Respighi Ottorino
Fontane di Roma – Pini di Roma
Superba direzione di Karajan sul podio dei mitici Berliner Philharmoniker. Audio buono. Registrazioni effettuate dal 1973 al 1978 e rimasterizzazione eseguita nel 1984. Da non perdere!
Ottorino Respighi – Fontane di Roma – Pini di Roma – Antiche danze ed arie : Suite n. 3
Il compositore bolognese Ottorino Respighi occupa incontestabilmente un posto importante nella storia della musica italiana dei primi decenni del 20o secolo. Quando nasce, nel 1879, la creazione e le attività musicali in Italia sono totalmente dominate dall’arte lirica, che appare come l’espressione più naturale e più immediata della sensibilità e del genio italiani, ed è evidentemente la forte personalità di Verdi che domina su tutto.
Si può affermare che a quell’epoca Verdi è l’ideale riflesso musicale e l’emblema di quell’Italia da poco tempo unificata, come ben pochi musicisti possono vantarsi di essere stati nella storia del loro paese.
Stanco senza dubbio di tanti eccessi, Respighi sentì la necessità di rinnovare l’identità musicale italiana, di fare in modo che anch’essa si evolvesse e che un linguaggio diverso dall’opera potesse permettergli di affermarsi, quello cioè della musica sinfonica che non contava allora nella penisola alcun rappresentante significativo. Egli sarà in effetti il creatore di questo repertorio puramente strumentale, e basta osservare quante composizioni come Fontane di Roma e Pini di Roma abbiano un pubblico internazionale per riconoscere che la missione è stata brillantemente compiuta.
E, si può aggiungere, brillantemente in tutti i sensi del termine, perché quale altro aggettivo ci viene in mente ascoltando questa musica se non brillante? Respighi, per quanto desideroso sia stato di incarnare l’Italia, di diventarne la voce privilegiata – voce ch’essa seppe d’altronde ascoltare affidandogli la direzione dell’Accademia di Santa Cecilia a Roma nel 1924 (darà le dimissioni due anni dopo per dedicarsi completamente alla composizione), o nominandolo “Accademico d’Italia” nel 1932 – non ci fa dimenticare il suo forte debito verso alcuni dei compositori più caratteristici del Romanticismo di fine secolo: Rimski-Korsakov – di cui fu allievo a Pietroburgo – o Richard Strauss; ma anche Debussy e il suo “impressionismo” esercitarono su di lui un’influenza durevole. Il peso di questi molteplici influssi europei, pur sostenuto da una comune abilità tecnica, sarebbe rimasto lettera morta in una prospettiva nazionale se Respighi non avesse aggiunto al suo procedimento estetizzante e alla sua ricerca della bella sonorità la ferma volontà di caratterizzare la sua arte con insistenti riferimenti al passato italiano.
Egli arricchì così la sua musica con citazioni di temi popolari e con numerose allusioni agli antichi modi gregoriani, alla musica medievale e rinascimentale, e ai compositori del 17o e del 18o secolo, per i quali provava il più vivo interesse. Egli resta il sinfonista italiano per eccellenza, il creatore di un tipo di poema sinfonico descrittivo del tutto particolare, più incline alla bellezza sonora che ai sentimenti.
Completata nel 1916, la partitura delle Fontane di Roma – brano spesso ritenuto il migliore di Respighi – descrive con grande ricchezza di colori quattro delle più celebri fontane di una città che ne possiede a legioni. Respighi ha indicato con grande precisione i luoghi e l’ora in cui le ha dipinte, dando così una grande verità alle sue immagini. Ma il tono della descrizione si colorisce di un costante impressionismo dagli effluvi sottili e delicati, di cui è molto caratteristico il clima pastorale della “Fontana di Valle Giulia all’alba”.
I Pini di Roma (1923/24) seguono lo stesso procedimento delle Fontane. I pini, romani quanto le fontane, hanno naturalmente acuito la sensibilità di Respighi nel suo progetto descrittivo. Più ancora che nelle Fontane è qui evidente la maestria orchestrale del compositore, come lo sono gli influssi dei quali si era nutrito. Le ombre di Rimski-Korsakov e di Richard Strauss aleggiano su questi sontuosi quadri. Vi mancano senza dubbio l’emozione e la passione, ma esse sono compensate dalla ricchezza della materia sonora.
