Schubert Franz

Sinfonia n. 5 – Sinfonia n. 6 “Pastorale”

Pur se già stanco ed evidentemente provato, Leonard Bernstein offre una lettura trascinante ed entusiasmante di questa che è forse la pagina più alta del sinfonismo romantico. Il suo rapporto intenso, personale e profondo con la partitura gli permette di stabilire una relazione quasi magnetica e complice con l’orchestra tutta e ciascuno dei suoi membri, che alla fine, mentre lui si ostina a raccogliere le ovazioni del pubblico stando in mezzo a loro, nel suo consueto atto di umiltà, lo costringono a tornare sul podio; e lui, il mazzo di fiori che ha ricevuto, lo smembra e lo condivide con loro. L’evidente sincerità e la semplicità di questi gesti aumentano il valore altissimo dell’interpretazione musicale.
Il Manfred, registrato due anni prima, mostra un Bernstein in tutt’altra condizione: forma smagliante, piglio più sereno e tranquillo, ma sempre la stessa intensità e partecipazione allo spirito e rispetto della lettera della partitura.
Due diverse orchestre, due diversi momenti del romanticismo musicale tedesco, la stessa superba e sublime capacità interpretativa.

Sinfonia n. 9 in do maggiore “La grande” D. 944

Delle otto Sinfonie di Franz Schubert che sono giunte ai posteri in forma completa – laddove il concetto di “completezza” si riferisce non al numero dei movimenti compiuti ma all’integrità e all’eseguibilità della loro stesura; dunque fra le complete ha posto anche la celebre “Incompiuta” – solamente le ultime due, appunto l'”Incompiuta” e la “Grande”, sono opere dell’autore maturo, giunto al pieno possesso dei propri mezzi espressivi. Le prime sei Sinfonie, scritte fra il 1813 e il 1818 (fra i sedici e i ventun anni) sono da considerarsi piuttosto alla stregua di esperienze formative, lavori di fattura anche pregevolissima e di interesse sommo, ma esercitazioni nella difficile tecnica di scrittura orchestrale più che libere manifestazioni della creatività del musicista – creatività che aveva invece già trovato una personalissima definizione nell’ambito della produzione cameristica e liederistica.
Delle ambizioni del compositore nel genere sinfonico offre importante testimonianza una celebre lettera del marzo 1824 all’amico Leopold Kupelwieser, nella quale Schubert osserva: «Nei “Lieder” ho fatto ben poco di nuovo, ma mi sono cimentato in parecchi lavori strumentali… Soprattutto voglio in questo modo aprirmi la strada verso la grande sinfonia». In questa prospettiva si inseriscono dunque i due lavori incompiuti scritti fra il 1821 e il 1822: una sinfonia in mi maggiore abbozzata in tutti e quattro i movimenti, nessuno dei quali tuttavia eseguibile nella forma pervenutaci, e la Sinfonia in si minore (appunto l'”Incompiuta”) che annovera due movimenti del tutto definiti e l’abbozzo di uno Scherzo.
Ma l’interesse di Schubert era volto verso un lavoro di dimensioni ancora più ampie ed ambiziose, che potesse stare a confronto con le ultime opere di Beethoven, senza per questo rinunciare alle caratteristiche peculiari del proprio stile. La messa a punto di un simile progetto dovette richiedere certamente un sommo impegno al compositore. Della Sinfonia “Grande” abbiamo una prima notizia in una lettera di Bauernfeld, l’amico che ospitò Schubert presso le località montane di Gmunden e Gastein nel 1825; e la partitura completa reca poi la data del 1828. Dalla distanza fra queste due date è derivata peraltro la pertinace convinzione di buona parte della critica che Schubert abbia composto una Sinfonia “di Gastein”, poi andata smarrita; mentre invece (come dimostrò Maurice J. E. Brown nel 1958) è ormai indubbia la identità della Sinfonia di “Gastein” e della “Grande”. (E da tutte queste vicissitudini è derivato anche un ripetuto slittamento del numero d’ordine assegnato alla Sinfonia in questione nei diversi cataloghi: n. 7, in quanto prima sinfonia completa dopo la n. 6; n. 8, calcolando anche l’Incompiuta”; n. 9, calcolando anche la abbozzata Sinfonia in mi maggiore; e addirittura n. 10, inserendo nel catalogo anche l’inesistente Sinfonia “di Gastein”).
Nel 1828 Schubert offrì poi la partitura alla Società degli amici della musica di Vienna per una esecuzione finalmente “ufficiale”; la “Grande” sarebbe stata così la prima delle Sinfonie di Schubert a ricevere una esecuzione pubblica. Sicuramente furono effettuate delle prove d’orchestra, ma il lavoro risultò troppo complesso per le forze dell’orchestra della Società. Schubert propose in sostituzione la Sesta Sinfonia; ma questa fu eseguita solamente pochi mesi più tardi, nel concerto commemorativo per la morte del compositore. La partitura della “Grande” venne poi ritrovata da Schumann fra le carte del compositore nel 1839, ed eseguita a Lipsia sotto la direzione di Mendelssohn; e per una completa edizione a stampa si dovette aspettare l’anno 1849.
Questi fatti valgono da soli a dimostrare le grandi ambizioni della partitura, i cui orizzonti superavano incomparabilmente la prassi dell’epoca. E la “Grande” rappresenta effettivamente un ponte lanciato verso il sinfonismo tardo romantico, per l’ampliamento dell’organico (tre tromboni in più rispetto alla “Quarta”) e delle dimensioni, ma anche per il superamento della logica sinfonica “classica”, basata su una ferrea dialettica fra elementi contrapposti. Schubert aderisce apparentemente alle regole di costruzione della forma classica, ma ne modifica poi dall’interno gli equilibri; allenta la contrapposizione fra i diversi temi e vi sostituisce una ripetizione articolata dei medesimi, senza che per questo venga a mancare una logica narrativa alla composizione, assicurata dalle strette relazioni “sotterranee”, dal nervoso impulso ritmico che percorre incessantemente l’intera partitura.
Già il tema iniziale della Sinfonia, esposto dai corni, offre l’idea di questo continuo ripiegamento del materiale su sé stesso; il tema, in soluzioni espressive continuamente rinnovate, è protagonista esclusivo della mastodontica introduzione (Andante) che, con una progressiva “lievitazione”, scivola direttamente nel seguente Allegro ma non troppo.

