Ravel Maurice
Composizioni varie
Questo DVD ha una durata di circa 90 minuti. che potrebbe essere meno di altri DVD “da concerto” che possiedo, in termini di durata, ma che programma! Nessuna delle esecuzioni contenute, ad eccezione, forse, del Tzigane, potrebbe essere classificata come un ‘filler’, e anche il Tzigane è interpretato dal giovane e dinamico Boris Belkin, un nome che è apparso regolarmente in recensioni discografiche, (principalmente per Decca). Marilyn Horne è deliziosa nel ciclo canoro struggente, (anche se non cancella i ricordi della registrazione di Crespin su Decca).
Il trasferimento su DVD non è in alcun modo paragonabile a Mahler e Shostakovich di Bernstein con il VPO su DG. Le immagini, (colore e messa a fuoco), sono abbastanza sfocate, (erano i primi tempi per le trasmissioni televisive a colori) e il suono è molto simile al suono “trasmesso” dell’epoca. La direzione però è discreta e diretta.
Quindi classificherei questo DVD come una meravigliosa registrazione di un Bernstein ingrigito ma ancora giovane, che dirige e suona musica in cui eccelleva, con solisti di alto livello, andrebbe inserito nella categoria ‘documento storico’.
Alborada del gracioso
Nato all’arte nel momento del passaggio dall’Ottocento al Novecento Ravel è riuscito a cristallizzare assai presto nel suo lessico espressivo certi aspetti essenziali della musica francese della sua epoca, legandoli ad alcuni grandi modelli del passato per approdare ad una definizione stilistica, autonoma ed esclusiva, della sua opera, cogliendo in maniera originale una perfezione inimitabile.
Tredici anni intercorrono tra la data di nascita di Debussy e quella di Ravel, e questa osservazione non è senza importanza quando si voglia considerare la formazione musicale di Ravel, anche se non assume un rilievo determinante la dichiarazione che quest’ultimo ebbe a fare, prossimo a morire, dopo aver riascoltato un’esecuzione dell’Après-midi d’un faune: – «è sentendo per la prima volta questo lavoro che ho compreso cosa fosse la musica». In realtà Ravel, pur sfiorando il mondo incantato di Debussy, ha sempre battuto vie diverse, sia nell’aspetto armonico sia nel versante espressivo, nonché nella scrittura strumentale. Del tutto estraneo al retaggio romantico, ed anche a Wagner, Ravel giovanissimo orientò le sue predilezioni a Chabrier e Satie e, oltre a questi, ai claviccmbalisti francesi del Seicento e Settecento. L’inequivoca tendenza raveliana alla linearità architettonica delle forme classiche, il controllo misuratissimo esercitato sempre sulle emozioni soggettive, vennero a collocare Ravel al di fuori dello stile e dell’ambiente dell’impressionismo, pur se dall’estetica di questo movimento artistico il musicista ebbe ad assumere certe trasparenti sonorità, l’esatta individuazione dei colori e, sovente, la raffinata sfumata variabilità delle trame e degli impasti fonici.
Come ha intelligentemente scritto Francis Poulenc, «mentre in Debussy gli sviluppi musicali si sciolgono in continue fluttuazioni di macchie sonore che si innestano e si sfrangiano liberamente per creare mobilissime atmosfere, in Ravel le immagini sonore sono sempre circoscritte da contorni taglienti, da una netta e quasi razionale precisazione melodica. Alle eleganze evanescenti di Debussy, Ravel oppone cadenze armoniche elementari che semplificano al massimo la struttura compositiva, un dinamismo ritmico ben definito, dure insistenze timbriche che squadrano gli sviluppi musicali con razionale geometria, spesso accentuata dall’adozione di certi schemi crudi e ossessivi della musica iberica» (1972). E, secondo lo Jankelevitch, nella produzione di Ravel «tanta finezza unita a tanta intelligenza presuppongono secoli di civiltà ed una sensibilità che non è concepibile se non in Francia. Soltanto un Ravel poteva concepire l’opera di Ravel: soltanto la sua musica può restituircelo».
Nel 1905 videro la luce la Sonatina e i Miroirs, due lavori che risultano essere l’espressione di due distinti e autonomi aspetti del gusto e del pianismo raveliani. Nella misurata sua concisione la Sonatina è il prezioso documento dì una féerie impressionistica: entro proporzioni formali miniaturizzate ma rigorose nella struttura, l’eloquio musicale sembra delicato e sfumato, sfavillante di impressioni armoniche e ritmiche, vergate in punta di penna, nelle quali l’elemento motore è lo spirito dei settecenteschi clavicembalisti francesi. L’opposto, in una parola, di quanto offre l’ascolto di Miroirs che, nella loro aggressività, splendente di un pianismo luminoso e virtuosistico, sembrano specchiarsi in Chopin, in Liszt e in Schumann. I Miroirs, come precisò l’autore, «formano una raccolta di pezzi per pianoforte che segnano nella mia evoluzione armonica un mutamento abbastanza considerevole per aver sconcertato anche i musicisti più assuefatti alla mia maniera manifestata fino a quel momento».