La Terza Suite delle Antiche danze ed arie, scritta nel 1931, è l’ultima di una serie che testimonia eloquentemente il gusto di Respighi per i brani antichi e la sua volontà di far rivivere le forme vecchie e dimenticate dei maestri del passato. In questi adattamenti di gusto neoclassico, Respighi sa conciliare rispetto, fedeltà ai suoi modelli e alle fonti musicologiche con il suo abituale magistero dell’orchestrazione.
(Traduzione: Mirella Noack-Rofena)
Pini di Roma op. 141
Note comuni alla Trilogia romana
Tra tutti i compositori della “generazione dell’80” che nell’Italia del primo novecento propongono un rinnovamento del linguaggio musicale, Ottorino Respighi ha forse il maggior respiro culturale a livello europeo. Dopo gli studi musicali compiuti presso il conservatorio di Bologna sotto la guida di Giuseppe Martucci e Luigi Torchi, nel 1900 occupa il posto di prima viola presso il Teatro di Pietroburgo dove segue i corsi di Rimski-Korsakov. Trasferitosi a Berlino nel 1902 si perfeziona alla Hochschule sotto la guida di Max Bruch ed entra in contatto con l’ambiente di Richard Strauss. Rientrato in Italia nel 1913 diventa prima insegnante e poi dal 1924 direttore del Conservatorio di S. Cecilia a Roma. Nel 1925 si ritira dall’attività didattica per dedicarsi esclusivamente alla composizione.
La sua produzione sinfonica coniuga il suo senso della natura, il suo interesse per l’animo e le tradizioni popolari e il gusto delle antiche forme liturgiche del Canto Gregoriano con vasti richiami alla contemporanea cultura musicale europea.
In questo contesto nasce il ciclo dei poemi sinfonici romani in cui Respighi sfruttando le sue straordinarie doti di orchestratore, riporta le sensazioni provate nella visita della città di Roma. In queste composizioni ritroviamo tutta l’atmosfera romana purtroppo in buona parte oggi scomparsa.
Chi di noi ricorda gli “gli strilli dei bambini come rondini a sera” a Villa Borghese, l’usignolo che canta “nel plenilunio sereno” del Gianicolo, “lo scampanio di tutte le chiese”, gli “echi di caccia, tintinnii di sonagliere” sui Castelli Romani, “la voce dell’organo meccanico d’un baraccone e l’appello del banditore, il canto rauco dell’ubriaco e il fiero stornello” a Piazza Navona? E ancora dove ritrovare la “la salmodia accorata” dei fedeli che “si diffonde solenne come un inno”, “il ritmo di un passo innumerevole” allo squillare delle buccine sull’antica Via Appia, la folla che ondeggia nel Circo Massimo, lo squillare dei corni di Tritone e Nettuno? Forse solo chi è stato sul Monte della Gioia percorrendo il cammino di Santiago di Campostella può comprendere i pellegrini che “si trascinano per la lunga via” ed il loro giubilo alla vista della Città Santa.
Ottorino Respighi
Accanto all’animo popolare romano troviamo però anche le citazioni della contemporanea cultura europea. La fontana di Valle Giulia ricorda il ruscello della Moldava di Smetana, la fontana di Trevi ha assonanze con la Mer di Debussy, tra i pini del Gianicolo si sentono le belle favole di Ma Mère l’oye di Ravel, il Petruska di Stravinskij impazza sia a Piazza Navona che a Villa Borghese, mentre lo spirito della Sagra della Primavera è presente nei Circenses e nell’Ottobrata. Il ritmo ostinato della marcia nei pini della via Appia abbinato al suo clamoroso crescendo orchestrale, richiama il Bolèro ma Ravel non lo aveva ancora scritto! Che abbia voluto rendere la cortesia a Respighi?
