Shostakovich Dmitri

Symphonies & Concertos

Valery Gergiev sul podio dell’orchestra e coro del Teatro Mariinsky ci ha donato una interpretazione dinamica brillante e drammatica di queste splendide partiture. Questo cofanetto comprende un lussuoso e completo libretto che descrive tutte le sinfonie e concerti in tutte le lingue e guarda caso noi italiani siamo esclusi. La ART HAUS MUSIK una famosissima e blasonata casa editrice forse considera gli italiani perfettamente non idonei di intendere e volere, non considerando che l’Italia è la patria della cultura musicale comprendente compositori famosissimi eccetto probabilmente autori Russi. Vergogna!!!!! Tuttavia considero questo cofanetto una perla e splendida chicca da acquistare ad occhi chiusi. Imperdibile!!!

DVD 1

Sinfonia n. 1 in fa minore, op. 10

Composta tra l’ottobre 1924 e il giugno del 1925 come saggio per il diploma di composizione che conseguì presso il conservatorio di San Pietroburgo, la Sinfonia n. 1 porta già in sé gran parte dei caratteri stilistici dello Sostakovic futuro. Sebbene sia ancora lontana l’oppressione culturale di Stalin che tanta parte avrà nella vita del compositore, i tratti creativi del giovane, all’epoca diciannovenne, si presentano qui ‘in nuce’ ma definiti, soprattutto nell’alternanza tra ironia dolorante e sofferto pathos, elementi che andranno a intensificarsi nelle opere successive.
All’ascolto del primo tempo, Allegretto – Allegro non troppo, si percepisce subito come sia lontanissima ogni forma di accademismo ottocentesco: i suoni scavano con fare sospettoso e grottesco in un tessuto carico di linee sonore insolite. Se a tratti alcuni fenomeni sono riconoscibili come eredità del sinfonismo di Mahler o comunque del clima austro-tedesco e russo del primo Novecento, Sostakovic li trasfigura in un stile personale che alterna il lirismo solitario di alcuni strumenti, legato a cenni melodici brevi fatti di intervalli riconoscibili e collocati in una sorta di elaborazione tematica ridotta, ad andamenti di marcia tra l’ironico e il macabro. I momenti sinfonici di natura solenne hanno tratti già volutamente ‘confusi’ e distorti: il destino è stato veramente crudele nel far sì che un compositore così lontano da ogni convincimento celebrativo si trovasse a dover glorificare i fasti di un regime.
Nel secondo tempo, Allegro, una marcia buffa con pronunciati tratti dinamici sembra procedere senza una meta precisa. Si apre però d’improvviso una dimensione timbrica sospesa sopra un suono fisso. In tale momento onirico si occultano, emergendo a piccoli cenni, tracce di marcia trasfigurata. Il brano ha una sezione ABA’ in cui la presenza del pianoforte interviene in funzione connettiva. Il pianoforte ha qui uno strano ruolo: partecipa al tutti orchestrale ma ha caratteri singolari di marcatura percussiva. Una geniale sezione allucinata viene infatti interrotta da accordi dello strumento e avvia la ripresa della prima parte (A’). Questi primi due tempi ci appaiono volutamente disorganici, accostano momenti che sembrano non scaturire l’uno dall’altro.
Il terzo tempo, Lento, viaggia invece su binari apparentemente più regolari. Un lirismo venato di sognante magia, pur con piccole distorsioni melodiche, ci porta in un universo nuovo rispetto ai tempi precedenti. Un intervento del violoncello che riprende con toccante bellezza il tema di apertura, è seguito da un incremento ritmico e dal ritorno di un ‘quid’ marciante, negato però da un crescendo di magnetica pienezza melodica. Verso la fine di questo processo il brano reitera un inciso funebre chiosato da pesanti interventi degli ottoni: entra in scena un doloroso secondo tema che presto si sfalda in pianissimo. Caratteristica del brano è quella di minacciare il suo penetrante lirismo con incisi melodici funebri, a volte sfilacciati e diluiti, facendo percepire all’ascoltatore i tratti di ombrosità che pervadono questa musica. Anche se quegli incisi evolvono faticosamente in cenni melodici più elaborati, non c’è mai un piena persuasione di serenità.
Il rullo di tamburi con cui inizia il quarto tempo sembra preludere al nulla. Ci sorprende poi con una tenera apertura melodica sul tremolo degli archi, ma sembra un proseguimento del tempo precedente almeno fino a quando non compaiono tratti più fuggevoli e volanti che sfociano in paradossale gioco di ribattuti. I fenomeni di sovrapposizione tematica funzionano all’interno del brano come incremento tragico, in alternanza a interventi lirici dalla magia timbrica sognante. Sbalorditivo è il solitario tamburo che interrompe tutto per qualche secondo a metà del quarto tempo: da lì prende avvio un crescendo marciante ed energico che chiude la Sinfonia.
L’arte di Sostakovic ama dare senso all’insolito, e in ciò ha caratteri fortemente trasgressivi. La mediazione a cui negli anni seguenti sarà obbligato dal regime lo porterà ad adattare le esigenze della sua ispirazione alle minacciose necessità politiche dello stalinismo. Il compromesso si innesterà in quella vena grottesca, ironica e patetica, già reperibile nella Sinfonia n. 1, vena presente nelle opere future come segreta denuncia di un attrito fra spontaneità e comando esterno.

Sinfonia n. 2 in si bemolle maggiore, “All’ottobre – una dedica sinfonica”

La Seconda Sinfonia è stata incaricata di includere una poesia di Alexander Bezymensky, che glorificava Lenin ruolo s’ nel proletario lotta in stile ampolloso. Il culto di Lenin , imposto dalle alte sfere del partito, crebbe fino a proporzioni gigantesche negli anni immediatamente successivi alla sua morte. Il lavoro è stato inizialmente intitolato “Ad Ottobre”. E ‘stato indicato come un poema sinfonico e dedizione Symphonic a ottobre . E ‘diventato a ottobre, una dedica Sinfonica quando il lavoro è stato pubblicato nel 1927. E’ solo divenne noto come “sinfonia” molto più tardi.

Lo spirito di ottobre

Nel corso del 1920 in Russia, “Ottobre” di cui lo spirito della rivoluzione, che era un nuovo mondo di libertà e di fratellanza raggiungere politicamente dal centro verso sinistra. L’idea politica più vicino a questo concetto è stata la Trotzkista dottrina della “ rivoluzione permanente “.

Composizione

Shostakovich è stato commissionato da Lev Shuglin, un apposito bolscevica e capo del Dipartimento propaganda dello Stato Music Publishing House (Muzsektor), di scrivere un grande lavoro orchestrale con un finale corale, chiamato Dedizione a ottobre , per celebrare il 10 ° anniversario della ottobre Revolution. Il compositore sembra essere stato insoddisfatto con il lavoro; scrisse a Tatyana Glivenko, il 28 maggio 1927, che era stanco di scrivere, e considerato il testo Bezymensky “abominevoli”. Ciò nonostante, si erge come una rappresentazione importante della musica sovietica nel 1920, ed in particolare della nozione di sinfonie “industriali” destinati ad ispirare il proletariato: la sezione corale del lavoro è annunciata entro il punteggio per mezzo di un colpo da un fischio fabbrica, una novità proposta da Shuglin.
Parte del problema Shostakovich ha avuto per iscritto la sinfonia era che la gente si aspettava un successore alla sua Prima Sinfonia, e lui non credevano più in forma scritta nello stesso stile compositivo. Ha avuto anche altri progetti, verso la quale ha voluto dirigere la sua attenzione al più presto possibile, e la Prima Sinfonia lo aveva portato quasi un anno per scrivere. Come si è scoperto, il Commissariato per dipartimento di propaganda illuminista, Agitotdel, regolarmente commissionato singolo movimento lavora su problemi di attualità. Queste opere spesso presenti arie rivoluzionarie e invariabilmente impiegati testi cantati per rendere il significato necessario sia. Inoltre, a causa dell’orientamento non musicale del pubblico potenziale, questi pezzi sono stati non dovrebbero durare più di 15 o 20 minuti al massimo.
Anche se Shostakovich era stato commissionato da Muzsektor piuttosto che Agitotdel, ed è stato quindi prevede di produrre una composizione di musica astratta, invece di un pezzo di propaganda, scrivendo una breve sinfonia agitprop sembrava per risolvere tutti i problemi di Shostakovich. Tale lavoro era del tutto appropriato per l’occasione per cui è stato scritto. Sarebbe anche impossibile per Muzsektor per girare verso il basso, ed è stato garantito almeno un po ‘stampa amichevole. E ‘anche eluso il problema stilistico di produrre un sequel del primo Symphony, mentre anche aprendo la porta a sperimentare con effetti orchestrali in una completamente nuova vena. La cosa più importante per Shostakovich, il pezzo ha avuto poco tempo per comporre, che gli permette di tornare ad altri progetti al suo presto.

Dmitri Shostakovich

La sezione corale ha dato il compositore problema particolare. Shostakovich ha detto Yavorsky confidenziale, “Sto componendo il coro con grande difficoltà. Le parole !!!!” La conseguente mancanza di fuoco creativo diventa evidente; la sezione manca l’unità e la convinzione che ha caratterizzato molte delle sue opere successive, i cantanti dal suono malinconico, quasi saltuaria. Si tratta ovviamente di un ampolloso, formale oltre ad una composizione già privo di unità compositiva. Le parole finali non sono nemmeno dato una linea melodica; invece sono semplicemente cantati dal coro, si conclude con un’apoteosi formule. Solomon Volkov ammesso dell’intera sezione corale, “[O] ne è tentato semplicemente tagliare via con un paio di forbici”.

Testo

Мы шли, мы просили работы и хлеба,
Сердца были сжаты тисками тоски.
Заводские трубы тянулися к небу,
Как руки, бессильные сжать кулаки.
Страшно было имя наших тенет:
Молчанье, страданье, гнет.
Громче орудий ворвались Но d’молчанье
Слова нашей скорби, слова наших мук.
О Ленин! Ты выковал волю страданья,
Ты выковал волю мозолистых рук.
Мы поняли, Ленин, наша судьба что
Носит имя: борьба.
Борьба! Ты вела нас к последнему бою.
Борьба! Ты дала нам победу Труда.
Этой победы над Ø Ø гнетом тьмою
Никто не отнимет у нас никогда.
Пусть каждый в борьбе будет молод и храбр:
Ведь имя победы – Октябрь!
Октябрь! – это солнца желанного вестник.
Октябрь! – это воля восставших веков.
Октябрь! – это труд, это радость и песня.
Октябрь! – это счастье полей и станков.
Вот знамя, вот имя живых поколений:
Октябрь, Коммуна и Ленин.

Abbiamo marciato, abbiamo chiesto per il lavoro e il pane.
I nostri cuori sono stati afferrati in una morsa d’angoscia.
Ciminiere torreggiavano verso il cielo
come le mani, impotenti a stringere un pugno.
Terribile erano i nomi dei nostri catene: Silenzio, la sofferenza, l’oppressione.
Ma più forte di spari ci scoppiò in silenzio Parole del nostro tormento, le parole della nostra sofferenza.
Oh, Lenin! È forgiato la libertà attraverso la sofferenza,
si falsificato libertà dalle nostre mani toil- indurito.
Sapevamo, Lenin, che il nostro destino ha un nome: Lotta.
Lotta! È ci ha portato alla battaglia finale. Lotta! Ci hai dato la vittoria del Lavoro.
E questa vittoria sull’oppressione e le tenebre
Nessuno potrà mai togliere da noi! Facciamo tutto nella lotta essere giovane e audace:
Il nome di questa vittoria è Ottobre!
Ottobre! Il messaggero dell’alba atteso. Ottobre! La libertà di età ribelli.
Ottobre! Lavoro, la gioia e il canto. Ottobre! La felicità nei campi e ai banchi di lavoro,
questo è lo slogan e questo è il nome delle generazioni viventi:
ottobre, il Comune e Lenin.

Sinfonia n. 15 in la maggiore, op. 141

«Sarebbe per caso, la razza dei compositori di razza, in via d’estinzione?»: cosi si chiedeva, commentando la morte di Sciostakovic, di poco seguita a quelle di Blacher e Dallapiccola, Fedele D’Amico; soverchio il suo pessimismo (troppo polemico, certo, verso le generazioni più giovani), ma felice quanto mai, e piena di significati, la definizione, capace di riproporre un senso delle proporzioni che nella fortuna (e sfortuna) di Sciostakovic, nel giudizio critico come nel «consumo» anche commerciale della musica sua, è mancato in misura probabilmente maggiore che per gli altri maestri del nostro tempo.
«Compositore di razza» (e questa stessa «Quindicesima» ne dà una dimostrazione quasi paradigmatica) Sciostakovic lo fu non soltanto per la straordinaria ricchezza della sua produzione, o per l’agguerritissima maestria tecnica (molto precoce, fra l’altro), che sarebbero bastate, al più, a giustificare certo successo commerciale; piuttosto sospetto, del resto, per essersi limitato, almeno presso molti, alle pagine più caduche di lui. Ma anche, e soprattutto, perché questa stessa abilità artigianale, per quanto esplicata (non sempre, però) in modi linguistici tradizionali fino e al di là dell’anacronismo, portava in sé, come un dato storicamente inevitabile, tale una serie di contraddizioni (e ne è spia, in fondo, l’ibridismo stilistico di tanta musica di Sciostakovic), tale una carica di dubbi, da fare di lui, anzi che un «Piacentini della rivoluzione» (sono ancora parole di D’Amico), un artista legittimamente moderno, e di conseguenza, a suo modo, di crisi.
Dicendo questo, non si vuol certo sorvolare disinvoltamente sul ruolo negativo che lo Sciostakovic del tempo dell’autocritica famosa ha svolto in anni fra i più sofferti nella storia della musica del Novecento, né fingere d’ignorare talune sue, famigerate, prese di posizione. O meno ancora, affermare l’attualità linguistica ed ideologica della «Quindicesima»: che si presenta tuttavia, con le sue scelte certo antistoriche, ma coerenti a tutto il cammino creativo di Sciostakovic, come un documento ineliminabile alla definizione della sua personalità; tassello non superfluo, quindi, nella complessa facciata della musica d’oggi.
Mancano tuttora, almeno da noi, i documenti che possano far luce diretta sugli ultimi anni di attività di Sciostakovic: ma si può ritenere, con buona approssimazione, essere la «Quindicesima», portata a termine nell’estate del 1971, l’ultimo lavoro sinfonico del maestro sovietico. Sembrerebbe provarlo un’intenzione programmatica abbastanza evidente, pur nell’assenza di esplicite indicazioni in tal senso, nelle strutture formali e nel materiale tematico dell’opera; confermata, del resto, da una testimonianza del figlio del compositore, Maksim (che l’8 gennaio 1972, nell’Auditorium del Conservatorio di Mosca, diresse la prima esecuzione della Sinfonia, davanti a circa tremila ascoltatori). Tema del lavoro sarebbe, allora, «il ciclo della vita dell’uomo»; se in tale assunto, com’è parso a qualcuno, fosse da ravvisare anche un riferimento più o meno direttamente autobiografico, la «Quindicesima» potrebbe senz’altro proporsi, se non come un «testamento spirituale», almeno come un deliberato, conclusivo coronamento di un’attività che proprio nella sinfonia cercava la forma più completa di espressione.
Sulla guida di questo programma sarebbe certo possibile seguire, misura per misura, lo svolgimento della Sinfonia: e riconoscere nel carattere giocoso, e verosimilmente «infantile» del primo movimento, con la citazione, più volte ripetuta, di un frammento dell’Ouverture del «Guglielmo Tell»; in certo greve descrittivismo psicologico, d’impronta ciaikovskiana, massicciamente presente nel secondo; nei grotteschi graffiti del terzo; e ancor più apertamente nell’ampio Adagio finale, caratterizzato a sua volta, con fin troppo scoperta intenzione significante, dal wagneriano «tema del Fato» e da echi ritmici della «Marcia funebre» del «Crepuscolo degli Dei», le diverse stazioni di un tale itinerario. Ma la «Quindicesima» può fornire indicazioni interessanti anche a chi rinunzi ad una simile operazione, del resto abbastanza tediosa; che in un’attenta lettura di essa, il «compositore di razza» rivela la propria inconfondibile impronta, nella disposizione della sostanza musicale come nel suo sviluppo formale.
Sotto la lussureggiante veste sonora di questa Sinfonia, che si fregia di una doviziosa inventiva strumentale (violino, flauto, violoncello, trombone e contrabbasso emergono nel tessuto della partitura con particolare evidenza solistica, ma tutta l’orchestra, e segnatamente la percussione, viene lanciata da Sciostakovic a spericolate sortite fantastiche), l’ordito formale dell’opera si dimostra capace di fondere lo stesso a volte plateale eclettismo del materiale tematico e timbrico in una salda unità di strutture. Cosi anche la citazione del «Tell» viene in realtà sottilmente preparata, sotto il profilo ritmico e melodico, dalle misure che direttamente la precedono, tanto da risultare pienamente integrata a tutto lo svolgimento del primo tempo. Cosi il trapasso dall’Adagio allo Scherzo (tale è, anche se il compositore non lo indica esplicitamente, il terzo movimento), si realizza con studiata coerenza; cosi, finalmente, lo stesso tema wagneriano dell’ultimo Adagio, che può certo essere un connotato abbastanza irritante di questo lavoro, si fa in realtà elemento generatore di uno sviluppo teso con assoluta logicità, nel continuo divenire delle variazioni, verso la conclusione del pezzo: che suona quasi macabra, nella sovrapposizione dei timbri della percussione ad un lungo pedale di tonica.

