Niccolò Paganini
Concerti per violino e orchestra n. 3 & 4
Paganini scrisse sei concerti per violino, di cui il più famoso è il secondo, che contiene la melodia conosciuta come “La Campanella” usata come base dell’ultimo movimento. Il primo concerto è spesso accoppiato con il secondo, mentre gli ultimi 4 spartiti, pur mantenendo pressappoco la stessa struttura formale dei precedenti, sono meno conosciuti.
Tutti i concerti seguono lo stesso schema con un movimento lirico sostenuto e ampio, affiancato da movimenti successivi di notevole brillantezza ed enormi difficoltà tecniche . L’accompagnamento orchestrale di quest’ultimi è più marcato. Una curiosità: l’ultimo movimento del quarto concerto contiene alcune battute molto simili al secondo concerto “ La Campanella”. Registrazione eseguita nel 1975 e rimasterizzazione effettuata nel 1988. Audio ottimo. Imperdibile!
Paganini: Concerti per violino e orchestra nn. 3 & 4
Molto ammirato e altrettanto criticato, Paganini ha diviso i melomani del suo
tempo in due opposte fazioni: per gli uni, tra cui Robert Schumann, egli rappresentava la “chiave di volta del virtuosismo”, per gli altri, e Goethe fra questi, era come se “a questa colonna di fiamme e di nembi, mancasse “una base”.
E se la constatazione di Schumann era giusta, d’altro canto anche la sensazione di Goethe è quanto meno comprensibile. In realtà entrambe le affermazioni sono caratteristiche di due modi diversi di ascoltare la musica e di recepirla. Paganini, stando a quanto raccontava Louis Spohr circa un colloquio avuto con il violinista, era ben consapevole sia di queste differenze che della propria posizione. Egli infatti suonava i suoi pezzi virtuosistici per il grande pubblico e non per gli esperti: è vero che tra questi metteva anche se stesso, tuttavia le sue composizioni concertistiche non erano affatto destinate a loro.
In circoli più stretti, al contrario, Paganini era solito eseguire con grande entusiasmo i Quartetti di Beethoven, inclusi gli ultimi, che all’epoca erano considerati di assai difficile comprensione.
Oltre a ciò nutriva un amore particolare per la musica vocale antica, in special modo per le opere di Palestrina, ed era dotato anche di un acutissimo senso critico per la musica. Ma tutto ciò non gli impedì affatto di girare in lungo e largo l’Europa mettendo in mostra in modo spettacolare il proprio violinismo trascendentale.
D’altro lato Paganini riusciva ad affascinare il pubblico grazie anche al suo modo così espressivo di suonare sulla corda di sol, la corda più grave e più sonora, e grazie ancora alla sua capacità di arricchire i pezzi cantabili di infinite sfumature espressive.
Dei Concerti per violino composti da Paganini ne sono noti oggi sei. La sua paura di essere imitato da altri violinisti raggiungeva dei livelli maniacali; per questo non solo ha sempre impedito che i suoi Concerti fossero dati alle stampe, ma era solito addirittura consegnare le parti strumentali all’orchestra solo un attimo prima dell’inizio delle prove, riprendendosi poi il materiale non appena il concerto era finito. Con questo suo atteggiamento, però, era anche costretto a scrivere parti orchestrali che non superassero un certo livello di difficoltà tecnica.
I Concerti per violino e orchestra n. 3 e n. 4 hanno entrambi un’analoga struttura formale nel primo movimento, nonostante siano profondamente differenti nel loro carattere e configurazione.
L’esposizione viene affidata per intero all’orchestra e risulta piuttosto estesa per via della ripetizione del tema iniziale dopo il gruppo tematico conclusivo: per il numero di battute l’esposizione occupa più di un quarto dell’intero movimento. Ad essa fanno seguito due parti solistiche, anch’esse di grosse dimensioni, separate tra loro da un ritornello relativamente breve del “tutti”.
Questo ritornello verrà poi ripetuto altre due volte (prima e dopo la cadenza del
violino solista) e nei due Concerti presenta addirittura tratti stilistici simili.
Il Concerto n. 3 in mi maggiore fu composto da Paganini nel 1826 in Italia, ma con il pensiero già rivolto al viaggio che doveva fare nel 1828 in Europa. La prima esecuzione di cui ci è giunta notizia certa è stata quella di Vienna, prima tappa della sua tournée europea, anche se è assai verosimile che egli avesse già “provato” il Concerto in Italia nel 1827.
