Monteverdi Claudio
Vespro della beata vergine
Questa registrazione è stata effettuata nel 1974 e viene eseguita nello stile tradizionale (cioè non con strumenti ottocenteschi).
Può essere considerata la migliore interpretazione di questo spartito in edizione filologica. Non è pesante o romantico ma trasmette tutta la grandezza della composizione.
Cast molto buono sotto la precisa e attenta conduzione di John Eliot Gardiner. Un plauso particolare al Monteverdi Choir e Orchestra per la loro magnifica interpretazione di una composizione prettamente polifonica.
La registrazione analogica della Decca è tipica della metà degli anni settanta. Registrazione eseguita nel 1974 e rimasterizzazione effettuata nel 1985. Altamente raccomandato.
Claudio Monteverdi – Il Vespro della Beata Vergine
Il Vespro della Beata Vergine di Monteverdi fu pubblicato, assieme alla Missa In illo tempore, nel 1610 a Venezia, con un’ampollosa é adulatoria dedica a papa Paolo V. Il titoIo completo dell’opera, che recita: Sanctissimae Virgini mìssa senis vocìbus ad ecclesiarum choros ac vespere pluribus decantanda cum nonnullis sacris concentibus, ad sacella sive prìncipum cubicula accomodata (Messa della santissima Vergine a sei voci per i cori ecclesiastici e vespro da cantarsi a più voci con alcuni sacri concerti, adatti alle cappelle o alle camere dei principi), rende espliciti sia il contenuto sia lo scopo dell’edizione. Il compositore, che all’epoca aveva 43 anni, era alle dipendenze di Vincenzo Gonzaga, duca di Mantova, al cui servizio si trovava già da una ventina d’anni. Il contrasto fra il linguaggio del Vespro e quello della Messa, scritta nel vecchio stile polifonico della prima prattica, è abbastanza sorprèndente; ma anche all’interno del Vespro stesso si nota una straordinaria varietà di stili compositivi. Dopo l’imponente responsorio iniziale Domine ad adiuvandum, cinque salmi musicati in uno stile grandioso si alternano a mottetti a una, due e tre voci nel nuovo stile monodico. Seguono una sonata strumentale, l’inno Ave maris stella e infine due versioni del Magnificat.
Le ragioni che spiegano quest’edizione – e in particolare la varietà stilistica, quasi enciclopedica, che essa – mette in mostra – risiedono probabilmente nelle condizioni in cui si trovava Monteverdi all’epoca in cui compose il Vespro. Degli anni mantovani ci sono pervenute soltanto dodici lettere monteverdiane, scritte tra il 1601 e il 1611, dalle quali trapela uno stato di insoddisfazione pressoché costante. Quasi senza eccezione sono cariche di lamentele per il lavoro eccessivo, le malattie, l’indigenza, i pagamenti inadeguati e il perenne sospetto che il suo talento non fosse tenuto nella giusta considerazione dai Gonzaga. Queste lamentele sono così insistenti ed energiche che alcuni storici sono stati indotti a considerarle sostanzialmente infondate, frutto forse di insicurezza o di invidia nei confronti di altri compositori. C’è però una mole impressionante di prove a sostegno delle ragioni di Monteverdi. Verso la fine del 1606 la situazione si era fatta così pesante che la moglie Claudia si sentì autorizzata ad aggiungere la sua voce al Cahier de doléances. Nel 1607-8, mentre Monteverdi lavorava dapprima all’Orfeo e poi al Lamento d’Arianna, le difficoltà avevano toccato l’apice: i problemi economici e la cattiva salute erano stati aggravati in primo luogo dalla perdita della moglie, poi dalla morte di Caterina Martinelli, la giovane cantante che in casa di Monteverdi era vissuta, scomparsa solo pochi giorni prima di interpretare la parte della protagonista alla prima rappresentazione dell’Arianna.
E’ chiaro che nell’estate del 1610, all’epoca in cui dava alle stampe il Vespro, Monteverdi avvertiva sempre più che la sua situazione a Mantova si era fatta insostenibile. Cercava, in altri termini, un impiego al di fuori di Mantova; il
volume (significativamente dedicato a papa Paolo V) avrebbe dovuto dimostrare la sua versatilità in un’ampia gamma di stili, che andavano dal contrappunto tradizionale dello stilus antiquus sino al recentissimo canto monodico.
