Bach Johann Sebastian

Messa in SI Minore

Il mio accostamento a Bach, sin da giovane, è stato mediato dalle esecuzioni di Karl Richter, questo grande maestro che ha saputo innovare l’interpretazione bachiana rispetto alla tradizione, mantenendo però una profondità di approccio forse ineguagliata. Certo le interpretazioni più “moderne” (quelle “filologiche”, con strumenti originali) possono maggiormente soddisfare l’orecchio per certe caratteristiche (ritmi in genere più veloci – talvolta anche troppo -, timbri strumentali affascinanti, ecc.), però la spiritualità delle grandi opere corali di Bach viene resa da Richter e dai cantanti e musicisti da lui diretti in modo mirabile e coinvolgente. La qualità delle riprese e dell’audio sono buone. Un DVD che non può mancare in una discoteca che si rispetti!

Messa in si minore, BWV 232

Il capolavoro noto come (Grande) Messa in si minore, BWV 232 del catalogo bachiano, si offre all’ascoltatore sotto il segno dell’eccezionalità. Se è corretta la retrodatazione all’inizio degli anni Quaranta dell’Arte della fuga, a lungo ritenuta la «parola» definitiva del genio, ci troviamo di fronte all’ultimo progetto di un compositore uso a meravigliarci con monumenti sonori grandiosi: forse il testamento spirituale di Bach. Sicuramente un compendio di singolare completezza della sua opera vocale. La musica che verrà a costituire la Messa in si minore proviene infatti dall’intera carriera del compositore, soprattutto da quell’ultimo quarto di secolo della sua vita in cui aveva ricoperto il ruolo di Thomaskantor a Lipsia, dando vita a un’ingente produzione vocale sacra, che comprende la miniera delle cantate bachiane (ne possediamo circa duecento, probabilmente tre quinti del totale originario). La Messa in si minore risulta dunque l’opus ultimum, coronamento dell’attività di un uomo dagli interessi musicali enciclopedici (solo il teatro musicale manca nel suo catalogo), che ha contribuito in modo cosi rilevante alla tradizione della musica sacra europea.
Non sorge spontaneo il collegamento tra Bach e il genere della Messa. In realtà l’intonazione dell’Ordinarium Missae, quel canone di cinque sezioni (Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus / Osanna / Benedictus, Agnus Dei) codificato nel Medioevo, non era estranea alla Chiesa luterana, che della Messa contestava invece il Canone. La Formula Missae di Lutero (1523) prevedeva la permanenza dell’Ordinarium nella liturgia, che nella sua origine medievale conservava tratti comuni alle due confessioni cristiane, più lontane su altri temi teologici. Benché la Deutsche Messe escludesse buona parte di questi canti, a Lipsia ancora al tempo di Bach Kyrie, Gloria, Sanctus e Agnus Dei venivano intonati in polifonia (figuraliter) in occasione di feste solenni dell’anno liturgico (ne è un esempio proprio il Sanctus della Messa in si minore). La peculiare situazione della Germania, risalente ancora alla pace di Augusta (1555), comportava inoltre il frazionamento religioso del territorio a seconda della religione dei regnanti («cuius regio, eius religio»): uno dei casi paradossali che potevano verificarsi concerneva proprio Bach, cittadino protestante della città di Lipsia ma suddito dell’Elettore cattolico di Sassonia, del cui ducato la città faceva parte. Proprio al nuovo Elettore di Sassonia Federico Augusto II (e in seguito a una guerra di successione su scala europea anche re di Polonia col nome di Augusto III) Bach dedicò il 27 luglio 1733 il nucleo originario di