Mosca, Sala grande del Conservatorio

Proprio con questa conclusione, prescindendo dal «programma» vero o supposto della Sinfonia, Sciostakovic sembra siglare il senso più duraturo di tutta la sua opera: che smentendo le suggestioni di certo trionfalismo ricorrente in alcuni dei lavori precedenti, lo apparenta, si, alla decadenza di un Ciajkovskij, ma anche rivela la presenza costante di altri esempi, uno dei quali potrebbe persino essere Mahler; tanto da garantirgli, al di là della legittima diffidenza o magari del rifiuto da parte di molti, un ruolo autentico di testimone del tempo.

Concerto per pianoforte n. 2 in fa maggiore, op. 102

Ascoltando zampillare le prime note del suo Secondo Concerto per pianoforte e orchestra viene da pensare che Sostakovic avesse una doppia vita. Lui, l’autore di pagine titaniche, drammatiche, laceranti, sardoniche, uno dei compositori più squassati dai conflitti del Novecento, il cantore tragico più efficace della storia russa, come può aver tirato fuori musica così fresca? Chi gliela ha suggerita? È qualcosa che teneva nascosto dentro o è il frutto di un incontro, di una svolta, di un’occasione?
Per capirlo bisogna ragionare sulla vita, sui sogni e sulle sventure del Maestro, l’ultimo dei grandi che si potrebbe definire tradizionalista e modernista nello stesso tempo e il primo tra i compositori russi ad essere venuto alla ribalta paradossalmente per merito, e non a dispetto, del regime sovietico.
Contrariamente ai suoi compatrioti Prokof’ev e Stravinskij, educati entrambi nella Russia zarista, Sostakovic lavorò per tutta la sua vita sotto l’influenza del governo comunista, assistendo all’assurda lotta tra il proprio genuino desiderio
di creare arte per lo Stato e l’incapacità per lo Stato di accettare qualunque forma d’arte che non fosse in grado di capire.
Aveva studiato con Glazunov al Conservatorio di Pietrogrado e mosso i suoi primi passi nel mondo musicale con il lavoro composto per il proprio diploma, la Prima Sinfonia, nel 1926. Il suo primo stile esaudiva le richieste del Soviet di un realismo socialista – la Seconda e la Terza Sinfonia furono scritte in onore di eventi rivoluzionari – ma era anche energico, sperimentale e pieno di humour sardonico (si pensi alle sue opere Il naso e Lady Macbeth del distretto di Mzensk).
Sfortunatamente, il regime staliniano diventava ogni anno più rigido e nel 1936 Sostakovic venne attaccato per il successo della Lady Macbeth (di due anni precedente) a causa del suo preteso “formalismo piccolo borghese”. L’era della repressione artistica era cominciata. Sostakovic cercò di tenere i censori a bada, non volendo rinunciare alla propria indipendenza, ma il suo stile in questo periodo evolse da un lato verso una malinconia più introversa e dall’altra in direzione di un più esplicito fervore nazionalistico, con la “chicca” meravigliosa della sua Quinta Sinfonia, del 1937, sottotitolata “La risposta di un artista sovietico ad una giusta critica” e destinata, nella sua grandiosità esibita e nella gioia forzata del finale, a sfottere argutamente il Politburo. Con la Settima Sinfonia, composta a Leningrado mentre la città era assediata dai Tedeschi (1941), arrivò la celebrità internazionale, ma la Nona Sinfonia (1944) non piacque al Soviet a causa della sua luminosità e del suo carattere gioioso, quando lo Stato avrebbe voluto invece un’opera monumentale in onore delle vittorie di guerra russe. E così nel 1948 Sostakovic fu nuovamente condannato, insieme a Prokof’ev e ad altri colleghi, per “perversioni formaliste” e si ritrovò a comporre per lo più opere che glorificavano la storia russa.
Nel 1953 Stalin morì e anche per gli artisti cominciò finalmente il disgelo.
È in quegli anni che il Maestro compone il suo Secondo Concerto per pianoforte e orchestra: la partitura nasce nel 1957 come regalo per i diciannove anni compiuti dal figlio Maxim, pianista, e quel suo muovere a cuor leggero, quel suo canalizzare l’energia verso percorsi di felicità probabilmente non sono soltanto auguri gioiosi per il proprio erede ma l’espressione del sollievo straordinario provato dopo la fine dello stalinismo. Ecco allora spiegato il tono vivace, brillante, i tempi rapidi disseminati di note ribattute simili a squilli di tromba nel primo e nel terzo movimento, quell’inarrestabile senso di allegria che ha spinto persino la Disney a sceglierne alcuni estratti per la sequenza del soldatino di piombo in Fantasia 2000.

Maxim Dmitrievich Shostakovich

È un Concerto che evita il tradizionale virtuosismo – forse anche per mettere in luce il talento particolare di Maxim – e dribbla anche la consueta opposizione tra solista e orchestra a favore di un regolare transito tematico tra i due, reso interessante da minuziosi giochi di variazione. Lo si ascolta con chiarezza nell’Allegro iniziale, dove pianoforte e orchestra partecipano insieme all’alternanza tra una melodia leggera, luminosa, e un tema ironicamente marziale, con tanto di tamburo militare dotato di cordiera (il cosiddetto rullante). Certo, ci sono anche atmosfere infiammate, tonanti, come quando arriva il tema in ottave, così chiaramente malvagio da spaventare solo per finta, o quando l’orchestra ruggisce presentando la melodia principale; ma non appena la partitura potrebbe deviare verso sentieri seriamente drammatici Sostakovic tira la briglia, frena, come quando lascia il pianoforte solo, per una lunga cadenza prima della ricapitolazione finale.
Il secondo movimento, Andante, come hanno notato alcuni commentatori potrebbe essere facilmente scambiato per una pagina di Rachmaninoff, se si presta orecchio al suo carattere sentimentale. L’orchestra è drasticamente ridotta: sono i soli archi, il pianoforte e un singolo corno a scambiarsi linee di un tenero lirismo, con la mano destra del pianista impegnata in un semplice disegno sopra lenti arpeggi della sinistra. Non ci sono fuochi d’artificio, qui, ma solo quel melodizzare nostalgico che siamo soliti associare ai compositori russi di un’era precedente e imbevuta di romanticismo – o a Rachmaninoff, appunto, che ne era il geniale epigono.
Il movimento finale, nuovamente Allegro, riprende le atmosfere iniziali del Concerto, con un tema saltellante, che si muove a scatti e va ad intrecciarsi con sezioni di scale e arpeggi che, stando alle dichiarazioni di Sostakovic, sono citazioni testuali dai ben noti esercizi tecnici di Hanon: includerli nel Concerto, disse, era stato il solo modo per costringere il figlio ad affrontarli! Come nel movimento iniziale, al primo tema fa da contrappeso una seconda melodia, di nuovo segnata a tratti dalla presenza del rullante, stesa nel ritmo “zoppo” di 7/8 che accresce la tensione ritmica della pagina e il senso di generale effervescenza. La chiusa è una corsa al galoppo, con tutta l’orchestra schierata per un climax al quale è impossibile sottrarsi, e non c’è da stupirsi se si arriva all’applauso con un senso di gratitudine euforica nei confronti del compositore e degli interpreti.

DVD 2

Sinfonia n.3 in Mi bemolle (una specie), Op.20 («Primo Maggio»)

L’Op.20 di Shostakovich, completata nel 1929 e presentata nel Gennaio dei 1930, è difficile da immaginare. E’ quasi come se il compositore si fosse azzardato a comporre una sinfonia in cui non un singolo tema, motivo o frammento, con forse una o due piccole eccezioni, si ripresenta una volta fatta la sua normalmente fugace apparizione. Tanto breve è infatti la vita della maggior parte di questi frammenti, quanto caleidoscopica è la loro organizzazione e proteiforme la loro natura, che sia ha quasi l’impressione che Shostakovich stesse scrivendo musica per un immaginario film muto. Come la Seconda Sinfonia, la Terza termina con un pezzo di patriottismo corale.

Dmitri Shostakovich

Diversamente dalla seconda, comunque, la musica orchestrale – che si divide in effetti in una introduzione, tre quasi-movimenti ed una coda in largo – che precede il finale corale è molto più sostanziale (circa ventisei minuti, rispetto ai tredici della Seconda), ma anche molto meno sperimentale, anche se sempre modernista. In effetti, quasi qualunque nota disparata delle due sezioni in allegro della sinfonia preconizzano lo Shostakovich che avremmo poi conosciuto ed imparato ad amare (lo stesso non si può dire della più selvaggia Seconda), ma in un modo talmente disordinato che è difficile essere rapiti dalla corrente. Cosa interessante, nel breve andante che separa i due allegri, Shostakovich si rifà ad un compositore – Gustav Mahier – al quale era stato presentato dal suo caro amico Ivan Sollertinsky. Ma, se perdonate l’ossimoro, è un Mahler ribelle, difficile, come qualunque altra cosa nella sinfonia, da afferrare.
Nessun direttore che io abbia sentito, comunque, offre una lettura migliore della Terza Sinfonia di Bernard Haitink. Benché si accosti alla musica sul suo territorio, Haitink ciononostante sembra anche lavorare su modelli forniti dalle ultime sinfonie, qualcosa di quella intensa, drammatica continuità che caratterizza gli ultimi lavori. L’andante centrale è quasi impossibile da tenere insieme, ma Haitink ed i suoi musicisti ne danno una lettura credibile. Il finale corale, d’altra parte, ribolle di un’energia ed un entusiasmo che probabilmente non merita, benché sia composto di materiale musicalmente più solido che non il finale della Seconda. Il suono, sia quello reso dallo squisito senso di equilibrio strumentale di Haitink, sia quello catturato dagli ingegneri, è quasi perfetto. Sarebbe bello, naturalmente, che la RCA/BMG/chicchessia rimasterizzasse la pionieristica – e superba – registrazione di Morton Gould della Seconda e Terza Sinfonia, l’ingresso attraverso il quale sono entrato nel mondo della critica musicale.

Sinfonia n. 13 in si bemolle minore “Babi Yar”, op. 113

La Sinfonia n. 13 op. 113 “Baby Yar”, scrittafra il settembre del 1961 e il 20 luglio del 1962, segna l’incontro della musica di Sostakovic con la poesia di Evgenij Evtusenko; ciascuno dei cinque movimenti è infatti basato su un testo del poeta russo: il primo Baby Yar, che ricorda l’eccidio di duecentomila ebrei commesso dai nazisti presso Kiev, durante la seconda guerra mondiale, è anche quello che da il titolo all’opera. Per questa composizione Sostakovic fece ritorno, a più di trent’anni di distanza dalla Terza Sinfonia, alla voce umana, impiegando un basso solista e un coro maschile.
Il primo tempo, Baby Yar (Adagio) è una pagina di sconsolata tristezza, ricca di drammatiche perorazioni orchestrali.

Evgenij Evtusenko

Il secondo movimento, Humour (Allegretto) (“Volevano uccidere l’umorismo, ma l’umorismo si è preso gioco di loro”), colla pungente ironia, è invece una programmatica e palese esaltazione del valore di certe tematiche predilette dal compositore. Nel terzo tempo, Al grande magazzino (Adagio), sono tessute musicalmente le lodi della donna sovietica e della sua pazienza nell’affrontare quotidianamente lunghe code davanti ai negozi. Il quarto e il quinto movimento si susseguono senza interruzione. Paure (Largo) si apre in modo sinistro ed opprimente, per giungere infine a una conclusione liberatoria; Una carriera (Allegretto) è invece un’ode a quanti (e qui l’allusione del compositore a se stesso è piuttosto evidente) hanno mantenuto fede alle proprie opinioni. La
prima esecuzione della Sinfonia n. 13 avvenne nella Sala Grande del Conservatorio di Mosca il 18 dicembre 1962 ad opera del basso Vitaly Gromadskij, dei bassi del Coro di Stato Repubblicano, del Coro dell’Istituto Gnessin e dell’Orchestra Filarmonica di Mosca, sotto la direzione di Kiril Kondrasin.

Concerto per violoncello n. 2 in sol maggiore, op. 126

Dei due Concerti per violoncello e orchestra composti da Sostakovic il Secondo in sol minore op. 126 è il meno noto e il meno frequentemente eseguito, nonostante si faccia apprezzare più dell’altro per originalità, come lavoro estremamente significativo del tardo stile del suo autore. La data di composizione è il 1966: anno sul finire del quale, il 25 novembre, venne presentato per la prima volta nella Sala Grande del Conservatorio di Mosca dal violoncellista Mstislav Rostropovic (che ne era il dedicatario, come lo era stato del Concerto n. 1 op. 107, del 1959) con l’Orchestra Sinfonica di Stato dell’URSS diretta da Evgenij Svetlanov.
Esso riflette la posizione di isolato rilievo del musicista nei suoi difficili rapporti con il potere sovietico e segna, dopo le composizioni celebrative del dopoguerra, un ritorno a quell’attitudine profondamente meditativa, venata di malinconico intimismo, che costituisce l’altro aspetto, non meno fondamentale e costante, della personalità musicale di Sostakovic. Forse stimolato dal lavoro di riorchestrazione del Concerto per violoncello di Schumann, realizzato nel 1963, Sostakovic compone un’opera liberamente articolata in tono rapsodico, rinunciando tanto agli elementi del folclore quanto alla fastosità di una scrittura grandiosamente sinfonica: tratti, questi, brillantemente sviluppati nel Primo Concerto. Tratto caratteristico del Secondo è invece la ricerca di una espressività più calda e intima, per così dire più sotterranea e velata, che si traduce anche nella tendenza ad assottigliare l’organico in dimensioni cameristìche.
Questa generale tendenza a una voluta riduzione dei mezzi talvolta sfociante in una sorta di divisionismo timbrico assai estroso, non impedisce che i passaggi tra un episodio e l’altro siano contrassegnati da un più ampio respiro sinfonico, in una sorta di liberazione delle forze latenti, aggressivamente ritmiche. La prevalenza del tono discorsivo, che sembra scaturire da esigenze liberamente associative più che da preventiva organizzazione strutturale (donde l’insolita procedura dei movimenti: Largo – Allegretto – Allegretto), conduce sovente alla sovrapposizione di scelte stilistiche disorientanti se non stranianti, suggerendo, soprattutto nell’uso della melodia e dell’armonia, una ingegnosa contaminazione di scherzoso accademismo romantico e di improvvisa, severa solennità: quest’ultima attraversata dagli squarci taglienti di un linguaggio imprevedibilmente amaro e proiettata negli orizzonti di un lucido pessimismo.

Non va certo dimenticato, tra i pregi di quest’opera assai particolare, il contributo offerto alla parte solistica, anzitutto sotto il profilo tecnico, dal grande violoncellista che ne è il dedicatario. La collaborazione con Rostropovic fu intensa e produttiva dal punto di vista creativo, sì da estendersi a tutta la composizione, fino a permearla da cima a fondo: anche quando non si esibisce virtuosisticamente, il solista rimane il punto di riferimento, la guida lungo tutta la partitura; senza però diventare mai il protagonista assoluto, Par di intravedere anche qui una specie di gioco tra dare e avere, ricordare e proporre, concedere e negare, che è poi la cifra stilistica più propria del lavoro: un gioco condotto dai due artisti ad altissimi livelli di gusto e di intelligenza.
Il tono generale di introspezione è dominante nel movimento iniziale, un Largo che prende vita gradualmente dall’intervallo di semitono proposto dal violoncello solo; dalla scrittura a due parti (il solista con gli archi gravi) si produce un progressivo allargamento che anela, senza raggiungerla, alla pienezza orchestrale. L’episodio centrale è ravvivato dal ritmo scandito dagli archi e dagli strumentini su una figura di semicrome che dal solista circola in tutta l’orchestra: sorta di ebbrezza motoria senza meta, non sapresti dire se ironica o tragica. Dopo il culmine di un recitativo del violoncello (ora bicordi con l’arco, ora accordi in pizzicato) violentemente “contrappuntato” dalla grancassa, che suona insieme grottesco e drammatico, la ripresa riconduce al tono iniziale, in un lento spegnersi intriso di tristezza e di solitudine.
Il secondo tempo è un breve Allegretto di rigidità quasi meccanica, con larvali apparizioni di suggestioni popolaresche, freddamente briose. Il clima per così dire invernale si riscalda a poco a poco in una schiarita che lascia balenare in controluce un paesaggio romantico, nel quale svettano i corni in dialogo amoroso con il solista. Con una fanfara sostenuta solamente dal rullo del tamburo, ai corni spetta il compito di iniziare il terzo movimento, ancora un Allegretto, evidente prolungamento del precedente, che porta a conclusione il Concerto. Vi accadono molte e diverse cose, tenute insieme da una frase cadenzante del violoncello ironicamente sospesa su un trillo, in sol maggiore, come ritornello di uno sghembo rondò.

Mstislav Leopoldovich Rostropovich

Nel momento in cui la perorazione di tutta l’orchestra sembrerebbe costituire la sigla finale di un convenzionale trionfo, un congedo inatteso ci riporta alla verità di un dolore forte, non esibito ma sospeso: il violoncello solista indugia su un pedale grave, quasi rientrando nel grembo oscuro dell’anima, scortato da un lugubre accompagnamento di percussioni.