Vincenzo Gonzaga II
Non sorprende che la raccolta non abbia conosciuto ristampe: il formato e il contenuto rivelano che si trattava di un volume da presentare in dono e non di un libro destinato all’uso pratico, almeno per quanto riguarda i cori ecclesiastici italiani di normali dimensioni.
A questo punto le sole proporzioni del Vespro, con le forze necessarie ad eseguirlo, che comprendono cantanti e strumentisti virtuosi, sollevano una questione fondamentale. Il Vespro della Beata Vergine è un’opera unitaria e completa, costituita da una serie di brani in un ordine prefissato dal compositore (con la possibilità di scegliere uno dei due Magnificat), com’è oggi comunemente intesa? O è semplicemente una raccolta di brani, composti forse nel corso della carriera mantovana di Monteverdi (e riuniti a formare una versione musicale completa dei vespri solo in vista della pubblicazione), dalla quale gli esecutori avrebbero scelto, per l’uso pratico, solo un brano o due?
Prima di affrontare la questione, che ha occupato parecchio gli studiosi negli ultimi cinquant’anni, è necessario accennare alla Messa a sei voci. Si dimentica spesso che è la Messa ad aprire il volume e a definire il contesto stilistico nel quale andrebbe collocato il Vespro; è sempre la Messa che fissa l’argomento mariano per l’intera pubblicazione, come precisa il titolo sul frontespizio. Occorre subito dire che la Missa In illo tempore è scritta in un linguaggio piuttosto anonimo, ancorché ambizioso (la scrittura è a sei voci, che si riducono a quattro nel Crucifixus come vuole la tradizione, e diventano sette nella sezione finale dell’Agnus Dei). Ma non sorprende affatto che un volume di musica sacra orientato al gusto romano, e in particolare a quello papale, sia scritto in uno stile retrospettivo. Il repertorio musicale della Cappella Sistina era antiquato: all’inizio del secolo XVII il coro eseguiva musica che risaliva ancora alla generazione di Josquin Desprès, musica che in certi casi aveva più di cent’anni. Fu probabilmente in omaggio a quella tradizione che Monteverdi pose a fondamento della Messa dieci soggetti da un mottetto di un compositore del primo Cinquecento, Nicolas Gombert (ca. 1495-1560), un maestro del vecchio stile contrappuntistico fiammingo. Questi soggetti vengono poi elaborati nel più severo stile contrappuntistico; e quasi a sottolineare l’abilità di Monteverdi, essi sono stampati all’inizio della Messa in tutti i libri-parte. A quell’epoca, la prassi di comporre messe su materiale musicale preesistente era divenuta estremamente comune; adeguandovisi, Monteverdi seguiva le orme non solo dei grandi maestri fiamminghi, ma anche di compositori più recenti, fra cui Lasso, Palestrina, Morales e Victoria. La Messa, in altri termini, vuole chiaramente esibire le credenziali di un compositore che padroneggia le tecniche della prima prattica. L’esito, dal punto di vista artistico, è più intellettualistico che ispirato; spesso i momenti imitativi sono così serrati da rendere la scrittura densa e alquanto inaccessibile. E’ un’opera concepita come sfoggio di abilità tecnica, e spesso si limita a produrre quest’effetto; una fonte
coeva testimonia la cura e la fatica profuse da Monteverdi nell’elaborazione di questo artificioso esercizio compositivo.
Il contrasto fra lo stile della Messa e quello del Vespro non potrebbe essere più grande; è il secondo che mostra la vera inclinazione e gli interessi compositivi di Monteverdi. Il Vespro, per l’epoca, è concepito su larga scala, con parti per strumenti solistici e d’accompagnamento, voci soliste e coro. La tavolozza strumentale e il tipo di scrittura sono più vicine all’Orfeo, eseguito la prima volta a Mantova nel 1607, che alla musica sacra dell’epoca; come l’opera teatrale, questa musica appartiene a un mondo volutamente costruito per riflettere lo splendore e la grandezza della corte dei Gonzaga: l’equivalente sonoro del palazzo ducale, sfarzosamente ornato, e della più austera maestosità della basilica di Santa Barbara, dove questi brani risuonarono sicuramente per la prima volta.
