Strauss Richard
Poemi sinfonici
Questa versione economica contenente due CD fornisce un campione eccellente della musica per orchestra di Strauss. Rivolta a chi si affaccia al suo mondo per la prima volta, garantisce ad un prezzo accessibile un pezzo unico di questo compositore anche per i collezionisti veterani che amano comparare interpretazioni differenti dei conduttori più famosi. Come prevedibile, la registrazione di Solti alle prese con Strauss è estroversa, dinamica ma disciplinata. Concludendo, questo “Strauss Concert” di Solti annovera tra le migliori interpretazioni di alcuni dei poemi sinfonici dell’autore tedesco. Ottime anche le registrazioni. Per me un punto di riferimento. Buon ascolto! Registrazioni eseguite dal 1976 al 1980 e rimasterizzazione effettuata nel 1994.
Richard Strauss
Don Juan – Till Eulenspiegel – Also sprach Zarathustra Ein Heldenleben – Eine Alpensinfonie
Il nucleo della prima produzione di Richard Strauss è rappresentato da una serie
di poemi sinfonici che eleva la musica orchestrale tedesca dell’Ottocento a nuovi livelli di vividità descrittiva. Le cinque opere qui proposte possiedono in comune una straordinaria padronanza di virtuosismo orchestrale e un approccio alla forma, reso possibile da un’apertura a una ricchezza di fonti, di notevole fantasia.
Eseguito per la prima volta a Weimar nel 1889, Don Juan fu uno dei primi successi del compositore. La partitura si basa su un frammento drammatico del poeta tedesco Nikolaus Lenau (1802-50), e consiste in uno studio del mitico personaggio. L’insaziabile amante viene ritratto inizialmente con un tema che si solleva dagli archi, quindi per mezzo di un eroico motivo affidato al corno. Ogni nuova avventura è descritta con grande spirito ed energia, ma la focosa passione di Don Giovanni finisce per estinguersi nella desolata conclusione.
Till Eulenspiegel lustige Streiche (I tiri burloni di Eulenspiegel) ebbero il loro debutto nel 1895. L’eroe è un personaggio tratto dal folclore del Trecento; noto per le sue carnevalate – che vanno dall’innocente spiritosaggine alla pura malizia – il buontempone dovette alla fine fare i conti con la giustizia e con la forca.
Also sprach Zarathustra (Così parlò Zarathustra) fu presentato un anno dopo Till Eulenspiegel, nel 1896, e prende il titolo dal trattato di Friedrich Nietzsche (1844-1900). Il compositore non tenta di tradurre l’argomento filosofico in termini musicali, ma piuttosto di catturare con la musica il sapore e le emozioni del libro. Ciascuna sezione è intestata con uno dei titoli dei capitoli di Nietzsche; il poema intero è retto dalla figura di tre note ascendenti esposta all’inizio, un’imponente rappresentazione dell’alba.
Ein Heldenleben (Una vita d’eroe) fu completata nel 1898 ed eseguita per la prima volta l’anno seguente. L’origine di quest’opera non è letteraria bensì autobiografica, e l’eroe in questione non è affatto una figura leggendaria: è lo stesso compositore, il quale vi descrive anche sua moglie, i suoi fastidiosi critici e le sue composizioni.
Strauss firmò l’ultimo dei suoi poemi, Eine Alpensinfonie (Sinfonia delle Alpi), nel 1915. L’elemento descrittivo è puramente naturalistico, e nelle sue ventidue parti strettamente intrecciate il compositore descrive pittorescamente ciascun momento della scalata a una vetta alpina, e la discesa.
