Schubert Franz
Messa n. 6 in mi bemolle maggiore D 950
Questa messa è stata un acquisto a scatola chiusa: non conoscevo questo lavoro di Schubert, che merita sempre un ascolto. Si tratta di un lavoro dell’ultimo anno di vita del compositore, eseguita per la prima volta postuma. E da allora (1829) è un successo che si ripete costante per tutti i viennesi (e non solo). Infatti il cd propone il tradizionale concerto del 1 novembre che si festeggia ogni anno a Vienna, naturalmente facendo musica di qualità.
Il lavoro è molto personale: Schubert ha messo in musica il testo latino della liturgia (per un’oretta complessiva) ma l’ha manipolato a suo piacimento con tagli (tra cui, per curiosità, la Chiesa una santa cattolica e apostolica nel Credo) e sue aggiunte o reiterazioni. Il lavoro occupa moltissimo il coro e (qui) ben 5 solisti, che cantano molto poco, almeno non tanto da determinare l’esito complessivo. La Mattila e la Lipovsek, Pita, Hadley e Holl comunque affrontano benissimo la loro parte senza rubare la scena ai complessi vocali e strumentali.
Abbado ha una manina santa per la musica di Schubert e questa messa è una meraviglia di suono e di grazia dalla prima all’ultima nota. L’orchestra non potrebbe accompagnare il canto meglio di così, e il coro (che in altre registrazioni operistiche può non eccellere) qui canta morbido e compatto senza una sbavatura. Ricordo che i Wiener Philharmoniker e il coro in questione sono un prodotto elitario, un selezionatissimo club, dei complessi dell’opera di stato. Si percepisce subito quale sia l’affiatamento di questi artisti!
Il concerto è un live del 1986 ma non sembra nemmeno, tanto è pulito il suono! Completa il cd un saggio (anche in italiano) molto interessante. Una proposta culturale completa, un capolavoro davvero corale!
Franz Schubert: Messa in mi bemolle maggiore
Anche nel 1828, anno della sua morte, Franz Schubert scrisse un numero imponente di composizioni dei generi più disparati. Tra queste il Quintetto per archi in do maggiore, numerosi Lieder fra cui il ciclo “Schwanengesang” (Canto del cigno), le ultime tre Sonate per pianoforte (do minore, la maggiore, si bemolle maggiore; D 958-959-960) e l’ultima Sinfonia in re maggiore, rimasta allo stato di frammento. Sempre nel 1828 il trentunenne Schubert componeva anche la Messa in mi bemolle maggiore. È l’ultima delle sei Messe da lui scritte su testo latino, e come tale ha un significato di tutto rilievo: infatti Schubert riesce qui a congiungere nel modo più organico le caratteristiche del proprio originalissimo linguaggio con gli elementi tradizionali delle messe viennesi dell’epoca classica e preclassica. Schubert scrisse questa Messa in mi bemolle maggiore per il coro di ragazzi e il coro maschile della Chiesa parrocchiale di Alsergrund, località della periferia di Vienna, e per il suo amico Michael Leitermeyer che vi dirigeva il coro. La prima esecuzione, accolta con favore da pubblico e critica, ebbe luogo postuma il 4 ottobre 1829, quasi un anno dopo la morte del compositore. Questi non aveva ricevuto una commissione per questa Messa, né gli era stato corrisposto un onorario.
A differenza delle quattro Messe giovanili degli anni 1814 – 16, quella in mi bemolle non era stata destinata ad un’utilizzazione liturgica. Per le sue dimensioni essa non può rientrare nell’ambito d’una funzione religiosa; c’è da aggiungere che il testo musicato da Schubert non coincide con quello ufficiale della Chiesa cattolica, e perciò la Messa in mi bemolle si pone in contrasto con le disposizioni liturgiche.
Infine, le altre esigenze tecniche poste alle voci e agli strumenti indicano che gli intenti di Schubert si orientavano verso una messa da concerto – e nel caso specifico verso una messa per coro. Infatti il testo di questa Messa è cantato principalmente da un coro misto, per lo più a quattro voci. Le parti dei cantanti solisti sono limitate all'”Et incarnatus est” (Credo), al Benedictus e al “Dona nobis pacem” (Agnus Dei). Per quanto riguarda l’organico strumentale, Schubert rinuncia ai flauti e all’organo di accompagnamento, che pure era di solito impiegato in questo genere di composizione.
