Sibelius Jean
Sinfonie 4 – 7
Karajan ha sfiorata a più riprese, senza mai portar a termine, la registrazione integrale delle sinfonie di Sibelius. Negli anni Cinquanta, con la Philharmonia, ha inciso per la EMI dapprima Quarta e Quinta (1952-53), poi Sesta e Settima (1955), infine la Seconda e di nuovo la Quinta (1960). Nel decennio successivo (1965-67) ha ripreso con i Berliner per la DG le ultime quattro sinfonie, quelle qui presentate nel doppio album della collana Originals (mentre a completare la serie provvedeva il giovane talento finnico Okko Kamu: Seconda con i Berliner nel 1970, Prima e Terza nel 1973 con l’orchestra di Radio Helsinki). Tra il 1976 e il 1981, infine, sono giunte le incisioni berlinesi per la EMI, che comprendono Prima, Seconda, Quarta, Quinta, Sesta, oltre la Karelia Suite e i più noti poemi sinfonici (Finlandia, En Saga, Tapiola, Il Cigno di Tuonela). Resta definitivamente fuori – salvo errori – la Terza, la meno nota della serie.
A differenza di Bernstein, che nell’integrale newyorkese degli anni Sessanta ha adottato una concezione corposa e fluente mentre nelle tarde riletture viennesi è passato ad una più rarefatta e visionaria, Karajan ha sempre continuato a
riproporre ed affinare la stessa linea interpretativa, dove la raffinata e vibratile attenzione per i minimi dettagli timbrici e le minime sfumature espressive s’inquadra in un solidissimo dominio delle grandi forme.
L’autore, a suo tempo, apprezzò particolarmente l’interpretazione della Quarta, la più ambiziosa ed enigmatica della serie, il cui ultimo movimento è stato definito dal Maestro salisburghese come la più grande “catastrofe” del repertorio sinfonico insieme ai finali della Quarta di Brahms e della Sesta di Mahler (evidentemente attribuendo al termine il significato che esso aveva nel teatro greco). Una piena riuscita è raggiunta anche nel mix di trasparenza e forza con cui vengono resi i problematici equilibri della celebre Quinta, nel suo alternarsi di rarefazioni boreali, di squarci lirici, di circolari accumulazioni di energia. Così come totale giustizia è resa alla freschezza un po’ malinconica della Sesta, con le sue brezze di primavera nordica: forse la più bella delle sette, specie sotto la bacchetta di Karajan, certo la più esente dalle insidie della retorica. La sensibilità timbrica e l’infallibile senso costruttivo del direttore producono poi esiti felicissimi nell’esplorazione dei poemi sinfonici (anch’essi reincisi più volte), dalle rarefatte atmosfere di oltretomba nordico del giovanile Cigno di Tuonela sino alle suggestioni più complesse e articolate del terminale Tapiola.
Registrazioni eseguite dal 1965 al 1968 e rimasterizzazione effettuata nel 1999. Audio eccezionale. Imperdibile!
Sinfonia n. 4 in la minore op. 63
La sinfonia n. 4 è stata composta tra il 1910 e il 1911. Questa composizione segna un punto di svolta significativo nello stile compositivo sinfonico di Sibelius.
La quarta sinfonia di Jean Sibelius è considerata da alcuni studiosi come una delle opere più ardite e sperimentali del maestro finlandese. Il direttore d’orchestra Simon Parmet, amico di Sibelius, arrivava a paragonarla a un ciclone di tale violenza da lasciare completamente devastato il paesaggio musicale sibeliano. Per Giacomo Manzoni, invece, rappresenta «quasi un ritorno alla “prima maniera” di Sibelius; temi che germinano lentamente, con un procedimento simile a quello di Bruckner; atmosfere strumentali cupe e condensate, libero andamento fantastico delle idee musicali, in contrasto con la forma severa della sinfonia».