DVD 3

Sinfonia n.4 in Do minore, Op.43

La Quarta di Shostakovich (1935-36), che segna un importante punto di svolta nella sua carriera di sinfonista, venne provata proprio nel periodo in cui Stalin provocò il finimondo con la sua reazione negativa alla seconda opera dei compositore, Lady Macbeth del Distretto di Mtseng, conosciuta anche come Katerina Izmailova. Di conseguenza Shostakovich, decidendo che la discrezione era il modo migliore per aver salva la vita, ritirò dalla circolazione la lunga, complessa, spesso estremamente dissonante e altrettanto spesso arguta sinfonia, che non venne eseguita fino al Dicembre 1961, molto dopo la morte di Stalin avvenuta nel 1953.
Con la Quarta Sinfonia, Shostakovich entrò con spirito vendicativo in un regno musicale che aveva assaggiato nella sua Prima Sinfonia e che aveva provato, senza grande successo, a reinventare nella Seconda e Terza. Nei tre movimenti della Quarta Sinfonia, che dura più di un’ora, Shostakovich mette in moto l’intero organico di una grande orchestra sinfonica con tale destrezza e virtuosismo che si sarebbe giustificati nel definire il lavoro un concerto per orchestra. Si noti, in particolare, l’abbagliante toccata per archi che funge da pezzo centrale per il primo movimento. Il lussuoso suono orchestrale con le sue tessiture comunque chiaramente definite preconizzano senza dubbio i successivi capolavori, mentre la struttura è quasi assente.
In effetti, il finale passa da episodio ad episodio in un modo che richiama la Terza Sinfonia, ma molto più a grandi linee. Analogamente, il primo movimento sembra tematicamente vago – cioè: finché non lo si analizza da vicino e si scopre che rivela un forma allegro-sonata specchiata incredibilmente complessa. Piena di scroscianti pieni, la Quarta Sinfonia sprofonda anche, in più di un’occasione, nei miasmi della depressione, mai più profondamente che nelle estese misure finali in pianissimo, in cui una figura ossessivamente ripetitiva della celesta pare porre una domanda a cui non viene mai data risposta. A collegare i due massicci movimenti esterni è un breve scherzo mahleriano che si conclude in una specie di grottesca convulsione di morte.

Valery Gergiev

Non ero propriamente entusiasta della Quarta di Shostakovich diretta da Haitink nel 1979, quando ne ho recensito l’LP, rimango tutt’ora meno che affascinato da questa performance oggi. Anche se il direttore ottiene una ottima esecuzione dalla London Philharmonic (quali che siano i limiti degli archi, non mi danno fastidio questa volta, forse sto diventando po’ blasé), particolarmente ottoni, egli raramente dà l’impressione di essere terribilmente coinvolto emotivamente da questa musica che, se non altro, mostra una sovrabbondanza di drammaticità.
Come sempre, Haitink mette meravigliosamente a nudo la filigrana degli spazi strumentali di Shostakovich, ed impartisce una solida coesione ai disparati – talvolta alla frammentazione – blocchi musicali della sinfonia. Ma le mie interpretazioni preferite rimangono le due iniziali, quella a lungo irreperibile di Kiril Kondrashin con la Moskow Philharmonic del 1962 e la sontuosa lettura di Eugene Ormandy con la Philadelphia Orchestra del 1964. Tra le versioni più recenti, Vladimir Ashkenazy e la Royal Philharmonic offrono un solido resoconto della musica, e c’è una registrazione live veramente eccellente della Supraphon diretta dal figlio dei compositore, Maxim, con la Prague Symphony Orchestra.

Sinfonia n. 9 in mi bemolle maggiore, op. 70

La Nona sinfonia fu composta ed eseguita per la prima volta nel 1945. La Settima, del 1941, e l’Ottava, del 1943, erano brani programmatici di guerra e in generale erano tutti convinti (in effetti all’origine il compositore aveva alimentato questa supposizione) che la Nona sarebbe stata un canto di vittoria di grandi dimensioni. Invece Shostakovich scrisse entro un solo mese un’opera che si potrebbe definire haydniana per le sue proporzioni e rossiniana per il suo humor.
Gli ultimi tre dei cinque movimenti della sinfonia sono uniti l’uno all’altro senza pausa. Il quarto può essere definito come un’introduzione al finale piuttosto che un movimento ben distinto. Il primo è una struttura di sonata completa di esposizione ripetuta, e il secondo è un’elegia delicatamente strumentata. Il vigore del Presto seguente non riesce a far scomparire del tutto il senso di inquietudine sottostante, creato come nel primo movimento con l’introduzione della terza minore della scala dopo soltanto poche battute nella tonalità maggiore. Il quarto movimento tocca una nota epica, ma i gesti si dimostrano vacui e retorici quando l’appassionato recitativo del fagotto compie una svolta riprendendo il primo motivo triviale del finale, la cui banalità viene accentuata dal suono aspro di tamburo militare, tamburello, triangolo e piatti: questa è musica per una vittoria vacua. La tragedia nell’arte ritrae la nobiltà dell’uomo; Shostakovich evidentemente non desiderava conservare questa allusione, e la commedia è il suo mezzo per smascherare la verità – e spesso la verità è assurda.

Concerto per pianoforte n. 1 in do minore, op. 35

Nei sei Concerti per strumento solista e orchestra, dedicati al pianoforte, al violino e al violoncello, si avverte forse più che nel resto della sua vasta produzione una certa eterogeneità stilistica di Sostakovic il quale, secondo i suoi critici più accreditati, raggiunge risultati artistici più elevati e omogenei in campo sinfonico, teatrale e quartettistico. È vero che quando si parla della produzione complessiva di Sostakovic affiora quasi sempre il termine di eclettismo per indicare la varietà delle soluzioni tecniche ed estetiche adottate dall’illustre musicista, ma nei due Concerti per pianoforte e orchestra op. 35 e op. 102, nei due Concerti per violino e orchestra op. 99 e op. 129, nei due Concerti per violoncello e orchestra op. 107 e op. 126, il discorso sembra svolgersi in maniera frastagliata e diversificata, con citazioni e richiami ad idee di altri autori, e a volte condizionato dall’inserimento virtuosistico del solista nella struttura strumentale. Questo non vuol dire che nei Concerti citati non ci sia la presenza di un artista di spiccata intelligenza con pagine di indubbia freschezza inventiva, in cui si riconosce il segno di un musicista difficile e tormentato, ma di salda e sicura coscienza professionale.
Il Concerto in do minore op. 35 per pianoforte con accompagnamento di tromba e orchestra d’archi è una conferma di quanto è stato detto perché alterna momenti brillanti e graffianti a passaggi di maniera e legati a schemi convenzionali.
La composizione fu scritta a Leningrado da uno Sostakovic ventisettenne fra il 6 marzo e il 30 aprile del 1933 ed eseguita per la prima volta il 15 ottobre dello stesso anno alla Sala Filarmonica di Leningrado dall’orchestra locale diretta da Fritz Stiedry (1883-1968), austriaco, direttore artistico dell’Opera di Berlino tra il 1928 e il 1933, trasferitosi poi in Russia con l’incarico di direttore stabile presso la Filarmonica leningradese. Al pianoforte sedeva l’autore, abilissimo solista (nel 1925 aveva ottenuto il secondo premio al concorso di Varsavia), mentre la tromba era suonata da Alfred Schumidt.
Il Concerto è un divertissement piacevole e scanzonato, con quel senso della gioia di vivere a cui fa riferimento lo stesso Sostakovic in una dichiarazione alla stampa dopo la prima esecuzione. In quella occasione il compositore disse, fra l’altro, una frase singolare: «Voglio difendere il diritto di ridere all’interno della cosiddetta musica seria… Quando gli ascoltatori ridono ad un concerto con musiche sinfoniche mie non sono turbato, ma, al contrario, me ne compiaccio». In effetti il pezzo è estroso e si compiace di citazioni di musiche altrui, a cominciare dal tema iniziale della Sonata “Appassionata” di Beethoven proposto dal pianoforte nell’attacco dell’Allegro moderato del primo movimento.

Daniil Trifonov

Lo stesso tema è ripreso dai primi violini e dai contrabbassi, sorretti dall’accompagnamento a semicrome dei secondi violini. Il pianoforte elabora e trasforma il tema, offrendone una lettura nuova e punteggiata da virtuosismo strumentale.
Il secondo tema (Allegro vivace) è indicato dal pianoforte su un accompagnamento marcato degli archi; è diviso in due incisi presentati rispettivamente dalla mano sinistra e dalla mano destra, mentre la tromba intona le armonie dei due frammenti, esaltandone il carattere gioioso ed estroverso. Si riascolta il primo tema espresso dai primi violini; il pianoforte apre con gli archi un dialogo in un fitto contrappunto, centrato su note ribattute, lunghi fraseggi in ottava e figurazioni ritmiche in pizzicato.
Dopo un fortissimo degli archi, del pianoforte e della tromba si giunge alla ripresa del tema iniziale nella tonalità d’impianto. Quindi si riascolta un frammento del secondo tema accompagnato dalle terzine dei violini secondi e delle viole e, dopo un fraseggio cromatico delle stesse viole, si giunge alla coda di dodici misure che pone fine al primo movimento, glissando sul colore scuro della tessitura grave della tromba e del pianoforte.
Il secondo tempo (Lento) ha un andamento cadenzato in 3/4. Il tema d’apertura intonato dai primi violini con sordina è basato su una linea melodica dai risvolti cromatici; il pianoforte ne amplia il fraseggio, aggiungendo un secondo elemento tematico strettamente collegato al primo tema. Il discorso sonoro si irrobustisce attraverso lo sviluppo tematico puntato sull’utilizzazione di passaggi in ottava del pianoforte, alternati nelle due mani.
La ripresa del tema è misuratamente elegante e affidata alle morbide armonie della tromba con sordina. Emerge una lunga melodia del pianoforte contrappuntata dalla calda discorsività dei violoncelli. Da rilevare per il suo specifico interesse armonico la falsa relazione fa diesis-fa naturale tra i violoncelli e il pianoforte nella conclusione, rafforzata dall’appoggiatura fa-mi intonata dai primi violini nelle ultime due misure, così da creare un clima di delicato lirismo psicologico.
Il terzo tempo (Moderato), collegato al quarto tempo (Allegro con brio) senza soluzione di continuità, è una breve parentesi che separa atmosfere musicali profondamente differenti. Il Moderato inizia con un “a solo” del pianoforte basato su una scrittura ad imitazioni, di chiara derivazione classicheggiante. Gli archi (violini primi) espongono un tema ben delineato espressivamente; il pianoforte lo interrompe e prepara con i suoi fluenti arpeggi la situazione estetica del quarto movimento, dove predomina quel carattere meccanico e ritmicamente scandito che appartiene al cosiddetto oggettivismo in musica, tipico di alcune correnti artistiche degli anni Trenta.
Il primo tema viene indicato in varie tonalità e acquista di volta in volta, in virtù dei frequenti spostamenti d’accento, differenti sfumature; il secondo tema anticipato dal pianoforte è ripreso dalla tromba a mò di fanfara. Nella sezione centrale la tromba intona una frase grottesca e divertente, giocata sulla penetrante sovrapposizione di settima diminuita. Nello scintillante “presto” finale gli squilli della tromba imprimono un tono un pò enfatico e caricaturale a quest’ultimo movimento, che riprende il tema tratto dall’opera incompiuta Der arme Columbus (Il povero Colombo), una musica scritta da Sostakovic nel 1929 per inserirla in un lavoro teatrale di Erwin Dressel, drammaturgo vissuto tra il 1909 e il 1972.

DVD 4

Sinfonia n. 5 in re minore, op. 47

«Risposta pratica di un compositore a una giusta critica». Suona due volte tremendo il sottotitolo apposto da Šostakovič alla Sinfonia n. 5 in re minore, composta fra il 18 aprile e il 20 luglio 1937 a Leningrado ed eseguita per la prima volta, sotto la direzione di Evgenij Mravinskij, dall’Orchestra Filarmonica di quella città il 21 ottobre 1937, nel giorno dell’anniversario del Ventennale della Rivoluzione. Tremenda è l’enunciazione in sé, che sembrava ammettere che un compositore potesse fare ammenda per le opere che aveva creato (nel caso di Šostakovič, Lady Macheth del distretto di Mszenk, stroncata un anno e mezzo prima dalla “Pravda” con l’accusa di “formalismo” e di “caos cacofonico”) e riabilitarsi agli occhi del regime con una sottomissione ufficiale. Ma ancor più tremendo era il significato sottinteso a quella enunciazione: una sfida orgogliosa e sprezzante all’ottuso richiamo all’ordine del potere, sotto la quale si celava una reazione rabbiosa e un’amara coscienza critica.
L’opera di depistaggio messa in atto da Šostakovič a proposito della Quinta Sinfonia comincia dal sottotitolo ma prosegue con le dichiarazioni sul programma che vi è sotteso: «Il nucleo ispiratore della mia Sinfonia è il divenire, la realizzazione della personalità umana. Al centro della composizione, concepita liricamente da capo a fondo, ho posto un uomo con tutte le sue emozioni e le sue tragedie; il Finale risolve gli impulsi del primo tempo, e la loro tragica tensione, in ottimismo e in gioia di vivere».
Queste parole bastarono per far salutare la Sinfonia fin da suo primo apparire come l’emblema dell’ottimismo sfrenato e della fiducia nel progresso imposti dall’avvento del regime stalinista. L’eminente scrittore sovietico Aleksej Tolstoj poté affermare: «La Quinta è la ‘Sinfonia del Socialismo’. Comincia con il Largo delle masse che lavorano sottoterra, un ‘accelerando’ corrisponde alla ferrovia sotterranea: l’Allegro, poi, simboleggia il gigantesco macchinario dell’officina e la sua vittoria sulla natura. L’Adagio rappresenta la sintesi della natura, della scienza e dell’arte sovietica. Lo Scherzo rispecchia la vita sportiva dei felici abitanti dell’Unione. Quanto al Finale, simboleggia la gratitudine e l’entusiasmo delle masse».
Bisognerà attendere la postuma Testimonianza raccolta da Solomon Volkov, uno dei documenti più agghiaccianti e insieme problematici sulla storia della musica e della cultura durante l’epoca staliniana, per comprendere quali fossero lo stato d’animo e la visione del compositore al momento della nascita della Quinta Sinfonia: «Ritengo sia chiaro a tutti quel che ‘accade’ nella Quinta. Il giubilo è forzato, è frutto di costrizione, esattamente come nel Boris Godunov. È come se qualcuno ti picchiasse con un bastone e intanto ti ripetesse: ‘Il tuo dovere è di giubilare, il tuo dovere è di giubilare. . .’, e tu ti rialzi con le ossa rotte, tremante, e riprendi a marciare bofonchiando: ‘Il nostro dovere è di giubilare, il nostro dovere è di giubilare…’ Si può dunque definirla un’apoteosi, quella della Quinta? Bisogna essere completamente sordi per crederlo». Pare di ascoltare, per restare nel tema di questo concerto, l’eco amplificata di un Lied di Mahler.
Come in Mahler, sia pure con caratteri storicamente e idiomaticamente diversi, anche la musica di Šostakovič sembra rappresentare un destino: l’irreparabilità della tragedia. La facciata esterna, levigata, dell’orchestrazione (limpida nonostante il gran numero di strumenti convocati, con l’aggiunta di tutte le percussioni, pianoforte compreso), il rigore della forma-sonata classica e l’economia dei quattro movimenti tradizionali (ma con tempo lento e Scherzo invertiti di posto) faticano a contenere l’urgenza simbolica dei temi e la violenza catastrofica delle sonorità, ma soprattutto ad alleviare il profondo dramma umano che, con accenti fortemente interiorizzati, vi si svolge. In altri termini, la logica formale che governa tutto il tessuto compositivo garantendo strette connessioni fra le varie sezioni, il solido bitematismo su cui si fonda il primo movimento e il rilievo che vengono ad assumere le smorfie sardoniche e l’effusione lirica prima del finale trionfale, non riescono a soffocare la vena tragica e desolata, le taglienti e angolose durezze di questo affresco grandioso e apocalittico.
Il contrasto tra apparenza e realtà si realizza in tutta evidenza nel Moderato iniziale. Un tema degli archi in forma di canone, che ricorda il soggetto della Grande Fuga op. 133 di Beethoven, conferisce un carattere arcaico, quasi sovratemporale, al tortuoso cromatismo nelle cui spire si contorce. Il secondo tema, presentato dai violini primi su un’uniforme fascia accordale in ritmo di marcia funebre degli altri archi, introduce un’atmosfera mitemente lirica: ma il significato di contemplativa, estranea fissità di questa oasi lirica è ribadito dalla tonalità lontana dal re minore d’impianto, prima mi bemolle minore e poi mi maggiore.
Gli ingannevoli profili classici di questo movimento precipitano ben presto in tragedia, annunciata dal pianoforte in un clima di montante parossismo sonoro. Il tema iniziale viene sommerso armonicamente, si abbatte, sprofonda, esaspera il contrasto con il secondo tema sino a raggiungere il culmine dell’intensità drammatica. Poi tutto rapidamente si arena per lasciar spazio alla ripresa, in una tensione gravemente rilassata. La conclusione è attonita, sospesa tra la melodia spettrale dell’ottavino e i tocchi assorti della celesta.

