Ludwig Van Beethoven
Concerti per pianoforte e orchestra
Così è come i Concerti di Beethoven andrebbero suonati: con maestosità e grandezza. Dopo aver comprato questa registrazione di Pollini, trovo che le altre siano mancanti di entrambe le caratteristiche sotto elencate. Se intendete acquistare queste cinque splendide partiture consiglio altamente questa edizione. Non credo che la registrazione live incida in negativo, forse uno o due colpi di tosse dal pubblico, ma è prevedibile. L’interpretazione di Pollini è così bella che questo piccolo inconveniente è trascurabile. Maurizio Pollini padroneggia Beethoven, Ho ascoltato altre interpretazioni, e, secondo la mia opinione, questa di Pollini è la più convincente. I Berliner Philharmoniker svolgono un ottimo lavoro di accompagnamento sotto la prestigiosa bacchetta di Claudio Abbado. Registrazione effettuata nel 1994. Audio ottimo. Non perdetevela!
I cinque concerti per pianoforte (parte prima) – di Paolo Petazzi
Secondo il celebre augurio del conte Waldstein, il giovane Beethoven a Vienna avrebbe dovuto ricevere lo spirito di Mozart dalle mani di Haydn. Sarebbe semplicistico riassumere in questa indicazione la complessità della posizione stilistica di Beethoven, attento a tutto ciò che si profilò nella musica europea della fine del secolo: nel caso del concerto per pianoforte e orchestra la scelta dell’irripetibile perfezione del modello mozartiano come punto di riferimento essenziale non esclude l’accoglimento di altri stimoli da Clementi e dalla nuova generazione di virtuosi. Quando Beethoven si affacciò sulla scena musicale non era più “attuale” la suprema perfezione raggiunta da Mozart nell’equilibrio dei rapporti tra solista e orchestra, nella loro integrazione, e nella conciliazione delle diverse istanze implicite nel genere del concerto pianistico (quelle della ricchezza del pensiero musicale e quelle degli aspetti più “spettacolari”). Le strade più frequentemente battute erano legate allo sviluppo del virtuosismo pianistico (ne aveva già tenuto conto Beethoven giovanissimo nel suo Concerto in mi bemolle del 1784, che lasciò inedito e di cui ci è pervenuta la parte pianistica); ma accogliendo gli stimoli che gli vennero da Clementi e dal nuovo virtuosismo, Beethoven non rinunciò alla lezione di Mozart e Haydn, alla scelta dell’eredità “viennese” come orientamento di fondo.
Come era accaduto a Vienna per Mozart, anche per Beethoven, che si impose nella capitale asburgica nelle vesti di pianista-compositore, il concerto era un tramite irrinunciabile nel rapporto con il pubblico, una presenza necessaria nei programmi delle “accademie”: era inoltre destinato all’autore stesso, che spesso ne difendeva l’esclusiva evitandone o ritardandone la pubblicazione. L’edizione a stampa dei primi due Concerti beethoveniani fu posteriore di qualche anno al loro compimento ed ebbe luogo quando ormai era stata iniziata la composizione del Terzo e del Quarto Concerto: la rinuncia a scriverne altri (per i quali esistono schizzi) dopo il Quinto va probabilmente ricollegata anche alla fine dell’attività pubblica di pianista a causa dell’aggravarsi della sordità. Il volgersi stesso del pensiero beethoveniano verso mete sempre più interiorizzate e ardue vette speculative può aver contribuito a ridurre il suo interesse per la implicita dimensione “teatrale” del genere – concerto, una dimensione che nel Quinto aveva trovato un coronamento dal respiro epico grandioso, a conclusione di una ricerca che aveva portato ad esiti ciascuno nettamente individuato, anche se non privi fra loro di affinità, ad esempio per quanto riguarda la funzione e il carattere del Rondò conclusivo, che, pur in contesti diversissimi, si colloca sempre sotto il segno di una affermativa vitalità.