A differenza delle sinfonie precedenti, l’architettura della quarta non è determinata dalla presenza di temi chiaramente definibili, bensì da un singolo intervallo elevato ad elemento portante dell’intera struttura: la quarta aumentata, nota anche come tritono. Si tratta di un intervallo risultante dalla somma di tre toni interi (es. fa, sol, la, si) il cui effetto è piuttosto duro oltre a presentare
difficoltà nell’intonarlo, al punto di essere proibito utilizzarlo senza preparazione negli esercizi accademici rigorosi e condannato dai teorici antichi, che in latino erano soliti recitare: «Si contra fa est diabolus in musica».
Fra le sette sinfonie di Sibelius non ve n’è una che arrivi alle dimensioni gigantesche della ottava di Anton Bruckner o della terza di Gustav Mahler con una quarantina di minuti, le prime due sono le uniche “espansive” che si avvicinano al modello di Brahms Le restanti cinque tendono verso una crescente concentrazione, compresa la quarta la cui durata temporale (quaranta minuti circa nella interpretazione memorabile di Leonard Bernstein alla testa della New York Philharmonic) può trarre in inganno: essa è dovuta alla lentezza dell’eloquio, ma sul pentagramma la quarta è la più breve non comprendendo la partitura che poco più di una sessantina di pagine.
Tempo molto moderato, quasi adagio
Il primo movimento indicato Tempo molto moderato, quasi adagio, si apre con una tetra introduzione affidata ai bassi che affermano fin da principio l’intervallo di quarta aumentata. Di primo acchito, il linguaggio musicale si rivela di difficile classificazione: né tonale (invano si cercherebbe la minima affermazione del la minore promesso nel titolo), né atonale, né cromatico, né politonale. Il cupo e spaventoso tessuto sonoro richiama la terrificante introduzione del poema sinfonico L’isola dei morti di Rahmaninov e fa pensare ad un paesaggio invernale notturno finlandese, con le opprimenti tenebre di quando in quando squarciate dall’inquietante bagliore della luce di un’aurora boreale.
Archi bassi e fagotti eseguono la successione di note do-re-fa diesis, la cui ambiguità armonica è sostenuta dall’andamento sincopato. Dopo alcuni solenni accordi degli ottoni, l’intervallo di quarta aumentata compare per la seconda volta nelle parti degli archi acuti e per la terza volta a opera di violoncelli e contrabbassi. Il movimento si conclude riproponendo la stessa desolata atmosfera dell’introduzione, in un lungo unisono in la.
Allegro molto vivace
Nel secondo tempo, Allegro molto vivace, l’oboe riprende il la conclusivo del movimento precedente ma come terza di fa maggiore; l’atmosfera tetra cede il passo ad una maggiore luminosità dei colori orchestrali e anche la forma dai contorni facilmente riconoscibili favorisce il cambiamento di espressione. Tuttavia, ancor più che nel primo movimento, si afferma incessantemente la cruda asprezza dell’intervallo di tritono con la sua carica di instabilità. Il secondo tempo si configura dunque come uno scherzo anticipato di posizione, con un episodio centrale che tiene luogo del convenzionale trio, ma il doppio più lento. Secondo un procedimento tipico di Sibelius, proprio al culmine della tensione accumulata il movimento si conclude improvvisamente e diviene preda del silenzio.
Il tempo largo
Nel terzo movimento indicato come Il (Sic) tempo largo, nella tonalità di do diesis minore ritorna il paesaggio desolato e terribile del primo movimento. La struttura si suddivide in due blocchi tematici che si alternano vicendevolmente. La cellula germinale del primo blocco è annunciata dal flauto che procede per gradini in senso ascendente, con la prima e l’ultima nota che determinano un intervallo di tritono. Anche la cellula germinale del secondo gruppo, presentata dai corni, è costituita da una figura ascendente, ma a differenza del primo gruppo procede con un’alternanza regolare di salti di quinta e intervalli discendenti di seconda. Il movimento si caratterizza per la sensazione di spazio illimitato conferita dalla disposizione delle tessiture in cui nulla si colloca tra gli acuti ed i gravi; viene spontaneo l’accostamento alle abissali voragini sonore che si aprono tra le note più basse dei contrabbassi e quelle più acute dei violini nel quinto dei Sei pezzi per orchestra op. 6 di Anton Webern. Alla conclusione del tutti clarinetti e fagotti fanno un’allusione premonitrice a ciò che sarà la conclusione del movimento finale. Poi, anche il terzo tempo si spegne nella stessa fosca solitudine in cui si è concluso il primo.