Michail Tuchacevskiy

Il secondo tempo è un vigoroso Allegretto in forma di Scherzo, nella tonalità di la minore e di chiarissima struttura tripartita. L’esordio marcato di violoncelli e contrabbassi instaura subito il tono espressivo generale, che ricorda quello dei Ländler stravolti di Mahler, con qualche effetto bandistico più pronunciato,
forse intenzionalmente caricaturale. Anche qui l’ambiguità (o meglio la duplicità) predomina, suggerendo ora uno struggente ripiegamento nostalgico, ora un brutale sogghigno liberatorio. L’ironia diviene disperata, acre, alla fine quasi sarcastica.
Segue un Largo di trasognata cantabilità, in fa diesis minore e tutto dominato dalle sonorità degli archi. Šostakovič lo considerava il movimento più riuscito, nel quale aveva ottenuto di «costruire un tempo che evolve in modo progressivo dall’inizio alla fine».
Nella sua forma aperta si susseguono, in un fitto intreccio polifonico, quattro diverse idee tematiche, tutte di affine carattere lirico, che si completano a vicenda senza contrasti, dando all’insieme un senso di compattezza e di flessibilità. Più elegiaco che mesto, pensoso più che serioso, questo movimento è anche il più personale della Sinfonia, quello nel quale il furore represso si stempera in una specie di commossa sublimazione del dolore. È un momento di introspezione e di pietà, forse un atto di sincera devozione alle ragioni ideali della musica, oltre le contingenze della storia.
La Sinfonia si conclude con un finale Allegro non troppo in re maggiore, in cui i toni appariscenti, positivi e ottimistici, giungono a effetti roboanti. Secondo l’autore il finale della Sinfonia doveva dare «una risposta ottimistica e gioiosa agli episodi intensamente tragici dei movimenti precedenti». Ma la soluzione che propone è una risposta ansiosa e dubbiosa a interrogativi che rimangono tutto sommato insoluti: anzi, riaffermati. Il giubilo che la pervade non è soltanto stridente, ma anche troppo platealmente esibito per essere vero.
È, intenzionalmente, l’ottimismo del vacuo e del retorico. Ed è dunque qui che l’irreparabilità della tragedia tocca il suo apice: nella costrizione a doversi fingere a tutti i costi entusiasta, e nel far capire, dietro l’apparenza di un’enfasi convenzionale, quasi volgare, tutto il dramma e la protesta per questa condizione. Il pubblico al quale Šostakovič si rivolgeva avrebbe compreso il messaggio in codice della Sinfonia? Certo che l’avrebbe compreso, avrebbe capito quel che stava succedendo attorno a loro e capito di che trattava la Quinta Sinfonia. Questo, non il compromesso, era il senso del mascheramento.
Nel vortice di un conflitto di proporzioni immani, la musica di Šostakovič ci insegna l’arte umanissima del sopravvivere alle utopie con un minimo di decoro, e la necessità di lottare lucidamente con ogni mezzo, anche con il parziale sacrificio di sé, per tenere in vita la speranza.

Sinfonia n. 14 in sol maggiore per soprano, basso, archi e percussioni, op. 135

Le composizioni dell’ultimo periodo creativo di Sciostakovic sono caratterizzate da un’impressionante unitarietà concettuale ed espressiva. Se nei lavori suoi sino agli anni Sessanta poteva rinvenirsi una certa propensione al magniloquente, in corrispondenza più o meno diretta alle esigenze dell’esaltazione della società sovietica, le musiche dell’estremo suo periodo risultano di segno opposto e, rinunciando in larga misura alle sonorità compatte, s’affidano prevalentemente a un tessuto orchestrale scarno e spoglio.
Tali considerazioni valgono soprattutto per la musica sinfonica di Sciostakovic: la sua Undicesima sinfonia «L’anno 1905» e la Dodicesima «L’anno 1917» sono realizzazioni di carattere pubblico per celebrare i trionfi della rivoluzione sovietica. Per contrapposizione le tre Sinfonie che seguono sono l’espressione della sua angoscia personale.
La Tredicesima mette in musica cinque testi di Evtushenko, un poeta che già aveva sollevato l’opposizione delle autorità russe, e in particolare proprio con quel poema che Sciostakovic aveva scelto per aprire il suo ciclo, Babi-Yar. I testi contengono attacchi tutt’altro che velati al regime stalinista e non dimenticano l’antisemitismo presente in Russia, sì che dopo tre esecuzioni il lavoro fu bandito dai programmi per alcuni anni. La Quindicesima sinfonia, l’ultima di Sciostakovic, è una partitura puramente orchestrale, la più enigmatica di tutte le sue Sinfonie, con citazioni da Rossini e da Wagner nonché dalla sua stessa produzione, come la «Sinfonia di Leningrado», spaziando da un elegiaco movimento lento ad accenti marcatamente satirici che riescono appena a mascherare una profonda ansietà.
La Quattordicesima sinfonia per soprano, basso, orchestra d’archi e percussione fu scritta nel 1969, esattamente tra il 13 e il 16 febbraio, con completamento dell’orchestrazione il 2 marzo, mentre Sciostakovic era in ospedale, a Mosca, per disturbi cardiaci. Prima di accingersi al lavoro Sciostakovic aveva fatto sentire ai suoi allievi il War Requiem di Britten e, non casualmente, la Quattordicesima sinfonia porta in partitura la dedica a Benjamin Britten (che diresse la prima esecuzione in Occidente di tale lavoro al Festival di Aldeburgh nell’estate 1970). Esistono tre stesure della Sinfonia: la prima contempla l’esecuzione in russo dei testi di Apollinaire, Garcia Lorca e Rilke mentre la seconda stesura, autorizzata dall’autore, contempla l’esecuzione in lingua tedesca. Vi è infine una terza versione, che pure ha avuto il beneplacito di Sciostakovic, nella quale i canti sono intonati ciascuno nella loro lingua d’origine, con eccezione del «Loreley» di Apollinaire che segue strettamente un poema tedesco di Clemens Brentano del 1801 e che viene cantato in questa lingua.
All’anteprima dell’esecuzione della Quattordicesima sinfonia alla Piccola Sala del Conservatorio di Mosca il 21 giugno 1969, Sciostakovic pronunciò, tra l’altro, queste parole: «Forse v’interesserà sapere come mai ho deciso di prestare tanta attenzione a un fenomeno così crudele e tremendo come la morte. Non perché ho molti anni e non perché tutto attorno a me cascano i proiettili – per esprimermi nel linguaggio degli artiglieri – e quindi perdo ogni giorno qualche amico o qualche parente. Ho cercato piuttosto di contrappormi ai grandi classici a tale riguardo, al modo cioè con cui hanno affrontato il tema della morte, intesa come passaggio a un mondo migliore». Nel ricordare tale testimonianza, Kirill Kondrascin rammenta che Sciostakovic citava, di seguito, la morte di Boris Godunov che contempla in musica una certa rarefazione sonora; e poi l’Otello di Verdi: quando finisce la tragedia e muoiono Desdemona e Otello, si avverte nella musica un senso meraviglioso di pace.
E poi l’Aida, ove la morte tragica dei protagonisti è rischiarata da tratti luminosi nella musica. E Sciostakovic così concludeva: «Tutto questo ha origine probabilmente da vari insegnamenti religiosi, secondo i quali vivere forse è doloroso ma quando morirai tutto sarà bello e ti attenderà una pace completa… Mi sembra in questa mia Sinfonia di seguire i passi del grande compositore russo Mussorgski.
Il suo ciclo Canti e danze della morte ne parla diffusamente, in particolare il Condottiero è una grande protesta contro la morte, un ammonimento al fatto che bisogna vivere la propria vita in modo onesto, nobile, non commettendo mai nulla di cattivo perché purtroppo gli scienziati non inventeranno tanto presto l’immortalità… La morte aspetta tutti noi e per questo io non vedo nulla di buono alla fine della nostra vita… Questa Sinfonia intende essere una sorta di addio alla vita, se tale addio riuscisse a comprendere nella musica tutto ciò che l’autore aveva in mente, una specie di suo testamento… Ma voi che ascoltate, vorrei che dopo l’esecuzione di oggi, mentre ve ne andate, abbiate a dire che ‘la vita è meravigliosa’!».
Nella Quattordicesima sinfonia si ascoltano undici poemi, tutti riverberanti l’immagine della morte, non un’immagine consolatrice o liberatoria ma il senso di un incubo senza rimedio. Ancora Sciostakovic ebbe a precisare al riguardo: «Varie persone,/che dicono d’essere miei amici,/sembravano chiedersi perché il finale non fosse confortante, quasi intendessero dire che la morte era soltanto l’inizio di un’altra vita. Non è vero, la morte non è affatto l’inizio di qualcosa, la morte è la fine vera, dopo di essa non esiste nulla, assolutamente nulla» (Cfr. Testimonianza – Le memorie di Dimitri Sciostakovic a cura di Solomon Volkov, Milano 1979).

Benjamin Britten

In effetti la Quattordicesima sinfonia è un lavoro del tutto sui generis che si articola in una successione di undici riflessioni su un unico tema, la morte. Tale composizione dilata in maniera inequivoca i limiti della forma sinfonica, ha qualcosa di un Requiem «ateo» che non richiede affatto la presenza fastosa di un coro per il suo carattere largamente introverso, avvertibile sin dalle prime battute nel motivo del «Dies irae». Sciostakovic si avvicina infatti al pensiero della morte non secondo quel modello prefigurato che accompagna normalmente l’esistenza del o dal primo giorno di vita sino alla preghiera per l’eterno riposo.
In maniera del tutto convincente l’autore fa sì che tutti gli undici episodi si dispongano in cerchio attorno al tema della morte, come se tutti ne fossero i satelliti; e, dal canto suo, la morte non si precisa in un’unica, concreta raffigurazione ma nell’ombreggiatura dialettica di undici prospettive diverse e convergenti su un unico tema. Sciostakovic infatti non si sofferma a considerare la morte secondo il normale destino dell’uomo ma nel senso di una necessità ineluttabile che giunge sempre troppo presto, imposta all’individuo in maniera autoritaria, particolarmente tragica, secondo una realtà più forte del pensiero dell’essere umano, per la sua crudeltà e assurdità. In tale prospettiva viene a svuotarsi anche il concetto burocratico dell’esistenza umana secondo il
«realismo socialista» di fronte al quale la concezione di Sciostakovic si colloca in una forma dialettica che trae origine da quel profondo umanesimo del musicista che l’aveva fatto esclamare, la sera della première, «vorrei augurarmi che gli ascoltatori dopo l’esecuzione di questa Sinfonia abbiano a pensare quanto meravigliosa sia la vita».
Sul piano del linguaggio, nelle armonie è evidente l’influsso dell’esperienza quartettistica di Sciostakovic ma è sul piano schematico formale che si evidenzia la singolarità della Quattordicesima sia nella scelta dei mezzi musicali impiegati sia nella scelta delle poesie, tra le quali si possono individuare raggruppamenti che delineano più marcatamente determinate prospettive, illuminandole significativamente. Più che suddividere le poesie secondo gli autori (Lorca, Apollinaire, Küchelbeker, Rilke) assai più importante è individuarne i reiterati nessi che si possono cogliere nelle transizioni tra un episodio e l’altro, nell’adozione anche di un determinato registro vocale o dell’esecutore (soprano, basso o duetto), nel materiale motivico (il tema del «Dies irae» dell’inizio ritorna al 10° episodio) o anche nei legami contenutistici tra un canto e l’altro.
In questo modo si evidenzia una rete fittissima di scambi che permea l’intero lavoro, costituendone l’unitarietà più significativa. Si precisa innanzitutto la funzione di cornice instaurata dalla prima e dall’ultima poesia (Lorca – Rilke) che, per astratta e generica che possa essere nell’asserzione, delimita un nucleo centrale completo, comprendente la vicenda di Loreley col suo darsi la morte, il canto conclusivo del suicida, le poesie sull’assurdità della fine nelle trincee o nelle carceri.
Questo parallelismo simmetrico tra l’inizio e la conclusione della Quattordicesima si risolve nella marcata tendenza alla soggettivizzazione dell’asserzione-base. La rivolta di Sciostakovic si manifesta nella contrapposizione tra le situazioni espressive e liriche così divergenti come quelle di un Lorca e di un Rilke, confermandosi peraltro nella scelta delle poesie poste al centro, dal dramma di Loreley al lamento della donna che ha l’amante che s’agita nella cella, sino alla soggettivizzazione dell’offerta stessa (nel carcere, la risposta dei cosacchi, il lamento di Küchelbeker). Sciostakovic sottolinea l’accentuazione del soggettivismo della musica nell’aspetto formale a proposito dei brani affidati al soprano (il IV, il V per concludersi nel VI) o al basso (il VII, l’VIII e il IX). Di conseguenza quello che in un primo momento poteva sembrare un semplice alternarsi di poemi sul tema della morte assume l’aspetto, a ben vedere, di una costruzione strutturata in maniera pluridimensionale, dalla forma ciclica chiusa e determinata.
Tale concezione formale racchiude, di riflesso, nei singoli episodi, un’enorme gamma espressiva che trascorre dall’odio brutale presente nei versi della

«Risposta dei cosacchi» al cinismo del VI episodio sino ai brani apparentemente distesi del suicida e della morte del poeta. È proprio l’apparente rassicurazione formale ad ammettere i maggiori eccessi sonori che spaziano dal tumulto orgiastico a una quiete che spegne qualsiasi alito di vita. Geniale infatti, non soltanto nella più estrema e sensibile esperienza timbrica, è l’economia dei mezzi impiegati, ove, accanto alle due voci, si collocano la percussione differenziata tra varie sorgenti sonore, dalle nacchere alle campane ecc., e un organico cameristico di 19 elementi. In una partitura come questa non c’è posto infatti, secondo Sciostakovic, per la vita dei sentimenti quale una grande orchestra con tanti raddoppi strumentali potrebbe suggerire.
Ogni episodio sviluppa un proprio quadro espressivo, non concedendo alcuno spazio all’elaborazione motivica secondo la tradizione sinfonica, né del pari contempla atteggiamenti timbrici edonistici, nel senso della morte come trasfigurazione. Con l’eccezione del II brano di «Loreley», bipartito tra il giudizio del vescovo e l’annegamento nel Reno, per ogni episodio vi è sempre e soltanto un unico aspetto caratterizzante a essere sbalzato con cruda precisione. E questo avviene però con tale meditata insistenza che l’ascolto, nonostante l’aspetto apparentemente semplice, sovente viene caricato di significato sino ai limiti della comprensibilità. I brani più ridotti nell’estensione si conformano allo spazio più essenzializzato loro assegnato nell’ambito della creatività formale complessiva.
È interessante anche notare il differente impiego dei mezzi musicali e vocali. Così il I episodio sembra attenersi al recitativo, mentre il II è praticamente un’aria di bravura pluripartita che sembra tratta da una Zarzuela, ed il III è un quintessenzializzato dramma musicale. Nel VI, al couplet, si evidenzia un celebre imprestito, l’VIII è un brano per coro adattato alla voce di basso, il IX ha i connotati di una romanza. Nella successione di un episodio all’altro la prospettiva d’ascolto viene però modificata, rispetto al significato di ogni singolo brano. Nell’arco generale nulla appare più «familiare» perché la tematica della morte colora in modo singolare ogni distinta categoria espressiva, stravolgendola in riferimento al tutto. L’irridente, sarcastico riso della donna nel VI episodio ha ben poco da spartire con il couplet «… wenn ich lache, ha, ha, ha» dal Pipistrello, mentre, d’altra parte, il «coro maschile» della risposta dei cosacchi ascende alla dimensione dell’urlo parossistico che trova il suo climax negli irrequieti cluster degli archi, sino a un vertice di semitoni accostati gli uni agli altri a grappolo.