questo progetto, la cosiddetta Missa, nella speranza di una nomina a Hoflcomponist, titolo onorifico di compositore presso la corte di Dresda che giungerà con tre anni di ritardo (probabilmente il nuovo duca era perfettamente a suo agio col celebre operista Johann Adolph Hasse, da non molto stabilitosi a Dresda e nominatovi Kapellmeister, così come la concomitante perdita di peso di un’altra eminente gloria musicale locale, Jan Dismas Zelenka, lascerebbe supporre). Era del tutto normale che compositori protestanti scrivessero musica sacra per committenti cattolici. Inoltre, se la Passione era una forma devozionale legata a un contesto culturale ben preciso, la Messa per contro si imponeva come genere dalla tradizione secolare, la cui fortuna non accennava a tramontare. Il problema ideologico della Messa in si minore viene dibattuto dal secolo scorso con l’apporto di numerosi argomenti teologico-musicali. Non potendo trattarli qui, è opportuno rilevare solamente come, analogamente al Magnificat BWV 243 , la Messa BWV 232 manifesti quella «cattolicità evangelica che sarebbe difficile inquadrare in un’autoritaria e anticattolica ortodossia confessionale» (Jaroslaw Pelikan): uno spirito di tolleranza che concepisce il servizio divino – verrebbe da dire in termini analoghi al moderno ecumenismo – non come contrapposizione rispetto alla confessione religiosa altrui, ma come preghiera rivolta all’unico Dio cristiano.
L’opera scritta da Bach è una cosiddetta messa «in stile napoletano», costituita dal susseguirsi di diverse sezioni (arie, duetti, cori, senza recitativi di collegamento) che suddividono il testo liturgico in porzioni minime, trattate musicalmente quasi fossero un testo operistico (i numeri solistici; per i cori si ricorre più spesso allo stile antico), composizioni d’altronde di casa nella splendida Dresda, barocca, cattolica e italianizzante (le scelte compositive bachiane sono conformi alle messe composte da Hasse, Zelenka, Heinichen e Lotti per quella Cappella di corte). Alla Corte ducale di Dresda – città in cui, nel giugno 1733, il primogenito di Bach, Wilhelm Friedemann, era stato nominato organista della Sophienkirche – venne destinata la prima sezione della Messa in si minore, costituita dal complesso Kyrie-Gloria, la cosiddetta Missa, una coppia spesso concepita autonomamente per tutto il Settecento e oltre (di queste sole due sezioni si compone la Messa di gloria di Rossini). Bach stesso scrisse quattro Messe così strutturate nel decennio 1735-45 (BWV 233-236, parodie di cantate). La genesi della Missa giunge a una svolta nella decennale carriera artistica di Bach: dopo la fluviale produzione per la luterana Thomaskirche di Lipsia (le passioni e centinaia di cantate scritte dal 1723, cioè dalla nomina a Thomaskantor sino al termine degli anni Venti), il compositore si stava orientando verso terreni sperimentali diversi, non eterogenei rispetto al consueto orizzonte espressivo della musica sacra, ma dotati di un respiro più ampio, al di là dei termini ristretti del repertorio liturgico. Sul finire del 1734 nascerà il grandioso progetto dell’Oratorio di Natale, formalmente un complesso

di sei cantate sacre, ma in verità un organismo caratterizzato da notevoli ambizioni di organicità e studiate correlazioni interne, mentre sempre questi anni saranno segnati da celebri cantate profane, come le BWV 213, 209 e 215, alcune delle quali dedicate proprio alla corte sassone di Dresda.
Negli ultimi anni della propria vita – la morte l’avrebbe colto nel 1750 -, in un periodo da situarsi tra l’agosto 1748 e l’ottobre 1749, Bach decise di completare l’Ordinarium Missae aggiungendo alla Missa del 1733 i pezzi mancanti a formare la cosiddetta Missa tota. Rielaborò allora un Sanctus scritto un quarto di secolo prima (per il giorno di Natale del 1724), mentre per completare le parti restanti si avvalse di proprie composizioni preesistenti, talvolta radicalmente ripensate. L’estrazione dei pezzi parodiati è varia: sono state individuate almeno nove fonti fra cantate, serenate e drammi per musica. Il pezzo considerato più antico (Crucifixus) appartiene a una cantata scritta a Weimar nel 1714, epoca ormai remota della carriera artistica del compositore. Probabilmente solo tre numeri (Credo in unum Deum, Et incarnatus est, e Confiteor) del Symbolum Nicenum – una delle strutture musicali più imponenti del Bach della maturità -sono composti ex novo.
Il procedimento estetico/musicale fondamentale con cui occorre necessariamente confrontarsi per apprezzare compiutamente la Messa in si minore è dunque la tecnica della «parodia», che consiste nel rivestire di un nuovo testo un pezzo di musica vocale composto in precedenza. I versi originari vengono sostituiti da altri di significato diverso, mentre la musica rimane sostanzialmente identica. In uso dal Medioevo (i polifonisti rinascimentali scrivevano messe, «su cantus firmus», «parafrasi» e «parodia», fondate sull’impiego di un canto profano come sostanza tematica circolare del-l’intero Ordinarium), l’espediente godeva di enorme fortuna nel Settecento. Nel genere chiave del melodramma, alcuni celebrati capolavori come il Rinaldo (1711) di Händel o l’Olimpiade (1735) di Pergolesi facevano largo uso di arie o altri pezzi scritti per piazze operistiche diverse, per cui la composizione sarebbe risultata nuova agli ascoltatori. In un’epoca ignara del dogma dell’originalità imposto alla nostra cultura dal Romanticismo, la «parodia» si proponeva come uno strumento corrente: sono numerosissimi gli esempi rintracciabili nel corpus dell’opera bacluana.Al pari della Messa in si minore (che presenta persino il caso di una parodia «interna», il Dona nobis pacem che imita il Gratias agimus tibi, l’Oratorio di Natale (1734) ne è un esempio macroscopico e nemmeno le Passioni vanno esenti da questo fenomeno.