I pini di Villa Borghese
“Giuocano i bimbi nella pineta di Villa Borghese: ballano a giro tondo, fingono marce soldatesche e battaglie, s’inebriano di strilli come rondini a sera, e sciamano via”.
Tutto il brano affidato ad una coloratissima orchestra, è un intrecciarsi di girotondi e di infantili fanfare militaresche. Dopo la rapida introduzione compare il tema principale (Oh quante belle figlie Madama Dorè) affidato al corno inglese, ai fagotti ed ai corni. Un improvviso cambio di ritmo caratterizza il secondo motivo che flauti, ottavino e pianoforte cantano su uno sfondo costituito dai trilli degli archi. Con il ritorno all’andamento iniziale ricompare il tema principale questa volta affidato agli oboi ed ai clarinetti. La parte successiva costruita sulla melodia di un nuovo girotondo sfocia in una fanfara di trombe. La successiva ricomparsa del girotondo viene ripresa ed intrecciata con squilli di marce, dall’intera orchestra che successivamente si avvia verso l’ultimo vorticoso crescendo.
Pini presso una catacomba
“Improvvisamente la scena si tramuta ed ecco l’ombra dei pini che coronano l’ingresso di una catacomba: sale dal profondo una salmodia accorata, si diffonde solenne come un inno e dilegua misteriosa”.
L’atmosfera diventa improvvisamente cupa e ci porta nei pressi di una catacomba. Dal profondo emerge sommessa la voce degli archi intercalata da un mesto cantabile dei corni e dai rintocchi gravi di una campana quasi a ricordarci la memoria di antichi martiri. Una tromba sola in controcanto con i violini rischiara l’ambiente con un inno mariano. Dal profondo si leva una salmodia affidata a clarinetti, corni e violoncelli che si trasforma gradualmente con l’entrata degli altri strumenti in un maestoso ed austero crescendo. Dopo il rapido spegnersi della salmodia una coda ci riporta alla cupa atmosfera iniziale.
I pini del Gianicolo
“Trascorre nell’aria un fremito: nel plenilunio sereno si profilano i pini del Gianicolo. Un usignolo canta”.
Il gocciolio dell’acqua dalla fontana introduce il brano con gli arpeggi del pianoforte mentre il clarinetto espone un tema sognante nel plenilunio che sovrasta i pini del Gianicolo. Gli archi che riprendono questo tema sono interrotti dalla celesta che ripropone il gocciolio della fontana. L’oboe presenta un nuovo tema che viene ripreso da un violoncello solo e sviluppato poi dagli archi con un ampio crescendo. Gli arpeggi del pianoforte, dell’arpa e della celesta ci ripropongono ancora una volta il gocciolio dell’acqua e ci portano verso la sezione conclusiva quando il clarinetto prepara il canto dell’usignolo che si perde fra i rami dei pini.
I pini della via Appia
“Alba nebbiosa sulla via Appia. La campagna tragica è vigilata da pini solitari. Indistinto, incessante, il ritmo di un passo innumerevole. Alla fantasia del poeta appare una visione di antiche glorie: squillano le buccine ed un esercito consolare irrompe, nel fulgore del nuovo sole, verso la via Sacra, per ascendere al trionfo del Campidoglio”.
Il ritmo del passo di marcia dell’esercito consolare è scandito da timpani, pianoforte, violoncelli e contrabbassi. I corni ci presentano frammenti di fanfare mentre i clarinetti introducono quello che sarà il tema conduttore di tutto il brano. Il corno inglese si inserisce con una melodia esotica, quasi una danza orientale, prima che i corni diano avvio al poderoso amplissimo crescendo cui si uniscono progressivamente tutti gli altri strumenti per preparare la sfarzosa conclusione. Da notare l’impiego di sei flicorni che sono uno strumento tipicamente bandistico poco usato in orchestra.