Franz Schubert

Qui si impongono tre blocchi tematici, uno in ritmo puntato esposto dai bassi, uno in staccato dei legni e un terzo dei tromboni, tutti e tre ritmicamente incisivi e dalla configurazione “circolare”, riallacciabili cioè al tema dell’Andante; e proprio quest’ultimo si pone alla base delle variegate trasformazioni della sezione dello sviluppo. La riesposizione sfocia in una coda incalzante e simmetrica (Più moto), sigillata dalla riapparizione del tema dell’Andante nella sua veste testuale.
Sui pizzicati degli archi l’oboe staglia la melodia “all’ongarese” che da l’avvio all’Andante con moto, movimento che si articola secondo lo schema ABAC- BA; a un primo grande blocco tematico segue un nuovo episodio aperto da una intensa polifonia degli archi e chiuso dai richiami misteriosi dei corni; la riesposizione del primo blocco conduce a uno sviluppo drammatico, con un celebre passaggio di violoncelli e oboe, e a un ritorno del secondo episodio; e il movimento si chiude richiamandosi al motivo iniziale, con un mirabile e calibrato senso delle proporzioni che dona aurea compiutezza alle poliedriche peregrinazioni del movimento. Segue uno Scherzo brillante e serrato, cui si contrappone un Trio dal carattere di Ländler popolare.
L’intera Sinfonia gravita però verso il Finale, movimento di articolazione estremamente ampia, in forma-sonata, aperto dai richiami degli ottoni con le risposte degli archi. L’incessante propulsione ritmica è l’elemento più evidente del primo blocco tematico, cui succede una lunga cantilena per note ribattute dei legni. Oltre duecento battute prende la sezione dello sviluppo, che segue una logica paratattica, evitando una vera e propria “elaborazione” del materiale, e preferendo richiamarsi ai singoli elementi già comparsi e assunti separatamente. Dopo la riesposizione trova luogo una coda che conduce a una vera apoteosi la frenesia ritmica del movimento; conclusione degna della “grande” sinfonia che tenta una interpretazione postuma dell’età del classicismo, e offre suggerimenti profetici alle epoche successive.

