Mahler Gustav

Sinfonia n° 2 “Resurrezione”

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Sinfonia n. 2 in do minore “Risurrezione”

Nel 1888, subito dopo aver terminato la Prima Sinfonia, Gustav Mahler cominciò ad abbozzare una seconda partitura sinfonica, la cui stesura, fra abbandoni e ripensamenti, lo avrebbe impegnato fino al 1894. Sono gli anni in cui Mahler viene acclamato come direttore d’orchestra, alla guida dei teatri di Budapest e Amburgo; ma la sua opera di compositore non viene parimenti apprezzata. La prima esecuzione della Prima Sinfonia, a Budapest il 20 novembre del 1889, è un sostanziale insuccesso, il primo dei tanti che accoglieranno i successivi lavori sinfonici. Per l’esattezza in questa prima versione la Prima Sinfonia venne presentata al pubblico con il titolo di “poema sinfonico”, e solamente nel 1896 perdette tutte le didascalie esplicative per acquistare il nome di “Sinfonia”.
Negli anni di gestazione della Seconda, dunque, centrale è nel pensiero di Mahler il superamento di quell’antitesi fra “musica pura” – veicolata attraverso l’equilibrio delle grandi forme ereditate dal classicismo – e “musica a programma” – per cui all’origine di una composizione musicale si doveva porre un percorso letterario o ideale – che aveva animato tutto il dibattito musicale della seconda metà del secolo, trovando le proprie incarnazioni-simbolo nelle figure di Brahms, da una parte, e della scuola neo-tedesca di Liszt e Wagner dall’altra. L’ingresso di Mahler nel mondo sinfonico si muove in direzione della ricomposizione di questa antitesi, o meglio del suo superamento.
La genesi complessa e tormentata della Seconda Sinfonia è, in questa direzione, quasi altrettanto indicativa di quella della Prima. L’attuale primo tempo della Sinfonia fu il primo ad essere composto, in una veste musicale sostanzialmente analoga a quella attuale, ma con un titolo, «Totenfeier», ossia “Esequie”. E in effetti il contenuto luttuoso di questo movimento si avvicina al poema sinfonico più che a un primo tempo di sinfonia; eppure l’autore vi appose l’indicazione di «Sinfonia in do minore. I movimento». Che questo tempo isolato costituisse qualcosa di sostanzialmente inedito rispetto alla produzione contemporanea è confermato dal giudizio fortemente negativo di Hans von Bülow, il grande pianista e direttore, tenuto in somma considerazione da Mahler, il quale sembra abbia affermato che, in confronto, il Tristano di Wagner appariva come una sinfonia di Haydn; dunque lavoro di olimpica serenità, anziché di macerazione interiore e crisi espressiva.
Il parere di Bülow non fu forse senza conseguenze, se si pensa che Mahler accantonò la partitura, per riprenderla solamente nel 1893, con l’aggiunta dei tre movimenti successivi. Per l’esattezza l’autore si basò su un suo Lied di qualche anno prima, Des Antonius von Padua Fischpredigt, per elaborare un vasto Scherzo. Tornò poi agli abbozzi del 1888 per comporre un tempo lento, Andante moderato. Dalla stessa raccolta del Lied alla base dello Scherzo, la celebre antologia di poesia popolare Des Knaben Wunderhorn (“Il corno