Karl Richter

Proprio negli anni a ridosso della composizione della Missa (1730-33), Bach era occupato a confezionare una serie di concerti per clavicembalo per il Collegium Musicum da lui diretto, operazione che consistette nella rielaborazione/trascrizione di brani già composti per altra occasione. Dunque la «parodia» si configura come strumento di lettura unitaria dell’intera realtà musicale: non puro mezzo di arbitrario «risparmio» di tempo, ma ricerca sapiente, magistralmente condotta, di relazioni e «affetti» assimilabili all’interno di opere nate per ragioni differenti e in epoche diverse della propria vicenda artistica.
Paradossalmente, l’impiego massiccio della parodia non constrasta con lo svilupparsi di un progetto articolato e razionale. Limitamoci a considerare la sapienza architettonica del Symbolum Nicenum, chiave di volta dell’intera Messa. Bach con perfetta simmetria armonizza due cori (uno in stile antico, uno nel moderno); un pezzo solistico moderno; tre cori (il nucleo centrale: negli stili moderno, antico e moderno); nuovamente un pezzo solistico moderno; nuovamente due cori (uno in stile antico, uno nel moderno). Non diversamente da quanto avviene, su scala ridotta, nello Stabat Mater di Domenico Scarlatti, la convivenza di stylus antiquus e moderno linguaggio galante realizza qui e nell’intera Messa la celebrazione più gloriosa di quella vocazione cosmopolita, enciclopedica, universalistica, dell’arte di chi, senza quasi mai lasciar la Sassonia, aveva sempre perseguito, tanto nella musica strumentale quanto nel campo vocale, la via dell’armonizzazione dei diversi stili nazionali (italiano, francese e tedesco), dell’antico come del moderno. Il severo contrappunto rinascimentale, mediato dallo studio di Palestrina, convive nella Messa con la duttilità dei ritmi «alla lombarda» tipici del moderno stile galante (preclassico), di cui Pergolesi, proprio nello stesso 1733 della Missa, metteva in scena a Napoli un celeberrimo capolavoro: La serva padrona. All’altro capo cronologico della composizione della Messa si pone la parodia del leggendario Stabat Mater pergolesiano, che Bach rivestì col testo tedesco del Miserere (Salmo Tilge, Höchster, meine Sünden, 1746), segno dell’instancabile interesse e della curiosità del maturo compositore per i colleglli più giovani. In termini non dissimili dalla Commedia dantesca, la Messa in si minore si impone dunque come «sintesi suprema» di un’epoca, opera di un «maestro dell’integrazione» (Y. Kobayashi) che ha compendiato in se la civiltà del barocco musicale europeo, consegnandola ai posteri in tutto il suo splendore. Quando il Symbolum Nicenum verrà diretto dal figlio dell’autore, Carl Philipp Emanuel Bach, ad Amburgo, nel 1786, sarà accolto come «uno dei più superbi pezzi di musica che mai sia stato ascoltato».
Il grandioso, severo portale su cui si apre la grande Messa in si minore (il magnifico Kyrie Eleison) è la pagina più imponente non solo della Missa del 1733, ma dell’intera versione definitiva del capolavoro. Epigrafe solenne, grave motto sul frontone di un tempio, l’Adagio introduttivo propone subito una triplice enunciazione del conciso testo liturgico da parte dell’intero coro a cinque voci sostenuto dall’orchestra, in blocchi sonori compatti ma già perforati e connessi dallo sfasamento contrappuntistico delle voci, che disegnano gesti dolorosi. Il campo viene allora lasciato agli strumenti: nel tempo Largo ed un poco piano che resterà costante per tutto il movimento, i legni guidano un incedere inesorabile di sapore funebre (già le prime misure presentano connessioni con l’Ode funebre BWV 198, composta nel 1727). Questo vastissimo interludio orchestrale ha il compito di rappresentare simbolicamente, con un affresco sonoro, la consapevolezza del peccato implicita nel rito penitenziale cui il testo fa riferimento: analogamente a quanto, secondo la retorica affettiva barocca, aveva compiuto nel primo tempo della Cantata BWV 55 (1720), Bach esprime la «schiavitù» del peccato con la combinazione di tonalità minore, amalgama timbrica scura di flauto e oboe d’amore, intervalli dissonanti e cromatici. Il significato dell’interludio viene esplicitato all’entrata del coro, che assume come soggetto del suo fugato proprio il tema strumentale, mentre l’orchestra si incarica di tessere una densa trama polifonica, trasferendo così in un contesto concertante moderno l’antica tradizione polifonica vocale, confermando l’amore del compositore per il contrappunto tonale. Un breve momento di gloria è riservato ai due oboi d’amore, che introducono il nuovo interludio orchestrale sostenuti solo dal basso continuo (coi fagotti); ben presto però entra il resto dell’orchestra, che ripropone la figura dell’appoggiatura cromatica, tanto importante nell’invenzione tematica del movimento, e introduce l’ultimo intervento del coro, il cui nuovo fugato propone le voci in ordine ascendente, con effetto di schiarita progressiva dell’ordito contrappuntistico.
Secondo la consuetudine della messa «in stile napoletano», ai poderosi due Kyrie eleison corali viene contrapposto l’intermezzo solistico e virtuosistico del Christe eleison. Così avviene nella Messa di Wilderer che probabilmente servì da modello per l’attacco del Kyrie eleison e nella Missa «Laetare» (1729) di Caldara. È probabile che questa affascinante composizione bachiana si basi su un originale per soprano e contralto, tradizionale coppia di voci, ben rappresentata anche nelle cantate (per esempio la BWV 62). In opposizione al Kyrie eleison, la scrittura è di trasparente, operistica semplicità: alle due voci che procedono per terze si aggiunge l’unisono dei violini e il basso. Elementare anche la struttura del brano (analoga all’Et in unum Deum del Symbolum Nicenum): il micro-testo viene intonato in tonalità diverse ma mai imprevedibili, e ogni intonazione è separata da un ritornello degli archi, che svolgono un suadente nastro in legato, memori del Bach grande autore di concerti.