Allegro
Il quarto movimento, Allegro, inizia in tono quasi gaio, con il tema iniziale che non riapparirà più nella sua forma iniziale, quasi che la sua unica funzione sia quella di stabilire un legame con il movimento precedente. L’intervallo di tritono riappare anche qui, nella parte della viola sostenuta dal rullo del timpano. Due sono i gruppi tematici che si alternano nel movimento, con il breve ripetuto motivo ostinato del glokenspiel che conferisce una nota glaciale. Dopo un breve sviluppo che riespone in successione i gruppi tematici, la ripresa si presenta fortemente serrata. Ma il secondo gruppo esplode all’improvviso in un terrificante amalgama sonoro, non più dissonante ma discordante e deliberatamente cacofonico, quasi come un cataclisma devastatore di dimensioni cosmiche.
Jean Sibelius
La musica sembra rianimarsi, ma è una sensazione brevemente illusoria; segue infatti la conclusione del movimento che si va pian piano spegnendo, con le brusche cadute di settime degli oboi e gli accordi perfetti conclusivi in la minore affidati ai soli archi che concludono la sinfonia richiamando le tetre sonorità con cui è iniziata.
Sinfonia n. 5 in mi bemolle maggiore op. 84
Dopo aver composto la sua Quarta Sinfonia, introversa e modernista, nel 1911, Sibelius si trovò ad interrogarsi sul suo linguaggio musicale in rapporto con i fermenti di rinnovamento che attraversavano tutta l’Europa. Era a una svolta nella sua carriera, a un punto di crisi. Iniziò a comporre la Quinta Sinfonia, in mi bemolle maggiore, poco dopo l’inizio della Guerra, nel 1914, e prima ancora di portarla a termine cominciò a lavorare alla Sesta.
La Sinfonia in mi bemolle gli era stata commissionata dal governo finlandese che intendeva celebrare con un concerto solenne il cinquantesimo compleanno del compositore, e quell’8 dicembre 1915 fu anche dichiarato festa nazionale. Quel giorno fu lo stesso Sibelius a dirigere la sua nuova Sinfonia, sul podio dell’Orchestra Filarmonica di Helsinki, e con grande successo. Ma il compositore non era contento del suo lavoro, e sottopose la partitura a due revisioni (la prima nel 1916, poi ancora nel 1919), riducendo i quattro movimenti originali a tre. Nella versione finale, che fu diretta ancora dall’autore, il 24 novembre 1919, e che rimane quella più eseguita, Sibelius modificò l’orchestrazione introducendo anche un clarinetto basso (in un organico per il resto molto convenzionale) e affidando molto del materiale tematico agli ottoni. Ma sembrò soprattutto spinto da un’urgenza di ridefinizione della forma sinfonica. Cercava di piegare le convenzioni della forma-sonata a un ideale di naturalezza del discorso musicale («volevo dare alla mia Sinfonia un’altra forma – più umana, più concreta, più vivida»), mirava a una sorta di germinazione organica dei motivi, attraverso una redistribuzione del materiale tematico (che resta peraltro molto “antimodernista”, con le sue armonie consonanti, le linee che si muovono per terze parallele, i ricchi sviluppi melodici), un sofisticato gioco combinatorio che lo aveva già ossessionato nella composizione della precedente Sinfonia.
