Rachmaninov Sergej
Piano Concertos 1 – 4
Due fantastici interpreti eseguono quattro splendidi spartiti di questo eclettico compositore. Registrazione eseguita nel 1972 e rimasterizzazione effettuata nel 1995. Audio ottimo. Altamente raccomandato.
Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in fa diesis minore op. 1
Il Concerto n. 1 in fa diesis minore per pianoforte e orchestra di Rachmaninoff, è la prima pagina che il musicista, all’epoca solo diciottenne ma già autore di diverse composizioni, ritenne degna, su suggerimento dell’editore Gutheil, di licenziare come opus 1 del proprio catalogo. In realtà, a ripercorrerne la genesi, del tutto giovanile questo Concerto non lo si può veramente considerare. Nel 1890, ancora allievo al Conservatorio di Mosca, Rachmaninoff compose il primo tempo, che venne eseguito in una specie di saggio scolastico a Mosca nel marzo 1892, solista lui stesso, direttore Vasilij Safonov. Nel frattempo aveva completato la partitura scrivendo i due movimenti mancanti. La prima esecuzione completa si ebbe a Londra solo il 4 ottobre 1899. Fin qui tutto bene.
È la nascita, un tempo alla volta, di un’opera nella quale l’esordiente compositore intende esprimere gratitudine e rendere omaggio da un lato al maestro più diretto, quell’Aleksandr Siloti che è stato suo insegnante di pianoforte e tanta parte avrà nel divulgare la sua produzione pianistica; dall’altro ai maestri ideali, coloro i quali hanno ispirato il suo stile, Rimskij- Korsakov e Cajkovskij più di tutti.
Nel 1917, poco prima di fuggire dalla Russia della Rivoluzione d’ottobre, dove non farà mai più ritorno, Rachmaninoff aveva deciso però di sottoporre il suo op. 1 ad ampia revisione. La partitura viaggiò con lui in America e venne modificata, lievemente il primo tempo, radicalmente il secondo e il terzo, e riveduta completamente nell’orchestrazione. E in questa definitiva veste, che è quella normalmente eseguita nelle sale da concerto, il Concerto ricevette il battesimo esecutivo a New York, il 29 gennaio 1919, diretto da Modest Altschuler, solista l’autore.
All’epoca della revisione, che lo impegnò dal ’17 al ’19, Rachmaninoff aveva già licenziato gli assai più conosciuti Secondo e Terzo Concerto per pianoforte e orchestra, la Prima e la Seconda Sinfonia, oltre a pagine sinfoniche come la stessa Isola dei morti. Dominava ben altrimenti la tecnica dell’orchestrazione e aveva acquisito quella consapevolezza del proprio stile e della propria personalità che non poteva ancora avere a 17-18 anni. Aveva inoltre superato quella profonda crisi creativa subita all’indomani del fiasco della Sinfonia n. 1 (1895), da cui si era ripreso grazie a opportune sedute di ipnosi e a un ripensamento radicale del proprio stile. Il confronto tra le due versioni del Concerto n. 1 è eloquente in tal senso. La concezione dell’armonia è molto più moderna. Valga ad esempio la trasformazione di una sezione del terzo tempo dalla originaria tonalità di re maggiore, assai più vicina a quella d’impianto fa diesis minore, a quella, lontanissima, di mi bemolle maggiore: indice, questo, della propensione a non sacrificare la logica pianistica e coloristica del suo pensiero sull’altare di un uso dell’armonia funzionale all’architettura formale, come la tradizione suggeriva.
