Vivaldi Antonio

Complete Flute Concertos

Una registrazione eccellente dei Concerti da flauto di Vivaldi! I tempi vengono rispettati, l’audio è chiaro e i concerti magnificamente eseguiti. È così bello rilassarsi con il suono del flauto! Il mio pezzo preferito è La Notte. Severino Gazzelloni e i Musici costituiscono un binomio stellare. Raccomando questo CD a chiunque ami la musica barocca. Registrazioni eseguite dal 1964 al 1974 e rimasterizzazione effettuata nel 1996. Buon ascolto a tutte e tutti voi.

Il flauto di Vivaldi

Nelle partiture di Vivaldi, come in quelle di molti suoi contemporanei, viene prescritto sia il “flauto” che il “traversiere”, due termini che stavano ad indicare rispettivamente il flauto dolce (diritto) e quello traverso. All’inizio del Settecento il primo dei due strumenti godeva ancora di notevole diffusione a Venezia, dove Vivaldi insegnava all’Istituto della Pietà, come testimonia tra l’altro la pubblicazione nel 1712 delle sonate op. 2 di Benedetto Marcello. Di lì a poco, tuttavia, il flauto dolce sarebbe stato progressivamente rimpiazzato dal traversiere. Dotato di maggiori capacità dinamiche e timbriche e, di conseguenza, di possibilità espressive ancora inedite, esso era costruito di bosso, di ebano o di avorio, materiali assai resistenti ma ancora lontani dalla robustezza e della conseguente sonorità squillante del metallo oggi impiegato (di solito una lega d’argento); il corpo era rastremato verso l’estremità, non cilindrico come quello odierno; aveva una sola chiave (per il mi bemolle) al posto della “meccanica” moderna; i fori di diteggiatura, infine, erano molto stretti rispetto a quelli attuali e limitavano quindi la potenza sonora. Tali caratteristiche determinavano un timbro più scuro e una sonorità più contenuta e pastosa rispetto a quella del flauto moderno di metallo, il quale offre tuttavia al flautista una serie di risorse tecniche non disponibili sul traversiere.
Anche nelle opere di Vivaldi è possibile rintracciare le prove del suddetto cambiamento e oggi si tende a considerare le sue composizioni per flauto dolce più antiche di quelle per traversiere. Il primo impiego sicuro del nuovo strumento da parte di Vivaldi avvenne nel 1727 con l’opera Orlando, cui seguì nel 1728 l’edizione dei concerti dell’op. 10: tali composizioni coincidono dunque, con ogni probabilità, con il momento in cui nacque l’interesse vivaldiano per tale strumento, e ciò è confermato dal fatto che, sempre nel 1728, nel citato Istituto della Pietà – dove il flauto dolce era stato insegnato fin dal 1706 – venne assunto Ignazio Siber, in precedenza a lungo insegnante di oboe, ma questa volta con l’incarico di docente di flauto traverso.
Il crescente apprezzamento per il nuovo strumento e la progressiva dimestichezza con esso da parte di Vivaldi spiegano anche la cronologia dei sei concerti che costituiscono l’op. 10, cinque dei quali sono arrangiamenti o trascrizioni per traversiere e archi di più antichi concerti comprendenti il flauto dolce o anche lo stesso traverso.
I primi tre brani di tale raccolta (quelli con un titolo didascalico: “La tempesta di mare”, RV 433; “La notte”, RV 439; “Il gardellino”, RV 428), così come il sesto della serie (RV 437), sono tutte opere concepite in origine come concerti da camera; più eloquente è il caso del Concerto n. 5 (RV 434), una trascrizione per traversiere di un precedente concerto per flauto dolce (RV 442), il cui movimento lento, originariamente nella tonalità di fa minore (adatta appunto al flauto dolce), fu trasposto in sol minore per renderlo più adatto alla diteggiatura del flauto traverso. Solo il quarto Concerto di questa serie (RV 435) sembrerebbe esser stato composto direttamente per il traverso, senza adattamenti di sorta; ma anche questa è un’ipotesi da verificare, visto che potrebbe essere esistita una fonte precedente oggi non conosciuta.
In generale non è semplice indicare le peculiarità della scrittura per i due modelli di flauto e in che cosa siano riconoscibili le nuove versioni di questi concerti.