Fontane di Roma op. 106
Composto nel 1916, il poema sinfonico Fontane di Roma avrebbe dovuto essere eseguito all’Augusteo il 26 novembre di quell’anno sotto la direzione di Toscanini. Ma una settimana avanti, Toscanini all’Augusteo aveva diretto un altro concerto che era stato disturbato da una violenta manifestazione contro la musica tedesca – s’era in guerra -; e aveva abbandonato il podio e Roma. Così il concerto del 26 passò a Bernardino Molinari e il pezzo di Respighi saltò. Fu però rimesso in programma nel corso della stagione, precisamente l’11 marzo (1917), direttore Antonio Guarnieri. Ma non ebbe successo, trovò ostile la critica e ostilissimo il pubblico. Lo stesso Respighi si convinse d’aver commesso un errore; tanto che quando dopo Toscanini, di sua iniziativa, lo presentò alla Scala – 11 febbraio 1918 – non si mosse da Roma. Fu invece un trionfo. Ricordi s’affrettò a telegrafare che intendeva pubblicare la partitura, e un giro internazionale incominciò, che dura ancora. Sì che lo stesso Respighi dovette convincersi di non aver deviato affatto, anzi esattamente del contrario: d’aver finalmente trovato la sua via.
Herbert von Karajan
Di questo esito felice era certamente stata conditio sine qua non un avvenimento esterno: l’essersi Respighi trasferito, nel 1913 da Bologna a Roma, per assumere la cattedra di composizione al Liceo Musicale di Santa Cecilia. Ma non è che questo valesse ad allargare radicalmente le sue esperienze artistiche o culturali, i suoi contatti con persone o avvenimenti particolarmente stimolanti, e neppure ad accrescere le sue capacità artigianali. Su tutto questo Respighi era a posto da un pezzo. Nel 1900-01 era stato per cinque mesi prima viola in orchestra all’Opera di Pietroburgo, nel 1902-03 per nove, a Pietroburgo e a Mosca, nel 1908-09 aveva vissuto a Berlino come pianista nella classe di canto di Gerster; aveva studiato a Pietroburgo con Rimskij-Korsakov, e in Italia e fuori aveva fatto conoscenze nutrienti, cominciando da quella con Busoni. Aveva anche prodotto molto, alcune sue musiche erano state accolte anche all’estero, fino negli Stati Uniti; ed erano di fattura ineccepibile. Già il suo saggio di diploma, al Liceo Musicale di Bologna, era un pezzo magistrale, che potrebbe ancora circolare con generale soddisfazione: un ampio Preludio, Corale e Fuga per orchestra, scritto a ventun’anni.
Ciò che si ammirava nelle sue musiche era però soprattutto, o soltanto, la maestria. Solo nell’opera Semirama (1910) ascoltatori autorevoli fiutarono almeno premonizioni di una personalità. E poi ancora altri le scorsero l’anno dopo nel poemetto Aretusa, per mezzosoprano e orchestra. Finché venne Roma; nella quale Respighi non tanto sentì un ambiente, un modo di vivere, ma essenzialmente un mondo di immagini: i palazzi, le chiese, le strade di quella che gli parve la più bella città del mondo. E non tanto come Roma dei Cesari quanto come Roma dei Papi: la sgargiante capitale del Barocco. Fu allora che, affascinato da quelle immagini, scoprì che la realtà lo interessava non altro che per le sue immagini, per il fascino che emanava in quanto bellezza. Lo scoprì, essenzialmente, con Fontane di Roma; nell’atto stesso in cui nelle acque delle fontane vide un elemento essenziale del Barocco, qualcosa che faceva parte dell’architettura, che la metteva in movimento. E infatti, che per esempio nella Fontana di Trevi non si sappia bene a che punto la pietra finisca e cominci l’acqua, è constatazione antica.