Secondo consuetudine, in stile fugato è il secondo Kyrie, che risponde col rigore del contrappunto osservato al patetismo soggettivo del primo tempo, di cui ripristina la severità del modo minore. Gli strumenti raddoppiano meramente le linee vocali di una scrittura a quattro voci (ragione per sospettare che si tratti di una composizione già esistente, inserita immutata, senza la seconda parte di soprano che contraddistingue il resto della Missa). Il coro propone un tormentato soggetto in fa diesis minore, che si appoggia espressivamente sulla sensibile (la sua terza nota); il campo viene però conteso da un secondo tema, presentato dapprima dal tenore e in seguito gratificato da un’esposizione completa. L’alternarsi dei due soggetti si protrarrà sino alla conclusione.
Un pannello festivo, di gioiosa solennità, accoglie il fedele nel Gloria in excelsis, glorificazione del monarca celeste, altrettanto adatta alla regalità del dedicatario terreno, nello splendore della tonalità di re maggiore. Pezzo sinfonico/corale dall’imponente spiegamento di forze (coro a cinque voci, trombe, timpani, flauti, oboi, fagotti, archi e basso continuo), cui conferisce smalto la parte concertante della prima tromba, venne riutilizzato da Bach nella Cantata BWV 191 (probabilmente del 1745), ma forse già in origine era stato concepito per un’altra destinazione, il tempo veloce di un concerto o il coro d’apertura di una cantata profana.
Nella stessa BWV 191 confluì anche il contemplativo, ampio Et in terra pax, innestato senza soluzione di continuità sul movimento precedente, cui prevedibilmente si oppone: coro e orchestra (privata momentaneamente di trombe e timpani) distendono un disegno di sospirose appoggiature trasformato in un fugato dal soprano I, che espone un soggetto dall’eloquio diretto ed efficace e un fiorito controsoggetto di semicrome. Sezioni più trasparenti di contrappunto imitativo si alterneranno ad altre tendenzialmente omofoniche, in grado di sopportare l’impatto dell’orchestra piena.
Una moderna aria operistica per soprano, violino obbligato e archi costituisce il Laudamus te, aperto da un vasto a solo concertante del violino, vetrina di virtuosismo strumentale che anticipa l’analoga complessità della parte vocale (33 note e 5 trilli sul primo «Laudamus»). Le ardue caratteristiche tecniche e tracce di un’ulteriore elaborazione della linea del soprano inducono a vedervi un brano nato per i virtuosi dell’Elettore di Sassonia (Faustina Bordoni, celebre primadonna moglie di Hasse?).