Dmitri Shostakovich

È proprio la modestia dei mezzi musicali impiegati a render possibile tale singolare gamma espressiva. Raramente l’effetto di un glissando colpisce come alla chiusa del I episodio, il cui tessuto sonoro scorreva dianzi in una plurivocalità assai trasparente. L’interludio strumentale al VII episodio («nel carcere della Sante») nel suo frantumato tematismo assume un carattere ancor più spettrale per i pizzicati e per i colpi dell’archetto sul violino, quasi a ipotizzare che tra le pareti del carcere s’agitino i relitti delia musica.
E la melodia dello xilofono, dodecafonica, del VI episodio («In guardia II») – quando mai una serie ha provocato un simile effetto sonoro! – sembra oscillare nella scheletrica sua natura espressiva tra una marcia militaresca e uno strimpellamento sulle ossa dei trapassati. La morte ha un colore strumentale ambiguo, algido, acutissimo. Le si contrappongono la disperata gioia di vivere e il lamento. La musica di Sciostakovic ricusa in ogni momento della Quattordicesima la dimensione eroica ma anche qualsiasi speranza cristiana nell’eternità: cerca soltanto di vedere la morte nella molteplicità degli aspetti, proprio come la videro gli uomini che dovevano morire.
Nella genesi della Quattordicesima decisivo fu il ricordo dell’esperienza maturata da Sciostakovic quando, nel 1962, curò l’orchestrazione dei Canti e danze della morte di Mussorgski: già allora aveva accarezzato infatti il progetto
di comporre una sorta di continuazione di tale ciclo. Mussorgski aveva delineato la morte come «una follia inerte»: Sciostakovic intendeva rendere esplicita la sua protesta contro la morte in nome della vita; e più ancora voleva che la morte, proprio nel senso inteso da Mussorgski, venisse raffigurata in musica nella sua crudezza più realistica, senza alcuna consolazione nella vita dell’aldilà.
Quando si accinse a scrivere la Quattordicesima Sciostakovic intendeva deliberatamente affrontare un tema che colpisse in pieno volto l’atteggiamento volutamente ottimistico dell’arte in funzione della vita, che era un cardine dell’estetica ufficiale del regime sovietico. Sciostakovic si rendeva conto che non poteva permettersi più alcun indugio nell’esprimere quello che urgeva in lui: da un certo tempo infatti era minato dalla malattia cardiaca che sei anni dopo lo avrebbe condotto alla morte. Tutto quello che Sciostakovic ha scritto a partire dalla Tredicesima sinfonia denota l’intenzione dell’autore di ribellarsi a qualsiasi atteggiamento remissivo nel giungere a una resa dei conti con il proprio passato. Gli amici che sentirono Sciostakovic suonare al pianoforte alcuni passaggi della Quattordicesima prima dell’esecuzione in pubblico rimasero sconcertati nel rendersi conto che il suo linguaggio musicale assorbiva alcune tendenze dell’Avanguardia occidentale, mutuandole e sfruttandole peraltro in maniera del tutto nuova.
Nel suo impianto complessivo la Quattordicesima non segue più una rigorosa tonalità fondamentale, oltre a includere dissonanze e crudezze sonore che in altri tempi l’autore avrebbe ricusato. È un tardo stile di Sciostakovic scarno e brusco, quello della Quattordicesima, letteralmente antitetico al linguaggio di facile comunicativa preteso dalle direttive estetiche del regime. E l’impatto sull’ascoltatore è ancor più impressionante per il carattere disadorno della musica che rientra appieno nelle coordinate espressive del XX secolo. Nella Quattordicesima infatti, e non soltanto per l’assimilazione di stilemi dell’Avanguardia occidentale, Sciostakovic vuole manifestare quello che a lui per tanto tempo era stato negato e che egli era stato costretto a serrare dentro di sé, l’amore per la verità.
Nelle sue esplicite dichiarazioni Sciostakovic ha precisato che la Quattordicesima era stata concepita per andar oltre il ciclo mussorgskiano e al riguardo il musicista contemporaneo aveva detto: «Canti e danze della morte, un lavoro grandioso che ha sempre destato la mia ammirazione. Pensavo però che se vi era un difetto in questo lavoro era la sua brevità, soltanto quattro Canti… Mi avevano impressionato la profonda saggezza e la forza dell’espressione artistica di questi Canti, nel porre in risalto i ‘temi eterni’ dell’amore, della vita, della morte… Ma io nella mia Sinfonia intendevo andar oltre questa tematica».

Si è già accennato alla particolare cura posta da Sciostakovic nella scelta delle poesie, tutte riferibili al fenomeno della morte. Con un’unica eccezione, sono tutti testi di autori non russi, da Lorca, a Rilke, ad Apollinaire. Già questo fatto destò sorpresa, alla prima esecuzione della Quattordicesima. L’unico testo russo è il Canto IX: si tratta di un poema dell’inizio dell’Ottocento a opera di un russo- tedesco, Wilhelm Karlowitsch Kuchelbeker (1797-1846) che prese parte alla rivolta dei Decabristi (1825) e di conseguenza fu spedito ai lavori forzati in Siberia. Il suo poema si rivolge all’amico e poeta Anton Antonowitsch Delwig (1798-1831) e comprende un messaggio che sicuramente Sciostakovic poteva acquisire anche alla sua opera, il raggiungimento dell’immortalità attraverso i propri scritti: «Qual è la ricompensa delle azioni nobili e della poesia?…
L’immortalità è la stessa sia per le azioni nobili e coraggiose sia per la dolcezza dei canti poetici. E la nostra unione, così, non potrà più morire…». Forse non è singolare che, a questo punto, Sciostakovic eviti nella sua musica aspre dissonanze e rivesta le parole di Küchelbeker – specie a proposito del «dolce suono» – di una sonorità tonale degli archi che, cominciando dall’accordo in minore, approda gradualmente a un puro re bemolle maggiore. E l’interludio strumentale successivo ripropone una volta ancora tale sviluppo, pur se in forma abbreviata. In questo modo la musica di Sciostakovic riesce a cogliere, nel contempo, un particolare colorito storico e anche il significato extratemporale del testo, senza trascenderne l’ambito. L’inizio del X Canto riporta l’atmosfera alla dura realtà della morte.
Una fredda univocità accompagna il canto, modellato quasi sul recitativo e interrotto da una sorta di sbiadito corale che però risuona del tutto estraneo a qualsiasi clima religioso. Il contrasto rispetto all’episodio «A Delvig» appare quindi tanto più significativo e stridente proprio perché l’inizio all’unisono dei violini si rifà all’avvio della Quattordicesima, significativamente alla poesia «De Profundis» di Lorca. La solitaria, a lungo trattenuta melodia dei violini, ricorda l’intonazione del gregoriano «Dies irae» – un rimando davvero singolare alla musica arcaica e una testimonianza fuori del comune a proposito dell’impiego per un fine non ortodosso di una determinata tradizione musicale, esperito da Sciostakovic nell’ultima sua produzione creativa.

Valery Gergiev

Si è già detto come la poliedricità stilistica non si manifesti soltanto nella scelta dei testi ma piuttosto nella scelta dei mezzi musicali. Mai prima d’ora Sciostakovic aveva adottato un organico orchestrale così singolare come per questa «Sinfonia della morte»: i fiati sono totalmente assenti mentre figurano soltanto gli archi e un complesso di percussioni adatto espressamente al significato sonoro voluto dall’autore, per determinati e crudi effetti di contrasto.
Alcuni brani sono individuati soltanto dal suono delle percussioni, specie il V con il quadruplice ritorno, quasi un ritornello, di una frase dodecafonica ritmata a guisa di fanfara, una realizzazione macabra di come Sciostakovic intendesse interpretare la tecnica seriale schönberghiana.
Portata innanzi dal tintinnio dello xilofono, questa frase, al cospetto del significato del testo, sembra evocare un celebre inciso di Adorno: «Ossa impallidite creano la musica più variopinta». Quasi contemporaneamente si ascoltano tre tam-tam a diversa altezza, che battono un ritmo di marcia. Così, ridotta alla sua quintessenza, la «scena» viene schizzata con tratti magistrali. Un impiego della percussione altrettanto insolito nel ricreare una «atmosfera» è quello che definisce il carattere del II episodio «Malagueña»: il successivo interludio orchestrale, d’avvio selvaggio, evoca la morte nella taverna con lo schioccare delle nacchere. Tratti spettrali assume l’impiego di bacchette di legno nella scena del carcere al VII episodio, quando l’intollerabile attesa dell’esecuzione viene ancora rinforzata dall’intervento estraniante degli archi pizzicati e poi percossi con l’archetto.
A questo proposito Sciostakovic ha detto, in particolare: «Pensavo alle celle di prigionia, a quei buchi orribili nei quali uomini come noi venivano sotterrati a vita. Attendevano perpetuamente di esser prelevati, origliavano nell’aspettativa del verificarsi di tale evento». Il successivo VIII Canto esplicita l’intenzione del compositore d’elevare alta la sua protesta non soltanto contro la morte ma contro «i carnefici che comminano ed eseguono tale condanna a morte sugli uomini».
C’è da notare ancora che la poesia di Apollinaire («Risposta dei cosacchi Zaporoghi al sultanto di Costantinopoli») si riferisce verosimilmente a un famoso dipinto di Ilja Repin, di cui Mussorgski era amico, ma la musica di Sciostakovic procede assai più innanzi sul piano espressivo.
L’episodio raggiunge il suo climax in un cluster scintillante, attinto dagli archi nel registro acuto, mentre sullo sfondo il quadro è tinteggiato dal brutale motivo dell’avvio nel registro profondo. Questa non è l’applicazione nuda di una tecnica musicale d’avanguardia ma una realizzazione concreta, marcata, senza mezzi termini, davvero tangibile del contenuto del testo.
E proprio in questo modo Sciostakovic si colloca esattamente nel tracciato del realismo mussorgskiano. Sia gli schiocchi di frusta all’inizio di «Loreley», sia la contemporanea visione sinestetica del riflesso nel suono della celesta, a proposito della seconda parte di questo canto, sono inequivoci al riguardo e Sciostakovic, proprio perché, al pari di Mussorgski, non può vedere la morte in maniera tragica o pessimistica ma soltanto in maniera realistica, disincantatamente realistica, non conclude la Quattordicesima con una fine rasserenante o consolante ma con un aperto, provocatorio gesto, che si rivolge proprio ai vivi.
È così che l’arte di Sciostakovic prende le distanze dall’ideologia dei suoi tempi e assegna alla musica la funzione di dire la verità in cui egli crede. La Quattordicesima sinfonia è la testimonianza del coraggio artistico di Sciostakovic.

DVD 5

Sinfonia n. 6 in si minore, op. 54

Dal mio punto di vista, la Sesta Sinfonia del 1939 di Shostakovich, uno dei massimi capolavori della letteratura sinfonica del ventesimo secolo, rimane una specie di enigma. Composta al termine di un periodo ragionevolmente calmo che vide scarsa attività creativa di rilievo a parte la scrittura di un quartetto d’archi (il primo di quello che sarebbe diventato un importante ciclo di quindici) e la nascita del suo secondo figlio Maxim, la Sesta è programmata nelle sale da concerto molto meno spesso della maggior parte delle altre sinfonie, tra cui lavori di minore spessore, e molte delle registrazioni attualmente disponibili di essa – tra cui quelle di Boult, Mravinsky, Reiner e Stokowski classificate come storiche… o quasi. Inizialmente promessa come una sinfonia ‘Lenin’ completa di coro e solisti (Shostakovich lanciava continuamente bocconcini ai commissari politici), la Sesta interamente strumentale finì per essere forse il più convincente dei primi tentativi di ridefinizione della sinfonia effettuati da Shostakovich.
L’opera inizia, abbastanza non convenzionalmente, con uno scuro ed esteso largo (dura parecchi minuti in più dei due movimenti finali combinati) che lentamente vaga attraverso la tenebrosa e, spesso, estrema silenziosità di parecchi gruppi di temi sviluppati in un modo che ha poco o niente a che fare con la convenzionale forma allegro-sonata che serve come canovaccio per la maggior parte dei primi movimenti sinfonici. Il seguente, agilissimo scherzo, che ancora non mobilizza realmente la forma standard (forma canzone e trio) usata per tali movimenti, inizia con un’innocenza quasi fanciullesca. Mentre procede attraverso ogni sorta di argute ironie, comunque, il movimento acquisisce un impeto così straripante che potrebbe in certi punti essere definito inquietante.
Il finale in qualche modo affrettato, d’altra parte, passa dall’acerba ironia dello scherzo a elevati motti di spirito talvolta maniacali, con più di un cenno di sarcasmo, in una corsa a perdifiato che crea uno dei suoi principali temi attorno alle battute di apertura del finale della Quarantesima Sinfonia di Mozart. Ho sempre colto qualcosa di particolarmente ingegnoso nel modo in cui Shostakovich ha strutturato la Sesta Sinfonia, permettendo all’ascoltatore di inerpicarsi lentamente fuori dall’oscurità del primo movimento per raggiungere infine la giocosità del finale pur non dimenticando mai interamente l’oscurità iniziale. Solo un po’ di distacco dagli umori e dall’ironia dei tre movimenti della sinfonia impediscono alla Sesta di Shostakovich diretta da Haitink di eguagliare la Quinta in eccellenza. Amo in particolar modo il suono degli archi della Concertgebouw Orchestra, che definiscono uno spazio musicale ben più che palpabile nel primo movimento.

Come sempre, Haitink mantiene anche gli elementi orizzontale e verticale della musica in perfetto equilibrio, benché lo xilofono, un elemento particolarmente importante dell’ironia dello scherzo, sia tutt’altro che sepolto nella massa dei suono orchestrale. La mia versione preferita della Sesta di Shostakovich è rimasta per un certo tempo la registrazione del 1958, rimasterizzata su un CD Everest ancora disponibile l’ultima volta che ho controllato, con Sir Adrian Boult alla direzione della London Philharmonic. Boult impiega due minuti buoni in più per il primo movimento rispetto a qualunque altro direttore che io conosca, e poi lacrima nello scherzo come se non ci fosse un domani.
Ma anche se ciò priva in parte la sinfonia dell’equilibrio che Shostakovich aveva probabilmente in mente, per me la cosa funzionava brillantemente, con Boult che si avventurava in acque molto più profonde, nel primo movimento, di chiunque altro prima o dopo di lui. E la Everest non fa rimpiangere nulla, per la qualità sonora, di incisioni prodotte più di trent’anni dopo. Un’altra eccellente performance è quella diretta da Paavo Berglund con la Bournemouth Symphony in un cofanetto EMI di due CD che contiene molte altre golosità, tra cui un resoconto della Undicesima che vi lascerà senza fiato in alcuni passaggi.

Sinfonia n. 10 in mi minore, op. 93

Se alla prima condanna del ’36 contro il «formalismo», le astrusità linguistiche e l’anticonformismo della sua musica, Sciostakovic aveva opposto un breve silenzio, tosto interrotto da quella «risposta pratica» costituita dalla «Quinta Sinfonia» (opera che di proposito si rifà al sinfonismo tardo-romantico, senza però rinunciare agli specifici caratteri stilistici chiariti innanzi), il secondo attacco di Zdanov (1948) contro le inutili novità linguistiche e l’individualismo opposto al carattere popolare ed alle emozioni collettive, fa tacere il compositore russo per molti anni, occupandolo in lavori per Io più oleografici, ricchi di banale folclorismo e di ridondanze celebrative, quali il «Canto delle foreste». Ma soprattutto Sciostakovic abbandona quel campo sinfonico frequentato, fino al termine del secondo conflitto mondiale, in ragione d’una sinfonia ogni biennio, dalla tragica «Quarta» alla «Nona», opera serena, dalla struttura quasi neoclassica.
L’allora commissario per le questioni ideologiche e culturali, Andrei Zdanov, condannava i musicisti che continuavano a perseguire «un formalismo estraneo all’arte sovietica, il rigetto dell’eredità classica sotto la maschera di uno sforzo verso la novità, il rigetto del carattere popolare della musica, il rifiuto di servire il popolo a beneficio di emozioni strettamente individuali di un gruppo ristretto, di una élite di esteti». In tale accusa venivano coinvolti i massimi compositori sovietici, anzitutto Prokofief e Sciostakovic nonché Kabalevski e Kaciaturian, tutti accusati di ricorrere ad un linguaggio musicale complicato, pieno di dissonanze che giungevano all’atonalismo incomprensibile alla grande massa degli ascoltatori, nemico della melodia, estraneo alle fonti del patrimonio popolare, privo di caratteri nazionali ed invece corrotto dal decadentismo della musica borghese occidentale: in ciò, dunque, musica messa al servizio di contenuti negativi. Era una prospettiva chiaramente riconducibile alle tesi staliniane esposte dal dittatore due anni più tardi: ove il parallelo tra lingua parlata e lingua musicale comportava nel compositore l’osservanza d’un linguaggio tonale, basato sugli schemi classicistici della musica ottocentesca e sostanziato d’un folclore che, per realizzare un immediato richiamo nazionalistico, doveva esser pianificato, edulcorato e stilizzato, perciò allontanato dalla moderna attenzione verso il canto popolare attuata da un Bartók od un Janacek.