A proposito di architettura formale, quello che colpisce del Concerto n. 1 è proprio la sostanziale estraneità alla prassi. Certo, i tempi sono tre, lento il secondo tra due veloci che possiedono un grado alquanto elevato di virtuosismo. Ma la costruzione è solo vagamente legata alle griglie della forma- sonata, se è vero che ognuno dei tre tempi risulta costruito mediante successione di segmenti diversi per tempo, colore ed espressione, uniti però dalle sostanziali affinità dei motivi che costituiscono l’ossatura tematica del lavoro: una forma che solo superficialmente si può definire rapsodica, dal momento che tutto il materiale del Concerto prende vita dallo sfruttamento di due tetracordi compresi nello spazio di un intervallo di quarta eccedente/quinta diminuita. In luogo del tradizionale sviluppo, il Concerto esibisce una continua modificazione, variante per variante, di tale materiale, come “nascosta” dal virtuosismo funambolico della parte solistica e dalla densità della parte orchestrale che si alternano, qui sì tradizionalmente, nella conduzione del discorso.
Privo di temi portanti che abbiano una forte connotazione espressiva – e di qui la scarsa fortuna di questa pagina a confronto con quella delle due opere congeneri successive – il Concerto n. 1 è paradossalmente il più oggettivo e astratto tra i quattro Concerti per pianoforte e orchestra dell’autore, il più asciutto emotivamente e il più complesso, oltre che il più estraneo a quell’estetica che anni dopo dettò allo stesso Rachmaninoff la celebre dichiarazione secondo cui: «La musica deve esprimere il paese di nascita del compositore, i suoi amori, la sua religiosità, i libri che l’hanno influenzato, le pitture che ama; la somma delle sue esperienze».
Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 in do minore op. 18
Rachmaninov è una delle ultime espressioni e incarnazioni della figura del concertista-compositore dell’epoca tardo-romantica, secondo la tradizione di un Liszt e di un Busoni, e si può dire che il suo nome sia legato più alla sua attività di interprete, di direttore d’orchestra e soprattutto di pianista che non a quella di autore e creatore di musica, anche se la sua produzione è abbastanza rilevante e comprende tre lavori teatrali (tra cui il più noto è Aleko), due oratori, tre sinfonie, diversi poemi sinfonici, un numero stragrande di liriche vocali e quattro concerti per pianoforte e orchestra. Rachmaninov, infatti, fu un formidabile virtuoso della tastiera e riversò principalmente nelle composizioni per pianoforte tutto il suo mondo espressivo e il suo temperamento solitario e introverso, incurante e quasi sprezzante verso tutto ciò che di nuovo fermentava nel mondo musicale nel periodo compreso tra la prima e la seconda guerra mondiale. Non è mancato tra i musicologi chi ha sostenuto, fra l’altro, che Rachmaninov decise nel 1918 di stabilirsi definitivamente negli Stati Uniti perché la sua natura eclettica e fortemente individualista si sentiva più vicina all’arte occidentale e internazionale che non a quella più propriamente russa. È vero che egli ebbe sempre un atteggiamento distaccato e a volte polemico nei confronti del gruppo dei Cinque e in particolar modo di Musorgskij, ma non si può negare che anche l’arte di Rachmaninov, che subì l’influsso della musica di Cajkovskij, il quale aveva preconizzato all’illustre pianista quando era ragazzo un brillante avvenire, riveli il segno di un russismo popolare e folklorico, contraddistinto da una sensazione di struggente malinconia e di intima tristezza per i sentimenti e le cose che si dissolvono con il mutare del tempo.
Vladimir Ashkenazy
Del resto la fortuna di Rachmaninov, anche se ha subito delle oscillazioni, non è mai tramontata in URSS ed oggi si assiste in questo paese ad un processo di rivalutazione e di riabilitazione del grande pianista e le sue composizioni
vengono pubblicate in edizioni critiche ed eseguite spesso nelle sale da concerto.