magico del fanciullo”) raccolta da Achim von Arnim e Clemens Brentano, Mahler trasse anche il testo per il Lied Urlicht (“Luce primordiale”), che, a questo punto della gestazione, o forse l’anno successivo, venne inglobato nel progetto della Sinfonia; «Provengo da Dio e voglio ritornare a Dio» è il verso chiave di questa lirica popolare. Rimaneva il problema del finale. E proprio la morte di Hans von Bülow, nel 1894, doveva costituire lo stimolo involontario che convinse Mahler a compiere un passo che in un primo momento gli era sembrato temerario, per l’inevitabile confronto con la Nona Sinfonia di Beethoven: aggiungere all’ultimo movimento la presenza del coro, una scelta che, prima di Mahler, solo Mendelssohn aveva osato replicare, con la Sinfonia- Cantata «Lobgesang». Lo stesso autore ha raccontato qualche anno più tardi: «In quel periodo Bülow morì ed io fui presente qui [ad Amburgo] alle sue esequie. Lo stato d’animo che dominava in me mentre me ne stavo là seduto pensando allo scomparso, corrispondeva proprio allo spirito dell’opera che era allora in gestazione. Ecco, il coro intona dall’organo il Corale di Klopstock: «Aufersteh’n» (“Risorgere”)! Ne fui colpito come un lampo, e tutto appariva al mio spirito in assoluta chiarezza e limpidità!».
Chiaro insomma l’intendimento di Mahler; la Seconda Sinfonia doveva essere l’espressione di un percorso che portava dalle esequie (il movimento «Totenfeier») alla Resurrezione, esplicitata attraverso l’intervento corale sul testo di Klopstock; il tutto sviluppato nella dilazione e nella progressiva transizione di tre movimenti intermedi, incluso il desiderio di “ritornare a Dio” del Lied di Arnim-Brentano. D’altro canto il tema della rinascita, della resurrezione era, per così dire, nell’aria; dal poema sinfonico Tasso, lamento e trionfo di Liszt a Morte e trasfigurazione e Così parlò Zarathustra di Strauss, alla Prima Sinfonia di Skrjabin, le composizioni musicali che interpretavano la rigenerazione dell’uomo erano numerose, e trovavano, a livello speculativo, un corrispettivo e una fonte di ispirazione nella teoria nietzschiana dell’eterno ritorno. Un preciso percorso ideale, dunque, è quello della Seconda Sinfonia, esplicitato dallo stesso autore nel 1901 con una serie di didascalie illustrative, che riferiscono, a proposito del tempo iniziale, i dubbi e gli interrogativi dell’esistenza; prospettano poi i tempi centrali come intermezzi; e offrono infine, con l’ultimo tempo, una risposta agli interrogativi iniziali. Senonché, come ha sostenuto lo studioso Henry-Louis de La Grange, Mahler ebbe occasione di scrivere almeno quattro differenti programmi per la Seconda, in più punti divergenti. E lo stesso compositore ebbe modo di chiarire come fosse per lui «una insulsaggine inventare della musica a partire da un programma dato» (lettera a Max Marschalk del 26 marzo 1896) e come la funzione autentica del programma fosse quella di rendere meno ostica una musica così impervia per gli ascoltatori del tempo. Superfluo, dunque, un programma dettagliato per un percorso che si traduce e si realizza in termini prettamente musicali. La scelta di Mahler di veicolare questo percorso attraverso la forma sinfonica è già a questo proposito indicativa. Senonché diverso è poi l’uso che viene compiuto degli elementi musicali; la forma sinfonica, invece di nutrirsi della coerenza e della coesione di tutti i materiali, viene animata invece da una logica del tutto dissimile, che si avvale di materiali eterogenei e li allinea non secondo ferrea consequenzialità, ma piuttosto secondo sbalzi logici. C’è, innanzitutto, la soluzione, del tutto originale, di inserire nella sinfonia il canto liederistico; se già nella Prima Mahler aveva fatto ricorso a un suo Lied giovanile per il materiale tematico del primo movimento (e a una canzone popolare, Frère Jacques, per il terzo), analogo procedimento è quello dello Scherzo della Seconda, che viene costruito ampliando il Lied sulla predica ai pesci, tratto dalla raccolta di Armin-Brentano. E davvero inedita e ardita è la decisione di ricorrere nuovamente al “Corno magico del fanciullo” per inserire nella sinfonia un Lied cantato; la fede incrollabile e insieme ingenua, popolare, di questo Lied è effetto dell’impiego di materiali non “aulici” ma umili. Accanto al Lied si pongono poi danze caratteristiche, marce, squilli e richiami lontani, suoni della natura; il tutto, assemblato sincretisticamente, rivela però solo strada facendo la sua funzione e la sua perfetta coerenza costruttiva.
Si parte dunque dalla «Totenfeier», movimento che si articola nello schema classico – esposizione bitematica, sviluppo, ripresa e coda – ma che rinnega poi la logica consequenzialità classica, in favore della divagazione, della peregrinazione verso orizzonti lontani, che tuttavia si dipanano tutti da un ritmo di marcia funebre sotteso a tutto il movimento. Il vigoroso gesto iniziale di violoncelli e contrabbassi – una frammentaria scala ascendente, che ricade su se stessa – rimane in sottofondo, tanto rispetto al ritmo marziale dei legni, che si afferma poco dopo, quanto rispetto allo squarcio lirico del secondo tema, esposto dagli archi. Invece di una replica testuale dell’esposizione Mahler preferisce far ascoltare nuovamente, ma in una luce diversa, tutto questo materiale. Dal secondo tema parte poi la sezione dello sviluppo, che conduce questa volta, a più riprese, verso una interpretazione affermativa e trionfalistica della marcia. La scala ascendente dei bassi, che si insinua anche nello sviluppo, è anche il punto di partenza per la riesposizione, che ripropone tutto il materiale iniziale in una prospettiva nuovamente trasfigurata. Dal mormorio discendente dei bassi procede la coda, verso un progressivo e calibratissimo crescendo- descrescendo, sigillato da un ultimo scoppio. Proprio la coda porta al maggior grado di complessità quello che è uno degli elementi costanti e più seducenti del movimento, ossia il fittissimo ordito polifonico, che stratifica i vari elementi tematici senza snaturarli ma donando anzi loro nuovo rilievo proprio dal reciproco contrasto.