Concerto n. 2 in si bemolle maggiore
Sulla incerta cronologia e sulle prime esecuzioni del Concerto in si bemolle maggiore op. 19, il primo che Beethoven compose dopo quello del 1784 (lasciato inedito), le ricerche più recenti hanno portato alla seguente ricostruzione: il lavoro fu concepito a Bonn (non oltre il 1790, in una forma diversa da quella che conosciamo), conobbe una prima revisione nel 1793, poco
dopo che Beethoven si era stabilito a Vienna, e in questa forma fu probabilmente suonato in concerti privati. Fu sottoposto poi a ulteriori revisioni nel 1794-95 e nel 1798. Nel 1795 (un anno dopo il successo della pubblicazione dei Trii op. 1) Beethoven fece la sua prima apparizione pubblica come pianista a Vienna: da una breve notizia della Wiener Zeitung apprendiamo che il 29 marzo allo Hofburgtheater, tra la prima e la seconda parte dell’Oratorio Gioas, re di Giuda di Casimir Antonio Cortellieri “il celebre signor Ludwig van Beethoven ha ottenuto l’unanime plauso del pubblico con un nuovo concerto da lui stesso composto”.
Dirigeva l’orchestra Salieri. Due giorni dopo, il 31 marzo 1795, Beethoven suonò il Concerto in re m K. 466 di Mozart, e nel dicembre dello stesso anno presentò un proprio concerto sotto la direzione di Haydn, nella serata in cui questi, di ritorno da Londra, fece conoscere ai viennesi tre delle sue ultime Sinfonie.
I nomi di Haydn e Mozart sembrano dunque intrecciarsi a formare una significativa costellazione di punti di riferimento nell’anno in cui Beethoven presentò in pubblico i suoi primi Concerti. Quali Concerti suonò Beethoven nel marzo e nel dicembre 1795? Fino a qualche tempo fa si pensava che in entrambi i casi si trattasse del Concerto in si bemolle M: oggi sembra prevalere l’ipotesi che Beethoven avesse presentato il 29 marzo la prima stesura (diversa da quella pubblica) del Concerto in do M, anche perché si ritiene che nel 1795 a Vienna il Concerto precedente non potesse più essere considerato “nuovo”; nel dicembre 1795, invece, potrebbe aver suonato la nuova versione del Concerto in si bemolle M. Nel 1798 lo presentò a Praga (dove nello stesso anno suonò anche il Concerto in do M) e probabilmente compì allora una nuova revisione della partitura.
Ne diede alle stampe la versione definitiva come op. 19 soltanto nel dicembre 1801: il Concerto fu così il secondo in ordine di pubblicazione, perché quello in do M, cronologicamente posteriore e stilisticamente più maturo, era uscito all’inizio del 1801 da Mollo come op. 15. Il Concerto op. 19 fu stampato a Lipsia da Hoffmeister e dedicato a Carl Nicklas von Nickelsberg, consigliere aulico della corte imperiale, un nobile di cui non sappiamo quasi nulla. Offrendo il lavoro a Hoffmeister, insieme con altre composizioni, nel gennaio 1801, Beethoven chiese all’editore 10 ducati (contro i 20 richiesti per ognuno degli altri pezzi, che erano il Settimino, la Prima Sinfonia e la Sonata op. 22), precisando: “Il Concerto lo valuto soltanto 10 ducati perché…… non lo considero uno dei miei migliori”. Analogo giudizio Beethoven volle ribadire scrivendo il 22 aprile 1801 a Breitkopf & Hartel, come informazione che egli riteneva essenziale in vista di un eventuale recensione sulla Allgemeine Musikalische Zeitung.
All’epoca di questa sbrigativa valutazione Beethoven aveva però già iniziato il
Concerto in do m e aveva portato a termine alcune delle maggiori Sonate pianistiche: si può comprendere che prendesse le distanze dalle esperienze concertistiche precedenti.
Alcuni aspetti del Concerto in si b. M sembrano voler rendere esplicita la scelta di fondo di ricollegarsi alla suprema lezione del concerto pianistico mozartiano: non è forse essenziale che la tonalità e l’organico (senza clarinetti e senza trombe e timpani) siano gli stessi del Concerto K. 595 mozartiano, ma l’impostazione, le proporzioni complessive, il tipo di rapporto tra solista e orchestra, diversi particolari formali rimandano ai più maturi Concerti di Mozart.