Nella produzione di Rachmaninov il Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra è uno dei pezzi più eseguiti dai pianisti per le caratteristiche della scrittura solistica, tecnicamente brillante e ricca di intenso lirismo. Il pianoforte ha un ruolo preminente rispetto all’orchestra concepita quasi sempre in forma di accompagnamento e contrapposta allo strumento solista in un gioco di luci dosato secondo un raffinato gusto delle sonorità. Del resto lo stesso Rachmaninov in una intervista rilasciata nel 1923 alla rivista americana “The Etude”, che da molti anni ha cessato le pubblicazioni, espresse la sua convinzione che i pezzi scritti per pianoforte dovessero essere, ubbidendo ad una tipica espressione tedesca, “Klaviermässig”, cioè avere delle qualità inconfondibilmente pianistiche e scorrere con facilità e naturalezza sotto le dita, così come avviene per i concerti pianistici di Cajkovskij.
Il Concerto n. 2 fu scritto nel 1901 e dedicato al dottor Dahl, un medico psicanalista che aveva curato il compositore colpito un anno prima da una forte crisi depressiva. Venne eseguito per la prima volta a Mosca nel dicembre dello stesso anno sotto la direzione d’orchestra di Alexandr Siloti e con Rachmaninov al pianoforte. Il Concerto venne poi presentato a Londra e nella celebre Gewandhaus di Lipsia, entrando a far parte del repertorio dei più acclamati pianisti. Esso è nella struttura tradizionale in tre tempi e il primo movimento (Moderato) si apre con una breve introduzione su grandi accordi alternati ad un rintocco di un fa basso e profondo. Subentra un secondo tema più disteso in contrasto con il primo, così da determinare una dialettica di indubbio effetto emotivo. L’Adagio del secondo movimento è una pagina di straordinaria suggestione melodica per quel soffio di romanticismo lunare in cui è immersa. È diviso in tre parti: esposizione, sviluppo con una magnifica cadenza del pianoforte, e ripresa in modo cantabile.
L’Allegro scherzando è agile e spigliato, alternando momenti giocosi ad altri più malinconici ed introversi, con un richiamo ad uno dei temi del primo movimento, anche se ben più famoso è il secondo tema sfociante alla fine nella luminosa tonalità di do maggiore.
Concerto per pianoforte e orchestra n. 3 in re minore op. 30
La sopravvivenza della figura di Rachmaninov compositore si affida oggi soprattutto a tre dei quattro Concerti per pianoforte e orchestra da lui composti. Quasi scomparso dal repertorio il Primo (1892), pagina giovanile, considerata in genere quasi come un’opera di apprendistato, il Secondo (1901), il Terzo (1909) e il Quarto (1927) sono invece cavalli di battaglia favoriti di molti fra i non moltissimi pianisti che si possano permettere di affrontarli con lo smalto virtuosistico che la loro scrittura strumentale imprescindibilmente richiede e con la potenza e incisività di suono necessaria a far risaltare con il dovuto rilievo la parte solistica nel contesto di un sinfonismo vigoroso e denso, dove il ruolo dell’orchestra è troppo importante e impegnativo per poter essere considerato come uno sfondo o un docile sostegno accompagnante. Pianista leggendario, fra i più celebrati della prima metà del Novecento per il formidabile virtuosismo e la straordinaria potenza della comunicazione espressiva, Rachmaninov non volle mai essere, e non fu, un funambolo della tastiera che si scrivesse da sé la musica che meglio gli consentiva di sfoggiare le sue prodigiose attitudini strumentali; o per lo meno non volle essere soltanto questo. Certamente, le pagine pianistiche di Rachmaninov recano l’impronta delle doti di esecutore di chi le compose, della sua conoscenza dello strumento; certamente esse nacquero anche perché Rachmaninov intendeva eseguirle, e con esse riscuotere i successi trionfali che gli erano soliti. Ma il solo fatto che in un’esistenza primariamente dedicata al concertismo come la sua vi fosse spazio per un’attività compositiva intensissima basta a far comprendere come questa costituisse per Rachmaninov una vocazione autentica e vigorosa, e non un semplice supporto alla sua carriera di divo del pianoforte; ciò che più conta, le composizioni di Rachmaninov furono solo in parte dedicate al suo strumento: in esse è riflesso anche il suo vivissimo interesse per il teatro e per il sinfonismo, campi da lui a lungo coltivati anche come direttore d’orchestra. Non è forse un caso che a salvarsi dall’oscurità in cui sono piombate le opere teatrali, quasi tutta la produzione pianistica, e le Sinfonie di Rachmaninov siano stati appunto i Concerti, nei quali la personalità di Rachmaninov sinfonista e quella del virtuoso-compositore di musica per pianoforte convivono in sintesi perfettamente paritetica, senza che l’un aspetto indebolisca la credibilità dell’altro.