Gustav Mahler

Il blocco massiccio e austero del tempo iniziale confligge nettamente con i tre tempi centrali che fungono da intermezzi, tanto che lo stesso Mahler prescrive in partitura una pausa di circa cinque minuti prima del tempo seguente. E infatti l’Andante moderato si profila come qualcosa di nettamente diverso; si tratta di un Ländler, una danza popolare, che si presenta attraverso i soli archi, e ha comunque a ogni nuova apparizione una veste rinnovata e quasi cameristica, che mette in rilievo i violoncelli, oppure preferisce la leggerezza del pizzicato. Questo Ländler viene intercalato con episodi dissimili, che partono da un’ambientazione trasparente e quasi mendelssohniana per sfociare in esiti più complessi. Ma è il lirismo puro e struggente della danza a imporsi poi, spegnendo nel nulla il movimento.
Con il terzo tempo, lo Scherzo «In ruhig flieBender Bewegung» (“In un movimento tranquillamente scorrevole”) troviamo la parafrasi del Lied sulla predica ai pesci di Sant’Antonio da Padova; c’è in questo tempo il fluire continuo del ritmo, che rimane incessante, come elemento acquatico; e ci sono le melodie ingenue, cantilenanti, che restituiscono la semplicità del canto popolare. Si insinuano più volte squilli festosi, che vengono smentiti però da struggenti melodie o da improvvisi e disarmanti ripiegamenti. Su tutto si impone però ancora una volta la complessità dell’ordito polifonico, che dona prezioso rilievo agli arabeschi dei legni, come ai sinistri interventi dei timpani. Si inserisce, senza soluzione di continuità, la voce di contralto che incarna il Lied Urlicht; all’angoscia e al dolore del contralto e degli archi rispondono fiduciosamente le sommesse fanfare degli ottoni. Clarinetti e violino solo aprono l’episodio centrale; e il Lied trapassa poi nella calorosa e candida perorazione finale.
Retrospettivamente, i tre movimenti centrali rivelano il loro più autentico significato; alla marcia funebre dell’eroe si contrappongono tre diverse incarnazioni del “popolare”, espressioni di uno stadio ingenuo e pertanto più autentico della coscienza, esempi di come il sinfonismo di Mahler traduca un disagio cosmico, universale. In particolare il quarto tempo, con il suo atto di fede, costituisce il vero punto di passaggio verso il grande affresco del finale, autentico contraltare del blocco del primo tempo. Come nella Nona di Beethoven anche qui l’intervento del coro viene preceduto da una vasta introduzione orchestrale, che si presenta però come estremamente eterogenea. Un grande scoppio orchestrale lascia spazio all’intuizione di una “trasfigurazione”, con squilli che si appoggiano a una melodia discendente. Si giunge così a un misterioso silenzio, in cui squillano richiami lontani – una sorta di Tuba mirum per questo giorno del giudizio – e gli strumenti a fiato si propongono come consolatori suoni della natura. Dopo una sorta di marcia, ecco che, sul tremolo degli archi, i legni espongono un breve inciso discendente, cui si contrappone un corale degli ottoni. Il richiamo lontano viene “trasfigurato” e il movimento incessante degli archi ci riporta all’ambientazione del primo tempo. Poi il rullo dei timpani introduce a una vasta e complessa marcia. Riappare ai tromboni l’inciso discendente, si inseriscono nuove fanfare lontane, e si impone una nuova trasfigurazione. Poi ancora una sezione di silenzio, rotto dai richiami esterni e dai suoni di natura dei fiati. Il procedimento usato è insomma quello della dissolvenza e dell’accumulazione, che restituiscono tensione e preparano all’ingresso del coro.
Dopo tanta temperie, ecco che ancor più disarmante e efficace è l’ingresso del coro a cappella a quattro voci, dalle quali emerge sul finire il candore del soprano solista, autentica corifea. La sezione corale e conclusiva della partitura non presenta in realtà materiale nuovo – né sarebbe possibile dopo l’accumulo dei temi già sentiti – ma riprende i temi molteplici dell’introduzione, donando loro una nuova veste e un nuovo significato, quello appunto della liberazione dalle “terrene cose”. C’è il tema “trasfigurato” e c’è un nuovo ingresso del coro, con un sobrio accompagnamento orchestrale. Poi, sul tremolo degli archi, è il contralto a intonare l’inciso discendente, che costituisce l’autentica affermazione di fede. Ritroviamo il corale degli ottoni, che il coro palesa essere esortazione alla vita. Contralto e soprano duettano animatamente respingendo dolore e morte. E tutto è pronto per la grande climax che porta alla massima apoteosi, con squilli grandiosi, intonazione collettiva e risuonar di campane, il tema della trasfigurazione. La quale trasfigurazione, però, non si esaurisce nel gesto retorico che talvolta le si attribuisce; nel lungo percorso che la precede, nella “storia” di quel materiale tematico, ripetutamente dilazionato nella sua autentica e conclusiva valenza, riconosciamo l’esperienza del dolore, che è sempre cifra autentica e ineludibile della musica di Mahler.