(Traduzione DECCA 1994)
Don Juan (Don Giovanni) poema sonoro per grande orchestra op. 20
Richard Strauss nacque nel 1864. Figlio di un eccellente suonatore di corno dell’orchestra di Monaco, ostinatamente conservatore e antiwagneriano (a Monaco i battibecchi tra il formidabile cornista e il più formidabile genio divennero proverbiali), fece il suo giovanile tirocinio di compositore e direttore d’orchestra al fianco di Hans von Bülow e di Brahms (nientemeno), militò, dunque, per qualche anno tra i musicisti definiti allora tradizionalisti e accademici, cioè nemici di Liszt e di Wagner (Brahms, naturalmente, era sopra le parti). Nel 1882 a Bayreuth il vecchio Strauss, che era primo corno nell’orchestra del Parsifal, indicò a dito il ‘demonio’ al giovane figlio. Il quale, invece, quattro, cinque anni dopo diventò wagneriano. Il Don Giovanni non è la prima manifestazione della conversione (la precedono Aus Italien e la prima versione del Macbeth), ma è la prima esplosione di un talento innovativo che allora in Germania non aveva che gli stesse a pari. Tutti i mezzi elaborati e raggiunti dal nuovo stile sinfonico tedesco (tematismo drammatico, ricchezza strumentale, polifonia, colore) si presentano qui con un’evidenza, una concentrazione, una maturità senza precedenti: e Strauss aveva solo ventiquattro anni! Al primo ascolto del Don Giovanni (ammesso che ci possa essere oggi per qualcuno di noi un primo ascolto di uno dei pilastri di tutto il repertorio sinfonico) – al primo ascolto, dicevo, – sembra che l’inarrestabile produttività delle invenzioni si crei qui la propria forma musicale, liberamente improvvisando.
Effettivamente una delle impressioni immediate che si ha dal Don Giovanni di Strauss è che i temi musicali, tutti netti, inconfondibili, superbamente espressivi, si inseguano l’un l’altro per una specie di iperbolica ostentazione del genio. Non c’è dubbio che il giovane Strauss, lavorando su un tema coltissimo (il mito di Don Giovanni) e sui due sentimenti principali della sua personalità, l’idealismo eroico e l’erotismo, si sia abbandonato alla straordinaria tensione produttiva quasi scoprendo per la prima volta se stesso. Sì, il giovinetto classicista aveva già scritto musica strumentale più che rispettabile (è raro che un talento così sicuro e solido tardi a manifestarsi), ma per noi, e forse pensava così anche lui, il “vero” Strauss, quello che conosciamo e ammiriamo, s’inizia col Don Giovanni. Ma egli, scoprendo se stesso, nel tumulto fantastico e passionale, avvertì anche (per la tradizione familiare, per la sua cultura, per l’istinto superiore) l’esigenza estetica della forma, che era, e rimase, solida. Infatti questa musica nasconde nel suo generoso entusiasmo, che ci trasporta e ci spinge al godimento attimo per attimo, un’architettura pensata e sicura (è quasi una forma-sonata, come il primo tempo di una Sinfonia, con contrapposizione tematica, sviluppo, ricapitolazione, coda: solo che tutto, anche il numero dei temi e il loro modo di apparire, è un po’ più nutrito e insieme più rapido del consueto).
Ludwig Thuille
Il Don Giovanni si avvia col procedimento, singolare e tipico di Strauss, di un tema tumultuoso e spavaldo che si slancia per invadere lo spazio sonoro. In un attimo l’eroe seduttore è davanti a noi, il trasferimento dell’immagine in musica è immediato e perfetto. Da qui più che un ascolto analitico-formale (utile solo con la partitura davanti agli occhi) giova l’ascolto narrativo e drammatico, per episodi. Alla presentazione del bel cavaliere (il gesto aristocratico, la luce ridente e beffarda dello sguardo, la corsa sfrontata per il mondo) seguono due incontri d’amore, due vere “scene”, nelle quali ascoltiamo due diversi temi, dolci e languidi, di carattere femminile: anzi, la seconda scena è propriamente un notturno di incantevole tenerezza (il canto malinconico dell’oboe sostenuto dall’impasto scuro e vellutato dell’orchestra). Ma Don Giovanni si stacca da ogni vincolo, egli non vuole un amore, ma tutto l’amore del mondo. Nella splendente luce solare e\gli canta il suo entusiasmo vitale (il celeberrimo tema dei corni, il tema che tutti ricordiamo). Il desiderio di vita e di felicità si espande, si fa insaziabile, e la necessità lo annienta. Strauss ha appreso da Schopenhauer che il desiderio è dolore e che la vitalità individuale è inganno e allucinazione. La magnifica favola del seduttore trionfante si conclude con una desolala visione di disillusione e di morte. Su un oscuro e insistito fremito degli archi la vita si dissolve nel silenzio.