Il Concerto per pianoforte e orchestra di derivazione ottocentesca trovò in Rachmaninov l’unico attendibile continuatore in pieno Novecento. I modelli ideali dei suoi Concerti sono, prevedibilmente, Ciaikovski e Liszt: e forse più il primo che non il secondo, con il quale l’affinità è data soprattutto dalla inesausta ricerca di un pianismo trascendentale fuso in una dimensione sinfonica di pari dignità, laddove a Ciaikovski Rachmaninov sembra rifarsi nel gusto per la decorazione che viene a relativamente rinnovare una struttura sostanzialmente classica della forma, nella quale si insinuano intensi assunti psicologizzanti, un pathos e una esasperata espressività che costituiscono il complemento «volto all’indietro» della sensibilità dell’altro grande – e «progressivo» -, maestro del Decadentismo russo a cavallo fra i due secoli, Alexander Scriabin.
André Previn
Ne nasce un tipo di composizione in ogni senso fastosa, dove un pianoforte scatenato nelle sfide più spericolate del virtuosismo, sfruttato in tutto il potenziale fonico e timbrico insito nella sua natura (dal giuoco dei registri acuti ai carnosi accordi nei gravi, dallo scatto ritmico all’ondeggiante trascolorare di scale e arpeggi su e giù per la tastiera, dalla cantabilità tesa e vibrante allo spleen dei ristagni melodici) dialoga con una tavolozza orchestrale volta a volta densa e scintillante, greve o vivace, distesa a pennellate generose entro un disegno costruttivo non particolarmente originale, ma sempre robusto e organico. Il tutto impiegando vocaboli melodici, armonici e ritmici tradizionali, appena spolverati di una modernità abbastanza blanda da garantire incondizionato gradimento da parte del pubblico più tranquillo. Donde la grandissima fortuna che i Concerti di Rachmaninov hanno incontrato – e incontrano tuttora – presso le grandi folle, specialmente nel consumo di civiltà musicali a vario titolo restie a identificare le sorti della musica del Novecento con le avanguardie storiche: beniamino dell’industria discografica americana per decenni, Rachmaninov gode tuttora di alta considerazione nella sua terra d’origine; e Lenin non esitava a dichiararlo il suo musicista preferito. Un dato, questo, che di per sé rende definitiva la sua collocazione storica fra gli epigoni del tardo Romanticismo, e condiziona non poco la valutazione della sua statura artistica; ma che non deve impedire di concedere diritto di cittadinanza alle sue opere più riuscite.
Fra le quali è certo il Terzo concerto per pianoforte e orchestra. Composto subito prima della partenza di Rachmaninov per la prima tournée americana, il Terzo concerto venne eseguito dall’autore a New York – sul podio era Walter Damrosch – nel novembre del 1909: durante la traversata in piroscafo, Rachmaninov si era studiato il nuovo Concerto, prescelto a farlo conoscere al pubblico di quello che pochi anni dopo sarebbe divenuto il suo paese, esercitandosi su una tastiera muta. Meno noto ed eseguito, oggi, rispetto al famosissimo Secondo o al Quarto, questo Concerto non appare tutto sommato molto inferiore a essi, né molto diverso. Il primo tempo, di fattura tradizionale, si basa su due temi: il primo è esposto in apertura dai fiati, ed è di carattere doloroso, quasi cupo; l’altro, più distesamente lirico. Prima della ripresa, la cadenza dello strumento solista, grandiosa e asperrima secondo i canoni di un virtuosismo trascendentale di stampo lisztiano. Intitolato «Intermezzo», l’Adagio centrale configura un momento di riflessione, interrotto da episodi appassionati e anche drammatici, con le sillabazioni – quasi recitativi – del pianoforte solista. Senza interruzione questo movimento trapassa nel Finale, un brano agitato e brillante al tempo stesso, tematicamente riallacciato all’Allegro iniziale, e dove al pianoforte solista è ancora una volta richiesto uno scatenato e atletico impegno virtuosistico.