Claudio Abbado
Il riferimento all’eredità mozartiana è evidente, ma vale come punto di partenza, come omaggio reso nella piena consapevolezza di affermare un linguaggio e una personalità autonomi, soprattutto nel secondo movimento. Qualcosa di simile si può dire per quanto riguarda i debiti con il linguaggio più avanzato di Haydn, riconoscibili nel primo e nel terzo movimento. Il luminoso “Allegro con brio” si pone sotto il segno di una profusione di idee, di un fresco slancio inventivo, di cui Beethoven sa piegare l’urgenza entro una struttura chiara e compatta capace di valorizzare magistralmente le potenzialità degli elementi che formano i principali gruppi tematici. Il primo ne propone subito quattro, di diverso carattere espressivo, e domina l’intera esposizione orchestrale. Un segno di personale ricerca si può riconoscere anche in certe modulazioni: ad esempio là dove si ha la prima netta articolazione formale (battuta 40) si modula inaspettatamente in re bemolle maggiore con un’idea non nuova, ma tratta dal secondo motivo del primo tema: segue un gioco chiaroscurale tra re bemolle maggiore e si bemolle minore.
L’entrata del solista avviene, come in alcuni dei più maturi concerti mozartiani, con un’idea apparentemente nuova, dal carattere quasi di libera invenzione, che si pone però in rapporto con il primo tema. Una chiara suggestione mozartiana si riconosce poi nel profilo ritmico del secondo tema e nella calibrata integrazione sinfonica tra solista e orchestra. Possediamo una cadenza che Beethoven stesso scrisse intorno al 1809: in questa pagina serrata e compatta la riflessione sul materiale tematico del primo tempo è compiuta alla luce della avanzata maturità beethoveniana e appare quindi in una prospettiva vigorosamente proiettata verso il futuro. Non si può fare riferimento a modelli mozartiani né haydniani per l'”Adagio”, che con l’intensa nobiltà del suo respiro lirico appartiene alle grandi pagine del giovane Beethoven.
Questa pacata meditazione, di profonda concentrazione espressiva, si presenta articolata in due parti, la seconda delle quali è una ripetizione variata, arricchita da una più fiorita ornamentazione pianistica. Particolare attenzione merita, verso la fine, quella sorta di breve recitativo che il solista propone “con gran espressione” in dialogo con gli archi, prima delle ultime battute orchestrali.
È possibile che per il “Rondò” Beethoven avesse pensato in un primo momento ad una soluzione diversa da quella che conosciamo, se è vera l’ipotesi, non documentabile con certezza, che fosse originariamente destinato a questo Concerto il Rondò in si bemolle M, WoO 6, pubblicato postumo da Diabelli nel 1829 con alcuni rimaneggiamenti di Czerny nella parte pianistica, e poi a cura di W. Hess nel 1960 nella forma originale. La sostituzione, se ci fu, eliminò una pagina piacevole e ben costruita, ma dall’impronta indubbiamente meno personale rispetto al “Rondò” dell’op. 19: il piglio brillante e il robusto umorismo, pur rivelandosi debitori di Haydn, hanno infatti in quest’ultimo un sapore già chiaramente beethoveniano, e vi si può riconoscere in nuce la definizione del tipo di finale che Beethoven predilesse anche negli altri suoi Concerti.
Alcuni dei frammenti che possediamo della prima redazione del Concerto op. 19 (quelli della raccolta Kafka alla British Library) svelano che il tema iniziale del “Rondò” non ebbe originariamente quella bizzarra caratterizzazione ritmica che gli dà subito un gustoso sapore umoristico: gli accenti cadevano, in modo più ortodosso, sulla seconda e quarta nota (come accade in un solo momento della versione definitiva, all’inizio della coda alle battute 261 – 263).
Il secondo tema, cui il regolare profilo ritmico in 6/8 conferisce un sapore
vagamente pastorale, sembra quasi presagire dolcezze schubertiane e contrasta con la mordente caratterizzazione ritmica del ritornello, alla quale vanno ricondotti i vigorosi disegni sincopati della sezione centrale di questo “Rondò”, che ne costituisce l’estroso viluppo (il pezzo è articolato secondo lo schema del rondò-sonata con un’estesa coda). La coda fornisce una conclusione luminosa del tutto adeguata al piglio brillante e umoristico di questo finale.