Severino Gazzelloni

Una caratteristica comune ai concerti solistici per traversiere è, però, un uso disinvolto dello strumento e una certa tendenza a sfruttare modelli violinistici, come ad esempio la presenza di note ribattute e di successioni ripetute di arpeggi spezzati. Sebbene inoltre, tanto il flauto dolce quanto quello traverso si muovono entro l’ambito di 2 ottave e una seconda (da re a mi il traverso, da fa a sol quello dolce di taglia contralto), quello dolce ha la tendenza ad avventurarsi con maggior disinvoltura nel registro acuto, tendenza facilitata sia dalla taglia leggermente più piccola sia dalle caratteristiche stesse dell’emissione sonora dello strumento.
Le qualità formali di tutti i brani presentati non si discostano molto da quelle di gran parte del repertorio strumentale vivaldiano, la cui principale peculiarità – pur nel rigoroso rispetto dell’alternanza tra tempi brillanti e veloci e tempi espressivi e lenti – è la continua variazione delle cellule ritmiche e melodiche rispetto a quelle armoniche, con un grado massimo di originalità ottenuto nel rispetto di un idioma sostanzialmente sempre identico a se stesso.
È questo il principale tratto distintivo della musica vivaldiana, la quale sfugge però sapientemente alla ripetitività tramite una continua variazione di tali cellule tematiche e ritmiche, come in un meraviglioso caleidoscopio sonoro nel quale pochi colori di base vengono continuamente variati con effetti sempre nuovi e sorprendenti. Si va così dalla concitazione (ritratta con elementi puramente “musicali”) della tempesta in mare, alle allusioni onomatopeiche del
canto del cardellino, ai fantasmi allusivamente evocati nel Concerto “La notte”. Il tutto con quella leggerezza di tocco e con quella briosità tipicamente vivaldiana, derivata dall’uso sapiente e variegato degli strumenti, uso che si fa qui particolarmente consapevole delle difficoltà cui va incontro lo strumento solista (esso traspare ad esempio dalle correzioni apportate dall’autore sulle partiture autografe).

I Musici

Un caso particolare è rappresentato infine dal Concerto RV 441, l’unico tra quelli qui raccolti ad essere stato destinato esclusivamente al flauto dolce. Questo Concerto presenterebbe difatti difficoltà tecniche davvero notevoli per un esecutore di traversiere (si pensi ad esempio agli ardui salti d’ottava e ai veloci accordi spezzati), difficoltà che possono invece essere affrontate brillantemente con il moderno flauto traverso metallico, sempreché – s’intende! – affidato ad un virtuoso d’eccezione.

Renato Meucci

Concerto in fa maggiore per flauto traverso, archi e basso continuo “La tempesta di mare”, op. 10 n. 1, RV 433

Fecondissimo in tutti i campi musicali, Antonio Vivaldi godette nel Settecento di una immensa popolarità, soprattutto per la sua attività di compositore strumentale. Si sa infatti che i suoi melodrammi, oggi valutati e studiati sotto
una luce diversa, incontrarono giudizi sfavorevoli presso i contemporanei, in primis da parte di Goldoni, Benedetto Marcello e Tartini, secondo il quale un compositore del genere strumentale non deve mai trattare il vocale operistico per non tradire il suo talento. È ormai pacifico per tutti che Vivaldi operista era un uomo della sua epoca, che segnava il passo e non era un precursore quanto Vivaldi strumentalista, che seppe esprimere senza riserve il suo temperamento appassionato, ardente e irrequieto attraverso quegli Allegri vivaci e solari e quegli Adagi intimamente suggestivi che conquistarono tutta l’Europa e suscitarono l’entusiasmo di Bach, che, come è noto, trascrisse diversi concerti del «prete rosso», a cominciare da quelli dall’op. III pubblicati ad Amsterdam con il titolo di «Estro armonico». Senza contare poi l’ammirazione per Vivaldi del famoso flautista di Federico il Grande, Johann Joachim Quantz che, avendo letto per la prima volta nel 1714 a Pirna, in Sassonia, alcuni concerti violinistici del veneziano, espresse la sua meraviglia «per la nuovissima maniera di composizione» e per gli splendidi ritornelli in essi contenuti.
Del resto, a dimostrazione della favorevole risonanza suscitata dalla sua opera va ricordato che, quando Vivaldi era ancora vivo, furono stampati ben settantotto concerti e trente sonate scelte tra la sua immensa produzione. Tale «summa» comprende molte pagine significative del maestro di violino delle fanciulle del Seminario musicale funzionante nell’Ospitale della Pietà, che era una specie di Conservatorio nella Venezia dei primi anni del Settecento.
Il Concerto in fa maggiore per flauto, archi e cembalo, che reca il sottotitolo “La tempesta di mare”, vede il flauto condurre un discorso vivacemente frastagliato nell’Allegro iniziale, per poi dispiegare un canto più disteso, sul vento di bonaccia, nel Largo, e riprendere infine nel Presto maggiore tensione musicale, sorretta dagli energici e vigorosi interventi del Tutti.