Till Eulenspiegel: poema sinfonico op. 28
Il personaggio di Till Eulenspiegel, protagonista del piú estroso tra tutti i poemi sinfonici di Strauss, è una di quelle figure che furono assunte dall’immnaginario popolare prima e dalla letteratura poi a simbolo d un’identità nazionale, al tempo della vecchia Germania: una sorta di Faust in veste di monello, turbolento inventore di burle, in fuga perpetua da se stesso attraverso paesi e città. Strauss se ne innamorò assistendo nel 1889 a Weimar a una rappresentazione dell’opera Eulenspiegel di Cyrill Kistler. A colpirlo furono soprattutto i lati umoristici e scanzonati del personaggio, l’ironia beffarda sottesa allo spirito di rivolta contro la saccenteria dei benpensanti. Quella figura, tanto radicata nella solidità della storia quanto sospesa nella leggerezza della fantasia, gli parve adatta a costituire il soggetto di un lavoro teatrale; il progetto si arenò, per risorgere sei anni dopo come programma non per un’opera bensì per un poema sinfonico. Completato il 6 maggio 1595, Till Eulenspiegel lustige Streiche (I tiri burloni di Till Eulenspiegel) venne eseguito per la prima volta ai concerti Gürzenich di Colonia il 5 novembre dello stesso anno, sotto la direzione di Franz Wüllner.
Per quanto l’autore in una lettera al direttore della prima esecuzione negasse l’esistenza di un programma, invitando gli ascoltatori a cavarsela da soli, le peripezie di Till sono illustrate con una descrizione vivida, ancora una volta quasi plasticamente, perfino nei dettagli piú bizzarri (come quando nell’episodio della predica di Till si spiega che «il controfagotto nel registro grave rappresenta il dito grosso di un piede»). L’opera è articolata in cinque episodi, evocanti altrettante avventure del protagonista, preceduti da un’introduzione e seguiti da un epilogo. La forma del rondò, esplicitamente menzionata nel sottotitolo in capo alla partitura insieme con il riferimento a un’antica melodia burlesca, parve a Strauss la piú adatta a rappresentare il vagabondare di Till. Ciò gli consentiva di far tornare il tema principale dopo ogni strofa, prima di ogni nuova avventura, e di svolgere i controtemi nelle parti di collegamento: un espediente strategico del tutto connaturato all’argomento, ma soprattutto garante di un principio quasi classico di unità.
Cyrill Kistler
Nelle prime battute dell’introduzione i commentatori hanno visto tradotto in suoni il tradizionale esordio delle favole, «C’era una volta…»: ne è emblema l’antica melodia burlesca di cui parla il sottotitolo, affidata ai violini. Alla sesta misura il corno presenta il tema principale, quello di Till: scattante, spavaldo, audace nelle sue provocazioni ma anche beffardo nel suo precipitare a rotta di
collo verso l’abisso. E il racconto comincia. Sono cinque momenti di gloriosa incoscienza, trattati con la piú incantevole bonomia, spingendo all’estremo la polifonia orchestrale in un gioco di colori, di ritmi, di intrecci, di variazioni figurate. Ecco Till che irrompe sulla piazza del mercato creando un’irrimediabile confusione, tra sinistri strepiti e risa sbellicate; che si traveste da frate per fare al colto e all’inclita una predica blasfema; che corteggia una ragazza fingendosi perdutamente innamorato, salvo poi offendersi del suo rifiuto; che incontra cinque luminari della scienza (musicalmente personificati da tre fagotti, clarinetto basso e controfagotto), disputando con loro dei massimi sistemi, prima imbrogliandoli e poi dandosela allegramente a gambe. Finalmente sazio di burle, Till riflette sul suo destino, mentre cresce in lui l’indignazione per quel canagliume che è l’umanità (pretesto per un episodio meditativo che riespone il materiale tematico in una nuova combinazione, di tono quasi elegiaco). Davanti a lui si delinea un futuro nero: inevitabile che «filistei, professori e sapienti» ne esigano l’arresto, il giudizio, la condanna. Alla sentenza di morte pronunciata dai tromboni con un salto discendente di settima maggiore egli risponde fischiettando spensieratamente il suo tema. Solo sulla forca un grido acutissimo, strozzato, rivelerà la sua fragilità umana, destinata a finire come tutti, burloni e non, nel nulla.
