Rossini – Respighi
Stabat Mater
Si tratta di un’esibizione davvero molto buona, piena di passione e contrasto dinamico, con un eccellente cast di solisti supportati da un coro e un’orchestra molto espressivi. L’interpretazione di Muti è dinamica e coinvolgente. Ho ascoltato molte opere di Rossini e posso affermare che lo Stabat Mater si avvicina molto al suo lavoro operistico. Un plauso al coro del Maggio Musicale Fiorentino per l’incantevole prestazione. Una partitura un po’ meno conosciuta rispetto alla meravigliosa Petite Messe Solennelle, soprattutto quella orchestrata, ma altrettanto valida. Una buona occasione da non perdere. Registrazione in DDD eseguita nel 1982. Audio eccezionale.
Rossini: Stabat Mater
Quando un qualsiasi discorso su Rossini giunge al nodo dell’estrema produzione – in quella religiosa identificata in due titoli specificatamente – il cammino si fa improvvisamente contorto. Senza l’ausilio di classificazioni di genere, senza i sollievi dell’aneddotica accomodabile ad ogni situazione, senza numeri musicali spostati qua e là a sostanziare la leggenda così graziosamente fumettistica di un
autore catatonico e michelaccio, la longevità imprevedibile del compositore divenne motivo di preoccupazione e smarrimento. Come se non bastasse, per imbarazzare la musicologia, il misterioso periodo di volontario silenzio seguito a Guglielmo Tell nel corso del quale Rossini dall’alto dell’incredibile produttività e rinomanza accumulata, sembra non aspirare più al confronto con il mondo e le forme a lui contemporanee.
La musica, lo scriverla per gli altri, ha perduto significato; rimane solo il quotidiano specchiarsi nell’atto creativo per ritrovare se stesso, per sentirsi vivo. “Scrivo perché non posso farne a meno” confessa nel 1865 a Max Maria von Weber (figlio del compositore) ch’era presso di lui in visita. Una risposta che assomiglia tanto alle riflessioni mozartiane del suo essere uomo-artista destinato a esprimersi sempre e solo con la musica.
In ottica realista la questione dopo-Tell potrebbe anche essere risolta in altri termini critici: meno cervellotici. Rossini pressato dalle sue stesse sperimentazioni espressive e tecniche, divenute ormai argomenti di pubblico dominio, non se la sente più – dopo aver fornito tutti gli strumenti musicali al montante romanticismo di precedere tempi e stili, di confrontarsi con un clima culturale che non gli si mostra più consono. Sceglie la via, in fondo meno comoda e intellettualmente impegnativa, del ripensamento spirituale e singolo. Come l’interpretazione moderna di tutto il repertorio ultimo, ora disponibile, e di quello pianistico in particolare attesta con sorprendente naturalezza.
S’è affilata anche la comicità: l’arguzia non è più un meccanismo da esporre alla meraviglia del pubblico e alla perizia degli interpreti, ma una filosofia profonda cui non sono estranee punte ciniche o fatalistiche; come quelle drammatiche o graffianti. La parabola perfettamente calibrata del quarantennio trascorso tra Guglielmo Tell e la morte (1828-1869) viene, per così dire, turbata soltanto dallo Stabat Mater, unico lavoro in cui ricompaiono con chiarezza elementi del “primo” Rossini.
La storiografia critica rossiniana ha dibattuto più di un secolo per spremere una ragione, una qualsiasi. Sono state invocate, spesso invano, categorie estetiche, stimoli artistici svariati; senso del religioso, richiami irresistibili all’antica, in fondo rimpianta, scrittura operistica, e via dicendo. Il problema, con ogni probabilità, è risolvibile più banalmente. Ricordando innanzitutto che lo Stabat Mater non nasce come le composizioni “di prima”. Non ne ha gli stimoli, perciò non ha necessità di dissotterrarne la sintassi.
Contemporaneamente però non appartiene nemmeno a quelle pure esercitazioni dello spirito e della genialità che sono i Péchés de vieillesse. Sta a mezza via. Come un lavoro accettato per pura amicizia – quel banchiere, il marchese Aguado citatissimo nella biografia rossiniana, che lo volle con lui in una festosa e trionfale “vacanza” spagnola nel 1831, e insistette per fargli accettare l’invito rivoltogli da Don Manuel Fernandez Varela, un ricco e influente prelato
madrileno, per la composizione di uno Stabat Mater per la sua cappella musicale; erano già passati due anni dall’abbandono rossiniano e, dopo Guglielmo Tell e come partitura destinata all’esecuzione esclusivamente privata. Almeno ciò era nelle richieste del musicista che, dopo aver ascoltato a Napoli lo Stabat Mater di Pergolesi s’era detto persuaso che nessun altro avrebbe saputo affrontare quella suggestiva lauda medievale.