Concerto in sol minore per flauto traverso, archi e basso continuo “La notte”, op. 10 n. 2, RV 439

Nel XVIII secolo la musica a programma era meno diffusa in Italia che non in Germania o in Francia, dove la concezione dell’arte come imitazione della natura, vero e proprio cardine dell’estetica settecentesca, era seguita più alla lettera. I compositori italiani prediligevano le forme “pure”, prive cioè di significati o immagini extramusicali, mostrando una sostanziale indifferenza per la musica descrittiva. Il caso di Vivaldi costituisce un’eccezione: il suo temperamento naturalmente drammatico, infatti, lo spinse alla descrizione anche nel genere puramente strumentale. Del resto l’opera veneziana, a cui il Prete Rosso dedicò gran parte della sua vita e delle sue energie creative – non meno che all’Ospedale della Pietà – abbondava di episodi descrittivi in cui l’orchestra, senza l’ausilio del canto, “dipingeva” musicalmente terremoti, tempeste, sonni incantati, apparizioni di demoni o di spettri. Vivaldi, a differenza dei suoi predecessori, come Biber, Kuhnau o Poglietti, che avevano conferito alle loro composizioni programmatiche la libertà d’andamento del futuro poema sinfonico, non rinunciò alla struttura del concerto nella sua tripartizione formale di Allegro-Adagio-Allegro e all’alternanza tra i solo e i tutti. Quasi la totalità dei suoi concerti programmatici, infatti, sono solistici. Le opere vivaldiane con titoli particolari sono complessivamente 28. Tra esse vanno distinte le composizioni meramente descrittive, come La Caccia, Il Riposo o L’Inquietudine, contraddistinte dalla ricerca di una unitarietà espressiva collegata ad uno stato d’animo o ad un fenomeno naturale, dai concerti autenticamente programmatici. Quest’ultimi sono dotati di una componente narrativa che, chiaramente espressa nei sonetti de Le Quattro Stagioni, è presente in minor misura anche nei due concerti intitolati La Notte: quello in si bemolle maggiore per fagotto RV 501 e quello in sol minore per flauto RV 439. Le due composizioni, sebbene molto diverse, sembrano costruite attorno ad un identico percorso narrativo-musicale (l’esperienza notturna) che è parzialmente specificato nei suoi nessi illustrativi dai sottotitoli aggiunti da Vivaldi in alcuni movimenti: il secondo e il penultimo tempo di entrambi i concerti infatti sono intitolati rispettivamente Fantasmi e Il Sonno (nell’RV 501 vi è inoltre l’espressione Sorge l’Aurora in corrispondenza dell’Allegro conclusivo).
Il Concerto in sol minore per flauto, archi e continuo RV 439 è la rielaborazione preparata per l’op. 10 (1728) del Concerto da camera per flauto, due violini, fagotto e continuo RV 104 scritto nella medesima tonalità. Diversamente dagli altri due brani descrittivi presenti nella medesima raccolta – La Tempesta di Mare (op. 10 n. 1) e il Gardellino (op. 10 n. 3) – l’RV 439 è in sei movimenti, sebbene la consueta tripartizione continui a sussistere nascostamente. Il “motto” iniziale del primo tempo (Largo) affianca una figurazione in ritmo puntato ad una scaletta ascendente, creando un’atmosfera di misteriosa inquietudine che è accresciuta dalla sapiente inserzione di pause e dalla incessante pulsazione ritmica della croma puntata scandita dall’accompagnamento. Il lungo pedale conclusivo termina sulla dominante e prepara con gesto quasi teatrale la repentina irruzione dei Fantasmi (sottotitolo del secondo movimento, Presto). Per rappresentare il senso dell’angoscia suscitata dalle visioni e dagli incubi notturni, Vivaldi ricorre a rapide scale di sedicesimi, ad accordi spezzati e a note ribattute che si rispondono fittamente a canone. Il Presto si interrompe improvvisamente con una cadenza sospesa, dando luogo all’episodio di più spiccata cantabilità del Concerto (Largo): il flauto viene accompagnato sommessamente dagli archi senza il basso, in un clima di momentanea distensione. Il quarto tempo, Presto, ci riporta all’intensa animazione dei Fantasmi, di cui ora si riascoltano alcune figurazioni melodiche trasportate nel metro ternario. La mobilità tonale che caratterizza i primi quattro movimenti del Concerto, la loro stessa frammentazione e gli allusivi richiami tematici, tendono ad unire questi brani in un’unica grande sezione che, assieme ai due tempi successivi, ricostruisce di fatto l”‘archetipica” strutturazione tripartita. La descrizione de Il Sonno, sottotitolo del quinto movimento (Largo), è simile a quella presente nell’Autunno (op. 8, n. 3). L’assenza del cembalo, il suono smorzato degli archi in sordina, i ritardi dissonanti e il lungo pedale finale, creano un clima di immobilità stupita. Il Concerto termina con un Allegro, ritmicamente vigoroso, che in alcuni episodi solistici pare recuperare le figurazioni sincopate, a note ribattute e ad accordi spezzati dei Fantasmi. Vivaldi sembra quasi voler riaffermare, ancora una volta, gli aspetti inquietanti ed angosciosi dell’esperienza notturna, al contrario dell’RV 501 che si conclude con un Allegro significativamente intitolato Sorge l’Aurora.