La musica e le arti erano valide, insomma, in quanto responsabilizzate nella loro oggettiva funzione sociale: ed erano pur quelli gli anni della difficile ricostruzione post-bellica, della guerra fredda, del «culto della personalità». Se indicazione specifica c’era, essa riguardava soltanto la musica descrittiva o quella «a programma», ove il poema sinfonico, la cantata patriottica, l’opera ed il balletto erano generi disponibili e consentiti, quanto a contenuti: ma generi, è chiaro, ormai quasi tutti anacronistici, nella vicenda musicale ed estetica del nostro secolo.
Sotto un siffatto «ukase», la musica ovviamente decade, riducendosi a manifestazione opportunistica (nelle cantate di Sciostakovic) od a congedi evasivi, venati di stanca esteriorità, come nella «Settima» ed ultima Sinfonia di Prokofief. Come già nel ’36 aveva tralasciato il genere teatrale, così ora Sciostakovic abbandona quello sinfonico; e nel rifiuto al «culto della personalità » si dedica piuttosto ad un campo poco praticato, quello della musica da camera («IV» e «V Quartetto»), ove il linguaggio muove dagli schemi formali del quartettismo classico per giungere ad inquietanti tensioni armoniche, a stravolte dimensioni liriche.
Poi, all’avvento del cosiddetto «disgelo» conseguito alla scomparsa di Stalin, Sciostakovic ritorna subito al prediletto campo sinfonico, ma con un atteggiamento meno vivo, con risultati forse meno stimolanti che nel ’37, con la «Quinta Sinfonia». Quell’opera, a suo stesso dire, aveva come centro «un uomo con tutte le sue esperienze» ed era infatti lavoro ricco di tensioni ma anche di slanci ottimistici; ora la «Decima», pur composta di slancio tra la primavera e l’estate del 1953, appena scomparso Prokofief, è opera sostanzialmente serena ma senza letizia, che avverte la problematicità di una scelta tonale, che esprime anzi la dura costanza, l’ardua fedeltà di tale scelta: ritroviamo lo Sciostakovic amante dei conflitti drammatici, contrario al destino che tenta di soggiogare l’uomo, ma calato in una cifra pensosa, quasi preoccupata. Come dire che la concezione è, nella resa delle opposizioni, ancora romantica; ma è certo che qui Sciostakovic, riprendendo la vecchia e consentanea struttura della Sinfonia, appare consapevole dell’impossibile ritorno ad una qualche animosa avanguardia, nel senso di condizione umana tanto più inquieta quanto più attiva: allontanata ormai la tentazione di descrivere in qualche modo il disordine esistenziale, ora tende alla proiezione dell’Io, raggiunto non più con l’entusiasmo bensì con la logica dell’esperienza, con la ricreazione della memoria di cui aveva parlato Gorki, quindi stigmatizzando ogni prima amato pretesto «visionario». Ecco che la discorsività tende a stasi di contemplazione, di grigio lirismo, alla predominanza di una situazione d’attesa, di tempo lungo, che disarticola le immagini musicali e le dispone in un’atmosfera meditativa e pensierosa, che par riflettere, col trauma vissuto in prima persona dal compositore, anche l’esperienza comune da cui il mondo sovietico stava uscendo dopo Stalin.
Nella «Decima» Sciostakovic vorrebbe servirsi ancora di tutti i suoi vecchi registri (la lacerazione drammatica, il piglio grottesco, la frase eloquentemente melodica e suadente, lo scatto selvaggio e dissacratorio), un po’ come Verdi faceva negli anni ’40 quando proponeva alle sue opere atteggiamenti perentori, a senso unico, dotati della massima funzionalità didascalica. Ma ciò che ora infirma il dato realistico di partenza è proprio l’attenzione minuziosa alla microstruttura tematica, la fin ricercata raffinatezza strumentale e contrappuntistica, l’indugio talvolta disarmante. Ove l’esito non può che esser transitorio, cioè di attesa di un’altra stagione creativa, quella della musica a programma che infatti ritornerà nella «Sinfonia n. 11», ispirata alla rivoluzione russa del 1905. Nondimeno, salva ancora questa imponente «Decima» la struttura sostanzialmente ciclica, se l’inciso del «Moderato» iniziale ritorna nel terzo e quarto movimento.
Il tema cupo sorge dai violoncelli e contrabbassi per assurgere poi ad espansiva pienezza di discorso, mentre il secondo motivo, affidato al timbro penetrante del clarinetto, è terso ed elegiaco, con sconfinamenti mistici non lontani da certi climi brahms-brukneriani, soprattutto nel breve corale di ottoni. Il terzo tema stabilisce un andamento più instabile, reso nervoso e palpitante dal timbro gentile del flauto. Tutto questo materiale è condotto, nella vasta sezione dello «sviluppo», ad un clima altamente drammatizzato, accentuato da tensioni ritmiche irregolari e da fin ossessive scansioni liriche, ove si nota ancora la deliberata concezione di un sinfonismo riverberato di echi tardo-romantici (tra Ciaikovski, Sibelius e fin Nielsen): sorta di consuntivo del passato ma calato in una dimensione moderna ed europea quanto ad armonia e contenuti espressivi. L’andamento di tragico valzer cede infine alla vasta divagazione iniziale, con un intendimento ricapitolativo non lontano dagli ultimi Adagi di Mahler.

Solomon Volkov

Violento e selvaggio è l’«Allegro» in si bemolle minore, dai tratti rudi e corruschi, sorta di Scherzo demoniaco pervaso di allucinazioni sinistre ma anche grottesche, come nel cicaleccio di fiati ed archi sottolineato da buffi incisi della tuba. Il vorticoso moto perpetuo sfocia quindi in una poderosa marcia per ottoni, contrappuntata da ironiche frasi dei legni. Il terzo tempo, «Allegretto», è passo leggiadro ma anche sornione, se l’andamento di danza è tutto decorato da arguti interventi di clarinetti e flauti.
L’eloquenza degli archi (sul tema costruito su re – mi bemolle – do – si, in tedesco D – Es – C – H, note che corrispondono alle iniziali del nome e cognome del musicista: D – S – C -H) provoca un’estenuazione del motivo iniziale; e nella rarefazione sonora il corno ha voce di profezia, a chiarire ancora una volta un riposto programma segreto, come di vicenda di pensiero: ma in questa sua riflessione (insistita in tutta l’opera) il musicista leva certamente il sostanziale autobiografismo a vicenda umana ed in ciò ritrova, magari in modo più arcigno e sfiduciato che nella «Quinta», il contatto con l’umanità, il discorso universale. Ne è prova proprio questo appello del corno, che ritorna distanziato su residui marziali e fantasmagorici che sono dimensioni di memoria, di colloquio tra sé ed il mondo. Quando riappare infine il primo tema, è chiarito che il grottesco costituisce l’esatto rovescio di medaglia dell’elusa drammaticità di fondo: proprio da tali dislivelli, da questo gioco di elusioni e mascherature, esce certo conclusivo tono da leggenda, ma anche un che d’intimamente desolato, di cupamente misterioso.
Il Finale inizia con un «Andante» cui l’oboe conferisce clima georgico, tutto riverberato naturalisticamente: ma l’atto liberatorio di meditazioni e cupezze precedenti non avviene compiutamente in questo ambito descrittivo, pur sollecitato anche dalla trepida voce del fagotto. Il clima quasi da poema sinfonico viene, quasi artatamente, ricondotto alla banalità convenzionale di un «Allegro» gioioso e brillante: ove è chiaro che il musicista, anziché (come in passato) togliersi la maschera, qui anzi se la mette. Ed inventa un vero Finale rutilante, mettendoci ogni attributo tradizionale, dagli elementi folcloristici ai ritmi di danza e di marcia, ma secondo un discorso prevedibile, pur mascherato con maestria. C’è così il tourbillon dei violini a cui risponde un inciso buffo dei bassi; c’è la serenità melodica, abile ma anche banale; c’è il colpo di scena eloquente ma non abbastanza risarcito dall’ironia. Un ottimismo quasi voluto da una regìa, che non cancella le precedenti zone pensose, se oltretutto spezzoni tematici ritornano ora in una dimensione retorica ma non certo eroica. Il che, in un ambito ancora volutamente idealistico, individualistico e tardo-ottocentesco, significa, proprio nell’apparente trionfo conclusivo, nell’abilità d’impiego di sicuri materiali ed effetti, sostanziale contraffazione dell’unico movente sincero della «Decima»: quello della solitudine pensosa e fin perplessa. E che quest’opera sia un congedo lo dimostra, già s’accennava, la svolta a programma del successivo sinfonismo sciostakoviano.

Concerto per violoncello n. 1 in mi bemolle maggiore, op. 107

Come accaduto infinite volte nel corso della storia della musica, la nascita del Concerto n. 1 op. 107 per violoncello di Dimitri Sostakovic ebbe origine dall’incontro dell’autore con un grande strumentista, Mstislav Rostropovic. Non a caso la partitura, scritta nell’estate del 1959, venne dedicata a Rostropovic, che ne fu il primo interprete il 4 ottobre a Leningrado – oggi di nuovo Pietroburgo – con la Filarmonica di Leningrado diretta da Evgenij Mravinskij. Rostropovic era già stato il primo interprete nel 1952 di un altro lavoro per violoncello e orchestra di Sergej Prokof’ev, che in qualche modo costituì una pietra di paragone per Sostakovic, come lo stesso compositore ebbe a dire ancor prima del debutto della partitura: «Questo Concerto fu concepito in origine già da lungo tempo. Il primo impulso venne dall’ascolto della Sinfonia concertante per violoncello e orchestra [op. 125] di Prokof’ev, che trovai sommamente interessante e che suscitò in me il desiderio di cimentarmi a mia volta in questo genere».
Sostakovic, all’epoca, aveva già al suo attivo due Concerti per pianoforte e un Concerto per violino, e non era certo inesperto nella scrittura concertante; guardò al modello di Prokof’ev per la classicità della forma, l’impiego particolare di alcuni strumenti, come il corno e la celesta, e più ancora per il magistrale sfruttamento che Prokof’ev aveva saputo compiere dell’arte violoncellistica di Rostropovic. Il risultato è quello di uno dei capolavori di tutta la letteratura concertistica per violoncello.
D’altronde, la partitura di Sostakovic si collega direttamente a tutta una serie di lavori degli stessi anni per i tratti fortemente introspettivi e autobiografici, portati alla luce da una sorta di “motto” che circola liberamente per diverse partiture, quali la Decima Sinfonia (scritta nel 1953, in coincidenza con la morte di Stalin) e l’Ottavo Quartetto (1960, fra i pezzi più autobiografici dell’autore).
Il motto in questione si ispira all’uso simbolico della notatone anglosassone, per cui le note vengono definite, anziché con i nomi di Guido d’Arezzo, con le lettere dell’alfabeto, a partire dal la. Di qui l’impiego che Bach fece del proprio nome come crittogramma (B-A-C-H, ovvero si bemolle-la-do-si naturale) e, sulla scorta di Bach, l’impiego che Sostakovic fece del proprio nome: D[mitri] SCH[ostakovic], ovvero D-eS-C-H, re-mi bemolle-do-si.

Mstislav Leopoldovich Rostropovich

Questo “motto” viene esposto dunque subito dal violoncello nell’Allegretto iniziale, dando luogo a un tema dal sapore piuttosto popolare; la propulsione ritmica ostinata, dovuta anche ai forti contraccolpi dell’orchestra, rimarrà continuativamente per tutto il movimento, attribuendogli la connotazione di marcia grottesca. Dunque ciò che affascina in questa pagina è il modo in cui l’autore riesce a donare sempre varietà a questa formula, mutando il rapporto del solista con l’orchestra. Il violoncello si contrappone prima ai soli fiati, poi agli archi, poi trova una sorta di alter ego nel corno, che si sostituisce a lui nell’esposizione del tema, o duetta con lui; sono relativamente pochi i momenti in cui tutta l’orchestra suona simultaneamente; e per due volte lo strumento ad arco si innalza nelle regioni più acute della sua tessitura, portando la tensione espressiva al livello più alto.
Il Moderato che funge da secondo tempo è la pagina più estesa e intensa del Concerto: un tempo lento che si basa su due temi, una sorta di Berceuse russa e una melodia più elegiaca; anche qui la scrittura di Sostakovic è magistrale. Il violoncello viene esibito in tutte le sue potenzialità cantabili, con un canto che tuttavia punta verso una astrazione siderale. Non a caso sempre leggerissima è la strumentazione (solo in un punto il movimento si innalza in una perorazione più sforzata), che vede emergere a tratti ancora il corno e il clarinetto. Questo incanto calibratissimo trova il suo punto più astrale nella breve ripresa, dove, con il tema principale, si alternano e si sovrappongono i suoni armonici del violoncello, la celesta e i violini nel registro acuto, con una ambientazione espressiva che sembra volgersi a dimensioni lontane e inaccessibili.
Si giunge così, di seguito, al terzo movimento, che consiste interamente nella cadenza solistica, anche qui, come nel Concerto per violino n. 1, ingigantita e spostata con valenza autonoma; vi troviamo accordi, polifonie, nude melodie, pizzicati, escursioni in tutti i registri, secondo un percorso che dall’elegia iniziale si accende e si intensifica progressivamente, lasciando a tratti trasparire il “motto”. Senza soluzione di continuità l’orchestra attacca l’Allegro con moto conclusivo, movimento che costituisce una sorta di pendent di quello iniziale, per il carattere grottesco e popolare, ancor più accentuato dai frequenti cambiamenti metrici e dall’ingresso dei timpani. E infatti il vero significato di questo movimento consiste nella progressiva chiarificazione del “motto” che emerge a poco a poco, per frammenti, viene infine sonoramente enunciato dal corno. Il Concerto si chiude così con logica circolare e con una coda ricca di effetti ma non effettistica, in perfetta coerenza con il contenuto della mirabile partitura.

DVD 6

Sinfonia n. 7 in do maggiore “Leningrado”, op. 60

La sera del 5 marzo 1953 morì Josif Stalin e la nazione sovietica si lasciò prendere dallo sgomento. La stessa notte scomparve anche Sergej Prokof’ev, ma la notizia passò quasi del tutto inosservata. Per comprendere il contesto in cui si è dispiegata la personalità di Sostakovic forse conviene partire da qui, dallo stridente contrasto di queste due morti parallele.
La figura onnipotente di Stalin aveva esercitato un ferreo controllo non solo sulla vita di un popolo di quasi duecento milioni di persone, ma anche sulle vicende culturali del paese, con conseguenze a volte incalcolabili e spesso devastanti nella vita degli artisti. I mesi successivi alla scomparsa del tiranno furono contrassegnati da sentimenti contrastanti, in cui il sollievo si mescolava a dubbi e preoccupazioni. La situazione del paese era grave, a causa dell’incertezza con cui si andava delineando il nuovo corso sovietico e del vuoto politico che si era venuto a creare all’interno del partito.
In questo scenario nuovo e drammatico Sostakovic riprese il percorso sinfonico che aveva interrotto alla fine della guerra, nel 1945, dopo la Nona Sinfonia. I motivi del silenzio erano legati in primo luogo ai pesanti attacchi del Partito Comunista alla sua musica e a quella di altri importanti compositori, tra cui Prokof’ev, Khacaturjan, Mjaskovskij. Zdanov, portavoce di una linea politica dettata da Stalin, ispirò nel 1948 una risoluzione del Comitato Centrale del Partito sulla musica, in cui si tacciavano i maggiori compositori sovietici di “formalismo borghese”. L’ostilità verso le forme più moderne dell’arte sovietica aveva già cominciato a manifestarsi un paio d’anni prima, con gli attacchi sferrati contro le riviste Zvezda e Leningrad.
Sin dai tempi della prima censura alla sua opera Lady Macbeth del distretto di Mcensk, criticata duramente sulla Pravda nel 1936, Sostakovic aveva imparato l’arte di navigare tra gli scogli pericolosi della politica sovietica. Il compositore fu abile nel giocare con il potere, prima e dopo la morte di Stalin, una pericolosa partita a scacchi. Il confronto era sostenuto con i mezzi di cui poteva disporre un artista, una miscela di silenzi e sottomissioni, di coraggiose prese di posizione e umilianti autocritiche, Sostakovic era perfettamente consapevole che sarebbe stato inutile e dannoso difendere apertamente le proprie idee di fronte a uomini come Zdanov o Tichon Chrennikov, nominato esperto musicale del Partito, un miserabile collega, tuttora vivo, che arrivò al punto di criticare la Settima Sinfonia, simbolo nel cuore di milioni di persone in tutto il mondo della resistenza di Leningrado alla barbarie nazista, con parole di questo tenore: «Sostakovic ha dimostrato che il suo pensiero musicale si adatta molto meglio a esprimere il volto insano del fascismo e il mondo della riflessione soggettiva, piuttosto che dare corpo a un quadro eroico del nostro presente».

Adolf Hitler

«Un’ora fa ho terminato la partitura di due movimenti di una grande composizione sinfonica. Se sarò in grado di portarla a compimento, se cioè riesco a finire il terzo e il quarto movimento, potrò chiamare il lavoro la Settima Sinfonia. Perché vi dico questo? Ve lo sto dicendo per dimostrare che la vita

nella nostra città è normale. Siamo tutti ai nostri posti di combattimento. Musicisti sovietici, miei innumerevoli compagni in armi, amici miei! Ricordate, la nostra arte è in pericolo. Difendiamo la nostra musica, lavoriamo onestamente e generosamente!». Così parlava Sostatavic, alla Radio di Leningrado, il 16 settembre 1941.

Il 22 giugno precedente Hitler aveva dato ordine d’invadere l’Unione Sovietica con un attacco a sorpresa. I carri armati tedeschi, avanzati rapidamente, colsero l’Armata Rossa impreparata a fronteggiare l’invasione. In pochi giorni la Wehrmacht era già alle porte di Leningrado. La popolazione reagì con grande forza d’animo alla gravissima situazione. Sostakovic stesso fu tra i primi a chiedere di arruolarsi come volontario, ma la sua domanda fu respinta per ben tre volte.

Venne però assegnato a incarichi di difesa civile, inclusa la sorveglianza del tetto del Conservatorio, come testimonia una famosa fotografia in divisa da pompiere pubblicata nel ’42 da Times. Ben più efficace come strumento di resistenza si rivelò invece la sua musica. La Settima Sinfonia, “dedicata alla città di Leningrado”, fu composta di getto – «con un unico tratto di penna» – nel caos drammatico dei primi mesi di assedio. Nikolas Slonimskij la definì una Blitzsymphonie, in risposta al Blitzkrieg nazista. I primi tre movimenti furono scritti a Leningrado, l’ultimo a Kujbycev, una cittadina degli Urali dove il governo aveva fatto sfollare i principali artisti dell’Unione Sovietica. La Settima Sinfonia, terminata in dicembre, ebbe la prima esecuzione il 5 marzo 1942, nella medesima località, con i musicisti del Teatro BolSoj, anch’essi trasferiti negli Urali, sotto la direzione di Samuil Abramovii Samosud.