Nell’aprile del 1915, nel pieno della composizione della Quinta Sinfonia, Sibelius annotava nel suo diario: «[…] Ho passato la serata con la Sinfonia. Con la disposizione dei temi. Quest’opera importante, che mi affascina misteriosamente. È come se Dio avesse fatto cadere dei pezzi di mosaico dal pavimento del suo palazzo celeste, e mi avesse chiesto di ricostruirlo». Così i primi due movimenti della versione del 1915 finirono per saldarsi in un’unica pagina, concepita con una lenta, ampia introduzione che prepara l’innesto di uno
scherzo veloce, col carattere di un valzer. Sibelius manipola letteralmente la forma-sonata, e ne ricava una struttura assai complessa, che è stata oggetto di numerose analisi e di differenti interpretazioni, una struttura quasi circolare, con una doppia esposizione, e basata su una progressiva accelerazione che parte da un Tempo moderato e finisce con un Presto.
Il movimento si articola in quattro sezioni, ciascuna con un proprio climax, un’esposizione in 12/8 (Tempo molto moderato) che inizia con un richiamo del corno (motivo che è la matrice di molti altri temi all’interno della Sinfonia) e che presenta da sola ben sei temi; una riesposizione (Allegro moderato) dove gli stessi temi vengono ribaditi in forma variata; uno sviluppo (Poco a poco meno moderato) che accelera fino a sfociare nella quarta sezione, lo scherzo in 3/4, dotato di un suo Trio, e ancora caratterizzato da una chiara progressione agogica (Allegro moderato ma a poco a poco stretto – Vivace molto – Presto – Più presto).
Il secondo movimento è una sorta di intermezzo (Andante mosso, quasi allegretto), costruito come una serie di variazioni sul tema del flauto, esposto all’inizio sullo sfondo dei pizzicati degli archi, variazioni poi affidate in gran parte ad intrecci dei legni.
Il finale segue una progressione agogica inversa rispetto a quella del primo tempo: da un inizio movimentato (Allegro molto, in 2/4) arriva a un grande rallentamento nel finale (Largamente assai). È una pagina molto ispirata, che si basa su una formicolante trama degli archi, e poi su un tema ampio e solenne intonato da corni e tromboni, che è poi diventato una delle melodie più famose di Sibelius, nota come tema “dei cigni” (ed anche la Quinta si indica talvolta come la “Sinfonia dei cigni”) perché l’autore raccontò di aver tratto ispirazione dal volo di uno stormo di cigni: «Una delle più grandi esperienze della mia vita. Mio Dio, che bello». Segue una riesposizione del materiale tematico e una coda trionfale e radiosa dove ritorna il tema solenne negli ottoni, che risuona fino alla strana cadenza finale, con i sei grandi accordi, separati da lunghe, misteriose pause.
Sinfonia n. 6 in re minore op. 104
La lunga gestazione della Sesta Sinfonia di Sibelius è passata attraverso diversi stadi e continui ripensamenti. All’inizio, come testimoniano i primi abbozzi del 1914, Sibelius aveva anche immaginato di trasformarla in un “Concerto lirico” per violino e orchestra; in una lettera ad Axel Carpelan del 1918 l’autore la descriveva in maniera nettamente diversa da come poi sarebbe stata: “La Sesta è di carattere selvaggio e appassionato. Cupa con dei contrasti pastorali. Probabilmente in quattro tempi con la conclusione che prende le mosse, tramite il tema principale, da uno scuro sussurro dell’orchestra. – Ma poi aggiungeva – È probabile che cambi i miei programmi a seconda dello sviluppo dei miei pensieri. Come sempre sono schiavo dei miei temi e mi sottometto alle loro esigenze”. In una serie di abbozzi del 1919 il progetto si trasformava in un Poema Sinfonico al Kalevala, l’epopea nazionale finlandese, che avrebbe avuto come titolo Kuutar (la dea della luna). I dubbi e le difficoltà incontrate nella composizione di questa Sinfonia portarono Sibelius a un momento di grave sconforto, come annotò nel suo diario il 23 giugno 1920: “La cosa nuova prende forma. Però dà molto lavoro. Se non fossi tanto giù di morale per essere un sinfonista: nessuno infatti cerca di sollevarmi il morale. È una strana sofferenza comporre Sinfonie”. E poi il 27 aprile 1922: “La nuova opera fa la sua strada e non sono soddisfatto […] Io ho ancora tanto da dire. Viviamo in un mondo dove tutti si volgono verso il passato”. Ma anche altri guai assillavano Sibelius in quel periodo: le difficoltà finanziarie (Sibelius compose molte opere orchestrali minori e miniature pianistiche per andare incontro alle esigenze degli editori), il tremore delle mani (“la mia mano trema talmente che mi è impossibile dirigere e molto difficile scrivere. Un inferno”), l’inclinazione all’alcool (definito «l’amico più fedele e il più comprensivo. Tutto il resto e tutti gli altri mi abbandonano»). Solo a partire dal settembre del 1922 Sibelius cominciò a lavorare sodo, dedicandosi alla nuova Sinfonia fino all’inizio del 1923, quando la completò dedicandola all’amico Wilhelm Stenhammar, compositore, direttore d’orchestra e suo grande sostenitore. Per poi finalmente dirigerla a Helsinki il 19 febbraio 1923, sul podio dell’Orchestra Filarmonica di Helsinki.