Nei vespri, l’impalcatura che regge la struttura musicale è data da cinque salmi. Nella versione monteverdiana, tutti e cinque si basano sulla tecnica tradizionale del cantus firmus, com’è dichiarato esplicitamente nel frontespizio; ciascuno di essi è basato su un tono salmodico, che viene ripetuto più volte, spesso alterato ritmicamente. A questo procedimento si sovrappone una ricca varietà di tecniche, comunemente impiegate nel primo Seicento. Nel primo salmo (Dixit Dominus), ad esempio, il cantus firmus è affidato al basso dell’organo, mentre nelle parti superiori passi a due e a tre voci si alternano a passaggi in falso- bordone (una sorta di recitazione accordale, tradizionalmente associata all’intonazione dei salmi vespertini). L’effetto complessivo è quello di una serie di variazioni strofiche. Il salmo successivo (Laudate puerì) è per doppio coro; si sviluppa pressappoco come un mottetto policorale alla maniera dei Gabrieli. Questa tecnica, tuttavia, non è impiegata da cima a fondo, come sarebbe stato se Monteverdi avesse seguito il modello veneziano alla lettera; dopo un climax, la musica sfocia in una serie di sezioni a due e a tre voci nelle quali, in genere, una voce intona la melodia gregoriana mentre le altre le intrecciano abbellimenti tutt’intorno. Nel terzo salmo, Laetatus sum, Monteverdi ricorre a una tecnica simile, tranne che qui conferisce al basso dell’organo un’importanza maggiore, facendone il fulcro della composizione molto più che nel Dixit Dominus. La caratteristica più notevole, ora, è di nuovo il contrasto tra le sezioni e i diversi stili di scrittura: da una parte passi a tre e a quattro voci, dall’altra sezioni nelle quali il falsobordone assume le forme di una semplice melodia gregoriana o è posto a fondamento di linee vocali riccamente fiorite. I due salmi restanti sono in uno stile più convenzionale, ma il secondo (Lauda Jerusalem Dominum) sembra costituire una sorta di climax dell’intero Vespro, forse anche il momento conclusivo; è tracciato sulla falsariga del tradizionale stile dialogico veneziano, con la costante alternanza tra due gruppi contrapposti, che danno una spinta propulsiva alla musica sinché tutte le forze si riuniscono in una trionfante perorazione finale.
Papa Paolo V – ritratto di Caravaggio
Tutto ciò è abbastanza convenzionale dal punto di vista dei procedimenti compositivi. Le tecniche del cantus firmus, impiegate in tutti e cinque i salmi, danno alla musica un certo grado di coerenza e di somiglianza stilistica, e anche i testi liturgici sono quelli d’uso comune; come le due versioni del Magnificat e l’inno Ave maris stella (anch’essi composti su melodie gregoriane), questi brani seguono esattamente l’ordine prescritto per i testi liturgici «in festis Beatae Mariae Virginis». In quanto tali, potevano essere eseguiti in qualunque festa in onore della Vergine, quali – per citare le più importanti – la Natività (8 settembre), l’Annunciazione (25 marzo) e l’Assunzione (15 agosto). La vera difficoltà inizia coi quattro mottetti a voci sole (si tratta dei sacri concerti che figurano, assieme alla Sonata, nel frontespizio), che nel volume si trovano tra i cinque salmi dei vespri. Si tratta, di fatto, dei primi brani pubblicati da Monteverdi nel nuovo stile monodico, messo a punto a Firenze da Caccini, dai suoi allievi e dai suoi colleghi alla fine del sedicesimo secolo e lanciato dalla fondamentale e fortunata raccolta di monodie cacciniane, Le nuove musiche del 1601. Una delle innovazioni cruciali, nei lavori monodici di Giulio Caccini, riguarda l’adozione del basso continuo, ciò che polarizza la musica tra le linee vocali e l’accompagnamento, in contrasto con l’eguale importanza di tutte le voci nella scrittura polifonica della prima prattica. Il nuovo stile aveva conosciuto un rapido successo: a partire dal primo decennio del diciassettesimo secolo dai torchi degli stampatori di musica, perlopiù veneziani, era uscita una certa quantità di libri di canti a una, due e tre voci. I quattro mottetti monteverdiani, dunque, vanno rapportati ai più recenti esempi di musica profana