Ma Till Eulenspiegel è un personaggio fiabesco, e come tale immortale. L’epilogo torna a evocarne la figura con immnensa dolcezza, quasi con gratitudine, trasfigurando il suo tema sul placido cantabile del «C’era una volta…» dell’introduzione. Poi un ultimo sberleffo ne annuncia radiosamente l’ascesa liberatrice verso l’empireo dove, anche privato del corpo, lo spirito è vita.
Also sprach Zarathustra (Così parlò Zarathustra) poema sinfonico op 30
Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno di Friedrich Nietzsche (Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen, che in italiano sarebbe meglio tradurre Così parlava…), 1883-85, sembrò all’autore il suo libro decisivo, anzi «il più grande regalo» dato all’umanità, «il libro più alto che esista, il vero libro delle cime (‘das eigentliche Höhenluft-Buch’)» (così nel Prologo di Ecce Homo, detto delle pagine dello Zarathustra che egli aveva concepito «nell’ora sacra, ‘in derheiligen Stunde’, in cui morì Wagner a Venezia»). Lo Zarathustra, eloquente ed enigmatico com’era, diventò presto (ma non subito, che anzi incontrò dapprima ostilità e derisione) il libro più celebre di Nietzsche in tutta Europa, il più citato ma, si direbbe, non il più letto. Lo Zarathustra, nel rifinito stile lirico e ardente degli anni estremi di Nietzsche, oracolare e a tratti oscuro, contribuì a nutrire come pochi ‘profeti’ borghesi seppero fare, ambizioni forti e anche mediocri in artisti alla ricerca di ebbrezze intellettuali. A questo stile ‘iniziatico’ e all’illusione che qui fosse il linguaggio
nuovo e ‘artistico’ di ogni arte moderna (la traduzione francese, nella quale lo Zarathustra si impose nelle culture non germanofone, lo indebolì molto, ne ridusse la tagliente fermezza, ma lo mise alla portata di tutti) si dovette l’enorme successo del libro tra Otto e Novecento. Poesia, romanzi, pittura hanno avuto il loro momento ‘zarathustriano’ e lo ebbe anche la musica: oltre Strauss, anche Mahler (nella sua Terza Sinfonia, composta nel 1895-96, poco dopo lo Zarathustra di Strauss), Fredrick Delius (la nobile e pagana Mass of Life), e il secondario Oskar Fried (Das trunkene Lied). Ma Nietzsche aveva mirato ad altro, a cambiare noi e il nostro destino, martellando in racconti e in parabole, i tre pensieri demolitori del razionalismo socratico e cristiano, cardini della sua visione del mondo – l’eterno ritorno di ogni cosa, l’uomo oltre l’uomo (il cosiddetto ‘superuomo’), la volontà di potenza. Di là dai veli dell’invenzione erudita, metaforica, arcaizzante, parodistica (di Platone, specialmente, e dei Vangeli), la sostanza concettuale è sofferta e severa. L’aspra magniloquenza nasconde speranza, amore, dolore, e non estetismo.
Così parlò Zarathustra di Strauss (1895-96) sta tra i suoi Till Eulenspiegel (1895) e Don Quixote (1897), e l’anno dopo toccò a Vita d’eroe (Ein Heldenleben). È una tetralogia, ‘eroica’? Sì, forse, ma solo nel senso che i poeticissimi Till e Quixote (il capolavoro sinfonico di Strauss, direi), i cui ‘protagonisti’ sono eroi dell’azione, si alternano a due poemi musicali di ‘concetti’ senza figure. Immagini e narrazioni eroiche in un caso, pensieri e gesti nell’altro: e appunto l’astrattezza del contenuto è, nel caso di Zarathustra e Vita d’eroe, limite alla continuità logica e al valore artistico pieno, che nessuno negherebbe al Till e al Quixote. Mentre per molti diffidenti verso lo Strauss romantico i due poemi ‘astratti’ sono tipici esempi di sublimità artefatta (anche se magistralmente attuata) nella sua musica.
Ma è bene aver chiaro che Strauss non ha avuto alcuna intenzione di trasformare in suono l’ordinato contenuto dei quattro libri di Nietzsche. Il rapporto con il testo ormai famoso è stato del tutto libero (è detto nel frontespizio della partitura), a differenza poi delle altre composizioni ispirate allo Zarathustra qui non c’è la voce e quindi non si odono parole, e infine il musicista ha scelto i diversi capitoli non rispettando affatto l’ordine proprio dell’opera letteraria.