Al confronto con la Quinta, che mostrava una chiara impronta bruckneriana e un tono trionfante, la Sesta appare quasi diafana, trasparente, comunque lontanissima dai caratteri selvaggi e appassionati che il compositore aveva immaginato nel 1918. In un’intervista rilasciata sul giornale svedese “Svenska Dagbladet” qualche giorno dopo la prima, Sibelius descrisse così la sua nuova Sinfonia: “È di carattere e profilo molto tranquilli […] è basata come la Quinta su delle fondamenta lineari piuttosto che armoniche. Inoltre, come la maggior parte delle altre Sinfonie, consta di quattro movimenti; e tuttavia la loro forma è completamente libera. Nessuno segue un modello ordinario di Sonata […] Io non penso a una Sinfonia solamente in termini di musica in questo o quel numero di misure, ma piuttosto come a un espressione di un credo spirituale, una fase della mia vita interiore”.
Il carattere sospeso, elusivo, fluido di questa Sinfonia (già preannunciato nella Suite caractéristique per arpa e archi op. 100, composta anch’essa nel 1922) è determinato dall’assenza di contrasti, dalla trasparenza delle trame polifoniche (è da ricordare l’ammirazione di Sibelius per la musica di Palestrina), dalla scrittura diatonica e dalle armonie modali (soprattutto dei modi dorico e lidio), dalle ambiguità tonali (la partitura non ha indicazioni di tonalità in chiave,
anche se oscilla tra il re minore e il si minore), dalle sfumature e dalle mezzetinte – ottenute con un organico dominato dagli archi, ma anche da qualche timbro particolare come quello del clarinetto basso (che compare solo nell’organico di questa Sinfonia e nella versione originale della Quinta) o dell’arpa (che Sibelius non aveva più usato dopo la Prima). Musica sospesa, ma carica di mistero e di sottili inquietudini, come se qualcosa stesse sempre sul punto di esplodere, si apre con un Allegro molto moderato. Su una insolita trama polifonica degli archi, costruita su un motivo discendente di quattro note, emerge un tema malinconico dell’oboe, dal profilo ascendente, che poi si sviluppa accompagnato da armonie dal sapore arcaico. Tutto il movimento ruota intorno a questi materiali anche se la dimensione contemplativa dell’inizio lascia presto il posto a una musica più animata, piena di allusioni danzanti e popolari, fino alla coda che chiude il movimento in una atmosfera enigmatica, punteggiata da tremoli degli archi gravi e da cupi accordi dei corni.