Se questo, di per sé, è un elemento di novità, anche la scelta dei testi è insolita. Ad esempio l’unico mottetto a voce sola tra i sacri concerti, Nigra sum, mette in musica un passo ben noto e vagamente erotico del Cantico dei Cantici. La musica che riveste queste parole è un efficace esempio del nuovo stile: è musica appassionata, le cui caratteristiche melodiche sono determinate più dalla sonorità e dal senso delle parole che da un principio costruttivo astratto; la linea vocale si libra nell’aria e acquista rapidamente velocità in corrispondenza della narrazione, e i momenti più intensi sono sottolineati da dissonanze agrodolci e da ritardi. L’erotismo di Nigra sum perdura nel secondo mottetto, Pulchra es, anch’esso su un testo tratto dal Cantico dei Cantici, mentre per contrasto il mottetto successivo, Duo seraphim, evoca il mistero della Trinità. Anch’esso, tuttavia, impiega tecniche musicali del tutto profane, esattamente come il mottetto finale, Audi coelum, che impiega le tecniche d’eco allora in gran voga. E’ sicuramente a questi mottetti che si riferisce il frontespizio del Vespro, quando parla di brani «ad sacella sive principum cubicula accomodata». La serie dei salmi vespertini e dei mottetti è completata da quattro altri pezzi, tre dei quali sono liturgici e uno, la Sonata sopra Sancta Maria, lo è solo per metà, dal momento che le parole «Sancta Maria ora prò nobis» provengono dalla litania della Vergine Santissima.
Claudio Monteverdi
L’enorme varietà di forme e stili impiegati in questi brani, alcuni dei quali sono apertamente radicali nel contesto di una realizzazione tradizionale dei vespri, e il carattere non liturgico di alcuni testi dei mottetti a voci sole, sono già sufficienti per mettere in dubbio l’idea che Monteverdi considerasse il Vespro della Beata Vergine come un’opera da eseguire da cima a fondo. La successione dei salmi, del Magnificat e dell’inno, corretta dal punto di vista liturgico, non crea problemi, ma l’inserzione dei testi mottettistici porta chiaramente ad escludere che il Vespro sia un’opera da eseguire in un’unica occasione liturgica, per non dire in una festa mariana. Non esiste, di fatto, alcuna singola occasione in cui il Vespro possa essere eseguito nel rispetto del dettato liturgico, né all’interno del rito romano né in quello particolare adottato dalla basilica ducale di Santa Barbara. Ciò ha sollevato un problema, a lungo dibattuto (e in parte ancora irrisolto): l’opera monteverdiana è da considerarsi un’unità artistica e liturgica? Hans Ferdinand Redlich, che per primo, nel 1935, riportò in vita il Vespro rendendolo disponibile agli esecutori moderni, lo considerava una raccolta di brani destinata più che altro alla pubblicazione, e indirizzata più al papa che a qualche coro ecclesiastico. Alcuni decenni dopo, un altro musicologo spesso coinvolto nelle esecuzioni del Vespro, Denis Stevens, escluse dalla propria edizione i mottetti a voci sole e la Sonata sopra Sancta Maria, nella convinzione ch’essi fossero estranei alla liturgia e non facessero dunque parte dell’opera originariamente concepita; suggerì di impiegare, al loro posto, antifone gregoriane. In tempi più recenti Gottfried Wolters ha incluso nella sua edizione sia i mottetti che la Sonata, aggiungendovi però anche antifone gregoriane.
Negli ultimi decenni sono state avanzate varie ipotesi per spiegare la particolarità liturgica del Vespro monteverdiano, partendo dal presupposto che si tratti di un’opera singola e coerente, governata da una forte logica unitaria. Questa tesi, sostenuta per la prima volta da Leo Schrade, trae vigore dal fatto che non si può presumere che nella prassi religiosa dell’epoca l’aspetto liturgico e quello musicale coincidessero. In altri termini, era sufficiente che il testo liturgico corretto venisse recitato dal celebrante perché le regole fossero rispettate. E’ sicuramente vero che sostituzioni vocali, o anche strumentali, del testo corretto erano in uso nell’Italia del primo Seicento, anche se non approvate ufficialmente dalla Chiesa; lo dimostrano la frequenza con cui le autorità intervenivano a proibirle e le descrizioni di messe che diventavano, a volte, dei veri e propri concerti. Secondo questa interpretazione, sia i mottetti sia la Sonata sopra Sancta Maria possono essere considerati sostitutivi delle antifone, da eseguire mentre il testo corretto dell’antifona veniva recitato sottovoce dal celebrante, il ministro consacrato e autorizzato a celebrare la liturgia; di conseguenza il Vespro sarebbe stato considerato, all’epoca, come un possibile accompagnamento musicale per una delle feste mariane dell’anno liturgico nelle quali erano richiesti vespri solenni.