Friedrich Nietzsche
Come è evidente dallo schema che qui presento per comodità di chi vuoi fare il confronto tra il poema di Strauss e l’opera di Nietzsche (i numeri arabi indicano gli episodi della musica, i romani uno dei quattro libri dello Zarathustra seguito
dal numero arabo del capitolo: il conciso confronto manca nelle maggiori biografie di Strauss):
(Introduzione = Prefazione, 1); 1 = I §3; 2 = III §14; 3 = I §5;4 = II § 11; 5 = IV §15; 6 = III §13; 7 = II §10; 8 = IV §19.
A momenti, se si fa questo preciso riscontro tra filosofia e musica, sembra perfino legittima l’idea che Strauss si sia fatto un piano di significati secondo i titoli di Nietzsche più che sui loro contenuti specifici (alcuni dei quali, del resto, sono visionari ed oscuri). Noi conosciamo le convinzioni di Strauss fondate sul vitalismo pagano (cioè anticristiano), sulla forza primaria della natura e della naturalità, sul sensualismo estetizzante e sulla supremazia dell’arte – dunque, idee di gran parte della cultura tedesca all’epoca dell’estetismo ellenizzante. Nello Zarathustra musicale c’è tutto questo, espresso con ammirevole ricchezza di invenzioni e di mezzi (ben si ascolta che, anche in questo discusso poema, per bravura e fantasia in quegli anni nessuno gli era pari), con energia di relazioni tra concetto e disegno sonoro, con poderosa retorica. Qual è allora il piano dei significati, lo svolgimento del contenuto ideale nella musica?
Nell’inizio celeberrimo in do maggiore, che i cento usi cinematografici e pubblicitari non hanno indebolito, la natura nella crescente luce dell’alba splende con semplice magnificenza. Il solitario eremita, Zarathustra, scende nel mondo degli uomini per annunziar loro la profezia dello spirito non ascetico e dell’uomo superiore, dell’uomo oltre l’uomo. Zarathustra attraversa tutte le esperienze in mezzo agli uomini sprezzanti e pii (quelli che sperano in una sede di là dal mondo), forti e malati, orgogliosi e deboli – egli conosce, esalta, disprezza le illusioni religiose, i deliri delle passioni (la musica è irresistibile!), la morte, la paziente costruzione della scienza e della sapienza analitica (su un tema enigmaticissimo di dodici note, più due ripetute, si costruisce una Fuga molto complessa), la lenta guarigione dai lacci del mondo («Zarathustra ti chiama, Zarathustra il senzadio! lo, il portavoce della vita, il portavoce del dolore, il portavoce del circolo [dell’eterno ritorno, i corsivi non sono nel testo] – io ti chiamo, mio più abissale pensiero»), la liberazione nell’ebbrezza dionisiaca e nell’immensità della notte. L’esaltazione della verità non contemplata ma vissuta si oscura e si estingue nella enigmatica domanda finale: natura (do maggiore) o spirito (il remoto si maggiore)? La verità è nella loro identità.
Ein Heldenleben (Una vita d’eroe) poema sinfonico op. 40
Con Una vita d’eroe (Ein Heldenleben composto nel 1898 ed eseguito il 3 marzo dell’anno successivo a Francoforte sul Meno sotto la direzione dell’autore con Willy Hess violino solista, Richard Strauss concludeva, non ancora
trentacinquenne, il capitolo della sua esperienza creativa che più d’ogni altro era servito a creargli una notorietà di «enfant terrible» della musica dell’ultimo Ottocento destinata a venir presto revocata in dubbio da rivoluzioni di ben altro radicalismo, al punto che non da ieri Strauss è per noi, anziché il pericoloso sovvertitore che per qualche tempo era parso, il più genuino rappresentante di un’epoca e di un gusto perfettamente datati e conchiusi. Una vita d’eroe è infatti l’ultimo dei grandi poemi sinfonici del periodo giovanile di Strauss, iniziato già nell’86, a ventidue anni, con una pagina eccezionalmente significativa pur nella sua immaturità come la «fantasia» Aus Italien, e proseguita per oltre un decennio attraverso una serie di capolavori irripetibili, troppo spesso assenti oggi, dopo mezzo secolo di ineguagliata fortuna, dal repertorio concertistico, per lo meno da noi: da Don Giovanni (1888) a Macbeth (1890 nella seconda versione), a Morte e trasfigurazione (1889), a Till Eulenspiegel (1895) a Così parlò Zarathustra (1896), a Don Chisciotte (1897).