Franz Schubert
Ma per il resto l’organico di questa Messa – coppie di legni, di corni e di trombe; tre tromboni, timpani e archi – non si discosta da quello di altre messe dell’epoca classica, di Haydn o Beethoven ad esempio. C’è poi da sottolineare che l’orchestra viene qui trattata da Schubert a blocchi strumentali, secondo un procedimento paragonabile alle mutazioni di registro dell’organo: nonostante le innumerevoli combinazioni di timbri orchestrali e il rilievo dato a strumenti solisti, gli archi costituiscono un gruppo unitario rispetto ai fiati e quest’ultimi si contrappongono a loro volta al gruppo degli ottoni. Un particolare rilievo vi hanno i tromboni, impiegati di frequente e nel modo più vario.
Dopo Schubert, questa adozione di pratiche policorali – strumentali come anche vocali – già proprie dello stile tardorinascimentale, troverà il suo compimento nell’arte dell’istrumentazione di Anton Bruckner, al quale le Messe schubertiane non erano certo sconosciute. Una funzione strutturale assumono nell’intera Messa in mi bemolle le tecniche di ostinato: nel Credo, ad esempio, abbiamo un rullo di timpani che ne congiunge le diverse sezioni; nel Kyrie abbiamo in particolare un motivo in pizzicato di violoncelli e contrabbassi che ne scandisce il tempo lento.
Già il Kyrie è un esempio significativo di quella tecnica compositiva a blocchi che vede contrapposti singoli gruppi strumentali. In genere, i tre blocchi timbrici (archi, legni, ottoni) dialogano armonizzandosi, e in ciò si esprime simbolicamente anche il dogma della Trinità. Da un punto di vista formale il Kyrie si articola nel suo insieme in tre sezioni: il “Kyrie eleison” 1, la solenne invocazione al Padre, il “Christe eleison”, l’invocazione rivolta in tono supplichevole al Figlio, e infine il “Kyrie eleison” 2, sintesi compositiva delle due parti precedenti – quasi una supplica allo Spirito Santo, che “procede dal Padre e dal Figlio”, come è scritto nel Credo.
Anche la misura è di tipo ternario (3/4), e nel “Christe” gli archi passano da una scrittura più serrata, con terzine di crome per ogni semiminima. Gli sviluppi armonici e melodici di questa prima parte della Messa sono di grande espressività e si dispiegano sulle tranquille pulsazioni dei pizzicati di violoncelli e contrabbassi. Le parti corali a cappella contraddistinguono in particolare gli inizi del “Gloria” e del “Credo”, le parti della Messa dal testo più lungo. Ma la tendenza di Schubert ad adottare nelle proprie Messe modelli preclassci di musica liturgica si può avvertire soprattutto nelle ampie e significative fughe, alla fine del “Gloria” (“Cum Sancto Spiritu”) e del “Credo” (“Et vitam venturi saeculi”), elaborate ambedue con particolare accuratezza. Qui Schubert infrange quella concezione formale statica della fuga basata sull’alternanza di enunciazioni tematiche e divertimenti intermedi: episodi contrappuntistici acquistano una preponderanza rispetto ai temi delle fughe e quasi assumono il valore di figure tematiche contrastanti. Qui, come nel “Gloria” e “Credo” nel loro insieme, si sente la mano asperta di Schubert sinfonista.
Nel “Gloria” le sezioni contraddistinte dagli accenti esultanti del coro e da una ricca istrumentazione (“Gloria in excelsis Deo” e “Laudamus Te”) si alternano ad altre condotte in stile omofono e cantabile (“Gratias agimus”).
Episodi di concezione cameristica o di ripiegamento riflessivo (“Miserere nobis”) contrastano con altri di grande ricchezza sonora, sviluppata fino ad una scrittura per doppio coro a sei voci. Schubert adotta moduli arcaici in “stile antico” nel “Domine Deus, Agnus Dei”. In questa sezione, dove le parole del testo accennano alla Passione di Cristo, risuona un tema dai toni cupi e dominato dal timbro dei tromboni; esso troverà poi un pendant ed al tempo stesso un’intensificazione e conclusione della Messa, nell’Agnus Dei. Qui infatti Schubert riprenderà l’accento inesorabile della cupa sezione intermedia del “Gloria”.