Concerto n. 1 in do maggiore
Composto a Vienna, il Concerto in do M fu il primo pubblicato da Beethoven, ma seguì a distanza di qualche anno il Concerto in si bemolle M: secondo l’ipotesi oggi prevalente fu composto in una stesura diversa da quella definitiva nel 1794-95 (in precedenza lo si datava 1795-96) e fu suonato da Beethoven nella sua prima apparizione pubblica a Vienna il 29 marzo 1795. Franz Wegeler, in una testimonianza pubblicata nel 1838, afferma che il rondò fu finito solo due giorni prima del giorno fissato per l’esecuzione. Si ritiene che il Concerto sia stato sottoposto a revisione in diverse occasioni, probabilmente anche in vista di una esecuzione a Praga nel 1798 e ancora una volta quando Beethoven lo presentò a Vienna in 2 aprile 1800. Il programma di quella “accademia” comprendeva anche il Settimino op. 20, la Prima Sinfonia, entrambi in prima esecuzione, una Sinfonia di Mozart e arie dalla Creazione di Haydn. I nomi di Haydn e Mozart si trovano ancora una volta significativamente affiancati a quello di Beethoven. L'”accademia” si risolse in un grande successo e la Allgemeine Musikalische Zeitung ne parlò come di un avvenimento di grande rilievo, offuscato solo da una modesta prova dell’orchestra.
Il Concerto in do M fu poi pubblicato a Vienna da Mollo all’inizio del 1801 come op. 15, con dedica alla principessa Odescalchi nata von Keglevics, che di Beethoven era stata allieva. Anche sul Concerto in do M Beethoven espresse un giudizio limitativo nel 1801: nella già ricordata lettera a Breitkopf & Hartel del 22 aprile 1801, annunciando la pubblicazione dei Concerti presso Hoffmeister e Mollo, sottolinea che quello in do M era posteriore all’altro, e che tuttavia neppure questo andava considerato una delle sue migliori composizioni del genere. I “concerti migliori” l’autore doveva tenerseli per qualche tempo in serbo per sé: questa allusione del Terzo Concerto, composto probabilmente tra il 1800 e il 1803, spiega il giudizio un poco sbrigativo sul Concerto in do M, in cui l’originalità di Beethoven si afferma con maturità stilistica, freschezza inventiva e sicurezza ancora più evidenti rispetto al Concerto in si b., almeno per quanto riguarda il primo e il terzo tempo. Il Concerto in do M ha del resto un carattere diverso, come rivela subito l’organico più ampio, con trombe e timpani, e il piglio più marcatamente brillante ed estroverso: soprattutto nel primo tempo il pezzo può essere ricondotto al genere in voga del concerto “militare” (e ciò spiega qualche presagio del Concerto n. 5).
Nell'” Allegro con brio” colpiscono subito l’ascoltatore una irruenza ed un vigore che riescono a imporsi con sicura evidenza, anche se il materiale tematico, astrattamente considerato al di la di ciò che Beethoven sa trarne, può apparire non particolarmente personale. Nell’esposizione orchestrale, dopo il risoluto primo tema, si nota una modulazione sorprendente (come era accaduto anche nel Concerto in si b. M): l’enunciazione del secondo tema (parziale, perché sarà poi il solista a riproporlo compiutamente), di carattere cantabile, in netto contrasto con il precedente, avviene in mi bemolle maggiore. Da mi bemolle si passa, con un iridescente giro modulante, in fa minore, fa maggiore, sol minore e maggiore per riportarci a do maggiore: vengono sapientemente combinati elementi dei due tempi principali e prima che l’esposizione si concluda appare un nuovo tema dal piglio marziale. L’entrata del solista segue un modello mozartiano, come era accaduto nel Concerto precedente: il pianoforte sembra divagare liberamente con una nuova idea (pur stabilendo un rapporto con quanto si è udito).
Maurizio Pollini
A grandi linee è ancora mozartiano anche il calibrato rapporto tra solista e orchestra; ma l’evidenza dei contrasti, la dilatazione formale, che sembra nascere direttamente dall’urgenza dello slancio inventivo, e l’energia di cui si carica la scrittura virtuosistica del solista appartengono chiaramente ad un altro mondo. Non per caso si incontrano passi che anticipano il Quinto Concerto: ad esempio, verso la fine dell’esposizione (da battuta 199) l’episodio che combina accordi staccati alla mano destra e incisive terzine staccate alla sinistra; ma anche qualche pagina dello sviluppo, che concede spazio ad accenti di velata, sospesa dolcezza consentendo poi di conferire una singolare efficacia alla luminosa ricomparsa del primo tema nella ripresa.