Il 1905 fu anche l’anno in cui la terza bocciatura di Ravel al Prix de Rome aveva visto levarsi in favore del musicista numerosi estimatori, da Alfred Edwards, direttore generale del quotidiano “Le Matin”, ai coniugi Godebski, ai pittori Leprade e Bonnard, agli amici della giovinezza che, tre anni prima, nell’atelier del pittore Paul Sordes, avevano dato vita ad un sodalizio d’ostentato anticonformismo al punto da esser denominati “Les Apaches”. I nomi di alcuni di questi compagni, tra cui in primo luogo il poeta Leon-Paul Fargue e il pianista Ricardo Viries, si ritrovano fra i dedicatari dei cinque pezzi di Miroirs che si intitolano Noctuelles, Oìseaux tristes, Une barque sur l’Ocean, Alborada del gracioso e La Vallèe des cloches: pubblicati da Demets, furono eseguiti per la prima volta il 6 gennaio 1906 da Vines alla parigina Salle Erard della Societé Nationale des Concerts.
Con l’eccezione della giovanile Habanera per orchestra (1895), l’Alborada del gracioso è il primo titolo spagnolo dell’opera di Ravel. “Alborada”, termine corrispondente al francese “aubade” e all’italiano “mattinata”, è una mattutina chitarrata d’amore in forma di serenata d’antica origine, probabilmente galiziana, riconducibile forse alla pratica trovadorica. Il “Gracioso”, a sua volta, è un personaggio buffo della commedia tradizionale spagnola di Calderon e di Lope de Vega. Come efficacemente ha notato Alfred Cortot, «con Alborada del gracioso Ravel abborda un genere pittoresco d’altra specie rispetto agli episodi precedenti di Miroirs. La discorsività musicale è guidata dalla nervosa cadenza di un ritmo spagnolo; lo sviluppo della composizione è definito da una forma ben precisa, con scene di danza che si alternano al canto, a somiglianzà della maggior parte dei pezzi che formano l’Iberia di Albeniz. In questa pagina, però, la valenza timbrica raveliana non ha nulla del languore sensuale o dell’evocazione nostalgica, tipici del musicista catalano, privilegiando per contro una asciuttezza di tocco, tra lo staccato e il martellato, che restituisce a meraviglia l’effetto delle strappate alle corde metalliche della chitarra, il crepitio ostinato delle nacchere, il battito cadenzato dei piedi dei ballerini. Ed anche l’amarezza malinconica della sezione centrale, che si rifà alla copla nell’improvvisazione del cantore, appare marcatamente stilizzata, prosciugata e ridotta ai suoi tratti essenziali, come un disegno a punta secca» (1930).
La genialità di tale nervosa scrittura strumentale suscitò ben presto l’ammirazione di Manuel de Falla, ma provocò anche la sua meraviglia allorché apprese dalla viva voce dell’autore che con la Spagna non aveva avuto allora alcun rapporto se non quello del suo luogo di nascita, prossimo alla frontiera. Falla concluse la sua osservazione in merito con le seguenti parole: «La Spagna di Ravel era una Spagna conosciuta idealmente attraverso la madre, la cui conversazione, in un eccellente spagnolo, divenne affascinate quando evocò gli anni di gioventù trascorsi a Madrid. Compresi, in quell’occasione, come il figlio fosse rimasto impressionato dagli accenti della madre nelle rimembranze ravvivate da quella forza che lega indissolubilmente, ad ogni ricordo, un tema di canzone, un tema di danza».
L’Alborada del gracioso fu trascritta dall’autore per orchestra nel 1918 ed eseguita per la prima volta il 17 maggio 1919 ai parigini Concerts Pasdeloup sotto la direzione di Rhené-Baton; la pubblicazione, a cura delle Editions Eschig, porta la data del 1923. Secondo il musicologo Roland-Manuel, «aujourd’hui encore les pianistes, plus intimidés que séduits par ces miroirs magiques, n’entretiennent que l’Alborada del gracioso, ou la virtuosité mordante et sèche contraste, à l’espagnole avec les élans pàmés de la mélopée amoureuse qui vient interrompre le bourdonnement furieux de guitars. Pièce admirable d’ailleurs, et dont une orchestration magnifìque a doublé le succès».