Il secondo movimento (Allegretto moderato) mostra da subito un’estrema libertà, sin dagli iniziali accordi dei legni che si muovono seguendo una metrica irregolare e un percorso tonale spiazzante, con un fraseggio pieno di fratture, scarti improvvisi di registro, una scrittura spoglia ma di grande seduzione. Questa economia di mezzi è un tratto che contraddistingue tutto il movimento, un intermezzo malinconico e crepuscolare che si basa sulla stessa idea tematica del movimento precedente, e che si conclude con una reminiscenza di frammenti melodici già ascoltati, distribuiti fra archi e legni, e con un passaggio flautato degli archi che evoca il mormorio della foresta del Siegfried wagneriano. In netto contrasto appare quindi il successivo Scherzo (Poco vivace), innanzitutto per la sua nettezza ritmica, con la sua insistente pulsazione trocaica come un ritmo galoppante (che richiama il Poema Sinfonico Cavalcata notturna e alba op. 55). Movimento brusco, brevissimo (si consuma in poco più di tre minuti), in forma di Rondò, tutto giocato sull’alternanza di due temi, su una costante ambiguità modale e tonale, sulla contrapposizione tra i violenti accordi di ottoni e timpani e le plaghe aeree che ricordano lo Scherzo del Sommernachtstraum di Mendelssohn. Il finale (Allegro molto) ha una forma assai più complessa rispetto ai movimenti precedenti, ruota infatti intorno a quattro episodi principali. Si apre su una melodia dal carattere nobile, un tema eroico intonato reiteratamente dai primi violini, dai legni e dai corni, con le risposte degli archi gravi.
Herbert von Karajan
Nel successivo episodio queste frasi perdono progressivamente la loro simmetria, e la musica acquista contorni drammatici fino a raggiungere un climax di tensione (è anche l’unico vero episodio drammatico di tutta la partitura, nonché l’unico momento che presenti una reale scrittura cromatica). Dopo il terzo episodio (Poco rallentando), che ripristina la calma e reintroduce una scrittura diatonica, insieme al tema iniziale affidato a violini e legni, la splendida conclusione (Doppio più lento) appare come un’evoluzione degli statici blocchi antifonali dell’inizio, che chiudono la Sinfonia in un clima austero, modale, quasi come un ritorno al silenzio.
Sinfonia n. 7 in do maggiore op. 105
Completata nel 1924, la Sinfonia n. 7 di Jean Sibelius è una pagina di musica al contempo superba ed enigmatica che reca con sé l’aura di cosa conclusiva, o
forse meglio dire “definitiva”. Certamente conclude l’operoso e quanto mai originale percorso sinfonico del compositore, che dopo di essa pensò di dedicarsi a un’eventuale Ottava, salvo distruggerne gli abbozzi poco dopo averli annotati; e che negli oltre trent’anni che gli restarono da vivere scrisse solo un ulteriore pezzo per orchestra, il poema sinfonico Tapiola, qualcosa da camera e qualcosa ancora per pianoforte solo, ma null’altro di sinfonico. E certamente chiude il cerchio di una sperimentazione iniziata quasi vent’anni prima con la Sinfonia n. 3 e proseguita nel 1914 con la Sinfonia n. 5: il tentativo cioè di unire più movimenti della forma classica in unità di maggior respiro, che nella Terza si verifica nel movimento conclusivo (dove sono uniti i tradizionali Scherzo e Finale), nella Quinta nel movimento iniziale (dove si fondono la forma-sonata e lo Scherzo) e nella Settima si compie definitivamente, poiché l’opera è concentrata in un unico imponente movimento. Se poi si pensa che nella Sinfonia classica i singoli movimenti avevano una sostanziale unità di tempo ed erano diversificati al loro interno dalla presenza di temi e tonalità diverse, e che la Settima di Sibelius si profila in un solo movimento dalla sostanziale unità tonale (tutti i passaggi chiave sono in do maggiore o in do minore) variato al proprio interno dalla presenza di tempi diversi, si può considerare completato, in tale rovesciamento, il percorso evolutivo del genere in quanto tale.
Definitivo, inoltre, sembra il significato anche simbolico della tonalità di do maggiore che attraversa questa composizione. Priva di accidenti in chiave, do maggiore è la tonalità limpida per eccellenza. È la tonalità affermativa, astratta e luminosa della Jupiter di Mozart o del Preludio dei Maestri Cantori di Wagner. Negli anni Venti del Novecento si affermava scherzosamente (ma nemmeno troppo se si pensa che sono gli anni della dodecafonia) non potersi scrivere più nulla in do maggiore che non fosse già stato detto. Ebbene, nella Settima di Sibelius il do maggiore si lega a una musica che sembra esaurire l’idea stessa di un prosieguo, una musica appunto “definitiva” perché cupa e insieme grandiosa, non in quanto frutto di una soggettività esasperata ma, al contrario, di una superiore oggettività, di una calma fermezza, di una constatazione della fine delle cose priva di umori, e dunque nemmeno rassegnata.