Va notata anche l’originalità del carattere quasi improvvisatorio dello sviluppo. Per questo primo tempo conosciamo quattro cadenze di Beethoven, delle quali la prima, frammentaria, dovrebbe risalire al 1798, mentre le altre furono scritte probabilmente nel 1808-09 (fra queste se ne nota una eccezionalmente ampia ed elaborata, che si ascolta nella presente registrazione).
Dopo la brillante e vigorosa estroversione del primo tempo il “Largo” segna il momento del lirico intimismo, in un clima raccolto, a tratti quasi cameristico, dominato dalla nobile dolcezza della linea melodica, che è oggetto di ornamentazione da parte del solista. Merita attenzione il particolare colore di questa pagina, dove i fiati sono ridotti alle coppie di clarinetti, fagotti e corni e dove il primo clarinetto emerge più volte in primo piano.
Lo schema formale è quello consueto con una prima parte e una ripetizione variata, collegata alla sezione precedente da un episodio centrale di poche battute e seguita da una estesa coda, in cui culminano forse gli aspetti che fanno presagire nel “Largo” un’incantata apertura verso le regioni del Romanticismo. Nella scatenata vitalità del “Rondò Allegro scherzando” l’umorismo beethoveniano si manifesta con un vigore concitato, con una fantasia ed uno slancio dagli accenti scintillanti e irresistibili, con un’irruenza quasi sfacciata. Come nel finale del Concerto in si b. M il tema principale è segnato da una pungente caratterizzazione ritmica, ed è denso di potenzialità di sviluppo che Beethoven sfrutta pienamente, insistendo molto anche sui contrasti tra il profilo ritmico del ritornello e quello delle idee che man mano gli vengono accostate. In una struttura perfettamente calibrata e compatta (costruita secondo il consueto schema del rondò-sonata) si succedono con foga inesauribili trovate: citiamo lo slancio di sapore quasi zingaresco del secondo intermezzo o l’effetto di alcune modulazioni inattese.
Mi sono avvicinato per la prima volta ai Concerti per pianoforte di Beethoven con questa collezione, la quale rappresenta anche la mia prima esperienza con la Fantasia Corale, tutto su vinile circa 50 anni fa. La perfezione di queste esibizioni non sconfina mai in pesantezza o in staticità . Il suono è sempre vivido e affascinante soprattutto nel terzo e quinto Concerto. Daniel Barenboim è un ottimo pianista e questa incisione lo conferma ulteriormente. La Fantasia per pianoforte, coro e orchestra è un pezzo di cui mi sono innamorato fin dal primo istante. Questa partitura non è considerata come uno dei massimi capolavori di Beethoven, ma è interessante poiché ha fatto da laboratorio di prova per il quarto movimento della futura nona Sinfonia. In questa breve composizione (venti minuti circa) vi è una partecipazione del coro a dir poco squisita. Il canto sembra preannunciare il famoso “Inno alla gioia” su versi composti da Friedrich Schiller. Dinamica la conduzione di Otto Kemperer alla guida della New Philharmonia Orchestra. Un personale ringraziamento al John Alldis Choir per la stupendo finale di questa composizione. Audio più che buono anche se datato 1968 e rimasterizzato nel 1990. Altamente raccomandato.