Maurice Ravel
La scrittura strumentale, nella sua connotazione virtuosistica, appare assai complessa ed elaborata sia nell’organico prescelto (con xilofono, due arpe, tre timpani, percussioni, crotali, nacchere, archi) sia nella ricerca, portata all’estremo, degli impasti timbrici, anche nell’articolazione degli archi. L’esito è una partitura di diabolica brillantezza e di virtuosismo di scrittura non meno che
sensazionale, tale da esaltare alla valenza più elevata tutte le risorse più smaglianti di una compagine sinfonica moderna, nonché la sensibilità, l’intelligenza e l’estro di un direttore carismatico. Specialmente i due pannelli esterni sembrano evocare la fantasmagoria frenetica di mille chitarre ma non meno suggestiva appare l’atmosfera misteriosa ed incantatoria dell’episodio centrale. Al punto che, al confronto con questa versione orchestrale, la stesura originaria può sembrare d’esserne una mera riduzione per pianoforte.
La valse
Già nel 1906 Ravel aveva pensato di comporre «un grande valzer» per rendere omaggio alla memoria di Johann Strauss: si sarebbe dovuto chiamare «Wien». Il lavoro lo interessava enormemente e infatti, come scrisse in una lettera all’amico Jean Marnold, nel ritmo del valzer e della danza in genere si estrinsecava — a suo modo di vedere — tutta la «gioia di vivere». In realtà subentrarono motivi per cui l’opera non si poté realizzare; ma il tema del valzer viennese fu ripreso in chiave schubertiana (influenzata dai raffinati esotismi mallarmeani) nei «Valses nobles et sentimentales» del 1911.
Ci furono poi gli anni bellici che incisero fortemente sull’animo del musicista forse anche nel senso di un nuovo modo di concepire la vita. Pur affascinato sempre dal valzer, la nuova opera che avrebbe composto su questo tema, nella sua dinamica incalzante e ossessiva, si sarebbe fatta riflesso delle esperienze passate.
L’invito a comporre «La valse» fu dato a Ravel dal direttore dei «Ballets russes» Diaghilev che lo pregò di scrivere un balletto, una sorta di apoteosi coreografica dei valzer viennesi contemporaneamente alla richiesta che Diaghilev stesso faceva a Stravinskj di un altro balletto che evocasse in certo senso l’atmosfera pergolesiana («Pulcinella»). Ma l’impresario russo si dimostrò indignatissimo del lavoro presentatogli perché, a suo avviso, — stando alle testimonianze del comune amico Serge Lifar — «la partitura non dava adito a nessun sviluppo spettacolare e paralizzava ogni varietà coreografica». Diaghilev si rifiutò di ricavarne pertanto un balletto, che sarà infatti portato sulle scene solo nel 1928 da Ida Rubinstein, mentre la prima esecuzione de «La Valse» risale al febbraio del 1920 per i concerti Lamoureux di Parigi.
Le note al programma di sala per la prima realizzazione ci danno un’idea approssimativa di alcune immagini del poema coreografico: «Nubi turbinanti diradano, di tanto in tanto, per lasciar scorgere le coppie dei ballerini. Le nubi dileguano lentamente e appare un’immensa sala dove rotea l’intero corpo di ballo». Ma la lettura migliore è forse quella in senso strutturale per un’opera in cui tutta la sostanza si plasma su una ritmica che si fa struttura solida dell’intera composizione e dove i temi, più che citazioni puntuali sono evocazioni fantastiche di un certo mondo. «Ho concepito il lavoro» — scrisse Ravel — «come una specie di apoteosi del valzer viennese, nel quale, secondo il mio pensiero, è contenuta l’impressione di un turbinio fantastico e fatale. Immagino «La Valse» nella cornice di una corte imperiale, verso il 1855».
Da un punto di vista formale «La Valse» è articolata in due grandi sezioni che vanno dal piano al fortissimo in un susseguirsi di temi di danza che toccano le tonalità più svariate, le sfumature più incredibili. Nel primo crescendo l’aria di danza che appare alla dodicesima battuta si libera dalle brume e raggiunge un’ossessività densa, quasi fisica. Il secondo crescendo si avvale di melodie e ritmi di vario genere opposti l’uno all’altro con una vitalità frenetica che ha dell’ineluttabile.