Karl Richter

La modernità «napoletana» della scrittura, di una souplesse ritmica straordinaria, è già evidente dal preludio strumentale dall’andamento di allemanda. Segue una pagina mottettistica a quattro voci (Gratias agimus tibi) in stile fugato, già coro iniziale della Cantata BWV 29, scritta per il rinnovo del Consiglio municipale di Lipsia (1731) e più volte ripresa. Il suggerimento per il riutilizzo del pezzo deve essere venuto dal testo originario («Wir danken dir, Gott»), perfetta versione tedesca del «Gratias agimus tibi» della Messa. Alle due sezioni verbali corrispondono altrettanti temi musicali, il primo dei quali sporadicamente ripreso dalla prima tromba, finché, con la solennità di tutte le cantate dedicate da Bach al Consiglio municipale lipsiense, non entra progressivamente in campo l’orchestra intera per concludere gloriosamente il movimento.
Un ampio duetto per soprano e tenore (Domine Deus) riporta il discorso musicale a un clima di suggestiva intimità, esaltata dalla raffinatezza timbrica dell’accompagnamento: flauto traverso obbligato (strumento di grande successo all’epoca: l’anno prima Locatelli aveva pubblicato le XII Sonate a Flauto traversiere Solo e Basso), archi superiori con sordino, bassi in pizzicato. Il flauto espone un tema semplice e diretto (aperto da una scaletta di quattro note) su cui le voci si esibiscono ora in imitazione, ora omoritmicamente. Interessante è l’impiego simbolico di due cantanti, a significare il Padre e il Figlio, cui il testo fa riferimento: ai due viene affidata simultaneamente l’acclamazione a una delle persone della Trinità, creando cosi un intrigante effetto di politestualità. Il duetto era probabilmente in origine col da capo (forma ABA): dopo la sezione contrastante B è stata però soppressa la ripresa della sezione iniziale e il pezzo sfocia direttamente nel Qui tollis peccata mundi, cui serve da introduzione. E a ragione, poiché – emerge qui l’estrema ingegnosità combinatoria del compositore – il severo Qui tollis è il coro introduttivo della Cantata BWV 46 (1723), privato della sinfonia strumentale che lo precedeva. La musica composta allora per un dolente testo tratto dalle Lamentazioni serve ottimamente questa sezione del Gloria, in si minore, vicina, nel clima cupo del denso e intenso intreccio polifonico, al Kyrie iniziale. I flauti aggiungono un brivido sinistro al già inesorabile e patetico contesto orchestrale.
Un’aria suggestiva per contralto, oboe d’amore obbligato e archi costituisce la perorazione del Qui sedes ad dextram Patris, caratterizzata dall’inconfondibile sigla ritmica della terzina in levare con cui il pezzo attacca: probabilmente parodia di un movimento preesistente, l’aria dipana comodamente il doppio filo delle linee vocali dei due solisti, voce e strumento (a quest’ultimo Bach dedica una parte nella sua più tipica scrittura per oboe).
Le fa da pendant un altro memorabile pezzo solistico, il Quoniam tu solus sanctus, ispirato, nell’originale peculiarità del suo organico, a grave, regale solennità: la voce di basso è infatti accompagnata da un corno da caccia concertante, due fagotti con parti autonome e basso continuo. Nella scelta del corno – al quale è riservata una scrittura virtuosistica aperta da un tema proprio (diverso da quello vocale) che procede per salti, frequentemente di ottava – Bach dovette avere in mente lo straordinario strumentista di cui disponeva la Cappella ducale di Dresda, da lui ascoltato nella prima della Cleofide di Hasse nel 1731 (in particolare nell’aria «Cervo al bosco», con corno e tiorba obbligati).
Meravigliosamente festivo è il pannello conclusivo del Gloria e dell’intera Missa: il coro Cum Sancto Spiritu, privato dell’originaria sinfonia introduttiva e saldato all’ultimo ritornello del corno da caccia, è un’esplosione di energia, esaltata dalle sonorità celebrative delle trombe (la prima in grande evidenza) e di un’intera orchestra, che si insinua tra le risposte incalzanti delle voci e sovrasta queste ultime nelle lunghe note tenute. A sezioni concertanti si alternano episodi fugati, a costituire una sorta di forma rondò. Un’esplosione di luce non lontana da quella che forse proprio negli anni 1731/32, un grande artista «meridionale», Tiepolo, aveva concepito per una sfolgorante tela del Giudizio finale.
Il Symbolum Nicenum esordisce con un pezzo in stylus antiquus, il Credo in unum Deum a cinque voci, cui si aggiungono, completata l’esposizione fugata, due violini, portando cosi a sette il numero di linee contrappuntistiche che il dinamico basso continuo, perennemente occupato a snocciolare semiminime, deve sostenere. Il soggetto è modellato sulla melodia gregoriana del Credo, dimostrazione della genesi originale della musica per questo testo.
A tanta compostezza si oppone la vivacità della fuga concertante del Patrem omnipotentem, ugualmente mottettistico, ma espressivamente contrastante, rifacimento del Coro iniziale della Cantata BWV 171, destinata al Capodanno del 1729 (più probabilmente, in verità, entrambi i lavori derivano da un’ignota fonte comune). Al tema della gloria cosmica di Dio espresso dalla Cantata (si noti l’intervento della prima tromba) corrisponde qui perfettamente la confessione della fede in Dio padre, attraverso un impiego ineccepibile della politestualità: all’attacco del brano le voci superiori mantengono, a guisa di motto icastico, il testo «Credo in unum Deum», mentre il basso, contemporaneamente, propone, sul testo «Patrem omnipotentem», un soggetto che si propagherà a tutto il coro, dando l’occasione al basso di inventare un contro-soggetto più mosso («Factorem coeli»), ugualmente pervasivo dell’intero movimento.
Il successivo, ampio Et in unum Dominum, di cui esistono due versioni, esibisce la natura simbolica della musica bachiana, operando quella lettura teologica del mistero dell’unità dell’unico Dio in tre diverse persone che Albert Schweitzer così esprimeva: «[Bach] dispose che i solisti cantassero le stesse note, ma in modo tale da non sovrapporsi né identificarsi; le voci si inseguono