In quella conclusiva “Quoniam tu solus Sanctus” risuona di nuovo la musica dell’inizio del “Gloria”, per cui questa parte della Messa viene ad assumere una struttura globale tripartita.
Una struttura tripartita ha anche il “Credo”. Nella sua sezione centrale “Et incarnatus est”, che è sul tipo d’una siciliana, il mistero dell’incarnazione di Cristo viene evocato in un canone di tre voci soliste. Sebbene riproponga qui il tipo compositivo della pastorale in 12/8, tradizionalmente legato nel suo andamento cullante alla rievocazione della nascita di Cristo, pure lo fa trascolorare nei ritmi elegiaci propri delle musiche funebri barocche.
Ai versi che ricordano la morte sulla Croce e la deposizione di Cristo, si accompagna una scrittura corale-orchestrale dove è sfruttata al massimo ogni risorsa sonora, dal balbettio quasi silenzioso all’improvviso grido di terrore. La terza parte “Et resurrexit”, una ripresa variata del “Credo” iniziale, viene coronata da una fuga complessa e sempre più serrata nella condotta cromatica delle sue voci (“Et vitam venturi saeculi”).
Il triplice Sanctus, intonato secondo la visione profetica e apocalittica degli angeli acclamanti dinanzi al trono divino, ha la pienezza sonora che è propria di un canto di lode tributato a Dio da cielo e terra. Le parti strumentali più gravi (violoncelli e contrabbassi) procedono per gradi congiunti in senso discendente, mentre gli strumenti più acuti (violini) si muovono verso un registro più alto, sì che nel “Dominus, Deus Sabaoth” è raggiunta la massima espansione dello spazio sonoro. Non solo le linee melodiche delle parti strumentali più gravi e più acute, ma anche gli sviluppi armonici del “Sanctus” si allontanano sempre di più dal punto di avvio. Addentrandosi sempre più in profondità nella serie delle tonalità con i bemolli (e qui la notazione deve necessariamente ricorrere all’enarmonia), l’impianto armonico si sospinge in ambiti sonori nei quali Schubert avrà inteso significare un profondo ed intimo raccoglimento dell’uomo in se stesso.
Si genera in tal modo un contrasto sorprendentemente, ma indubbiamente dettato da intima necessità, con i più appariscenti toni di fulgore sonoro. Al “Benedictus” di grande cantabilità e chiara sonorità, dove il quartetto vocale dei solisti si alterna al coro, si contrappone la fatalistica, sconvolta atmosfera dell'”Agnus Dei”. Il motivo principale di questo brano in stile fugato si pone nella tradizione delle figure chiastiche (e cioè quelle figure nella cui notazione viene a riprodursi figurativamente la forma d’una croce). Figure chiastiche si hanno per esempio in Bach, nel coro della tuba “Lab ihnkreuzigen” dalla Passione secondo Matteo e nella fuga in do diesis minore (ben nota a Schubert) dal Clavicembalo ben temperato 1. E si incontrano anche in Schubert, per esempio nel “Crucifixus” della Messa in la bemolle maggiore.
Ma il ricorso ad una figura chiastica non significava per Schubert semplicemente l’adozione di un modulo retorico tradizionale: quale significato avesse per lui questo caratteristico motivo di quattro note si può cogliere in due Lieder del 1828 ambedue appartenenti al ciclo “Der schwanengesang”, e cioè “Der Atlas” – alle parole “……… die ganze welt der schmerzen mub ich tragen……” (…… l’intero universo dei dolori devo sostenere……) – e, con una più forte analogia, “Der Doppelganger” – alle parole “…… da steht auch ein Mensch und starrt in die Hohe und ringt die Hande vor Schmerzensgewalt……” (…… là sta anche un uomo e ha lo sguardo fisso in alto e si torce le mani in preda al dolore……). Come si vede, le figure chiastiche sono qui collegate al motivo del dolore che grava e opprime. Uno scioglimento delle forti tensioni accumulatesi nell'”Agnus Dei” sembra aversi in un primo tempo nel “Dona nobis pacem”.