Boléro
È difficile, ed è forse superfluo, commentare una musica universalmente nota, verso la quale chiunque di noi ha in sé una disposizione istintiva (quella dei molteplici ascolti e dei ricordi) e riflessa, che non coincide né sempre né in tutto con l’idea che abbiamo della musica di Ravel. Qui mi sembra stia “il problema” del Bolèro. La popolarità corrente, e consunta alquanto, di questa musica non corrisponde, si direbbe, al successo chiaro e giustificato di tutte le altre musiche di Ravel, che hanno il privilegio rarissimo di non mostrare mai una ruga per quante volte siano ripetute. Si sa, Ravel non ha scritto una battuta che sia sciatta o distratta, e questo vale anche per il Bolèro, che in sé ostenta un’originalità di stile e di mezzi e una fantasia formidabili. Ma l’idea prima dell’artista di creare una forte pagina sinfonica (che essa sia nata come musica di balletto per la Rubinstein, ha qui poca importanza) sottratta del tutto allo sviluppo tematico e costretta alla ripetizione ossessiva di un solo disegno, si è rivoltata contro la composizione stessa: che è diventata nell’opinione comune l’espressione della trasgressione esotica, dell’erotismo eccessivo e sognato, da vacanza iberica o in un’impossibile avventura gitana (molte interpretazioni sceniche e coreutiche, anche famose e ripetutamente teleproiettate, hanno confuso l’immagine anche di più). Che il carattere e il valore di una musica non dipendano dalle convinzioni correnti, è indiscutibile; ma nel caso del Bolèro ciò che crediamo di aver sempre ascoltato e ciò che dagli ascolti passati speriamo o ci attendiamo di sentire, limita e definisce la nostra percezione e forza probabilmente le esecuzioni stesse.
Ida Rubinstein
Forse l’istintiva aristocrazia di Toscanini aveva percepito il pericolo della banalizzazione del significato, quando staccò nel Bolèro un tempo più secco e più rapido del previsto (che dice «Tempo di bolero moderato assai»), attenuando molto la sensualità della pagina (come si sa, Ravel ne fu irritato, ma poi si scusò col maestro).
La sensualità, dunque, l’ossessione erotica, il dionisismo estatico, sono tutte energie accolte nella concezione originaria e messe in azione nella musica – ma messe in azione da Ravel, dunque da uno degli artisti del Novecento più raffinati, sapienti, e più diffidenti di eccessi e di trasporti. È bene ormai, perciò, che prima del significato celato e sinistro, si gusti di questa musica la magnifica forma sonora.
Concerto in sol maggiore per pianoforte ed orchestra
È nel 1901 che Maurice Ravel, appena trentenne, compone Jeux d’eau per pianoforte solo, una composizione che doveva conquistarsi un posto di primo piano nella letteratura dello strumento a tastiera per la sua portata innovativa, che rinnegava i presupposti melodici e polifonici dello strumento ottocentesco in favore di un nuovo utilizzo del virtuosismo, orientato verso immaginifici giochi timbrici. Ravel doveva attendere quasi trent’anni prima di proiettare le conquiste del suo pianismo dal campo solistico a quello del Concerto per pianoforte e orchestra.
Il motivo di questo ritardo deve essere individuato probabilmente nel fatto che l’assunto di base del “Concerto” – il confronto fra un individuo e un gruppo – era considerato all’inizio del secolo un retaggio di una concezione musicale ancora legata alla prassi ottocentesca. Non a caso Ravel compose i suoi due Concerti per pianoforte al termine della sua attività, quando la stagione del neoclassicismo spingeva in qualche modo a reinterpretare i modelli del passato.
I due Concerti vennero scritti quasi contemporaneamente, a partire dal 1929. Difficile dunque scindere l’una dall’altra partitura, poiché esse appaiono fra loro contrapposte e insieme complementari. Differenti le motivazioni all’origine dei due lavori. Il Concerto per la mano sinistra fu commissionato dal pianista Paul Wittgenstein – il fratello del filosofo – che aveva perso il braccio destro in guerra.
Pressoché contemporanea la decisione di Ravel di dedicasi anche a un altro Concerto pianistico riallacciandosi a un vecchio ed abbandonato progetto del 1913-14, un lavoro su temi baschi denominato Zagpiat-bat (Le sette province). Sembra che Ravel volesse sfruttare la partitura per una tournée pianistica negli Usa, ma poi decise di dedicarla a Marguerite Long, riservandosi il ruolo meno rischioso di direttore d’orchestra alla prima esecuzione, avvenuta a Parigi il 14 gennaio 1932.
Nonostante la gestazione pressoché contemporanea – o forse proprio a causa di essa – i due Concerti sono fra loro diversissimi, come se l’autore avesse voluto offrire due immagini antitetiche del genere: nel primo caso una concezione formale arditissima, la netta contrapposizione del solista all’orchestra e un contenuto espressivo oscuro e drammatico; nel secondo il rispetto dell’articolazione classica in tre movimenti, la complicità di solista e orchestra e delle scelte di giocosità e serenità. Indicative, a questo proposito, le osservazioni rilasciate dallo stesso Ravel al “Daily Telegraph” sulla partitura, definita come “un Concerto nel senso più esatto del termine e scritto nello spirito di quelli di Mozart e di Saint-Saëns”, ossia secondo un rapporto dialettico ma fortemente integrato fra solista ed orchestra; e occorre ricordare che era prettamente apollinea l’immagine di Mozart che si era imposta fra le due guerre.