Concerto in re maggiore per flauto traverso, archi e basso continuo “Il gardellino”, op. 10 n. 3, RV 428

Il Concerto per flauto, archi e basso continuo, detto «Il Cardellino», o meglio «Il Gardellino» dallo stesso Vivaldi, fa parte assieme a «La Tempesta, di mare» e «La Notte», della serie dei sei concerti per flauto op. X pubblicata ad Amsterdam nel 1728. Appartiene quindi molto probabilmente ad un periodo relativamente tardo della produzione dell’artista. Infatti non solo la struttura formale di questo concerto appare estremamente semplice, ma lo stesso materiale tematico, nella sua quasi astratta schematicità, si muove ai confini di un vero e proprio manierismo vivaldiano. L’inventiva melodica di Vivaldi, altrove assai ricca ed evidente, sembra qui isterilirsi o meglio castigarsi in brevi formule che vengono piuttosto ripetute che sviluppate. Così il tema del «tutti» nel primo tempo si riduce alla quadruplice iterazione (immediatamente ripetuta) di un motivo a sua volta costituito da due ripercussioni di una medesima cellula fondamentale. L’apparente povertà di questo singolare discorso musicale ha la precisa funzione di concentrare tutto l’interesse dell’ascoltatore sull’elemento più importante di questa composizione (e, in genere, della maggior parte dei concerti di Vivaldi): l’invenzione sonora. Meravigliose infatti come sempre sono le strutture particolari degli episodi che collegano i vari ritorni del «tutti», sia che esse siano realizzate in forma cadenzale dal flauto solo (come nel primo episodio), sia che si presentino come un dialogo tra il flauto e una o più sezioni di archi. Queste strutture si basano su un abilissimo sfruttamento dei rapporti armonici tra le note formanti gli accordi perfetti, ottenuto alternando su di esse vari timbri, vari modi di attacco e vari abbellimenti. Da questo punto di vista si può parlare di una vera e propria attualità del linguaggio vivaldiano (si pensi alla Klangjarbenmelodie di certo Schönberg e di Webern), per altro verso assai legato al suo tempo, e meglio si comprende il diffuso interesse alla sua «riscoperta».

Antonio Vivaldi

Quanto al sottotitolo del concerto, sarà quasi inutile far rilevare le intenzioni francamente descrittive di Vivaldi, a cui le deliziose fioriture del flauto furono certamente suggerite dalla voce di un cardellino e non dalla voce del «sentimento del cardellino».