D’altra parte questa coesistenza di solido e di liquido si rispecchia nel particolare impressionismo di questa musica. Il poema consta di quattro pezzi che fluiscono l’uno nell’altro, ma non al modo con cui la Sonata di Liszt, per esempio, attraverso un giucco complesso di rimandi e sviluppi tematici concentra i quattro tempi classici in uno solo: quella dialettica classico- romantica che pure possedeva perfettamente, Respighi ora la lascia da parte. Non è qui in corso una vicenda, tanto meno un’azione: quattro situazioni fondamentali scorrono a lasciarsi contemplare, in un crescendo e decrescendo dalla luce alla penombra e viceversa, dalla prossimità alla lontananza e viceversa. E di queste situazioni sono metaforiche segnalazioni le intitolazioni a quattro determinate fontane colte ciascuna, si legge nel “programma” premesso all’edizione della partitura, «nell’ora in cui il loro carattere è più in armonia col paesaggio circostante o in cui la loro bellezza appare meglio suggestiva a chi le contempli». Il tutto in una successione di idee musicali che non si sviluppano ma al più si ripetono, in colorazioni diverse e più o meno intense. Il che è procedimento eminentemente impressionistico; ma qui adoperato con assoluta fermezza di contorni, senza ambiguità né evanescenze. Le singole “illuminazioni” non tendono mai – al contrario, mettiamo, che in Debussy – a sfuggire per la tangente; e l’elemento acquoreo si amalgama all’architettura, non la travolge. Il puro piacere dell’immagine governa tranquillamente il discorso, senza lasciarsi turbare da problemi morali di sorta: elogio d’una prosperìty sottratta ad ogni discussione, che già gli splendori dell’orchestrazione basterebbero a celebrare. Questo incontaminato estetismo sarebbe stato la bussola, in impegni diversi e con diversa fortuna, per tutto Respighi. Ma qui, alle prese con un assunto che ben presto apparve emblematico della sua poetica, scatena energie allo stato nascente, in una freschezza forse irrepetibile. Non stupisce che in questo primo dei suoi poemi “romani”, anzi dei suoi poemi sinfonici in genere, i più abbiano scorto il suo capolavoro.
La fontana di Valle Giulia all’alba
“La prima parte del poema, ispirata alla fontana di Valle Giulia, evoca un paesaggio pastorale: mandrie di pecore passano e dileguano nella bruma fresca e umida di un’alba romana.”
Il brano si apre con il tranquillo gocciolare dell’acqua della fontana di villa Giulia (violini secondi) e col canto degli uccelli nell’alba romana (violini primi). Le melopee degli zampognari che accompagnano le mandrie, sono esposte dal timbro dell’oboe cui risponde il clarinetto. L’oboe dopo una serie di note ribattute riprende il suo tema a terzine. Il corno inglese crea un clima di attesa nel quale si inseriscono l’ottavino ed il fagotto che riprendono il tema iniziale dell’oboe. Il sorgere del sole è affidato ad un cambio di tonalità mentre l’oboe ed il violoncello solo enunciano un tema di intensa cantabilità che viene poi ripreso dal clarinetto. Nella fase conclusiva le mandrie si allontanano accompagnate dal tema iniziale esposto questa volta dal flauto cui rispondono l’oboe ed il clarinetto.
La fontana del Tritone al mattino
“Un improvviso squillare fortissimo dei corni sui trilli di tutta l’orchestra inizia la seconda parte. È come un richiamo gioioso cui accorrono frotte di naiadi e tritoni che s’inseguono e fra gli spruzzi d’acqua intessono una danza sfrenata”.
Le note di Respighi lasciano poco spazio per un’illustrazione di questo quadro, da notare la presenza quasi continua dei corni fin dalla prima battuta che richiamano il suono della conchiglia in cui soffia la divinità marina rappresentata nella fontana. L’elemento tematico del brano esposto da flauti, clarinetti ed arpe viene ripreso dagli archi e dà luogo ad un primo crescendo. Dopo un intermezzo cromatico affidato a flauti e trombe l’atmosfera si fa ancora più viva grazie ai glissando delle arpe che conducono ad uno sfavillante fortissimo. L’atmosfera si smorza e la ripresa del tema cromatico delle trombe ci porta al brano successivo.
La fontana di Trevi al meriggio
“Un tema solenne appare intanto sul mareggiare dell’orchestra. È la fontana di Trevi al meriggio. Il tema solenne passando dai legni agli ottoni assume un aspetto trionfale.