Riccardo Muti
In più va ricordato che l’argomento religioso non rientrava negli interessi specifici rossiniani, anche se alla resa dei conti si dimostrò tutt’altro che poco reagente per la sua inventiva musicale.
Se infine pensiamo al modo con cui lo Stabat Mater è stato assemblato – una prima stesura, con sei pezzi su dieci di mano originale e gli altri scritti dall’amico Giovanni Tadolini, realizzata in fretta nel 1832. Quella definitiva, completata da Rossini, è invece del 1842 – non è difficile trovare ragioni alla sua splendida disomogeneità. Disomogeneità che non significa discontinuità inventiva. Tanto meno scarsa aderenza alla scabra metrica e all’espressività cupa del testo di Jacopone.
Rossini piega la propria ortografia musicale, impone una flessibilità miracolosa a forme chiuse tradizionali, sovrappone al tutto un senso del dolore pudico ma penetrante che non esclude dichiarazioni vocali espanse generosamente.
Ma sempre rimanendo stupendamente “rossiniano”. Anche quando, in obbedienza alle convenienze di un’esteriore “tradizione” sacra, turba il clima rabbrividente e mozartiano suscitato nell'”a cappella” del “Quando corpus morietur”, presente fin dalla prima versione, con un “Amen” canonicamente espresso in una fuga decorativa e smagliante di profonda pomposità.
Quel medesimo Rossini, che per trarre il sorriso aveva geometrizzato calibratamente forme e disegni melodici costringendoli in meccanismi perfettamente trasparenti ed irresistibili, persegue qui l’universale senso del sacro senza rincorrere in improbabili o “archeologiche” ricostruzioni modellate su quelli che erano allora considerati i grandi compositori di musica sacra: Bach, Monteverdi, Palestrina e via via dicendo.
Con termini presi a prestito dalla semiologia si potrebbe dire che Rossini pungola, con la sua musica e con strumenti suoi consueti, il significato piuttosto del significante. La religiosità conseguente sta, integra e toccante, nella purezza delle linee, dell’inventiva fervida, sorgiva e avvincente: anche quando può apparire solo impudente.
Basterebbero le quattro misure iniziali del “Quis est homo”, suddivise tra corni e archi in risposta senza contrabbassi, per sistemare lo “Stabat Mater” in una classicità da cui scaturirà la beethoveniana Missa Solemnis, per intenderci, e, in campo rossiniano cent’anni più tardi, l’espressività stilizzata e cristallinamente scabra dalla Petite Messe Solennelle.
Una classicità anche unitaria. Ricordiamo che dei quattro numeri composti in sostituzione di quelli del Tadolini – per ragioni apparentemente editoriali: in realtà Rossini mostrò di credere nello Stabat Mater quando s’oppose alla pubblicazione di quello precedente “compilato” in collaborazione – solo l'” Amen” come s’è detto può destare qualche perplessità, sotto il profilo della purezza formale.
Gli altri tre (secondo la più recente attribuzione di Philip Gossett, che contrasta
con quella corrente, citata altrove e tenuta valida anche per l’edizione 1957 della partitura Eulenburg) sono la sublime successione “aria tenore-duetto-aria basso” che appare dopo l’introduzione: con due teatrali e intense sortite solistiche che inquadrano l’episodio più penetrante per voci e orchestra. Con una scrittura strumentale nervosa che fa da sfondo all’intreccio belcantistico delle due voci femminili. Poco più di cinque minuti di musica altissima che dalla “mistica” introduzione passa alla dimensione “sinfonica” dell’orchestra, a quella “operistica” delle voci virtuosisticamente mosse.
Coro e Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Senza fratture. Con un gusto musicale infallibile e una tensione poetica che vanno ben al di là di ogni tradizionale “rappresentazione” del sacro per tendere al fondo panico dell’animo umano, con una forza – di verità e di penetrazione dialettica che il “laico” Rossini era in grado come di spingere così avanti. Nella “religione” universale, filosofica dell’uomo piuttosto che di quella della liturgia soltanto.
Traduzione: Angelo Folletto