E ancora: «Avevo avuto intenzione, all’inizio, di intitolare la mia composizione “divertimento”», per decidere poi però «che non era necessario, stimando il titolo “Concerto” bastantemente esplicito per quanto concerne il carattere della musica di cui l’opera è costituita».
Sono elementi essenziali del carattere giocoso del Concerto, nonché della sua chiarezza neoclassica, tanto la scrittura pianistica, improntata a quegli effetti quasi illusionistici che Ravel aveva già sperimentato nella produzione cameristica, tanto il ricorso a un materiale tematico eterogeneo, dal jazz al circo ai temi baschi, assemblato con gusto da vero prestigiatore. Il Concerto in sol si palesa così come il più originale contributo di Ravel alla stagione del neoclassicismo, dove eredità colta e musica di consumo vengono conciliate con uno sguardo distaccato, secondo una poetica di raffinato manierismo.
Nell’attacco dell’Allegramente iniziale, segnato dallo schiocco della frusta, troviamo la ritmica irregolare e jazzistica dell’esposizione orchestrale, impreziosita dalle percussioni, poi il secondo tema, con l’intervento “basco” del pianoforte e la risposta “blues” dell’orchestra; dopo questa esposizione segue un breve sviluppo in cui il pianoforte riprende in modo ludico il materiale già presentato, il ritmo jazzistico, il tema “blues”; la riesposizione riprende le stesse idee donando loro uno spazio differente, e accentuando così il carattere rapsodico della costruzione; e il movimento si chiude con una coda brillantissima.
Marguerite Long
È il pianoforte solo ad aprire il secondo tempo, Adagio assai, con un vasto intervento cantabile che, per l’incantevole tematismo e il gusto della tessitura cristallina, giustifica pienamente il richiamo dell’autore a Mozart e Saint-Saëns. Si inseriscono poi i legni in una plastica giustapposizione di idee; nonostante un episodio centrale più ombroso e articolato, l’intero movimento si svolge sul continuo ritmo ternario dell’accompagnamento pianistico, che funge da tappeto sonoro; la riesposizione è affidata al corno inglese, mentre il pianoforte ricama preziosi arabeschi. Breve e incisivo il Finale, che si riallaccia al primo tempo,
ma secondo una frenesia di moto perpetuo realizzata principalmente dal pianoforte con una scrittura brillantissima e virtuosistica; all’orchestra spetta il compito di irrompere con temi jazzistici o con liete fanfare da music hall, e di secondare e sostenere il solista nella coda trascinante.
Tzigane
Composta nel 1924 per violino e cymbalom e dedicata a Jelly d’Arànyi, la rapsodia da concerto Tzigane fornì a Ravel il pretesto, lo stesso anno, per una trascrizione orchestrale. Mai come in tal caso il termine «pretesto» pare lecitamente utilizzabile dacché al musicista, pur prodigo di arricchimenti nel campo del suono, nessuna ulteriore risorsa poteva venire dal maggiorato spessore della breve composizione. A differenza che in altre celebri opere strumentali raveliane ove la sostanza musicale pur già compiutissima manifesta, per la gamma degli effetti coloristici e delle gradazioni di tocco, una lata potenzialità all’orchestra, si rivela in questa ultima la assoluta bastevolezza del ruolo violinistico: atto a stabilire un tour de force, satanico e smagliante, sul concetto di ziganismo, con la conseguenza di smontare in pochi minuti mezzo secolo di giaculatorie finto-balcaniche.
Tutta la violinisterie che partendo da certe malcaute tentazioni dei classici era approdata a Bruch, Wieniawski e al primato del peggio, viene qui immersa nel tonificante bagno della cattiveria; e il tremendo virtuosismo, giocato su un bagaglio il più fearsome possibile di colpi d’arco e di effetti di armonici, si rivela (come sempre, del resto, in Ravel) la molla, e la segreta ragion d’essere, del più impavido degli snobismi: senza neppur la cautela di quel torvo spleen in cui s’era incarnata quattro anni prima la follia de La Valse; con il più sovrano disprezzo, piuttosto, delle raisons du coeur.
Si è detto della perfetta autosufficienza del ruolo violinistico; la lunga cadenza introduttiva, contorta di lividi segnali, vi appone del resto una sigla inappellabile. Ma non ci si chiama Ravel per nulla; e così, in un’opera tanto squisitamente solistica, con un’orchestra destinata a recitare la fatal parte dell’accompagnatrice, persino l’ingresso ammaliante dell’arpa, alla fine dell’esposizione del violino, vale a connotare una raffinatezza di apparato che ancor meglio si preciserà nell’esultanza brillante della rapida danza conclusiva. Così il meccanismo si perfeziona e si completa, dando ragione all’ipotesi azzardata anni fa da Alberto Mantelli secondo cui una qualche relazione doveva legare «questo modo di concepire il solismo strumentale e l’amore, che rasentava la mania, di Ravel per i più complicati giocattoli meccanici».