Il carattere di marcia dei temi del primo movimento viene già annunciato dall’indicazione di tempo; tuttavia Paganini riesce ad evitare toni troppo rigidamente “marziali”. Egli scrive piuttosto una musica lieve, di trasparenza rossiniana, nella quale assai di frequente ci si imbatte nell’indicazione d’espressione “dolce” e che – a nostro avviso – non è immediatamente associabile all’idea di un “Allegro marziale”.
Altrettanto inconsueto è il considerevole organico orchestrale, in cui sono inclusi ben tre tromboni e una tuba, ma in cui gli ottoni non vengono mai sfruttati nelle loro specifiche qualità timbriche; Paganini ne fa uso unicamente per dare al “tutti” – che del resto non ha mai una grande compattezza o densità sonora – un proprio colore distintivo.
Mentre il movimento lento in la maggiore deve essere eseguito in modo semplice e naturale (“spianato”), il Rondò finale fa sfoggio di una tecnica violinistica “demoniaca” che però a tratti appare piuttosto fine a se stessa. Il primo couplet inizia con un motivo che, con passaggi d’ottave, viene portato fino al registro sopracuto del violino; poi è la volta di passaggi veloci in pizzicato della mano sinistra e di passaggi per terze sui suoni flautati nel registro acuto; infine al violino solista è anche affidata una melodia con simultaneo accompagnamento di un tremolo.
Il Concerto n. 4 fu scritto nell’inverno del 1829/30 e probabilmente fu eseguito per la prima volta in 26 aprile 1830 a Francoforte sul Meno. Nonostante Paganini rinunci qui a far uso della tuba, il timbro orchestrale risulta meno leggero che nel Concerto n. 3. Inoltre, nella configurazione delle parti orchestrali l’autore si avvicina alla tecnica di strumentazione tedesca: la scrittura orchestrale infatti risulta assai più variegata e non di rado capita anche che singole famiglie di strumenti assumono una propria autonomia individuale.
Nel tema iniziale Paganini sembra quasi riprendere quei toni patetici e combattivi tipici, e a loro modo esemplari, di alcune composizioni in re minore di Mozart e di Beethoven. L’Adagio in fa diesis minore fa pensare invece ad una scena d’opera di Donizetti: i tromboni in particolar modo danno a questo canto doloroso, nel cui accompagnamento è imitato il suono delle arpe, un’espressione di cupa e fatale mestizia.
Il Rondò finale è un Andantino dal carattere gioviale (“gaio”); il suo tema in 6/8, in modo minore e dai toni zigani, ha un suo fascino tutto particolare grazie agli accenti vivaci del triangolo.
Niccolò Paganini
E sembra quasi che Paganini volesse qui rifarsi alla “Campanella” (l’ultimo movimento del Concerto per violino e orchestra n. 2), che aveva riscosso un
enorme successo e che nel suo carattere rivela appunto forti analogie con questo Rondò.
Hans-Gunter Klein (traduzione: Marco Marica)
Concerto n. 4 in re minore per violino e orchestra
È nel 1828 che Niccolò Paganini, al culmine della sua carriera di concertista, abbandona l’Italia per impegnarsi in una tournée europea che lo terrà distante complessivamente per oltre sei anni dalla penisola. Nel 1828 il violinista si esibì a Vienna, Praga e Varsavia; e qui trovò fra il pubblico uno Chopin diciannovenne, che si affrettò a scrivere il Souvenir de Paganini. In seguito compì un giro in Germania, per essere acclamato negli anni successivi ancora a Parigi e in Inghilterra. La tournée europea di quegli anni non solo sottopose il violinista-compositore a una faticosissima pianificazione di impegni, ma rese anche necessario l’ampliamento del suo repertorio. In questa prospettiva si spiega la stesura di un nuovo Concerto, il Quarto, da usarsi nelle “accademie” pubbliche e private come preziosa variante rispetto ai precedenti. Nel febbraio 1830 Paganini poteva annunciare da Francoforte, in una lettera a un amico genovese, il completamento della partitura, eseguita il 26 aprile nella stessa città, con il consueto trionfo (va ricordato che nel nostro secolo il Concerto fu riproposto solamente nel 1957 da Arthur Grumiaux, che ne mise insieme la parte solistica e quella orchestrale, tramandata separatamente). Una esibizione di due settimane prima doveva lasciare un’impressione indelebile sul giovane Robert Schumann. Quest’ultimo dato è, in un certo senso, emblematico dell’influenza dell’arte di Paganini; per la giovane generazione romantica – per Schumann, ma anche per Liszt e Chopin – Paganini si proponeva come un modello da emulare; la continua tensione verso il superamento dei limiti tecnici appariva come una lezione di affermazione prepotentemente individualistica della personalità – e in questo risiede il significato altìssimo del suo virtuosismo, oggi fortunatamente non più inteso nell’accezione culturalmente riduttiva di tempi non ancora lontani. Eppure, accanto all’anima romantica e rivoluzionaria, l’arte di Paganini ne ha una classicistica e tradizionalista, che si traduce in un retaggio artigianale ancora legato ad una prassi in qualche modo settecentesca. Non a caso i suoi sei Concerti rimangono saldamente ancorati alla dialettica del Concerto classico, accogliendo ingenti suggestioni operistiche, soprattutto rossiniane.