Tutte opere la cui fisionomia costruttiva si affida, esteriormente, all’assunto del «programma» letterario, della «storia» da narrare attraverso i suoni, e la cui capacità di presa immediata sfrutta le risorse di una tecnica di orchestratore, o meglio di un modo di scrivere per l’orchestra, senz’altro privi di termini di confronto all’epoca se si eccettuino le partiture di Mahler, l’altro grande dominatore, sia pur con intenzioni ed esiti diversissimi, della gigantesca orchestra postromantica. In mezzo a questi due estremi – la dipendenza apparente da un’ispirazione extramusicale nel momento creativo e l’abilità di creare rutilanti prospettive sonore – stava in realtà una natura di compositore di estrema maturità e consapevolezza formale, che certo non lasciava guidare lo svolgimento di un pezzo soltanto dalle idee più o meno elevate dei canovacci poetico-letterari, né si limitava, nello stendere partiture così complesse e irte di difficoltà, a cercare un effetto pronto e sicuro sul pubblico; ma che faceva musica in modo genuinamente sinfonico, nel senso di una profonda elaborazione del materiale tematico, memore di secoli di tradizione contrappuntistica e sonatistica, secondo una vocazione squisitamente germanica.
Pur rinunciando in partenza a proseguire su un cammino, quello della Sinfonia, che con le composizioni di Brahms e di Bruckner si era definitivamente concluso (le Sinfonie di Mahler, il «grande inattuale», avrebbero rappresentato un capitolo a sé, sotto ogni punto di vista), Strauss applicava dunque al genere della musica «a programma» inaugurato da Berlioz e Liszt e a un linguaggio musicale irremissibilmente marcato – nel tessuto armonico come nell’organizzazione strumentale – dalla lezione wagneriana una concezione del fatto compositivo che costituiva soprattutto un aggiornamento, anche in termini vistosi, di tecniche consacrate dalla storia. Il che, oltre a ricondurre Strauss, al
di là dell’immagine di rivoluzionario provvisoriamente e impropriamente attribuitagli, nell’alveo di una precisa direttrice storica, concorre a garantire la solidità anche formale dei suoi poemi sinfonici, in apparenza così sfrenati nell’estroversa espansione fantastica.
Giunto alle soglie del nuovo secolo, prossimo a raggiungere una maturità anagrafica che forse gli pareva recare l’obbligo di un mutamento di rotta, Strauss rinunciò definitivamente a proseguire sulla via del poema sinfonico: alla composizione puramente orchestrale sarebbe tornato solo nel 1903, a cinque anni dal completamento di Una vita d’eroe, e con un lavoro come la Sinfonia domestica, ancora una volta programmatico, ancora una volta grandioso nelle proporzioni, ancora una volta lussureggiante nella veste sonora, affidata a un’orchestra enorme, eppur caratterizzato da una sorta di ripiegamento nel quotidiano affatto estranea alla proiezione fantastica conferita ai poemi giovanili da assunti filosofici o poetici di ben altra ambizione; la tappa successiva, nel 1915, sarebbe stata la Sinfonia delle Alpi, e qui veramente l’elefantiasi formale e fonica sarebbe parsa pletorica ed esteriore, le smisurate visioni naturalistiche, pur nel loro indubbio potere di suggestione, prive di quell’autenticità di sentire che in precedenza si era imposta come uno dei migliori caratteri del suo lavoro. Non per nulla la serie delle maggiori opere teatrali di Strauss coincide cronologicamente con questa diminuzione d’importanza della composizione orchestrale: cui avrebbe corrisposto, nella magnifica vecchiaia del musicista, un ritorno di fiamma stupendo ma lontanissimo dai modi della produzione giovanile, con le meravigliose Metamorfosi affidate nel ’46 alla trasparenza di un organico di ventitre archi solisti.