Claudio Abbado
Ma nell’atmosfera rasserenata irrompono di nuovo, bruscamente, i toni drammatici nell ‘”Agnus”, e solo dopo questo episodio la ripresa del “Dona nobis pacem” porta alla definitiva liberazione e pacificazione.
Proprio questa parte conclusiva mostra chiaramente quanto Schubert si fosse qui allontanato dalle sue Messe giovanili concepite per una più immediata utilizzazione liturgica, e come invece in questa sua ultima Messa egli fosse infine pervenuto ad un messaggio artistico che nel suo accento assolutamente personale si pone come un’ideale confessione.
La grande maturità è maestria qui dimostrate da Schubert, e ancora la particolare complessità di questa Messa si rivelano pienamente nella sapiente fusione di modelli tradizionali di musica sacra – tutti integrati con piena consapevolezza della struttura compositiva (come ad esempio la policoralità, la forma fugata, la riutilizzazione di figure barocche, ecc.) – con una sensibilità armonica romantica, a volte assai audace, e con una ispirazione melodica feconda, “autenticamente schubertiana”.
Il trattamento estroso ed originale del testo liturgico da parte di Schubert – non mancano le omissioni, gli spostamenti di parole, come anche delle brevi aggiunte – è una ulteriore testimonianza dell’incessante ricerca dell’ultimo, più profondo senso della vita da parte di un uomo religioso, e ancora una testimonianza della sua ricerca di Dio.
Hans Jaskulsky
(Traduzione: Gabriele Cervone)
Messa n. 6 in mi bemolle maggiore D 950
La «Messa n. 6 in mi bemolle maggiore» fu composta da Schubert nell’estate del 1828, a Vienna. La prima esecuzione fu tenuta, il 15 novembre dello stesso anno, nella Pfarrkirche Maria Trost di Vienna. Schubert non era presente; ammalatosi di febbre tifoide agli inizi del novembre 1828, il 15 del mese era già gravissimo e il 19 si spegneva, a soli 31 anni. Moriva così uno tra i più grandi e più sfortunati compositori: sfortunato al punto che l’esecuzione della «Messa n. 6» apparve come la presentazione del lavoro di un «esordiente» (e infatti i precedenti del compositore Schubert erano stati così oscuri che nel 1821 l’opera «Alfonso und Estrella», rappresentata dopo la morte del musicista, era stata brutalmente rifiutata dai teatri viennesi; mentre nel 1828 la «Settima Sinfonia», anche questa eseguita postuma, era stata respinta dagli sprovveduti censori della Società degli Amici della Musica di Vienna.
La «Messa in mi bemolle maggiore» è divisa nelle rituali sei parti dell’«Ordinarium Missae»; e cioè nelle parti che sono comuni a tutte le Messe, eccezion fatta per la «Missa pro defunctìs» e per le Messe destinate alla Settimana Santa. Precisamente: «Kyrie», «Gloria», «Credo», «Sanctus», «Benedictus», «Agnus De ».
Il «Kyrie» (Andante con moto, quasi allegretto), inizia con una brevissima introduzione orchestrale ripresa poi, all’undicesima battuta, dal coro. Il quale, fin dall’esordio, qualifica lo stile del componimento: che è in gran parte quello disadorno e parco di complicazioni strutturali, della «Missa cantata» (e infatti gli episodi più significativi di questa «Messa» propendono più per la monodia accompagnata e per la polifonia isoritmica che non per il contrappunto fiorito e
per la polifonia multiversale: condizioni proprie di quel genere che trasforma la «Missa cantata» in «Missa solemnis»).