Concerto in sol maggiore per flauto traverso, archi e continuo, op. 10 n. 4, RV 435

Fecondissimo in tutti i campi musicali, Antonio Vivaldi godette nel Settecento di una immensa popolarità, soprattutto per la sua attività di compositore strumentale. Si sa infatti che i suoi melodrammi, oggi valutati e studiati sotto una luce diversa, incontrarono giudizi sfavorevoli presso i contemporanei, in primis da parte di Goldoni, Benedetto Marcello e Tartini, secondo il quale un compositore del genere strumentale non deve mai trattare il vocale operistico per non tradire il suo talento. È ormai pacifico per tutti che Vivaldi operista era un uomo della sua epoca, che segnava il passo e non era un precursore quanto Vivaldi strumentalista, che seppe esprimere senza riserve il suo temperamento appassionato, ardente e irrequieto attraverso quegli Allegri vivaci e solari e quegli Adagi intimamente suggestivi che conquistarono tutta l’Europa e suscitarono l’entusiasmo di Bach, che, come è noto, trascrisse diversi concerti del “prete rosso”, a cominciare da quelli dell’op. 3 pubblicati ad Amsterdam con il titolo di “Estro armonico”. Senza contare poi l’ammirazione per Vivaldi del famoso flautista di Federico il Grande, Johann Joachim Quantz che, avendo letto per la prima volta nel 1714 a Pirna, in Sassonia, alcuni concerti violinistici del veneziano, espresse la sua meraviglia «per la nuovissima maniera di composizione» e per gli stupendi ritornelli in essi contenuti.
Del resto, a dimostrazione della favorevole risonanza suscitata dalla sua opera, va ricordato che, quando Vivaldi era ancora vivo, furono stampati ben settantotto concerti e trenta sonate scelte tra la sua immensa produzione. Tale “summa” comprende molte pagine significative del maestro di violino delle fanciulle del Seminario musicale funzionante nell’Ospitale della Pietà, che era una specie di Conservatorio nella Venezia dei primi anni del Settecento. Esse sono i concerti delle “Quattro stagioni” dell’op. 8, (1725), i dodici concerti dell’op. 4 intitolati “La Stravaganza” (1712-1713), i dodici dell’op. 9 intitolati “La Cetra” (1728), i sei deìl’op. 10 per flauto traverso e le due raccolte op. 11 e op. 12 di sei concerti ciascuna per violino (1729-1730). A questi brani si aggiungano le sei Sonate, quattro a violino solo e le restanti a due violini e basso continuo, dell’op. 5 (1716 circa), le sei «Sonates à violoncelle et basse» dell’op. 14, i “Concerti a 5 stromenti” dell’op. 6 e dell’op. 7 (1716-1717 circa) e infine “Il Pastor fido, sonates pour la Musette, Vielle, Flute, Hautbois, Violon avec la Basse continue op. 13”, così come si legge sul frontespizio della raccolta pubblicata nel 1737 a Parigi.
L’op. 10 n. 4, denominato “Il Sereno”, inizia con un Allegro di carattere pastorale e improntato a spigliata brillantezza nei giochi armonici del flauto. Il Largo mostra una galanteria tutta veneziana e di assorta malinconia lunare, mentre l’Allegro del terzo tempo è in linea con lo stile celebratissimo dell’autore nei movimenti vivaci, sua indiscutibile prerogativa.

Concerto in fa maggiore per flauto traverso, archi e continuo, op. 10 n. 5, RV 434

Lo stile vivaldiano così brillante ed espressivo nello stesso tempo è presente nel Concerto in fa maggiore per flauto, archi e cembalo, che è il quinto dell’op. 10. Nei tre movimenti il flauto dispiega tutta la sua seduzione timbrica, mentre gli archi svolgono un ruolo di accompagnamento con la sordina. L’Allegro iniziale ha un tono di serena eleganza, simile a certe invenzioni del concerto detto “Il riposo”; il Cantabile del secondo movimento si snoda con nobiltà di sentimento; l’Allegro conclusivo è spigliato e leggero, come il volo degli uccelli nell’azzurro di un cielo estivo.

Concerto in sol maggiore per flauto traverso, archi e continuo, op. 10 n. 6, RV 437