Molte cose fanno pensare che Strauss abbia concepito Una vita d’eroe con la chiara consapevolezza del suo significato di addio al genere fin allora da lui preferito. Il tema letterario del poema è squisitamente autobiografico e riepilogativo: l’«eroe» è qui senza dubbio il compositore stesso, nel senso che egli riconsidera qui tutta la sua esistenza umana e artistica, quasi per chiarire a se stesso il senso della propria opera e della propria avventura morale; non necessariamente per autoglorificarsi, ma per ribadire il senso organico e l’importanza interiore dell’esperienza finora vissuta.
Willem Mengelberg
Ed è quanto mai significativo, a questo proposito, che la partitura di Strauss, oltre a svolgere con la consueta adesione e pertinenza il tema letterario del lavoro, articolando i gesti sonori e i rapporti musicali lungo le linee di quello, includa una gran quantità di autocitazioni, soprattutto dai poemi sinfonici precedenti; raddoppiando quindi la funzione «mimica» di figure musicali già impiegate e dunque provviste in partenza di un significato evidente. Una vita d’eroe finisce pertanto per imporsi, se non come il migliore fra i poemi sinfonici di Strauss, certo come il più denso di significati; con in più l’interesse che nasce dal vedere qui all’opera un compositore ormai giunto, facendo tesoro di tutte le realizzazioni precedenti, a un’efficienza tecnica e a padronanza di mezzi tali da farlo apparire al meglio delle sue capacità.
Il lavoro si propone come un’amplissima costruzione sinfonica, articolata in sei sezioni ben distinte ma senza soluzione di continuità, provviste ciascuna di un titolo e di indicazioni esplicative; e che qui, quanto e forse più che per ogni altra composizione a programma, è importante seguire avendo occhio anche al loro significato extramusicale: L’eroe, Gli avversari, La compagna, Il campo di battaglia, Le opere di pace, Ritiro dal mondo e fine dell’eroe.
1. L’eroe. Il protagonista del poema si annuncia fin dall’inizio con un gesto musicale deciso e pieno di energia volitiva; altri tre temi dipingono la sua potenza d’immaginazione, la profondità del suo sentire, la sua vitalità. Dopo una serrata elaborazione, un imponente crescendo porta alla vigorosa riaffermazione del tema principale.
2. Gli avversari. Il tono grottesco, caricaturale, con il quale Strauss presenta qui i nemici dell’eroe, ovviamente veduti come personaggi meschini e petulanti, genera un episodio tipicamente rappresentativo di quelle «arditezze» di linguaggio che fecero la fama del giovane musicista. Gli «avvenimenti» di questa scenetta sono facilmente intuibili dal giuoco dei timbri orchestrali e dei temi, in particolare per il modo in cui il motivo principale dell’eroe entra in rapporto con quello degli avversari.
3. La compagna. Questo episodio è dominato dalle espansioni del violino solista, cui è affidata la raffigurazione della compagna dell’eroe e attraverso di lei dell’eterno femminino. Anche qui la rappresentazione si fa estremamente concreta, passando in rassegna i diversi umori della compagna, mostrandoci l’eroe nelle varie fasi del suo rapporto con lei fino al tenero colloquio intrecciato dai due personaggi musicali. A questo segue bruscamente un marziale appello delle trombe, ad annunciare la sezione successiva.
4. Il campo di battaglia. Tornano i temi dell’eroe e (modificato) dei nemici. La raffigurazione sfrutta con diabolica abilità tutte le risorse di una vastissima percussione e degli ottoni: allo scontro segue l’inevitabile vittoria salutata da un canto trionfale cui è chiamata a partecipare la compagna; i sordi colpi di timpano insinuano però una sensazione di oscura e lontana minaccia.
5. Le opere di pace. Si chiarisce qui il senso più «privato» di Una vita d’eroe, con la sfilata delle citazioni dai lavori precedenti, assunti a raffigurare le azioni dell’eroe e anche, forse, i diversi lati del suo carattere. Dapprima è Don Giovanni, poi Zarathustra, Morte e trasfigurazione, Don Chisciotte (non manca il tema di Sancio Panza), Till Eulenspiegel, l’opera Guntram, Macbeth, un Lied, Sogno nel crepuscolo: un mosaico di sapiente costruzione, nel quale torna a irrompere brevemente il tema degli avversari, dando origine a un nuovo episodio di lotta.
