza della ricorrenza, ma l’Orchestra del Conservatorio, altamente stimata da Mendelssohn, rifiutò la partitura, per motivi che non sono mai risultati ben chiari; forse per il carattere elaborato e cerebrale dell’invenzione, o forse perché gli ambienti cattolici avevano un ovvio interesse a ostacolare qualsiasi tentativo di celebrare la ricorrenza principale dello scisma luterano. Ad ogni modo l’esecuzione non potè avvenire fino al novembre del 1832. In seguito la Sinfonia rimase ineseguita fin dopo la morte dell’autore, e venne pubblicata solo nel 1868.
Le cause di questa lunga eclissi vanno ricercate principalmente nella volontà stessa di Mendelssohn, che espresse sull’opera giudizi estremamente severi: «un’opera completamente fallita», e «quello tra i miei pezzi che brucerei più volentieri; non dovrà mai essere pubblicato»; parole di cui è difficile darsi una spiegazione compiuta. Anche in seguito comunque la composizione è stata oggetto di critiche severe che ne denunciarono un certo disequilibrio nella scrittura, unito a un’enfasi retorica; caratteristiche che non hanno giovato alla diffusione del brano, rispetto ai risultati più omogenei e compiuti dell'”Italiana” e della “Scozzese”.
Eppure la “Riforma” segna un punto di maturazione non trascurabile nel percorso di formazione dell’autore. Per un giovane compositore della nuova leva romantica l’approccio con il genere sinfonico comportava certamente delle difficollà che la precedente generazione di autori non aveva conosciuto. Difficoltà di ordine innanzitutto concettuale. Se il genere sinfonico era stato per Haydn, Mozart, il giovane Beethoven, ancora un genere di intrattenimento, i capolavori sinfonici beethoveniani avevano donato al genere uno spessore intellettuale per cui la forma in quattro movimenti doveva essere veicolo di forti tensioni ideali. Le partiture beethoveniane, considerate esempi di inattingibile perfezione, costituivano anche delle pietre di paragone difficilmente emulab-li. Lo stesso Schubert si era dibattuto per anni nella creazione di una “grande” Sinfonia, che poi proprio Mendelssohn avrebbe portato alla prima esecuzione postuma nel 1839 a Lipsia.
Di qui la necessità di rendere il genere sinfonico l’espressione di un percorso ideale, i cui contenuti erano però tutti da definire, e potevano essere tanto paesaggistici e naturalistici quanto guidati da un’idea letteraria o spirituale, come nel caso della “Riforma”. Ovvio che a queste nuove prospettive si
accompagnasse anche una riflessione sull’organizzazione e il contenuto musicale. Fra gli elementi di novità della “Riforma” vi è innanzitutto il principio ciclico, per il quale il primo e l’ultimo movimento fanno uso del medesimo materiale tematico, impiegato con un intento programmatico. Il movimento iniziale si apre con una ampia introduzione lenta in maggiore, che si avvale di una scrittura contrappuntistica di sapore arcaico. Vi figurano citazioni di canti religiosi; l’innodia ascendente che apre la pagina è tratta dal Magnificat tertii toni, mentre l’introduzione si chiude con il celeberrimo “Amen di Dresda”, una figura cadenzale luterana ripresa poi anche da Wagner, quale temia del Graal nel Parsifal.
Gli appelli degli ottoni che interrompono l’innodia dell’Introduzione si trasformano poi nel primo tema dell’Allegro con fuoco in re minore. Legati tematicamente, l’Introduzione e l’Allegro con fuoco esprimono il conflitto fra la fede incrollabile e le lotte religiose. Proprio l’Allegro con fuoco costruito, secondo la testimonianza di Devrient, a partire dalla struttura ritmica e provvedendo poi alle idee melodiche e agli effetti dinamici, potrebbe essere all’origine del rifiuto della partitura da parte dell’autore; l’inusuale procedimento di scrittura porta infatti a una certa meccanicità della pagina, il cui slancio impetuoso non sempre risulta perfettamente calibrato; riappare nel movimento, prima della ripresa, l’Amen di Dresda, quale isolato momento di purezza.
Nei due tempi centrali è difficile trovare dei puntuali riferimenti tematici al tempo iniziale; si tratta piuttosto di due movimenti di musica “pura”, esempi di due precise tipologie del sinfonismo di Mendelssohn. L’Allegro vivace è uno Scherzo brillante e delicato, orchestrato con gusto e discrezione, in cui spicca un Trio dalle movenze pastorali.
Il breve Andante che funge da tempo lento è una malinconica romanza senza parole, con una sezione di recitativo; è quasi interamente affidato ai soli archi, certo per acuire il contrasto con il finale. Questo viene aperto, senza soluzione di continuità, dal flauto solo, che intona il corale Ein’ feste Burg, subito elaborato e ampliato dall’orchestra intera; dopo uno sviluppo sui due differenti versetti del corale, il movimento si orienta verso una progressiva lievitazione emozionale, con l’apparizione di un baldanzoso motivo dal sapore romantico. La conclusione si basa su una nuova apparizione del corale, in valori ritmici dilatati, esaltazione e sintesi dei valori del culto riformato.