Nel caso del Quarto Concerto è probabile che il contatto con la prassi musicale tedesca, che poteva vantare orchestre di qualità, stimolasse il compositore a curare con particolare attenzione la veste orchestrale, che si avvale di un certo spessore sonoro e di una sicura varietà nell’alternanza delle famiglie strumentali. Protagonista, comunque, è ovviamente il violino, che non esibisce mai un virtuosismo puro e fine a se stesso. Anzi, la natura del violino di Paganini, in questo Concerto come altrove, è dualistica. Da una parte troviamo l’espressione cantabile, elegiaca, affidata a una melodiosità pura e lirica; dall’altra parte invece il solista fa ricorso alle mirabolanti trovate destinate a stupire le platee europee, ma questi ultimi momenti sono convogliati in sezioni ben definite della partitura, in modo da acuire la tensione espressiva prima del ritorno, liberatorio, dei temi principali. La predominanza del solista ha anche un’altra conseguenza sull’organizzazione formale della partitura. Infatti, piuttosto che seguire i procedimenti tipici della scrittura di scuola tedesca, basati sulla elaborazione di pochi temi di base, Paganini preferisce basarsi su una logica paratattica, ovvero sulla successione e sull’avvicendamento di numerosissime melodie. Da questo deriva la straordinaria piacevolezza melodica del Concerto, frutto non di banalità creativa – come pure a lungo si è sostenuto rispetto all’invenzione del compositore – bensì di un preciso calcolo sugli effetti di tensione e compiacimento da ottenersi sull’ascoltatore.
L’Allegro maestoso che apre il Concerto comprende una vasta introduzione orchestrale, due episodi del violino, e una cadenza; ciascuno dei momenti solistici è preceduto e seguito da nuovi interventi dei “tutti”. Il movimento si apre con una frase scattante dei violini, accompagnata in contrattempo da “colpi” orchestrali; il secondo tema è una variante della prima idea che si presenta in maggiore con un aspetto lirico, nonché affidato ai fiati; un ponte, chiuso sempre da pizzicati, lascia il posto a una nuova enunciazione del primo tema, e poi alla coda. Già nel primo intervento del solista troviamo l’alternanza fra le due fisionomie del violino di Paganini, quella intimistica e quella volitiva, che si alternano compiutamente e con equilibrio per tutto il movimento; lo sviluppo include nuovo materiale tematico, mentre la riesposizione è abbreviata e omette il primo tema. In mancanza dell’originale, la cadenza viene fornita dall’interprete.
Il secondo tempo è un Adagio flebile con sentimento che, in un elenco manoscritto di pezzi da stamparsi, fu affiancato dall’autore col disegno di un cuoricino; segno che questo movimento ha qualche sotterranea relazione con un legame sentimentale del violinista, intrecciato con la baronessa Helene von Feuerbach. Sebbene aperto con una severità degna della Marcia funebre dell”‘Eroica” di Beethoven, questo Adagio è pervaso da un fraseggio levigato e sentimentale, ed è tutto incentrato su una atmosfera elegiaca, che certo deve più di un dettaglio alla celebre preghiera di Maometto Secondo (1820) e Assedio di Corinto (1826) di Rossini. Si tratta di un semplice Lied, con due sezioni gemelle inframezzate da una distensiva sezione in maggiore.
Charles Dutoit
Il finale, (Rondò galante. Andantino gaio), il tempo più virtuosistico, è una sorta di remake della celebre “Campanella” del Concerto n. 2 con la presenza di un triangolo che si fa udire insistentemente sul refrain, un tema in 6/8 di ascendenza tzigana. Questo refrain oscilla fra il modo minore e quello maggiore, e viene alternato con due episodi assai differenti; non mancano le risorse prodigiose del violino, come l’episodio basato sugli armonici “doppi” alternati con passaggi in “saltato”; un effetto seducente, prima dell’ultima ripresa del refrain.