La ricezione di questo lavoro costituisce un capitolo a sé, nell’affresco terribile della guerra. La Settima incarnò immediatamente lo spirito di resistenza al nazismo del popolo russo, divulgando allo stesso tempo nel mondo il nome dell’autore. Il 9 agosto 1942 la Settima risuonò sotto l’assedio anche a Leningrado, nella Sala della Filarmonica, mentre la città era ridotta in condizioni terribili. Gli abitanti non erano più nemmeno in grado di seppellire i corpi dei morti, che crepavano di fame a migliaia nelle case o addirittura per la strada. Erano stati richiamati dal fronte i musicisti dell’Orchestra della Radio, che si esibiva quotidianamente diretta da Karl Eliasberg per rinfrancare il morale dei soldati. Per l’occasione, alla periferia della città furono sistemati degli altoparlanti (le famose casse “svetlana”) rivolti verso i soldati tedeschi, per far sentire loro che la vita di Leningrado continuava a pulsare. Un mese prima, il 19 luglio, la Settima era stata eseguita a New York da Toscanini, con l’Orchestra radiofonica della NBC, dopo che il microfilm della partitura era arrivato negli Stati Uniti con un viaggio avventuroso attraverso la Persia e l’Egitto. Motivi politici e ragioni artistiche s’incontravano, in questa musica,

aldilà delle aspettative dell’autore. In origine i quattro movimenti portavano anche un titolo, che Sostakovic decise però di sopprimere in seguito: La guerra, Il ricordo, Gli spazi sconfinati della patria, La vittoria.

Il concetto di musica a programma, nell’opera di Sostakovic, dev’essere usato con molta cautela. La struttura della Sinfonia è basata in primo luogo su processi di trasformazione e di variazione del materiale musicale, secondo una logica che ubbidisce soltanto all’articolazione della forma. Le immagini poetiche conferiscono un valore su un piano più generale, come programma politico per così dire, ma non costituiscono un vero e proprio tracciato descrittivo della musica.
Sostakovic nelle Sinfonie parla di sé e del suo modo di vedere il mondo, anche se non poteva prescindere dalle forme di retorica politica tipiche della sua epoca. Il primo movimento (Allegretto), per esempio, si presta facilmente a una serie di incomprensioni e d’interpretazioni fuorvianti, se si inquadra la musica solo nella prospettiva del titolo originario, La guerra. L’episodio più rilevante del movimento consiste in una serie di dodici variazioni, su un tema che ha curiosamente una spiccata rassomiglianza con l'”Andiam da Chez Maxim” della Vedova allegra. Il modo di trattare la variazione è analogo a quello usato da Ravel nel Bolero, ossia un processo di accumulazione timbrica su un elemento ripetitivo.
Lo stesso Sostakovic ha sottolineato più volte di non aver voluto raffigurare in questo episodio l’implacabile marcia delle truppe naziste, come hanno sempre affermato gli esegeti della Sinfonia. Il vero protagonista del movimento sarebbe invece il popolo e il suo dolore di fronte alle devastazioni della guerra. Secondo i ricordi dell’autore raccolti da Solomon Volkov, lo spunto del brano era stato fornito niente meno che dalla lettura dei Salmi di Davide, in particolare dal Lamento sulla desolazione di Gerusalemme. L’impressione è che questo episodio, per quanto assolutamente efficace dal punto di vista spettacolare, costituisca uno studio sui processi compositivi d’incremento, che si rintracciano un po’ ovunque nella musica di Sostakovic. L’idea di Ravel, coscientemente resa riconoscibile dall’autore, viene ripresa ed elaborata in forma nuova, tanto da costituire una sorta di sezione di sviluppo all’interno di una struttura sonatistica.
Vari elementi caratteristici dello stile delle Sinfonie precedenti si ripresentano anche nella Settima, primo tra tutti la tendenza a sottolineare fino all’estremo limite gli elementi espressivi. Malgrado l’istinto di abbandonarsi alle pulsioni drammatiche della musica, l’autore aveva però provveduto a mettere un po’ d’ordine nel suo traboccante mondo emotivo, dopo la tellurica esperienza della Quarta Sinfonia. L’unità di tempo del movimento è infatti mantenuta nel disegno generale, malgrado alcuni vistosi strappi nella sezione centrale, che costituisce l’elemento di sutura tra le variazioni e la riesposizione. Allo stesso modo la materia sonora si frantuma a tratti in schegge di timbro, lasciando emergere dalla massa dell’orchestra, come voci disperse nella notte, i singoli strumenti. Il movimento si chiude con una reminiscenza del tema delle variazioni, anticipando così in modo lirico un altro caratteristico tipo di processo compositivo, che si manifesta in pieno nel finale, ossia il passaggio di elementi tematici da un movimento all’altro.
Il Moderato (poco allegretto) e il successivo Adagio riportano la Sinfonia nell’orbita di quel mondo mahleriano, che Sostakovic non aveva mai cessato di amare. Entrambi i movimenti possiedono le caratteristiche del Rondò. Il secondo disegna una forma ad arco, in cui la sezione centrale contrasta decisamente con gli episodi laterali. La struttura dell’Adagio è molto meno ortodossa, per quanto riguarda la forma, ma si fonda sullo stesso principio, ossia la sovrapposizione di caratteri contrastanti. Sostatavic era soggiogato dall’esempio di Shakespeare. Ammirava in particolare la scena dei becchini nell’Amleto, per l’urto provocato da un episodio umoristico all’interno di una tragedia così cupa.
Il finale tocca uno dei punti più controversi della Sinfonia novecentesca, stabilire quale fosse la direzione spirituale da imprimere all’ultimo movimento. Sostakovic cercò in vari modi di risolvere il problema lasciato aperto dalla

Nona Sinfonia di Mahler. In un lavoro di carattere tragico, qual è la Settima, il rischio di comporre un finale enfatico e retorico costituiva un pericolo molto concreto. D’altro canto non era immaginabile, né forse auspicato dallo stesso autore, che la Sinfonia finisse senza evocare un’atmosfera positiva, al termine della drammatica lotta precedente contro lo spirito negativo.

Sostakovic risolse la questione con un virtuosismo tecnico, per così dire, incrementando cioè i processi d’integrazione reciproca tra le parti, per rendere la forma complessiva più organica e unitaria. Per la prima volta in un suo lavoro il compositore lega assieme l’intera struttura del movimento attraverso un tema, impiegato come una sorta di motto caratteristico. Grazie al rigoglioso moltiplicarsi di variazioni armoniche e ritmiche, il tema-motto esposto all’inizio da violoncelli e contrabbassi guida la musica verso la solenne riesposizione del tema del primo movimento, racchiudendo così in un cerchio espressivo l’intero percorso dell’opera. Il finale diventa il culmine dei processi sinfonici avviati all’inizio del lavoro, mantenendo quindi il carattere positivo richiesto dalle circostanze. Sostakovic troverà soluzioni più soddisfacenti nelle successive sinfonie, meno famose di questa ma forse più riuscite sul piano artistico.
Il problema del finale è tuttavia emblematico di come l’autore abbia rappresentato il caso forse più controverso della musica del Novecento. L’orizzonte spirituale di Sostakovic non contemplava la dimensione religiosa, in alcuna forma. Era un uomo cresciuto nella convinzione che la realtà materiale costituisse la sola prospettiva dell’uomo. La sua musica pone sempre al centro della riflessione, in modo più o meno esplicito, la grande incognita della morte, sospesa come un immenso punto interrogativo sul destino dell’uomo. Nelle Sinfonie di Sostakovic è impensabile che il finale risolva le contraddizioni in un senso autenticamente positivo, eppure il contesto politico della sua epoca pretendeva una visione ottimistica della vita sovietica. In questa contraddizione Sostakovic seppe alimentare la sua opera con le risorse migliori del suo ingegno e del suo spirito. Per questo il suo linguaggio ha sviluppato un duplice registro espressivo, uno ufficiale e l’altro segreto.

Concerto n. 2 in do diesis minore per violino e orchestra, op. 129

Nel 1955 cioè a distanza di più di venti anni dal «Concerto per pianoforte e orchestra» Dimitri Sciostakovic affidava a David Oistrach l’esecuzione di un nuovo Concerto per solista e orchestra – stavolta naturalmente si trattava del violino – che venne presentato con grande successo prima a Leningrado e poi a New York. Ora distanza di 12 anni il fecondo compositore sovietico si è riavvicinato al genere con il Concerto che si esegue stasera, scritto ancora una volta per David Oistrach ed eseguito dallo stesso violinista, oltre che in patria, per la prima volta a Londra lo scorso novembre.
Tutti conoscono in qualche modo la parabola, creatìva del musicista sovietico e il dibattito critico cui ogni sua opera dà luogo. Artisticamente, formandosi nel clima incandescente dei primi anni postrivoluzionari, Sciostakovic trovò infatti presto il suo posto nel seno delle correnti rinnovatoci della cultura sovietica, ponendo il suo indubbio talento musicale alla ricerca di nuove strade, delle quali sono vìva testimonianza le opere «Lady Macbeth di Mtsensk» e «Il naso» oltre alle opere strumentali di quello stesso periodo tra le quali fanno spicco le prime quattro «Sinfonie». Sono anche note le critiche cui presto la sua opera fu sottoposta da parte dei massimi dirigenti politici del suo paese che lesserò in chiave «formalistica» l’aspra ironia che pervadeva quelle sue prove di compositore. E furono critiche cui presto seguì la decisione di togliere dai cartelloni dei teatri e dalle sale di concerto dellUrss le opere bollate pubblicamente di quel giudizio, una decisione che dette luogo a qualche ripensamento solo dopo le decisioni di quel XX Congresso del partito comunista sovietico che aprì il processo al cosiddetto «culto della personalità».

David Fyodorovich Oistrakh

Ma questi avvenimenti fanno ancora parte della cronaca, dietro la quale sta la storia, sconosciuta, delle reazioni intime del musicista alle critiche – di cui può fornire una traccia la decisione di Sciostakovic dì non affrontare più il teatro e la struggente ironia della Quinta Sinfonia composta subito dopo il richiamo
ufficiale – e quella, invece assai nota, della sua accettazione delle critiche rivoltegli contenuta stavolta nelle sue opere posteriori caratterizzate dal rifiuto programmatico di ogni novità linguistica – sarebbe assai interessante anche se qui fuor di luogo soffermarsi sul suo cammino ai margini estremi della tonalità e quindi sul suo contributo al divenire del linguaggio musicale nel corso degli ultimi trent’anni – dal recupero della grande tradizione sinfonica russa ed occidentale, dall’intento celebrativo di molte sue composizioni dal contenuto «positivo» della sua musica intesa – ma anche qui occorrerebbe stabilire quanto vi sia di storicamente positivo nel rapporto dialettico che presto ebbe ad instaurarsi tra il contenuto ottimistico della sua musica e quello spesso aprioristicamente negatorio di tanta estrema musica contemporanea – non tanto a descrivere i drammi dell’uomo contemporaneo quanto ad affermarne le positive speranze, la sua funzione determinante nella conquista di un meno aleatorio futuro; od anche a porre in evidenza il carattere positivamente nuovo di quella parte dell’umanità impegnata a costruire una società come quella sovietica ( e qui sarebbe però necessario sottolineare il limite di una visione del mondo che sembra mancare di ogni reale dialettica negando perfino i drammi individuali e collettivi che non hanno mancato di punteggiare la stessa costruzione di quella società).
Approdo ideale di questa visione direttamente «politica» della musica e della sua funzione, dei limiti aprioristici di ogni possibile ricerca linguistica ed anche prova della sincerità con la quale Sciostakovic accettò le ormai lontane critiche alla sua musica giovanile, è uno scritto apparso nel 1962 sulla rivista Sovietskaia Kultura con il titolo: «Vie verso l’alta musica del comunismo» nel quale pur riconoscendo che « …un grave danno è derivato all’arte, compresa quella musicale, dal culto della personalità di Stalin… » respinge il principio stesso di ogni rinnovamento linguistico al di fuori della tonalità condannando «… il grigio dogma di Schoenberg…» ed invitando « …i giovani compositori, così come i musicisti della generazione più anziana… » a conoscere « …le correnti che sono di moda nella musica contemporanea nei paesi stranieri per poter combattere contro le loro illusorie tentazioni… ».
Il centro dell’articolo era costituto da un fermo richiamo alla continuità della tradizione «anello indissolubile nel processo dialettico dello sviluppo dell’arte» che concludeva con queste parole: «…occorre trovare mezzi di espressione che siano più chiari, più efficienti di quelli vecchi; occorre sperimentare senza distaccarsi dalla vita, cercando le vie più brevi per giungerà al cuore del popolo. La cosa più ovvia è quella di non impiegare la propria energia di compositori nella ricerca di accordi «scarabocchiati» ultramoderni mai prima sentiti. Non occorre una grande ispirazione per mettere insieme per forza un certo numero di righe senza contrappunto tra loro!…».

E prima aveva richiamato con forza i lettori del suo scritto a respingere la teoria secondo la quale la musica russa avrebbe esaurito le proprie fonti di ispirazione nazionale e popolare, affermando per contro la continuità con la tradizione della Scuola Nazionale Russa e per invitare a risalire alle radici della musica popolare superando una situazione nella quale «…la musica sovietica ha allentato alquanto i legami con la propria base nazionale…».
E’ in questo dialettico rapporto tra tradizione e innovazione – ma innovazione dei contenuti e non del linguaggio, ammonisce lo stesso Sciostakovic nello scritto citato – in questo rifiuto delle più avanzate esperienze linguistiche europee che deve essere inquadrato il Secondo Concerto per violino e orchestra. E che rappresenta, secondo noi, il naturale punto di approdo di questa concezione della musica sia pur messa al servizio di un grande talento.
Non per nulla fin dalla sua divisione in tre tempi questo Concerto si avvicina ai modelli della grande musica romantica; non per nulla la semplicità dei mezzi espressivi – nell’orchestra mancano trombe e tromboni – e della scrittura, ripropone i modelli ottocenteschi; non per nulla il primo tempo ha, secondo le regole della tradizione, la forma di sonata, mentre un crìtico sovietico ha messo in evidenza nel lavoro sciostakoviciano la maestria dello sviluppo tematico e. lo scontro tra temi diversi che è, come si sa, caratteristica fondamentale della musica strumentale tradizionale.
E’ quindi in questa chiave – dove l’elemento tradizionale prende il sopravvento sull’elemento dell’innnovazione della stessa visione dialettica di Sciostakovic – che va ascoltato questo Concerto, la cui invenzione tematica e armonica è stata anche condizionata dalla evidente volontà del compositore di fornire a David Oistrach una partitura nella quale potesse mettere in evidenza le sue migliori caratteristiche di virtuoso.
Il Concerto si apre con un Moderato nella tonalità di do minore che dà subito il via al violino solista per lanciarlo in una ampia melodia cantabile che poi si trasferisce all’intera orchestra lasciando al violino il compito di riprendere le trame prima affidate ai «tutti».
Nel contrasto di queste due componenti tematiche, nel variato dialogo tra solista ed orchestra, si sviluppa poi l’intero primo tempo in una ondata gradualmente crescente di sviluppo drammatico che si scioglie prima nella cadenza del solista e poi nella ripresa del patetico tema iniziale e del secondo gruppo di temi.

Valery Gergiev

Il secondo movimento è un Adagio in sol minore in forma tripartita, «illimitato dominio – secondo, il giudizio del critico sovietico V. Bobrovski – della cantabilità lirica».
Dopo l’austero adagio si passa al Finale (un Allegro nella tonalità di re bemolle maggiore scritto in forma di rondò) caratterizzato dallo sviluppo dinamico di un tema principale scintillante e brioso che apre la porta alla vìrtuosistica cadenza, la quale conduce direttamente alla conclusione basata sul ritorno del tema principale divenuto ora «superbamente luminoso e sonoro».