Shéhérazade
Il 30 aprile 1902 andava in scena all’Opera comique di Parigi Pelléas et Mélisande, il capolavoro con il quale Claude Debussy scriveva nella storia del teatro musicale una pagina capitale, gettando un ponte arditissimo fra l’Ottocento di Wagner e le mille faticose ramificazioni in cui si sarebbe dilatata l’esperienza novecentesca. Una prima contrastata, come si sa: e che tuttavia riuscì a giungere nel giro di un paio di mesi alla quattordicesima replica. A tutte queste rappresentazioni assisté, sempre più entusiasta, il ventisettenne Ravel, che giusto in quel tempo attendeva alla composizione di un lavoro che non per caso pareva voler in qualche modo ricalcare un’esperienza debussyana di dieci anni prima, il Quartetto in fa maggiore. Subito dopo questo, nasceva la composizione che più d’ogni altra di Ravel sembra pagare un tributo all’arte di Debussy, e in primo luogo al Pelléas: i tre poemi per voce e orchestra di Shéhérazade, terminati nel 1903 ed eseguiti l’anno successivo alla Société Nationale.
Con essi, Ravel si accostava per la prima volta, dopo qualche tentativo giovanile, alle magie della grande orchestra, unendovi la voce (anche questo un campo fin allora relativamente poco battuto da lui): niente di più naturale che questi approcci, data l’età e l’esperienza ancora abbastanza ristretta del compositore, avvenissero sotto il segno più o meno marcato di un’influenza altrui. Sicché è forse da far risalire soprattutto a Shéhérazade la «colpa» di tutti quegli equivoci che per tanto tempo hanno reso difficile stabilire la vera natura dei rapporti fra lo stile e l’estetica di Ravel e quelli di Debussy; rapporti che certamente ci furono, e molto stretti, ma dei quali è indispensabile ridimensionare la portata quando si rischi di proporre l’idea di una dipendenza di Ravel nei confronti di Debussy, come di un epigono nei confronti di un caposcuola. Il giudizio, certo acutissimo, che Erik Satie pronunciava sul giovane Ravel («un Debussy plus épatant», un Debussy più sbalorditivo, più mirabolante) poteva, in questo senso, apparire ambiguo: ma a confermare il significato più vero, quello che poneva in risalto l’originalità di Ravel piuttosto che la sua aderenza allo stile dell’altro, erano già venuti nel 1901 quei Jeux d’eau che anticipando di qualche anno la grande stagione del pianismo debussyano (le Estampes sono del 1903) ribaltavano addirittura il rapporto in favore del musicista più giovane.
Detto questo, resta indubbio che con Shéhérazade ci troviamo nel cuore di un linguaggio e di una dimensione poetica di scoperta ascendenza debussyana. Un connotato questo, che si mescola con tutta una serie di rimandi, anche esterni, ad atteggiamenti culturali o mode caratteristici di un clima estetico diffusissimo nella Parigi fra la fine dell’Ottocento e gli albori del nostro secolo, e che ampiamente traspaiono nella stessa scelta del testo poetico.
Maurice Ravel
Il fascino delle Mille e una notte e della loro protagonista Shéhérazade è uno dei simboli più scontati di quell’estetismo: sensualità e crudeltà, liberazione fantastica abbondantemente contaminata di languore, esotismo geografico e cronologico, meglio se di colorito orientale, sono fra i luoghi obbligati del Decadentismo; e in terra di Francia assunti del genere non mancarono di fiancheggiare le avventure poetiche del movimento simbolista.
E a quest’ultima corrente artistica – per tacere dei rapporti profondi e complessi che ebbe con essa la musica proprio nella persona di Claude Debussy – aderiva il poeta e pittore autore dei versi impiegati da Ravel nella sua Shéhérazade, quell’Arthur Justin Leon Leclère che amava celarsi sotto lo pseudonimo smaccatamente wagnerizzante (ecco un altro intreccio con il retroterra estetico di Debussy) di Tristan Klingsor, riprendendo i nomi di personaggi eletti a simbolo di due opposti poli d’attrazione della poesia di Wagner, la passione pura di Tristano e la tentazione al male impersonato dall’esecrando mago di Parsifal. Nei tre poemi di Leclère-Klingsor si celebra un’ Oriente fantasmagorico, «grondante», nota Carli Ballola, «eleganze e profumi floreali», in continuo e mutevole scambio fra parola e immagine visiva o evocazione sonora. A queste suggestioni Ravel risponde, sul piano vocale, piegando la parola cantata a un declamato evidentemente memore della sconvolgente lezione di Pelléas: «così grave, libero, largo e cantato», dice Vladimir Jankélevitch, che «a nessuno verrebbe in mente di definire secco e asciutto lo stile di Ravel»; una soluzione, quindi, senz’altro lontana da quelle che la produzione maggiore e più matura del musicista avrebbe saputo trovare, caratterizzandosi come una delle più taglienti e traslucide esperienze artistiche del Novecento. Nella partitura orchestrale, Ravel celebra con mano straordinariamente scaltrita il trionfo della magica e lussureggiante tavolozza sonora impressionista, dispensando con larghezza trilli, arpeggi, glissandi, meravigliose torniture melodiche, sognanti macchie di colore ed estasi timbriche.