Ouvertüre in mi bemolle minore, op. 115a

È questione ancora aperta se spetti anche alla musica sinfonica di Schumann il riconosciuto valore, unico per intensità e idealismo, si direbbe, ed emblematico nella cultura romantica tedesca, dei suoi mirabili cicli per pianoforte, dei Lieder e di molti dei lavori da camera (primo il Quintetto col pianoforte, che tanto piacque anche a Wagner). No, forse il valore non è lo stesso, o meglio poche pagine sinfoniche di Schumann hanno il segno assoluto della novità e della libertà fantastica che ancora ci meraviglia nell’altra sua musica. Non dipende solo da una certa imperizia, in verità additata sempre con esagerazione, della sua scrittura sinfonica. Certo, Schumann non è l’orchestratore inventivo, coloristico, sorprendente, come furono gli innovatori dell’orchestra romantica suoi contemporanei, Berlioz, Mendelssohn, Liszt, Wagner (e la differenza si sente), anche perché nello stile sinfonico egli tendeva ad imporsi una rigidezza costruttiva e una severità di espressione estranee al suo genio. Sì, il decadimento del gusto nel pubblico tedesco e il predominio del virtuosismo edonistico, della moda melodrammatica, dell’arte da salotto lo riempivano di sdegno come oltraggi ai grandi appena morti (Weber, Beethoven, Schubert), che egli venerava e di cui si sentiva erede. Nei due decenni successivi a quelle morti dolorose, a lui, così colto e fedele, si era presentato urgente il problema della “sinfonia”, come valore in sé, il problema, appunto, dell’eredità, – quel problema che nelle due ultime sue sinfonie Mendelssohn seppe aggirare con la prodigiosa sua serenità, e che Liszt e Wagner dichiararono insussistente per la morte stessa, come affermavano, del sinfonismo puro
A Schumann, invece, la realtà si presentava diversa ed egli tentò di respingere il pericolo che il mutamento dei tempi e degli ideali portasse con sé l’estinzione di quel valore. Per questo la raccolta dei suoi scritti critici e polemici è testimonianza eccezionale, oltre che di una lucida intelligenza analitica, di un’alta coscienza estetica: in nome della quale accadde a lui, spirito poetico e libero come pochi, di essere nelle sinfonie e a volte nella musica sinfonico- corale, un “conservatore”, quasi uno di quei “filistei” che egli derideva. E sempre per questo si guastarono i rapporti con Liszt e con Wagner (che in seguito, dopo che Schumann morì, fu anche ingenerosamente ostile). Ma l’illusione “sinfonica” di Schumann non fece danni e anzi produsse qualche capolavoro (come certamente sono il Manfred e il Concerto in la minore).