E’ difficile credere, tuttavia, che qualche istituzione nell’Italia del primo Seicento avrebbe fatto molto di più che usare l’edizione di Amadino per attingervi un brano o due, o al massimo le cinque versioni musicali dei salmi. Dopo tutto, la composizione monteverdiana è concepita su una scala molto ampia per l’epoca, e richiede un gran numero di esecutori virtuosi, che ben poche istituzioni sarebbero state in grado di mettere assieme. Consideriamo per un momento i procedimenti e le esigenze richieste dalla Sonata sopra Sancta Maria. Un frammento gregoriano («Sancta Maria, ora pro nobis») è intonato undici volte, sulla melodia impiegata per la Litania dei Santi, mentre intorno ad esso un complesso strumentale suona un’intera canzona francese, con i ritmi stereotipi e il da capo che ne costituiscono il marchio distintivo. Sebbene questo procedimento, o qualcosa che gli assomiglia molto, fosse stato sperimentato in precedenza da Arcangelo Crotti, un compositore minore attivo nei pressi di Ferrara, in mano a Monteverdi l’idea si trasforma da un’impresa di poco conto in quella che è una delle opere strumentali più ampie ed elaborate di quel tempo. L’organico strumentale, per l’epoca, è formidabile: due cornetti (che richiedono strumentisti virtuosi), due violini (che richiedono identiche qualità), quattro tromboni e un suonatore per il continuo (probabilmente un organista). Il brano inizia in modo abbastanza convenzionale, con i cornetti e i violini che si rilanciano la melodia.
John Eliot Gardiner
Muta il metro da binario in ternario, come fa la musica di danza dell’epoca; ma poi interviene una serie sorprendente di eventi, non appena prende avvio una sfilza di passaggi virtuosistici, finché ritorna la musica dell’inizio, con l’aggiunta delle voci per le due enunciazioni finali del canto. Fra la musica precedente di Monteverdi, quella che più si avvicina a questa si trova in certe parti dell’Orfeo (le coppie di ritornelli strumentali, ad esempio, ricordano molto da vicino quelli della grande aria «Possente spirto», il centro spirituale e letterale dell’opera); la complessa scrittura virtuosistica può esser stata conseguenza della presenza a Mantova di musicisti particolari, forse gli stessi che avevano interpretato l’Orfeo (i legami con l’opera teatrale sono ancora più espliciti nel responsorio iniziale, che incorpora la toccata posta all’inizio dell’Orfeo).
Da ultimo, è difficile respingere l’idea che il Vespro di Monteverdi sia stato concepito come un’opera singola tenuta assieme da una logica unitaria che si esprime, in ogni momento, nell’uso di un cantus firmus. La natura non liturgica dei mottetti non costituisce quella grande difficoltà che gli studiosi hanno immaginato; dal momento che le antìfone cambiavano da una festa all’altra, darne una versione polifonica per una festa determinata avrebbe conferito all’opera un carattere troppo specifico. Monteverdi, in pratica, era probabilmente guidato più dal desiderio di fare impressione su papa Paolo V che da altre considerazioni; la raccolta dovrebbe essere considerata in primo luogo come l’elaborazione musicale di un grandioso rito mariano, scritta da un compositore legato a una grande corte principesca e dedicata al papa nella speranza di procurarsi un mecenate. In questo contesto la presenza dei mottetti – che come avverte il frontespizio sono «adatti alle camere dei principi» – serve a dimostrare il talento del compositore in uno stile diverso, quello del canto monodico del primo Seicento, oltre alle capacità già esibite altrove, nella Messa e nelle altre partì del Vespro. Le cose cambieranno: Monteverdi lascerà Mantova pochi anni dopo aver pubblicato il Vespro della Beata Vergine, ma
non per Roma bensì per Venezia, dove assumerà la carica di maestro di cappella della Basilica di San Marco. Il resto, come si suol dire, è storia.