Tutto ciò spiega anche perché Sibelius, quando la diresse per la prima volta a Stoccolma il 24 marzo 1925 la presentò come Fantasia sinfonica, ma quando la diede alle stampe scoprì le carte e la fece intitolare Sinfonia n. 7 in do maggiore (in un movimento).
Lunga e articolata era stata la genesi, in ogni caso. Nel 1918 l’autore aveva descritto il suo progetto per questa Sinfonia come una composizione in tre movimenti (con un misterioso Rondò ellenico conclusivo) nella quale legare la gioia di vivere e la vitalità con sezioni appassionate. Al principio degli anni Venti i movimenti erano diventati quattro, e sembra che la tonalità d’impianto dovesse essere sol minore ma che l’Adagio sarebbe stato in do maggiore. Tra il 1923 e il 1924 Sibelius mise da parte i materiali annotati e si dedicò ad altre attività compositive ed esecutive. Ma quando riprese quelle carte, dopo aver ordinato un forte quantitativo di whiskey, a suo dire necessario per stabilizzare la mano, la Sinfonia prese la sua forma definitiva, traendo spunto da un Adagio il cui tema principale, chiamato Tähtölä, proveniva dall’abbozzo di un Poema sinfonico mai scritto che avrebbe dovuto intitolarsi Kuutar (Spiriti lunari).
Nella continua alternanza dei tempi (mentre il tempo di battuta orbita attorno a ritmi in 3/2 e in 6/4), questo tema affidato agli archi e quello più sinuoso, che nella sua prima apparizione è affidato agli strumentini, costituiscono lo scheletro tematico della Sinfonia, che smembra questa materia in cellule destinate a legarsi tra loro in un continuo gioco di trasformazioni ad altri motivi, tra i quali uno in forma di maestoso corale affidato agli ottoni. Tra questi ultimi gode di particolare evidenza uno di poche note sempre affidato al trombone, che sembra essere legato alla figura di Aino, la moglie del compositore.
Il cigno di Tuonela, leggenda per orchestra op. 22 n. 3
Il nome di Sibelius è legato indissolubilmente alla storia e alla cultura finlandese, alle quali la sua musica si è sempre ispirata nel descrivere ed evocare suggestivi paesaggi nordici e figure di eroi e divinità antichissime, appartenenti alla tradizione popolare della sua terra. Espressione della scuola romantica del tardo Ottocento, la produzione piuttosto cospicua e ricca di riferimenti anche letterari e teatrali di questo compositore longevo (morì a novantadue anni) si può dividere in due fasi, distinte ma non contrastanti fra loro. Nel primo periodo creativo e in linea di massima fino al 1903 Sibelius risente del sinfonismo slavo e in particolare di Cajkovskij, utilizzando il materiale folclorico nel contesto di una valorizzazione ad ampio respiro del linguaggio orchestrale, puntato su poche cellule tematiche chiare e precise. A questa fase appartengono (tanto per citare qualche titolo) il poema sinfonico Una saga op. 9 (1892), i lavori per coro e orchestra Kullervo (1892), Cantata per l’incoronazione di Nicola II (1896) le suites sinfoniche Karelia op. 11 (i893-’97), Lemminkäinen op. 22 (1893-’97, in cui è incluso Il cigno di Tuonela), il poema sinfonico Finlandia op. 26 del 1899, la Sinfonia n. 1 op. 39 del 1899 e la Sinfonia n. 2 op. 43 del 1901-1902. In parte il Concerto per violino e orchestra op. 47 appartiene a questo periodo, in quanto iniziato nel 1903 e finito nel 1905, anche se esso rivela uno stile più aperto verso una linea neo-classica, che contraddistingue la seconda fase del processo creativo di Sibelius. In questo ambito si distinguono le musiche di scena per il dramma Kuolema (La morte), da cui deriverà la celeberrima Valse triste op. 44 (1904), le altre Sinfonie, dalla Terza alla Settima (dal 1907 al 1924), le musiche di scena per Il cigno di Strindberg (1908) e per La dodicesima notte e La tempesta di Shakespeare, rispettivamente del 1909 e del 1926, i poemi sinfonici Il bardo op. 64 del 1914 e Tapiola op. 112 del 1926, il Canto della terra op. 93 (1919) e la Suite champètre per archi op. 98b (1921).