DVD 7

Sinfonia n. 8 in do minore, op. 65 “Sinfonia della vittoria”

Sostakovic, lo sanno tutti, non ebbe rapporti facili e tranquilli con il potere politico in URSS e in più di una occasione i responsabili delle questioni ideologiche e culturali del suo paese intervennero per scomunicare o quanto meno censurare ed esprimere riserve nei confronti di alcune composizioni, in cui era evidente in modo netto la volontà dell’artista di affermare le proprie
scelte linguistiche e tecniche. Senza voler ripercorrere il lungo itinerario creativo di questo complesso e tormentato musicista, si può dire che quattro furono i casi in cui Sostakovic rimase impigliato tra le maglie della censura ufficiale sovietica. Una prima volta dopo la rappresentazione dell’opera Il Naso, avvenuta a Leningrado il 12 gennaio 1930 e accolta con diffidenza e irritazione dal regime staliniano per quella carica di antiburocratismo, di anticonformismo e di avanguardismo che caratterizza questa singolare e brillante partitura, ricca di umori satirici e di sberleffi timbrici e ritmici, molto vicini ad una certa maniera inventiva stravinskiana e alla musica gestuale concepita dalla coppia Brecht-Weill. La seconda scomunica avvenne nel 1936 a causa dell’opera Lady Macbeth di Mzensk, rielaborata e rifatta poi con il nuovo titolo di Katerìna Izmajlova e aspramente criticata soprattutto per il suo «formalismo estraneo all’arte sovietica».
Poi, nel 1945 levivaci dissonanze racchiuse nella Nona Sinfonia non mancarono di suscitare osservazioni e reazioni non troppo obiettive e benevole verso l’autore. Infine, ma in maniera più sfumata e non ufficiale, nel 1963 fu rimproverato al musicista di aver fatto ricorso nella Tredicesima Sinfonia alle poesie di Evtusenko, toccando un tema molto delicato quale «la questione ebraica», sempre viva e attentamente seguita nei paesi dell’Est (infatti, nell’ultima delle cinque poesie si rievoca con accenti commossi l’assassinio nel 1941 da parte dei nazisti di settantacinquemila ebrei a Babij Yar, presso Kiev).
Con questo non si vuole affatto circoscrivere la personalità di Sostakovic e giudicarla in base alle accoglienze, diciamo così, in negativo e anche in positivo riservate in patria, e in tempi lontani dagli attuali, alla sua musica. Sarebbe un criterio riduttivo e ingeneroso nei confronti di un artista poliedrico, che ha percorso con coerenza la sua strada e non si è piegato alle mode tecnicistiche e ideologiche di un determinato momento storico per assumere la veste di musicista controcorrente. Del resto la sua identità espressiva (per rimanere nel campo delle sinfonie, una forma da lui prediletta) è rimasta sostanzialmente uguale, al di là di certe «uscite» celebrative, legate ad avvenimenti di notevole significato politico: predilezione per i grandi affreschi sonori; accurata elaborazione tematica, con richiami a volte all’esempio mahleriano; attenta valorizzazione del discorso ritmico, tra armonie dissonanti e anche atonali; senso del caustico e del caricaturale, pur tra schiarite melodiche di tono pensoso e meditativo.
Tali componenti linguistiche, o per lo meno una parte di esse, si ritrovano nella Sinfonia n. 8 in do minore, scritta nel 1943, in un momento particolarmente drammatico della storia dell’URSS, impegnata in una guerra massacrante e spaventosa contro la Germania nazista. Anche se il musicista non fa riferimenti specifici ad un programma è evidente come il pesante clima psicologico di

quell’anno si accumuli gravemente su tutta la sinfonia, concepita come una dolorosa e accorata riflessione sull’esperienza bellica, nel frangente temporale in cui l’armata del generale von Paulus veniva disintegrata e distrutta a Stalingrado. In modo più netto che nella Settima Sinfonia, la celebre «Sinfonia di Leningrado», Sostakovic si è riallacciato nell’Ottava, dedicata al direttore d’orchestra Eugène Mravinsky, alla tradizione romantica di Berlioz, Liszt, Mahler, Borodin e soprattutto Cajkovskij, realizzando un ampio quadro musicale sull’idea dell’uomo costretto a vivere la tragedia della guerra.
Non mancano declamazioni e strappate retoriche, pur nel rispetto in linea di massima di un equilibrio tra forma e invenzione, degno della tempra di sinfonista quale è stato Sostakovic e che gli doveva apertamente riconoscere lo stesso Schoenberg. Ciò si impone sin dall’attacco dell’Adagio iniziale, espresso da un pesante inciso dei bassi di tono oppressivo. Segue una frase inquieta e dal ritmo oscillante dei violini, cui si innesta, come un incubo, un ritmo militaresco sfociante in sonorità sempre più intense sino ad un fortissimo con accordi stridenti e quasi di disperazione, sorretti dai timpani, dalla grancassa e dal tamburo. Su un tremolo pianissimo degli archi si ode una frase elegiaca del corno inglese, sopraffatta dagli squilli di corni e trombe, quasi ad indicare il persistere dell’atmosfera bellica.
L’Allegretto in re bemolle maggiore si apre con un unisono in fortissimo di tutta l’orchestra, sorretto dalle armonie dei legni e degli ottoni, oltre che da un disegno ritmico ben marcato e di andamento marziale. I corni riprendono nel registro grave il martellante rintocco del primo tema, al quale si contrappone una seconda frase di carattere brillante e leggero, esposta dal flauto piccolo. Nel discorso si inseriscono con accenti spiritosi e burleschi il fagotto, il controfagotto e il clarinetto piccolo. I due temi si fondono e si amalgamano in un fitto gioco contrappuntistico dalle accese sonorità orchestrali.
Un ritmo violentemente possente si avverte nell’Allegro non troppo, dove le viole avviano il tema, ripreso dai violini, sugli stacchi dei legni e di tutti gli archi.

Yevgeni Alexandrovich Mravinsky

La tromba spezza il continuum ritmico dell’orchestra con una scala melodica, prima in senso ascendente e poi discendente. La tensione sonora cresce in una isocronia ritmica, spinta dai timpani in una parossistica esaltazione fonica dell’intera orchestra.
Il Largo introdotto da un «tutti» orchestrale, è caratterizzato da una melodia molto espressiva dei violini, accompagnata dai violoncelli e dai contrabbassi su un ritmo ostinato. Dai tremoli degli archi si erge un disegno fiorito a quintine dei due flauti, ripreso dal clarinetto e sempre sorretto dal ritmo dei bassi. Al Largo si unisce, senza soluzione di continuità, l’ultimo tempo Allegretto dove è il fagotto ad esporre il tema principale, ripreso dai violini e dai flauti. Dopo una frase cantabile dei violoncelli si svolge un episodio di tipo contrappuntistico, secondo una densa intelaiatura strumentale ritmico-melodica. Non manca una nuova esplosione orchestrale con la riesposizione del tema, affidato al clarinetto basso in dialogo con il violino, con il violoncello e il fagotto. La musica si spegne su un lontano do maggiore degli archi, un accordo di fiduciosa speranza nel futuro, anche se non è possibile dimenticare all’improvviso la terribile realtà della guerra, distruttrice di ogni bene e valore umano.

Sinfonia n. 12 in re minore “L’anno 1917”, op. 112

Siccome l’opera ha vaste proporzioni considero utile per facilitare l’ascolto, di stendere come una specie di guida, indicata dai movimenti informativi dell’opera.
Il primo tempo ha per titolo: «Pietrogrado rivoluzionaria» e inizia con un tema fortissimo, Moderato, nei bassi all’unisono in 5/4, ripreso poi dagli archi e quindi da tutta l’orchestra, con molti raddoppi, sviluppandosi fino a sfociare in un Allegro, in cui le varie famiglie conservano un ritmo staccato ed energico. Al più mosso si pone altro tema all’unisono nei soli bassi e violoncelli, ampio, ben cantabile, svolto subito dai soli archi e poi da tutta l’orchestra, infervorandosi ad ogni ripresa. Questo tema viene affidato quindi alle trombe, mentre tutto il resto dell’orchestra si innesta con il tema in ritmo staccato, precedentemente udito, creando un connubio assai geniale. Segue poi un Allegro, ampiamente svolto e complesso che fa assumere quasi la parte fondamentale del tempo.
Su di un pedale dei timpani e dei bassi si stacca un tema simile a quello d’inizio, a ritmo incisivo. Questo passa poi al fagotto e quindi se ne impossessano gli archi, i quali spesso tutti all’unisono sostengono il ritmo incisivo del fiati. Si giunge ad un fortissimo, in cui fiati e archi svolgono il bel tema in 5/4 dell’inizio, variato con grande genialità, insieme ai ritmi già usati. A un certo punto è il primo corno solo che riprende il tema, prima proposto all’unisono dai bassi al «più mosso» del principio. Con frammenti di questo tema, variato per il ritmo, termina il Primo Tempo, al quale si attacca subito, senza interruzione, il Secondo Tempo, «Razliv». Questo, dopo cinque battute di Allegro nei «pizzicati» d’archi sostenuti dalla batteria, inizia un Adagio, ohe, dopo un movimento cantabile di Bassi, pone nel corno solo un bel terna melodico in tonalità svagante, ripreso poi dai legni (flauto e clarinetto) a guisa di una «invenzione» a due parti. Vi si associano anche gli archi e infine il clarinetto solo presenta un altro tema, che è come la variazione del primo. Questi due temi sono, con eleganza, alternati nei varii strumenti finché sfociano, su dei pizzicati dei Bassi solo interrotti da poche battute «con arco». E si attacca, ancora senza soluzione, il Terzo Tempo, «Aurora», ohe, dopo un breve tremolo di timpani, inizia, in un Allegro, con un tema «pizzicato» negli archi soli, sempre con tocchi dei timpani. Il tema passa agli ottoni, mentre gli archi con l’arco contrappuntano in frasi puntate a gradi congiunti e sempre all’unisono. Il movimento cresce di sonorità con l’aggiunta degli ottoni, sempre con frammenti dello stesso tema, il quale all’entrata della Tuba, si ripete diminuendo. Poi avviene nelle viole e nei Bassi un movimento omofonico con bicordi; mentre il terzo Trombone e la Tuba attaccano quasi un secondo tema pianissimo, il quale poi, con la unione degli altri strumenti giunge, sullo stesso movimento omofonico, ad un fortissimo di grande effetto per congiungersi, ancora senza soluzione di continuità, con il Quarto Tempo, «Nascita dell’Umanità». Questo è il più sviluppato avendo anche un carattere spiccatamente drammatico e celebrativo. Iniziandosi con una piccola sequenza del tempo precedente presenta un tema lineare ma incisivo, affidato ai corni, subito ripreso e sviluppato dagli archi e poi rinforzato da tutta l’orchestra. Segue un Allegretto con nuovo tema e nuova, tonalità, più scorrevole e affidato ai violini, i quali giuocano elegantemente sugli elementi tematici a dar varietà al discorso sinfonico. Il flauto e l’oboe aggiungono un secondo tema, che. poco dopo, è ripreso dal primo corno, accompagnato dai «pizzicati» degli archi e dalla Tromba; se ne impossessano quindi tutti gli archi all’unisono, e tutte le famiglie dell’orchestra si aggiungono esaltandolo. Tutto questo materiale tematico, è la base di un ampio svolgimento, dove ritornano alcuni elementi degli altri Tempi, fino a riprendere, nel Moderato, il tema dell’inizio della Sinfonia, i cui caratteri ritmici costituiscono il grandioso Finale, che si conchiude con tre note fortemente accentuate in unisono di tutte le famiglie, seguito da un trillo sull’accordo di tonica fortissimo.

Vladimir Ilyich Lenin

Tutta la Sinfonia, dedicata alla memoria di Vladimir Ilyich Lenin, è una vasta composizione, magistralmente costruita, non esente da qualche accento retorico, istigato dalla celebrazione, ma che ha anche momenti di sincera e alta poesia.

DVD 8

Shostakovich – Sinfonia n.11

La popolarità della musica di Shostakovich alla fine del Novecento e all’inizio del Terzo millennio è ormai assodata e dovuta, in parte alla sua multidimensionalità. Da un lato è parzialmente ‘accessibile’ grazie all’uso di temi popolari russi, dall’altro recenti controversie hanno rivelato che sotto questa patina di popolarità c’è un messaggio politico che pone il compositore come antagonista del regime comunista e dello stalinismo. Questa sottotraccia affascinante ha spinto la critica a rivalutare questa musica più di quanto non si facesse di solito. Il suo lavoro, specialmente le sinfonie, ci narrano molto delle sofferenze di un uomo e degli effetti traumatici della guerra e della politica sovietica in termini comprensibili anche dal mondo di oggi. L’Undicesima Sinfonia di Shostakovich è, in superficie, un panorama sui tentativi rivoluzionari del 1905 cui poi seguirono i fatti del 1917 e la rivoluzione d’ottobre. O forse no?
L’opera fu scritta nel 1957, soltanto un anno primo della brutale repressione con la quale il regime contrastò la rivolta ungherese del 1958. A cosa si riferiva il compositore? Se le affermazioni di Shostakovich, raccolte nel libro controverso, Testimony, di Volkov, sono vere, è chiaro che egli si riferisse a entrambi gli eventi. Da quando la spettacolare registrazione di Stokowski fu pubblicata nel 1958, questa sinfonia è stata una delle preferite dagli audiofili per la sua impressionante qualità orchestrale nel descrivere I fatti del 1905.
L’impressionante interpretazione di Bychov – che esce in tempo per il centenario di Shostakovich – taglia con l’essenza storica ed emozionale del pezzo scegliendo tempi più rapidi piuttosto che tempi più lenti e sentimentali . La sua versione è 13 minuti più veloce di quella, pur recente, di Rostropovich con la London Symphony. Nella sezione del Palazzo Quadrato riesce a creare un’atmosfera sinistra e minacciosa che comunica vivamente la violenza che sta per arrivare. C’è atmosfera, ma la registrazione è relativamente ravvicinata e con un ampio e accurato soundstage strumentale. Il magnifico Scherzo (il «9 gennaio»), pregnante di canti rivoluzionari, si rianima nella scena di battaglia fugata. Si tratta di un resoconto orrendo della battaglòia tra gli insorti e le truppe zariste, molto viscerale e emotivo, ma comununque molto cogente sul piano musicale.
Lo strato DSD offre un soundstage di maggiore profondità che si traduce in maggior emozione e chiarezza nell’ascolto. All’inizio della Marcia Funebre,
Bychkov tiene le emozioni soppresse e in questo modo riesce a enfatizzare la rabbia e l’ingiustizia della brutale soppressione verso i rivoltosi che vien descritto nella sezione di mezzo del terzo movimento. Si tratta di una strategia musicale brillante che diventa ancor più effettiva da quando le emozioni vengono ancora di più sottolineati nel ritorno della Marcia funebre.
La chiamata alle arme (Tocsin) nel movimento finale è suonata con una ferocità che anticipa la rivoluzione del 1917. La coda, con le sue prepotenti grancasse e le campane di liberazione squillanti, da un finale commuovente a questa grandissima opera. Non ci meravigliamo, dunque, del fatto che Shostakovich abbia commentato la prima di quest’opera, a Leningrado nel 1958 con queste parole: «Per la prima volta in vita mia, sono uscito da un concerto pensando agli altri anziché a me stesso».

Concerto per violino n. 1 in la minore, op. 77

L’opera è dedicata al celebre violinista David Oistrach; ed è una dedica che dice assai più di quanto si possa pensare a prima vista. Sciostakovic, infatti, dal 1933 non si avvicinava più al concerto solistico (è di quell’anno il Concerto per pianoforte) ed è quindi da credere che l’apparizione dell’astro virtuosistico di Oistrach sia stata determinante per spingere il musicista sovietico a por mano a questa composizione ed anche a condizionare il linguaggio che è caratterizzato dal problema dell’inserimento virtuosistico del solista nella compagine strumentale.
Anche se il discorso musicale assume una sua piena autonomia espressiva in una «costruzione che si svolge a un livello di esteriori conflitti drammatici» (Manzoni) dalla quale esula pure come in altre opere dello Sciostakovic maggiore ogni esigenza di malintesa popolarità.
A differenza di altri lavori consimili dello stesso Sciostakovic e dello schema tradizionale del concerto solistico, questo lavoro non si rifà ai lineamenti architettonici della forma della sonata sinfonica ma piuttosto, almeno nei suoi aspetti esteriori, ai modelli delle antiche suites strumentali. E ciò non tanto e non soltanto per essere questo Concerto in quattro tempi anziché nei tre tradizionali, quanto per i titoli e quindi per il carattere degli stessi quattro movimenti; occorre però anche aggiungere che, malgrado questo schema compositivo, il concerto nella sostanza non si discosta dal tradizionale tipo di concerto solistico basato su un dialogo tra strumento e orchestra dal quale il primo trae ampiamente profitto per esplicare le sue virtualità espressive e tecniche.

David Fyodorovich Oistrakh

Il primo tempo, Notturno, è forse il brano più complesso del concerto «dove non sembra azzardato riscontrare un certo influsso bartokiano soprattutto nel modo di metodizzare del solista» (Manzoni). In esso, di carattere prevalentemente melodico, conformemente allo spirito della forma di «suite» non si ritrova tanto la contrapposizione dialettica di due temi contrastanti quanto il procedere di un solo motivo base anche se le trasmutazioni subite da tale motivo durante il decorso del brano possono ingenerare l’impressione di una pluralità tematica.
Lo Scherzo è costituito da due sezioni. Una prima parte in ritmo ternario, trasparente e agile contrapposizione tra solista e orchestra nella quale la compagine orchestrale è ridotta ad una isolata linea melodica su cui il violino sincronizza una sua sequenza tematica. Questo rincorrersi di temi assume presto il marcato profilo di danza paesana successivamente portata su toni leggeri e
brillanti con un gusto di mutevolezze d’umore riferibile a Prokofiev. Segue un trio in diversa tonalità che rapidamente porta a conclusione il movimento.
Il terzo tempo è una tradizionale Passacaglia basata si di un tema che accompagna in forma di «ostinato» otto variazioni. Ma ogni successiva variante del tema viene sovrapposta via via alle precedenti dando luogo ad una concatenazione imitativa che poi si dirada fino all’assoluto silenzii dal quale emerge una vasta Cadenza dello strumento solista che riassume, variandolo virtuoslsticamente, il materiale tematico già udito in precedenza e che dà il via senza soluzione di continuità al quarto ed ultimo movimento. La Burlesca finale (una forma direttamente mutuata da alcune Suites di Bach) inizia in tempo di Allegro con brio che poi si tramuta in un vertiginoso Presto: una sorta di allegro «rataplan» di cui il violino svolge le facili premesse esibendosi in un vivace tecnicismo assecondato da un’orchestra fertile di trovate ritmiche e di gradevoli ornamenti che sottolineano il carattere «danzante e sfrenato» della musica che «mira chiaramente al raggiungimento dei più sicuri effetti atti a tener avvinto e a divertire l’ascoltatore» (Vlad).
Alla fine riappare il tema della Passacaglia curiosamente sfigurato e affidato al violino solo mentre l’orchestra ripropone la cellula ritmica tipica di tutta la Burlesca e rapidamente si giunge alla precipitosa chiusa d’effetto.