Concerto per pianoforte e orchestra n. 4 in sol minore op. 40
A differenza del Concerto di Ravel, che s’impose subito all’attenzione e riscosse dappertutto un successo unanime, il Quarto concerto per pianoforte di Rachmaninov ebbe una vita molto più travagliata. Il compositore russo iniziò ad applicarvisi nel 1925 e lo terminò nell’agosto dell’anno successivo (ma v’è ragione di credere che il Concerto sia stato concepito già nel 1913-14; infatti è notevole la somiglianza melodica e stilistica con altre opere di quel periodo, in particolare con la seconda Sonata per pianoforte). La prima esecuzione pubblica ebbe luogo il 18 marzo 1927 a Filadelfia, con Rachmaninov al pianoforte e Stokovsky sul podio; seguirono altre esecuzioni a Washington e a Baltimora. La critica fu unanime e severa: i più parlarono di un lavoro fuori della storia, di un «relitto del XIX secolo»; ci fu chi si spinse a definire il Concerto un’opera «prolissa, noiosa, insignificante, in certe parti di cattivo gusto». Nell’estate successiva, Rachmaninov riprese il Concerto per sottoporlo a revisioni importanti: ne ridusse considerevolmente le proporzioni e riscrisse alcune parti per intero. Lo propose al pubblico in questa nuova versione, prima a Londra nel novembre del 1929, poi in altre città europee; ma ancora una volta l’accoglienza fu tiepida, e il compositore decise di rinunciare definitivamente a eseguirlo. Non del tutto persuaso, tuttavia, verso la fine degli anni Trenta progettò di
rimettervi mano ancora, convinto che i problemi stessero soprattutto nella debolezza strutturale del terzo movimento; si mise all’opera nel 1941: spinse ancor più a fondo la revisione del 1927, fece altri tagli, rivide l’orchestrazione e certi particolari della scrittura pianistica. Ma invano: il Concerto, eseguito in America in quest’ultima versione, fu accolto ancora una volta freddamente.
Le reazioni critiche al Quarto concerto di Rachmaninov sono facilmente comprensibili: negli anni Venti del Novecento, e ancor più nei decenni successivi, lo stile eloquente e melodico del compositore russo e l’impianto classicista della sua musica si esponevano facilmente all’accusa di inattualità. Sono Cajkovskij e il concerto solistico ottocentesco, infatti, i modelli cui guarda Rachmaninov, che così facendo si pone coscientemente al di fuori del suo tempo. Un altro fattore che dovette forse disorientare il pubblico fu la mancanza di quell’opposizione drammatica tra solista e orchestra che caratterizzava i precedenti concerti di Rachmaninov: qui invece la scrittura è prevalentemente concertante, il pianoforte intesse un dialogo costante con gli altri strumenti. Se quest’opera è definitivamente tornata a frequentare le sale da concerto, lo si deve soprattutto alla magistrale interpretazione di Benedetti Michelangeli, che ne ha messo in luce la profonda originalità e ne ha pienamente valorizzato la bellezza.