in stretta imitazione canonica; l’una procede dall’altra proprio come Cristo procede da Dio [esprimendo così il dogma] in modo molto più chiaro ed efficace attraverso la musica piuttosto che con formule verbali». Tutto ciò attraverso l’affascinante, gioiosa naturalezza di un duetto per soprano e contralto (coppia tipica della musica tardo-barocca): aperto dal comodo distendersi di un orizzonte sonoro quieto e sereno, nella tonalità pastorale di sol maggiore e nel timbro caldo di oboi d’amore e archi, il duetto si articola chiaramente in forma di rondò, in modo che ogni breve porzione testuale riceva un’intonazione musicale simile eppure differente. Del duetto esistono due versioni, che distribuiscono in modo diverso il testo.
Capolavoro di intima, sacrale intensità è l’Et incarnatus est, per coro a cinque voci, due parti di violino e basso continuo. Nella tonalità d’impianto dell’intera Messa, si minore, Bach ha composto un pezzo dall’ineludibile modernità espressiva. Come ha suggerito Christoph Wolff, le appoggiature sospirose dei violini rinviano allo Stabat Mater di Pergolesi, di cui già abbiamo detto, mentre la memoria viene inconsciamente condotta all’Ave verum cui un altro genio, Mozart, avrebbe dedicato, sul medesimo tema teologico, parte delle sue ultime energie. Si noti come la curva discendente del tema rimandi al mistero dell’incarnazione, appunto la discesa di Dio nella finitezza della carne, non nell’aura felice di tante messe di compositori cattolici, ma con una tragicità patetica che già prelude alla teologia della Croce.
Sconcertante è il contrasto con il Crucifixus, trascrizione della passacaglia corale della Cantata BWV 12 «Weinen, Klagen, Sorgeri, Zagen» (Pianto, lamento, ansia, timore) (non lontana dalla cantata vivaldiana Piango,gemo,sospiro e fremo), risalente al lontano 1714. Si tratta dunque del movimento stilisticamente più antico della Messa, collocato deliberatamente subito dopo il più moderno. La passacaglia (ciaccona), forma barocca per eccellenza, si basa sulla riproposta ossessiva di un basso ostinato (il tetracordo discendente, talvolta chiamato, all’epoca, passus duriusculus), che qui ritorna con tragico simbolismo esattamente 13 volte: in origine erano 12, ma Bach ha deciso di far introdurre la lamentatio corale (come ha notato Alberto Basso) del coro a quattro voci, con staffilate che esprimono la ferocia della crocefissione, da quattro battute strumentali che espongono il basso ostinato.