Robusta e incisiva appare la corale compattezza del «Gloria in excelsis Deo» (Allegro moderato e maestoso); corale compattezza rotta, in rare occasioni, da appena accennate proposte contrappuntistiche (tale è, nelle prime battute, l’intreccio ad imitazione aperto dai contralti ed esaurito dalle risposte delle altre voci). Il «Gloria» si adegua, dal punto di vista della struttura generale, ad una quadruplice partizione: prima l’Allegro moderato e maestoso di cui si è detto; poi, alle parole «Domine Deus», un Andante con moto che apre una parentesi più intensa e drammatica; quindi ripresa (alle parole «Quoniam tu solus sanctus») della robusta coralità dell’Allegro; infine, all’attacco dei bassi sulle parole «Cum Sancto Spiritu», un Moderato, aperto alla polifonica ricchezza di una fuga. Particolare attenzione merita, forse ancor più della grandiosa impalcatura dell’episodio fugato, l’Andante con moto: segnato dalla profonda incisione degli accordi suonati a tutta forza dal fagotto, dai tre tromboni e dal «tremolo» degli archi (ai quali si aggiunge, dopo poche battute della sola orchestra, la ferma linea vocale dei tenori e bassi in ottava, cui fa contrasto, al «mìserere nobis», l’implorante proposizione cantata dall’intero quartetto corale).
Il «Credo» conta sulla contrapposizione di tre distinti episodi. Il primo (Moderato) è vincolato alla compatta prospettiva vocale del «Gloria» (il che non esclude una compostezza immaginativa tale da spingere il compositore lontano dalla retorica: al punto che l’affermativa proposizione iniziale canta nel tono di una raccolta meditazione). Secondo episodio è quello costituito dall’Andante successivo («Et incarnatus est»); qui il contesto vocale è affidato, con entrate successive, al primo tenore, al secondo tenore, al soprano (tutti e tre condizionati dalla medesima fluidità cantabile del disegno melodico), e, infine, al coro (un improvviso oscuramento espressivo, segnato dal brusco passaggio dal «maggiore» al «minore», che sottolinea drammaticamente il testo: «Crucifixus etiam pro nobis»). Il terzo episodio riconduce al Moderato iniziale; sulle parole «Et resurrexit» il discorso si apre ad una densa amplificazione polifonica, suggellata dal trionfo maestoso dell’«amen» conclusivo (a proposito di quest’ultima parte va osservata l’omissione, rispetto al testo usuale della «Messa», delle parole «Et in unam sanctam, catholicam et apostolicam Ecclesiam»; omissione forse dovuta alla trascuratezza del compositore – come dimostrerebbero altri «tagli» operati in questa Messa da Schubert – ma forse anche riferibile, come più di un critico ha opinato, ad una deliberata insofferenza nei confronti della chiesa cattolica).
Il «Sanctus» è composto di due parti. La prima (Adagio) è caratterizzata dalla luminosa apertura attraverso la quale si amplifica la triplice ripetizione della parola «Sanctus»; la seconda (Allegro ma non troppo) rompe la struttura isoritmica della prima parte con la festosa animazione contrappuntistica che esplode nell’attacco dei tenori sulle parole «Osanna in excelsis».
Wiener Philharmoniker
Ancora bipartita è la struttura globale del «Benedictus». La prima parte (Andante) apre con la plastica nobiltà del disegno melodico – imparzialmente divisa fra il quartetto dei solisti e le quattro voci del coro – e la fluida scioltezza del contesto orchestrale; la seconda (Allegro ma non troppo) riprende l’«Osanna in excelsis» già ascoltato alla fine del «Sanctus».
L’«Agnus Dei» è diviso in quattro parti. La prima (Andante con moto) è dominata dalla ferma proposizione, a valori larghi, esposta dai bassi, e dalla vigorosa fioritura vocalizzata del controsoggetto introdotto dai tenori. La serrata concitazione dell’episodio si distende nella pacata dimensione del successivo Andante, dove il coro intona, nella solidale compattezza della scrittura a ritmo univoco, il «Dona nobis pacem». Il discorso musicale si riaccende alla ripresa del tempo iniziale (ancora iniziato dai bassi e dai tenori e ancora potentemente esaltato dal massiccio intervento degli ottoni e dal ritmo stravolto dei violoncelli e dei contrabbassi). Conclude, infine, un Andantino che ripropone la serena prospettiva del «Dona nobis pacem»: mutando la morbida effusione dell’accompagnamento orchestrale (che ne aveva caratterizzato la prima apparizione) nell’austera compostezza della scrittura strumentale (qui parificata, nel segno della più totale unità, al procedere del canto nelle voci corali).