Il Quarto concerto, pur soffrendo di una certa disuguaglianza, vanta parecchi momenti di ispirazione autentica. Dalla ricca vena melodica di Rachmaninov le idee sgorgano copiose e accattivanti. I temi hanno in gran parte un’identica struttura «ad arco»: presentano cioè una lenta fase d’insorgenza, raggiungono il culmine e discendono gradualmente, ciò che dà loro il respiro di un’ampia campata. Il tema principale del primo movimento (Allegro vivace), che segue il breve crescendo dell’introduzione orchestrale, ne è un magnifico esempio: consiste in una melodia eloquente e appassionata, suonata a pieni accordi dal pianoforte. Più frammentaria è la condotta del discorso nella transizione, basata su un dialogo tra legni e pianoforte che si scambiano brevi incisi cromatici; un’ampia melodia del corno inglese e un accenno melodico del corno preparano e anticipano, rispettivamente, l’ingresso del secondo tema. L’intensità raccolta ed espressiva di quest’ultimo contrasta efficacemente con lo slancio magniloquente del tema principale. Una nuova breve idea, ricavata dalla testa del secondo tema, dà origine all’episodio successivo: si tratta di un motivo di quattro note (un salto di nona che risolve sull’ottava), ritmico e incisivo che si rivelerà importante negli sviluppi successivi.
London Philharmonic Orchestra
Un’ultima effusione lirica chiude l’Esposizione: gli archi propongono un tema cantabile, derivato dalla parte finale del tema principale, che si alterna a floride volate del pianoforte. Lo Sviluppo è costruito come un ampio e impressionante crescendo tensivo. La sezione si espande a partire da una melodia ondeggiante del pianoforte; poi l’orchestra assume un ruolo sempre più marcato, l’intensità dinamica aumenta, il tempo si fa più incalzante, finché, con un effetto trascinante, è raggiunto il climax. La Ripresa propone nuovamente il materiale dell’Esposizione, ma ne sovverte l’ordine: si presentano dapprima il secondo tema, poi la melodia che chiudeva l’Esposizione e gli incisi della transizione; infine, preparato da accordi vibranti, ricompare il tema principale, liricamente intonato dai violini nel registro acuto e sostenuto dagli arpeggi avvolgenti del pianoforte. La musica, ora, sembra esaurirsi in un grande decrescendo: v’è ancora spazio per una breve cadenza del corno inglese, prima che una coda fulminea porti a termine il movimento.
Un vagare incerto del pianoforte, indefinito nel ritmo e nella melodia (vi si avvertono lontane reminiscenze motiviche del primo movimento), fa da preludio al Largo centrale. Il tema principale del movimento consiste in un brevissimo «motto», una semplice formula di tre note discendenti che contrasta in modo acuto con le ampie melodie ad arco precedenti. Data la sostanziale assenza dell’interesse melodico, il brano vive della grande varietà armonica e ritmica cui soggiace il motivo nel corso delle sue lunghe peregrinazioni. La stessa parte centrale, che introduce una nota di agitazione maggiore nel discorso, non fa che mostrare aspetti differenti nel medesimo materiale melodico. La Coda, infine, funge da chiusura e al tempo stesso da preparazione
graduale del movimento successivo: che prende il via (Allegro vivace) con una volata imperiosa, nella quale è riconoscibile il motivo marcato del primo movimento.
Lo stesso motivo costituisce lo scheletro anche del propulsivo tema principale, presentato dal pianoforte in un episodio veloce e leggero; gli si contrappone un secondo tema squillante, dal carattere di fanfara. Lo Sviluppo, che attacca riproponendo ancora una volta il motivo d’apertura, esplora a fondo il tema principale, e porta con sé una certa rarefazione ritmica e sonora, culminante in una eloquente pausa generale; è a partire da questo punto che il moto riparte, crescendo gradualmente fino a raggiungere un significativo apice dinamico ed espressivo. La forma, ora, si allontana da ogni schema prestabilito. V’è dapprima un richiamo letterale all’introduzione orchestrale con la quale si era aperto il Concerto; poi, in luogo della canonica Ripresa, una libera rielaborazione dei temi presentati nell’Esposizione. Gli accordi massicci del tema principale del primo movimento, infine, danno il via a una Coda che chiude il Concerto nel segno dell’enfasi e della sonorità più sfolgorante.