I cinque concerti per pianoforte (parte seconda) – di Paolo Petazzi
Concerto n. 3 in do minore
Si riconosce concordemente all’op. 37 una posizione centrale nella storia del
concerto beethoveniano: è la composizione in cui si afferma, per la prima volta con tanta chiarezza e originalità, una nuova concezione del concerto per pianoforte e orchestra, non ancora con la compiutezza dei due capolavori successivi, ma in termini senza dubbio più netti ed espliciti rispetto a quanto di “mozartiano” ancora si riconosceva nell’op. 15 e nell’op. 19. Nella famosa lettera a Breitkopf & Hartel, datata 22 aprile 1801, Beethoven sembra confermare una simile valutazione, perché, dopo aver accennato ai primi due Concerti, come già visto, in termini ingiustamente sbrigativi e severi, aggiunge: “La politica musicale esige che per un certo tempo l’autore tenga in serbo i suoi concerti migliori”, frase in cui si deve molto probabilmente leggere un’allusione all’op. 37. Il manoscritto rivela che la composizione fu compiuta in diverse fasi, verosimilmente tra il 1800 e il 1803, anche se qualche schizzo potrebbe essere datato tra il 1796 e il 1798. La parte del solista non era stata scritta per esteso neppure al momento della prima esecuzione, che ebbe luogo a Vienna al Theater an der Wien il 5 aprile 1803 (nel corso di una “accademia” in cui furono presentati anche l’Oratorio Christus an Olberge e le prime due Sinfonie): Ignaz von Seyfried, cui Beethoven in quell’occasione chiese di voltargli le pagine, raccontò di aver avuto problemi, perché si trovò di fronte degli appunti. Il Concerto in do m fu pubblicato a Vienna nel 1804 con dedica al principe Luigi Ferdinando di Prussia (cui Beethoven durante il soggiorno a Berlino del 1796 avrebbe detto che suonava come un vero pianista, e non come un principe o un re).
Fin dalle prime battute il Concerto op. 37 si impone come un lavoro più complesso e problematico rispetto ai Concerti precedenti, dai quali lo separano, fra l’altro, esperienze come quella della composizione della Sonata in do m “Patetica” e della Sinfonia n. 1. I confini e le tensioni che caratterizzano il Beethoven titanico-eroico del “secondo stile” si pongono qui con una evidenza sconosciuta ai suoi primi lavori con orchestra. È ormai affermato con chiarezza il definirsi di un nuovo respiro sinfonico e, parallelamente, della vigorosa personalità del pianoforte: solista e orchestra si profilano con una energia che conferisce al loro rapporto una dimensione nuova, accrescendo, nell’ambito della specifica forma del concerto, l’intensità del conflitto definito dalla concezione beethoveniana della forma-sonata.
La nuova dimensione del rapporto solista-orchestra è uno degli aspetti che più immediatamente rivelano le distanze tra l’op. 37 e alcuni dei più maturi capolavori di Mozart, ivi compreso quel Concerto K. 491 che, (come il K. 466) a Beethoven era particolarmente caro e che ha in comune con l’op. 37 la tonalità di do minore. Si può osservare che per ciò che riguarda le proporzioni architettoniche complessive, il Terzo Concerto di Beethoven non è altrettanto lontano dai più maturi precedenti mozartiani, rispetto ai quali, ad esempio, il primo tempo risulta di poco dilatato, e con uno sviluppo relativamente breve.
Ma la natura dei contenuti musicali è profondamente diversa. L'”Allegro con brio” inizia subito con il primo tema, attaccato piano dall’orchestra, cosicché si carica di un senso fortissimo di attesa, di un’austera, concentrata energia: ognuna delle componenti essenziali di questo tema (l’arpeggio, la scala discendente, e soprattutto la figura ritmica conclusiva) avrà una precisa funzione nello svolgimento del pezzo.
Otto Klemperer
Grande rilievo ha anche la ricca fioritura tematica che immediatamente segue la prima idea. Il contrasto con il secondo tema è di un’evidenza addirittura programmatica, data la fluida scioltezza cantabile che lo caratterizza. In tutto l'”Allegro con brio” risulta esplicita la ricerca di forti chiaroscuri, perseguita anche attraverso un’accorta disposizione degli episodi in tonalità maggiore e minore. Dopo un ritorno del primo tema e dopo l’apparizione di una nuova idea, che conclude la prima esposizione dell’orchestra, si ha l’ingresso del solista, il quale si presenta subito con vigorosa autorevolezza, mediante quelle scale ascendenti di do minore che definiscono immediatamente, con l’incisiva evidenza di un fatto elementare, la presenza di un nuovo protagonista. La sua personalità è affermata con tanta energia, nel serrato dialogare con l’orchestra, che Beethoven non ha bisogno di affidare al pianoforte un “suo” tema (come
accadeva spesso negli ultimi decenni del Settecento), preferendo concentrarsi sul copioso materiale dell’esposizione orchestrale.