Karajan e i Berliner Philharmoniker
Echeggiano fanfare: passa sulla distesa radiosa delle acque il carro di Nettuno tirato da cavalli marini e seguito da un corteo di sirene e tritoni. E il corteo si allontana mentre squilli velati echeggiano a distanza”.
La maestosità della scena ci è presentata subito dal tema principale affidato a fagotti, clarinetti e corni e dialogato poi dagli ottoni. Il crescendo continuo fino al fortissimo coronato dall’ingresso dell’organo ci trasmette l’immagine del passaggio del carro di Nettuno. Il corteo quindi si allontana mentre la melodia dei clarinetti ridà tranquillità alla scena.
La fontana di Villa Medici al tramonto
“La quarta parte si annunzia con un tema triste che si leva su di un sommesso chiocciolio. È l’ora nostalgica del tramonto. L’aria è piena di rintocchi di campane, di bisbigli di uccelli, di brusii di foglie. Poi tutto si quieta dolcemente nel silenzio della notte”.
Questo brano è tutto un intrecciarsi di suoni della natura con il gocciolio dell’acqua della fontana. Il “sommesso chiocciolio” al quale alludono le note di Respighi è affidato ai suoni dell’arpa e della celesta che richiamano gli zampilli della fontana di Villa Medici mentre il “tema triste” è presentato dai flauti e dal corno inglese. Dopo i primi passaggi si fa sentire il rintocco di una campana che la partitura prescrive “molto lontana” e che sarà presente a sprazzi per tutto il brano. Un tema secondario ancora più triste è affidato al violino solo ed ai violini secondi cui rispondono poi i violoncelli. I “bisbigli di uccelli” ed i “brusii di foglie” si ascoltano nell’episodio successivo in cui i trilli degli archi ed i brevi motivi dei fiati sono ispirati al canto degli uccelli. Nella parte conclusiva riascoltiamo il tema principale ed il secondario entrambi affidati ai violini. L’immagine si spegne lentamente finché muore sulle note dei secondi violini.
Antiche danze e arie per liuto e orchestra d’archi op. 172 – Suite n. 3
Le Antiche arie e danze per liuto di Ottorino Respighi sono una partitura emblematica di una delle principali tendenze della musica italiana del Novecento, quella alla riscoperta della secolare tradizione strumentale italiana. Tale tendenza ha motivazioni complesse; per tutto il secolo scorso il melodramma era stato il principale campo d’azione dei musicisti italiani, e questo fenomeno, pur nella sua importanza, aveva portato alla provincializzazione della musica italiana rispetto alle esperienze europee. Fu il desiderio di donare nuovo impulso alla musica italiana che spinse i principali esponenti della cosiddetta “generazione del 1880” – Pizzetti, Malipiero, Casella, oltre a Respighi; giunti a maturità dopo la Grande Guerra – a troncare i rapporti col passato recente e a ricercare nuova linfa nelle partiture del Sei e Settecento.
Per alcuni compositori un simile orientamento tendeva ad inserire la musica italiana fra le due guerre nel filone europeo del Neoclassicismo. Per Ottorino Respighi invece, operista e autore di poemi sinfonici, il ritorno al passato si configura come la ricerca di nuove risorse coloristiche per la propria sensibilità decorativa e decadente. Le tre Suites di Antiche arie e danze per liuto non si propongono alcun intento filologico; esse vogliono invece ricreare in uno spirito attualizzato una selezione di brevi brani rinascimentali, donando loro, con risultati estetizzanti, una veste strumentale ricercata e preziosa, ispirata dal raffinato gusto timbrico di Respighi, dalle sue straordinarie capacità di orchestratore. La terza Suite, concepita per la sola orchestra d’archi, si divide in quattro movimenti: l’Italiana è una garbata e composta melodia di anonimo, le Arie di corte sono una breve antologia di canzoni francesi, aperta e chiusa dallo stesso brano e con un riflessivo “Lento” in posizione centrale; seguono una Siciliana, anch’essa anonima, dal carattere pastorale, e infine la Passacaglia di Ludovico Roncalli, un tema maestoso e caratteristico arricchito da severe variazioni.