Al tempo di Vivaldi, il termine “flauto” si riferiva al flauto dolce, mentre il flauto traverso, che nel giro di pochi anni avrebbe spodestato quello a becco per la sonorità più penetrante e per le maggiori possibilità tecniche e dinamiche, era comunemente chiamato “traversiere”. Il Prete Rosso scrisse per entrambi gli strumenti. Ci sono rimasti infatti tredici concerti per flauto traverso, dei quali tre incompleti, e due per quello dritto. A questi vanno aggiunti i tre concerti per “flautino”, un concerto per due flauti traversi e una decina di “concerti da camera”, nei quali il flauto, dolce o traverso, viene impiegato in varie combinazioni strumentali.
È molto probabile che le composizioni per flauto dritto siano quelle più antiche. Già in uso alla Pietà nei primi anni del Settecento (al 1706 risalgono alcuni pagamenti effettuati per la riparazione di quattro strumenti), Vivaldi usò i flauti dritti per le scene bucoliche dei suoi melodrammi: nel Tito Manlio (1719) e nella Verità in Cimento (1720), vi sono parti obbligate, per “flautino” e flauti “grossi” tenori. L’incarico di insegnare il flauto traverso alle fanciulle della Pietà, invece, fu assegnato ad Ignazio Siber (già insegnante di oboe in quell’istituto dal 1713 al 1715) solo nel 1728 e il primo caso a noi noto in cui il Prete Rosso usò questo strumento in una delle sue opere risale al 1727, nell’Orlando Furioso. Del resto Joachim Quantz, che conobbe Vivaldi a Venezia nel 1726, c’informa che in quegli anni il flauto traverso non era affatto popolare in Italia.

Severino Gazzelloni

Ma vi è ancora un importante elemento da prendere in considerazione: tra il 1729 e il 1730 l’editore Le Cene pubblicò ad Amsterdam i sei Concerti per flauto traverso op. X di Vivaldi, con il titolo “VI Concerti / a Flauto Traverso / Violino Primo e Secondo / Alto Viola / Organo e Violoncello / Di / D. Antonio Vivaldi Musico di Violino, Maestro del Pio Ospitale / della città di Venetia e Maestro di Cappella / di Camera di S. A. S. il Sig.r Principe / Filippo Langravio d’Hassia Darmistaht”. Cinque di questi concerti sono conservati nei “manoscritti di Torino” – che riportano senza dubbio delle versioni più antiche – con organici molto diversi da quelli dell’edizione a stampa. Una di queste composizioni, infatti, era originariamente un concerto solistico per flauto a becco (op. X n. 5, RV 434), mentre le altre quattro erano concerti da camera: tre con il flauto Uaverso (op. X n. 1-2-3, RV 98-104-90) ed uno con il flauto dritto (op. X n. 6, RV 437). Quindi soltanto uno dei brani dell’op. X è un concerto solistico originale per flauto traverso (op. X n. 4, RV 435). Vivaldi evidentemente non ebbe sufficiente tempo per soddisfare la richiesta dell’editore di Amsterdam di scrivere alcuni concerti per il nuovo strumento e si limitò a rielaborare alcune composizioni già scritte. È probabile, così, che Vivaldi prima del 1729-1730 abbia composto solamente concerti per flauto dritto, utilizzando il traverso solo
nei pezzi da camera. I concerti solistici per questo strumento, invece, dovrebbero collocarsi solo dopo quella data.
Il Concerto in sol maggiore op. X n. 6 per flauto, archi e continuo è la rielaborazione di quello da camera per flauto a becco, oboe, violino, fagotto e continuo RV 101. Le varianti tra le due versioni, tranne l’orchestrazione naturalmente, sono minime: la tonalità è la stessa e la parte del flauto è pressocché identica. Nel concerto da camera, inoltre, l’oboe, il violino e il fagotto svolgono lo stesso accompagnamento suonato dagli archi nel concerto solistico.
L’Allegro iniziale è scritto nel più tipico stile vivaldiano. Il ritornello è chiaramente articolato in quattro brevi motivi, liberamente trasformati nelle successive riesposizioni. Il motto d’apertura, insistendo sulla tonica e poi sulla dominante, afferma inequivocabilmente la tonalità d’impianto. Il solista si presenta con materiale tematico nuovo. Il primo solo è identico all’inizio del quarto movimento della Sonata in do maggiore per violino e continuo RV 3, mentre, in un episodio successivo, il flauto sembra riecheggiare il “motivo del Cardellino” tratto dall’omonimo concerto della stessa raccolta (op. X n. 3). Lo struggente movimento centrale, nel parallelo modo minore, corrisponde a quello del Concerto in re minore per violino, archi e continuo op. VIII n. 7. La melodia, bipartita con due ritornelli ed accompagnata delicatamente dagli archi senza il cembalo, riappare nell’Allegro successivo, nell’omonima tonalità maggiore, in una serie di sei variazioni di tipo virtuosistico-ornamentale. I due tempi formano una vera e propria unità e dovrebbero essere globalmente intesi come un tema con variazioni. È questo un fatto degno di nota, in quanto in Vivaldi gli esempi di concerti intesi “ciclicamente” sono assai rari.