Manfred

George Gordon Byron (1788-1824) scrisse il poema drammatico Manfred nel 1817, quando era già una celebrità in tutta l’Europa romantica, non solo per la sua poesia, copiosissima in ogni genere letterario, ma anche per la vita, altrettanto copiosa di avventure, viaggi, amori leciti e illeciti, scandali. L’ideale della vita estetica ed eroica (morì giovane in Grecia dove sperava di partecipare alla rivolta contro i Turchi oppressori) egli lo incarnò per primo e con verità assai maggiore dei molti che per almeno un secolo lo imitarono. Byron ebbe, certo, genialità poetica, originale e prepotente, e la quantità di occasioni che egli ha offerto alla musica, al melodramma e alla letteratura dell’Ottocento è solo essa già un merito eccezionale. Ma a leggere il suo Manfred, delirante e prolisso com’è, oggi ci è difficile comprendere non tanto il successo popolare di allora quanto l’ammirazione di geni ben superiori, come Goethe (che tradusse qualche pagina del Manfred, tra cui il primo monologo, che gli sembrava addirittura migliore del monologo di Amleto), Leopardi, Nietzsche (e nel 1885 Caikovskij compose anche lui la sua Sinfonia Manfred). Ci sono, sì, nel poema segni di vigore fantastico ed espressivo (parliamo di un poeta di rango), ma qui in genere tutto, situazioni e discorsi, ci suona esagerato e anche grottesco, quasi una parodia del Faust di Goethe.
Anche Schumann fu uno dei fervidi ammiratori del Manfred, e del turbamento che ebbe dalla lettura, anzi delle lacrime che versò, ci dà il racconto la moglie Clara. Se egli si era formato sui libri di scrittori romantici bizzarri ed estremi come erano Jean Paul e Ernst Th. A. Hoffmann, al momento dell’incontro col Manfred il suo genio, emotivo e fantastico, reagì pronto.
La vicenda in breve, per l’ascolto dell’Ouverture (che, sia chiaro, non racconta né illustra, ma esprime, come dirò, un esasperato carattere umano e una tonalità poetica). Il giovane Manfred vive in un castello solitario delle Alpi, sulle cui cime nevose egli si aggira, torturato da un rimorso. A lui né la filosofia, né la scienza, né le dottrine occulte hanno dato conforto. Al suo «Voglio dimenticare!» gli spettri che Manfred evoca non sanno dare risposta. Deciso a precipitarsi in un abisso, Manfred è miracolosamente salvato da un buon uomo, un “Cacciatore di camosci”. Nella capanna del Cacciatore Manfred dice la sua colpa, oscuramente parlando di un amore consanguineo e di sangue versato (un incesto? uno stupro? un delitto?).
Lo stesso enigma egli ripete alla Maga delle Alpi, apparsa dalla luce dell’arcobaleno. Le frenetiche allucinazioni spingono Manfred giù nell’ultima oscurità dell’anima – nella reggia di Arimane, il potente dio del male, e lì Manfred chiama dai morti la sua vittima, la fanciulla sacrificata, Astarte («Mi amavi troppo, così io te. […] Anche se estremo peccato era l’amore che amavamo»). Il pallido spettro non lo condanna, non lo perdona, gli permette di morire: «il tuo strazio in terra cesserà domani». Nel suo castello Manfred respinge le devote parole di un Abate, ma vince, romantico Prometeo, anche le seduzioni del suo Genio maligno (il suicidio?): «Tu su me nulla puoi, questo lo sento. […] Ciò che ho fatto, l’ho fatto; dentro porto un tormento che con i tuoi non cresce.» All’Abate che gli stringe la mano fredda, dice: «Vecchio, non è difficile morire!», e muore, libero.
Byron non aveva destinato il suo poema al teatro. Invece Schumann lo ripensò per la scena e nel 1848 compose le musiche per lo spettacolo, tentando così una “prova” di opera – del genere musicale che in quei decenni tutti i musicisti tedeschi, i massimi e i minori, cercavano di attirare nell’area del grande sinfonismo (e proprio in quel giro di anni Wagner sciolse la difficoltà).

George Gordon Byron

Dalla serie di soliloqui, incubi, apparizioni, invettive che è il testo letterario di Byron, egli scrisse, con la musica, un monodramma romantico, fantastico e spettrale, che non è un’opera, perché Schumann fu fin troppo rispettoso dei versi e perché il protagonista non è creato col canto; ma è quanto di più vicino egli abbia creato al tipo di dramma in musica, per la forza crescente del pathos, che
ha un’ascesa di natura teatrale-drammatica (superiore in questo anche alla sua vera “opera” Genoveva), per l’intensità emotiva della scena centrale (il sublime lirismo dell’apparizione di Astarte, in pochi minuti di musica), infine per la severità della catarsi finale, che manca nell’originale di Byron e fu inventata da Schumann.
Delle troppo rare esecuzioni di queste musiche di scena forse è causa proprio questa mirabile Ouverture, che ne concentra tutto lo spirito, senza anticiparne motivi. Come ho detto, la musica ardente e dolorosa non è descrittiva, non è un racconto dei fatti, è il ritratto sonoro di un carattere, della sua mente e della psiche. “Il ritratto” in musica era un genere di moda, e se ne composero molti (Mendelssohn, Berlioz, Wagner, Liszt, e su fino a Strauss e oltre), ma pochi hanno la vigorosa efficacia di questo.
La sua natura speciale sta nell’invenzione di temi ossessivamente “circolari” e affannosi (l’Ouverture al Coriolano di Beethoven ci sembra molto vicina), e nella dinamica dei contrasti, di motivi soprattutto, ma anche di ritmi e di colori, spinti uno contro l’altro con eccezionale ardimento costruttivo. Si additano di solito due temi principali, intitolandoli ai due protagonisti, Manfred e Astarte. Nulla giustifica questa interpretazione nelle musiche di scena (indipendentemente dalle quali Schumann ha concepito l’Ouverture), – interpretazione che anche confonde l’ascolto. In realtà questa musica esprime le angosce e i terrori di uno spirito colpevole, tormentato, coraggioso, e lo accompagna fino all’ultimo respiro (la calma meravigliosa delle ultime battute). Quasi tutta la musica sinfonica di Schumann è “sana”, talora anche troppo: solo nel romantico Manfred arde la febbre mortale che in pochi anni avrebbe annientato anche l’artista.