6. Ritiro dal mondo e fine dell’eroe. La quiete interiore finalmente conseguita dall’eroe è espressa in un episodio quasi pastorale, dove la musica tende a creare un’atmosfera di elevata riflessività. C’è ancora un ultimo momento di contrasto, poi la luminosa conclusione data dal tema della compagna: la trasfigurazione è siglata da un accordo lungamente sostenuto dai fiati.
Eine Alpensinfonie (Sinfonia delle Alpi) poema sinfonico op. 64
Se i primi abbozzi di un grande affresco sinfonico (che avrebbe dovuto intitolarsi L’Anticristo, Una sinfonia delle Alpi) risalgono al 1902, non fu prima del 1911 che Strauss riprese concretamente a lavorare a quella che sarebbe rimasta la sua ultima composizione per orchestra di grandi proporzioni e ambizioni. Il 18 maggio 1911, appresa la morte di Mahler, Strauss annotava sul suo diario che il titolo di Anticristo stava a significare che la Sinfonia delle Alpi dipingeva «la purificazione morale dell’uomo grazie ai suoi soli forzi, la liberazione dal lavoro, il culto dell’eterna, splendida natura». Ridotta dai quattro tempi previsti in origine a un unico grande movimento sinfonico, la Alpensymphonie continuava a mantenere il titolo di Anticristo ancora il 5 agosto 1913, quando Strauss terminava di stenderne la composizione; l’8 febbraio 1915, dopo cento giorni di lavoro, fu terminata anche l’orchestrazione; il 25 ottobre di quell’anno, a Berlino (ma alla guida dell’Orchestra reale di Dresda, dedicataria dell’opera), Strauss dirigeva la prima assoluta della Sinfonia delle Alpi. Il titolo ormai scartato di Anticristo è comunque utile a comprendere \l’effettivo significato di questa mastodontica partitura, che, privata del suo riferimento a un naturalismo pagano e ottimistico, rischia di rimanere soprattutto documento di un’ abilità descrittiva quasi cinematografica e di uno sbalorditivo mestiere di strumentatore («Finalmente ho imparato a orchestrare!» disse Strauss alla fine delle prove). Certamente, le esaltazioni nietzschiane dello Zaratbustra risuonano nella gigantesca Sinfonia delle Alpi abbondantemente stemperate nell’autocompiacimento del compositore ormai espertissimo. Resta a quest’opera, al di là della descrizione più o meno puntuale di una scalata in montagna dall’alba al tramonto, fra paesaggi suggestivi e visioni soprannaturali, il fascino di una pittura d’ambiente e di un grandioso respiro espressivo.
Le varie sezioni della partitura descrivono via via la notte, il sorgere del sole (tema del sole in la maggiore), l’ascesa (tema del viandante), l’entrata nel bosco (arpeggi degli archi), il cammino lungo il ruscello (archi e legni con abbondanza di figurazioni), la cascata (archi balzati, scale discendenti di legni, triangoli, campanelli), l’apparizione della natura (melodia dell’oboe, tema del corno), le praterie fiorite (con cinguettio d’uccelli e svolazzare di farfalle), i pascoli alpestri (jodler dei legni, campanacci), i sentieri impervi attraverso il folto e le fratte (fugato), il ghiacciaio (violini e viole acutissimi, trombe e clarinetto in mi bemolle stridenti sopra un rullo di timpani), i momenti del pericolo (agitato tremolo degli archi), la cima (impressione dell’immensità nel canto dell’oboe), la visione (altro solenne fugato, il motivo della cima che risuona nei registri acuti, quello del sole nella pompa dell’organo, quello della montagna nell’imponenza delle trombe, dei tromboni e delle tube), il levarsi della nebbia (atmosfera lugubre mediante lo heckelphon), il sole che a poco a poco si oscura (delicati accordi delle trombe con sordina accompagnano il tema del sole che si ascolta nell’organo), l’elegia dell’ora (oboe contralto), la quiete prima del temporale (nei timpani rugge sordamente il tuono, nel flauto e nel clarinetto serpeggiano lampi lontani, con flauto, oboi e pizzicati di violini si imita il cadere delle prime gocce), la burrasca e la tempesta (scatenamento generale dell’orchestra e della percussione), la discesa, il tramonto, le ultime risonanze e infine, ancora, la notte (accordo pianissimo in si bemolle minore).