Johann Sebastian Bach

Simmetricamente le ultime quattro misure «a cappella» sorprendono l’ascoltatore con l’eccezionale modulazione a sol maggiore, definitiva rinuncia di Cristo alle prerogative divine con la deposizione nel sepolcro: analogamente
nella Passione secondo Matteo Gesù abbandonato dal Padre era stato lasciato dall’aureola strumentale.
Il festivo Et resarrexit celebra prevedibilmente la resurrezione di Cristo con uno splendore sonoro che nessun collega cattolico barocco sconfesserebbe, vicino al Gloria in excelsis di cui condivide l’ipertrofico organico. Forse derivato da un perduto lavoro profano, nella sua perentorietà ritmica il coro si divide tra vocazione eminentemente omofonica e persistenti tentazioni contrappuntistiche: proposto subito l’annuncio della resurrezione plena voce (tutti i 17 pentagrammi della partitura sono occupati simultaneamente), si innesca un fugato sul medesimo testo, ricondotto spesso a gloriosa omofonia e interrotto da ritornelli strumentali; il basso fìnge l’esposizione di un ulteriore fugato, mentre il tema principale viene impiegato per il movimento analogo dell’ascensione. Un ritornello strumentale conclude il coro, come avverrà per l’Osanna. Neanche in questo caso siamo lontani dalla luminosità di un Tiepolo (la cui Ascensione di Richmond è probabilmente del 1750).
Tanto clamore si stempera nella comoda cantabilità dell’aria Et in Spiritum sanctum, in cui la voce di basso (la voce tradizionale di Gesù, per esempio nelle Passioni, parla qui attraverso lo Spirito santo?) è accompagnata dal timbro caldo e pastoso di una coppia di oboi d’amore, che procedono per terze nel ritmo cullante di 6/8. Alla sezione principale di quest’aria tripartita (probabilmente derivante da un ignoto modello), in la maggiore, succede il contrastante «Qui cum Patre et Filio», in tonalità minore, prima della Ripresa, sul testo «Et unam sanctam catholicam».
Il Confiteor è invece un esempio illustre dell’ultimo stile vocale di Bach, unico pezzo composto direttamente sul manoscritto: pezzo originale dunque, e non parodia da un modello, visto anche l’impiego della melodia gregoriana del Credo (ben avvertibile alla voce di tenore). La polifonia a cinque voci, in stylus antiquus «a cappella», si stende tranquilla sul passo stabilito dal basso continuo, dissimulando la somma complessità del tessuto contrappuntistico, finché due misure di Adagio, armonicamente espressive, non introducono il testo «Et expecto resurrectionem mortuorum».
Anticipato dalla sezione successiva, irretito nella dolente trama polifonica, il medesimo testo esplode nella sezione successiva (Et expecto), introdotta senza soluzione di continuità. L’ultima parola di questo straordinario Symbolum Nicenum è un coro di magnifico fulgore sonoro, rigore e compattezza tematica, esempio magistrale di adattamento della sezione principale del coro «Jauchzet, ihr erfreuten Stimmen» (Esultate, voci di gioia) dalla Cantata BWV 120, scritta, probabilmente vent’anni prima, per l’inaugurazione del Consiglio municipale di Lipsia (medesima occasione della fonte dell’altrettanto festivo Gratias agimus tibi), ma forse già nata per altro scopo. La cellula ritmica in levare che