Shéhérazade, per continuare con le parole di Jankélevitch, resta dunque «un poema orientale dai colori cangianti, sentito senza alcuna ironia, ove le prigioniere non hanno ancora imparato il pudore dei propri sentimenti»: un lavoro dunque decisamente poco raveliano, vedendolo con gli occhi di oggi; il che non impedisce che in molti luoghi di esso, specialmente nel secondo e nel terzo pezzo, i segni peculiari della sensibilità più vera di Ravel vi appaiano in abbondanza. In Asie, la prima delle tre liriche, ci troviamo in un clima di facili compiacimenti: il lungo brano si articola in un preludio e in una serie di episodi corrispondenti alle avventure fantastiche che si dipanano nel poema, con una deliberata e puntuale aderenza dell’immagine sonora a quella verbale, ambedue traducendosi in suggestione visiva anche in virtù di decantati esotismi (è stato rilevato il rimando dei carillons che accompagnano l’evocazione dei «Mandarins ventrus» alla ancor lontana Ma mère l’Oyé): il ritorno, nella chiusa, degli echi sfumati dell’introduzione sembra, oltre che conferire al brano un senso di compiutezza, riprodurre i contorni evanescenti del sogno.
Leonard Bernstein
Al denso estetismo di questo viaggio fantastico succede, con un certo contrasto di atmosfere – mitigato peraltro da una nascosta unitarietà tematica – lo spleen delicatissimo della Flùte enchantée: la suggestione musicale implicita nella poesia non va certo perduta per Ravel, che ne approfitta per far cantare lo strumento fascinoso che già nel Prelude à l’après-midi d’un faune di Debussy aveva annunciato le nuove prospettive sonore del Novecento. L’atmosfera di questo pezzo è, senza infingimenti, quella del Simbolismo più autentico: ma nella brevità del testo poetico la realizzazione musicale trova una densità e una contenutezza di modi a tutti gli effetti degni del segno netto e conciso delle future creazioni di Ravel. Ancor più innanzi si va con L’indifférent: un alone di
vistosa sensualità nel testo, un languore non meno estenuato nella traduzione musicale. Ma l’asciuttezza del colorito orchestrale, la drastica concentrazione del materiale tematico, il tono più sommesso apparentano questo pezzo al nitore del Quartetto, di poco precedente, e soprattutto all’aforistica incisività nella quale con il procedere della sua evoluzione Ravel avrebbe tradotto le cifre più pudiche della sua poesia.
ASIE
Asie,
Vieux pays merveilleux des contes de nourrice
Où dort la fantaisie comme une impératrice
En sa forêt tout emplie de mystère
Asie,
Je voudrais m’en aller avec la goëlette Qui se berce ce soir dans le port, Mystérieuse et solitaire
Et qui déploie enfin ses voiles violettes Comme un immense oiseau de nuit dans le ciel
Je voudrais m’en aller vers les îles de fleurs
En écoutant chanter la mer perverse
Sur un vieux rythme ensorceleur
Je voudrais voir Damas et les villes de Perse
Avec les minarets légers dans l’air;
Je voudrais voir de beaux turbans de soie Sur des visages noirs aux dents claires; Je voudrais voir des yeux sombres d’amour
Et des prunelles brillantes de joie
Et des peaux jaunes comme des oranges Je voudrais voir des vêtements de velours Et des habits à longues franges
Je voudrais voir des calumets entre des bouches
Tout entourées de barbe blanche
Je voudrais voir d’âpres marchands aux regards louches,
Et des cadis, et des vizirs
Qui du seul mouvement de leur doigt qui se penche
Accorde vie ou mort au gré de leur désir Je voudrais voir la Perse, et l’Inde et puis la Chine
Les mandarins ventrus sous les ombrelles Et les princesses aux mains fines,
Et les lettrés qui se querellent
Sur la poésie et sur la beauté;
Je voudrais m’attarder au palais enchanté et comme un voyageur étranger Contempler à loisir des paysages peints Sur des étoffes en des cadres de sapin Avec un personnage au milieu d’un verger;
Je voudrais voir des assassins souriant Du bourreau qui coupe un cou d’innocent Avec son grand sabre courbé d’Orient
Je voudrais voir des pauvres et des reines Je voudrais voir des rosés et du sang
Je voudrais voir mourir d’amour ou bien de haine
Et puis m’en revenir plus tard
Narrer mon aventure aux curieux de rêves
En élevant comme Sindbad ma vieille tasse arabe
De temps en temps jusqu’à mes lèvres Pour interrompre le conte avec art…
LA FLÛTE ENCHANTÉE
L’ombre est douce et mon maître dort Coiffé d’un bonnet conique de soie
Et son long nez jaune en sa barbe blanche Mais moi, je suis éveillée encor
et j’écoute au dehors
Une chanson de flûte où s’épanche
Tour à tour la tristesse ou la joie
Un air tour à tour langoureux ou frivole Que mon amoureux chéri joue
Et quand je m’approche de la croisée
II me semble que chaque note s’envole De la flûte vers ma joue
Comme un mystérieux baiser.