Non v’è dubbio che uno dei pezzi più tipici della personalità del compositore finlandese è Il cigno di Tuonela, che fa parte del ciclo di quattro poemi sinfonici intitolato Lemminkäinen, suite per orchestra op. 22, scritta tra il 1893 e il 1895 e più volte sottoposta a revisione. Il cigno di Tuonela è il terzo pezzo del ciclo e il più famoso rispetto agli altri denominati Lemminkäinen le fanciulle dell’isola, Lemminkäinen in Tuonela e Il ritorno di Lemminkäinen. Fu eseguito per la prima volta il 13 aprile del 1896 ad Helsinki sotto la direzione d’orchestra dell’autore e suscitò molto interesse nell’ambiente musicale. Il ciclo è ispirato al poema epico finlandese del Kalevala, in cui si narrano le avventure di una specie di Don Giovanni finnico chiamato appunto Lemminkäinen, che riuscì a conquistare una intera comunità femminile. Tuonela è il regno della morte, circondato da un grande fiume dalle acque turbolente. Su di esso avanza maestosamente un cigno nero, cantando una nenia triste e struggente, quasi un presentimento di morte. È una pagina antologica in cui spiccano la melodia nostalgica del corno inglese annunciata da un accordo in si bemolle minore e una frase cantabile del violoncello con un assolo di viola, inserite in un gioco strumentale di gusto crepuscolare e quasi debussyana per certe sonorità lievi sfumate.
Tapiola poema sinfonico op. 112
Composto nel 1926 su commissione della New York Symphony Society ed eseguito per la prima volta il 26 dicembre dello stesso anno sotto la direzione di Walter Damrosch, Tapiola è l’ultimo poema sinfonico scritto da Jean Sibelius. Al pari di altri, si ispira al “Kalevala”, il poema epico nazionale finlandese caro al compositore; Tapio, nella mitologia finnica, è il dio delle foreste e Tapiola è la sua dimora, celata tra un fitto e cupo intrico di alberi e vegetazione.
Walter Damrosch
Il poema si basa sulla forma della variazione, con una ripartizione in introduzione, tema con sette variazioni e coda; allo stesso tempo tuttavia, la composizione mostra una forma quadripartita che porta a ritenere l’esistenza di una correlazione con la strofa di quattro versi apposta da Sibelius sulla partitura:
Là si stendono ampiamente le cupe foreste del Nord antichissime, misteriose, meditando i loro sogni selvaggi:
abita in esse il grande Dio delle Foreste
e gli spiriti silvani tessono magici segreti nell’oscurità.
Il carattere descrittivo e programmatico del poema sinfonico riesce particolarmente congeniale al genio del maestro finlandese, giacché Sibelius si dimostra in quest’opera come un sommo maestro della variazione; tutti i temi ed i motivi, per quanto possano differire nei rispettivi caratteri, nascono da un’unica cellula germinale. I moventi leggendari e mitici vengono esaltati da una fluida invenzione melodica e da una smagliante e sempre cangiante orchestrazione.
Il poema si apre con una breve frase in tempo Largamente, che presenta il tema principale e ricorda le battute iniziali de Il cigno di Tuonela fatte di accordi sovrapposti; segue a più riprese un’alternanza tra un Allegro moderato ed un più vivace Allegro, ma tutto il brano si basa fondamentalmente sull’unico tema principale, variamente trasformato per caratterizzare simbolicamente le diverse immagini delle foreste nordiche.