l’orchestra propone (memore del Secondo concerto brandeburghese, opera ancora precedente, presentata nel 1721) lega l’attesa della resurrezione del credente a quella di Cristo, espressa in tono non dissimile nell’Et resurrexit. La pittura sonora a «Resurrectionem» (tema ascendente) riprende l’immagine dell’ascesa al cielo delle voci di gioia nel testo Cantata BWV 120.
Capitolo a sé stante è il Sanctus, di cui si è detta la genesi (spia della sua origine luterana è la conclusione del testo con l’aggettivo «ejus» in sostituzione del cattolico «tua»). Bach ha rinnovato l’organico vocale: non più tre soprani e un contralto, bensì due coppie paritetiche di soprani e contralti mantengono comunque l’eccezionale coro a sei parti, accompagnato da un’orchestra adeguata (è l’unico luogo della Messa che impiega tre oboi). Chiaro il progetto architettonico, corrispondente alla forma dell’ouverture alla francese: una sezione lenta, che maestosamente distende la pervasiva figura di terzina, è seguita da un fugato che intona la seconda parte del testo.
L’ultimo fascicolo del capolavoro si apre con la rivisitazione di un magnifico coro profano risalente al tempo della Missa: l’Osanna in excelsis deriva infatti dalla Cantata BWV 215 (1734), scritta in onore del dedicatario della stessa Missa, Federico Augusto II di Sassonia, nell’anniversario della sua elezione a re di Polonia, o forse addirittura da una precedente cantata perduta, la BWV Anh. 11 (1732), scritta in onore del re suo padre, Federico Augusto I. La lode del sovrano terreno viene adattata per analogia al Re dei Cieli. Reciso il ritornello strumentale introduttivo, attacca il motto del doppio coro, cui risponde clamorosa l’orchestra. Una volta innescato, il movimento contrappuntistico si arresta solo per il ritornello conclusivo.
Il fascino quieto di un’aria per tenore materializza la tradìzionale dolcezza del Benedictus. La voce è accompagnata dal controcanto di uno strumento obbligato: l’autografo non precisa quale, ma è molto probabile che Bach intendesse un flauto, che, propone con calma, nel comodo metro di 3/4, la sua articolata, elaborata linea melodica. Segue, secondo convenzione, la ripresa dell’Osanna in excelsis.
Il numero conclusivo dell’Ordinarium viene suddiviso da Bach in due sezioni rigorosamente separate: un’aria per contralto (Agnus Dei) e un coro che attacca in corrispondenza dell’ultimo versetto del testo, «Dona nobis pacem». Benché non si tratti di una consuetudine, Antonio Caldara non si era comportato molto differentemente nella sua Missa Laetare (1729), in cui proprio al «Dona nobis pacem» attaccava un fugato corale conclusivo in tempo Allegro. L’intensa perorazione del contralto, che procede senza fretta, appoggiandosi a lungo sulle parole-chiave del testo («Dei», «tollis», «peccata», «mundi»), viene contrastata dal nastro sonoro di violini primi e secondi all’unisono (già impiegato nel Christe Eleison): sul passo costante del basso continuo gli «affetti» dolenti espressi dalla voce reagiscono di volta in volta a questa suggestiva lumeggiatura di colore degli archi. L’aria deriva probabilmente dalla perduta cantata nuziale Auf! süss entzückende Gewalt (1725), che Bach riutilizzò nell’Oratorio per l’Ascensione BWV 11 (1735). La Messa in si minore si chiude con una sorpresa, a suprema conferma di quel trionfo della parodia celebrato per due ore intere.
Il Dona nobis pacem consiste infatti nella ripresa di un pezzo preesistente, già impiegato nella Missa del 1733 che questa sezione viene a completare: il Gratias agimus tibi, la cui vicenda compositiva è stata esposta precedentemente. L’organico «grande» viene prevedibilmente mobilitato per concludere il capolavoro con un fugato mottettistico il cui protagonista indiscusso è il coro (che si è aggiudicato 17 sui 26 numeri complessivi della Messa, senza contare la replica dell’Osanna), coadiuvato nella sfolgorante sezione conclusiva dal clamore di trombe e timpani. Celebrazione della Gloria celeste che richiama irresistibilmente i trionfi dorati di tanti altari maggiori delle chiese tardobarocche dall’Italia all’Austria, alla Baviera, e naturalmente gli stucchi e i marmi della Cappella di corte di Dresda, la chiesa che proprio il dedicatario della Missa bachiana, Federico Augusto II, andava erigendo nel decennio in cui Bach avrebbe completato il suo capolavoro.