L’INDIFFERENT
Tes yeux sont doux comme ceux d’une fille
Jeune étranger
Et la courbe fine
De ton beau visage de duvet ombragé Est plus séduisante encor de ligne.
Ta lèvre chante sur le pas de ma porte Une langue inconnue et charmante Comme une musique fausse…
Entre! Et que mon vin te réconforte… Mais non, tu passes
Et de mon seuil je te vois t’éloigner Me faisant un dernier geste avec grâce Et la hanche légèrement ployée
Par ta démarche féminine et lasse…
ASIA
Asia,
antico paese favoloso dei racconti dell’infanzia
in cui la fantasia come un’imperatrice dorme nella sua foresta tutta piena di mistero
Asia,
vorrei andarmene con la goletta
che si culla stasera nel porto, misteriosa e solitaria
e che spiega finalmente le sue vele violette
come un immenso uccello notturno nel cielo
vorrei andarmene verso le isole fiorite ascoltando cantare il mare perverso
su un vecchio ritmo ammaliatore vorrei vedere Damasco e le città della Persia
con nell’aria esili minareti;
vorrei vedere bei turbanti di seta
su visi neri dai denti rilucenti;
vorrei vedere occhi cupi d’amore
e pupille brillanti di gioia
e pelli gialle come arance
vorrei vedere vestimenti di velluto
e abiti dalle lunghe frange
vorrei vedere dei calumet nelle bocche circondate da una barba bianca
vorrei vedere abili mercanti dagli
sguardi subdoli,
e dei cadì, e dei visir
che con il semplice abbassare del loro dito
accordano la morte o la vita
secondo, il loro piacere
vorrei veder la Persia, e l’India e poi la Cina
i mandarini panciuti
sotto gli ombrellini
e le principesse dalle mani sottili,
e i letterati che discutono accaniti sulla poesia e sulla bellezza;
vorrei fermarmi nel palazzo incantato e come un viaggiatore straniero contemplare a mio piacere dei paesaggi dipinti
su stoffe incorniciate d’abete
con un personaggio in mezzo ad un giardino;
vorrei vedere assassini che sorridono del carnefice che mozza il capo a un innocente
con la sua grande curva sciabola d’Oriente
vorrei vedere poveri e regine
vorrei vedere rose e sangue
vorrei veder morire d’amore oppure di odio
e ritornarne dopo
a narrare la mia storia a quelli che amano i sogni
alzando come Sindbad la mia vecchia tazza araba
di tanto in tanto fino alle mie labbra per interrompere ad arte il mio racconto…
IL FLAUTO MAGICO
L’ombra è dolce e il mio signore dorme
sotto un berretto conico di seta
il lungo naso giallo nella sua barba bianca
ma io, io veglio ancora
e ascolto, fuori,
la canzone di un flauto che diffonde di volta in volta la gioia o la tristezza un motivo di volta in volta languido o frivolo
che suona il mio diletto innamorato
e quando mi avvicino alla finestra
mi sembra che ogni nota s’involi
dal flauto verso la mia guancia
come un bacio misterioso.
L’INDIFFERENTE
Hai gli occhi belli come una ragazza giovane straniero,
e la curva fine
del tuo bel viso ombreggiato di peluria
ha una linea ancor più seducente. Canta il tuo labbro sulla mia soglia una lingua sconosciuta e incantevole come una nota falsa…
Entra. E che il mio vino ti ristori… Ma no, tu passi
ti vedo allontanare dalla soglia facendomi un ultimo gesto grazioso con l’anca piegata leggermente
nel tuo passo stanco e femminile…