Va richiamata l’attenzione sulla cadenza (viene qui eseguita quella dovuta allo stesso Beethoven): non sappiamo se debba essere fatta risalire al 1809, come tante altre cadenze beethoveniane, o ad un’epoca più vicina alla composizione dell’op. 37. In ogni caso essa rivela una stringatezza essenziale, una logica serrata, che si attiene rigorosamente al materiale tematico fondamentale e si inserisce nella struttura del primo movimento con una funzione e una necessità nuove: segna anche un magistrale collegamento con l’episodio conclusivo, dove va sottolineata la mirabile intuizione timbrica di quelle poche battute in pianissimo, dove il pianoforte dialoga con il timpano sullo sfondo di immobili accordi degli archi.
Nel “Largo” è stato con ragione riconosciuto uno dei più affascinanti tempi lenti del Beethoven del “secondo stile”. È una visione lirica nobilissima, un momento di incantata contemplazione. La distanza tra la cupa tensione drammatica del primo tempo e la dimensione di lirica trasfigurazione del secondo è sottolineata dalla singolarità stessa del loro rapporto tonale, perché è inconsueto un “Largo” in mi maggiore dopo il do minore dell'”Allegro con brio”, essendo le due tonalità “lontane”.
Anche questo fatto contribuisce a collocare il “Largo”, fin dall’arcana suggestione della prima frase del solista, in una regione sospesa lontana da quella del brano precedente. Lo schema formale del “Largo” è assai semplice, tripartito (A-B-A’), con una breve sezione centrale in cui gli alpeggi del pianoforte “accompagnano” un dialogo tra fagotto e flauto.
Al do minore ci riporta il “Rondò”, con uno scatto di prepotente vitalità del solista: questa brillante pagina non ripropone l’impiego drammatico del primo movimento, ma non è priva di zone chiaroscurate, di momenti di impetuosa tensione cui fanno seguito cordiali schiarite, indugi cantabili, fino alla luminosa, gioiosa affermazione della coda conclusiva, un “Presto” in 6/8. L’idea principale presenta una forma assai più efficace e incisiva di quella che ci rivelano alcuni schizzi; va notato che essa dà vita, circa a metà del “Rondò”, ad un breve e severo sviluppo fugato, collocato subito dopo la fluida cantabilità di un affascinante episodio secondario (C). Chiamando A il tema principale e B il secondo episodio si ha: A-B-A/C – sviluppo di A/A-B-A – coda. Lo schema formale complessivo del “Rondò” accoglie così la disposizione tripartita della forma-sonata.
Concerto n. 4 in sol maggiore
Il concerto in sol M, composto nel 1805-6 (nel periodo in cui Beethoven lavorò fra l’altro anche alla Quinta Sinfonia, al compimento della prima versione del Fidelio, al Concerto per violino) fu eseguito dall’autore nel marzo 1807 nel
palazzo del principe Lobkowitz e in pubblico al Theater an der Wien il 22 dicembre 1808, nella celebre “accademia” che vide anche le prime esecuzioni della Quinta e Sesta Sinfonia e della Fantasia per pianoforte, coro e orchestra. Il Concerto fu pubblicato a Vienna nell’agosto 1808 con la dedica all’Arciduca Rodolfo. Un appunto per il finale divenne l’idea strumentale all’inizio del coro dei prigionieri nel primo atto del Fidelio, e la contiguità degli schizzi mostra che le idee iniziali del Concerto e della Quinta Sinfonia presero forma parallelamente, approdando però a situazioni espressive radicalmente diverse: il celebre inizio della Quinta è ritmicamente affine all’idea con cui il pianoforte avvia, in un clima di indefinibile intensità poetica, il Quarto Concerto.
La suggestione irripetibile di questo attacco introduce al peculiare carattere del Concerto op. 58, che nel maggio 1809 il recensore della Allgemeine Musikalische Zeitung di Lipsia giudicò “il più ammirevole, il più singolare, il più artistico e difficile di tutti quelli che Beethoven ha scritto, meno favorevole tuttavia per il solista rispetto, ad esempio, al Concerto in do m (op. 37, il n. 3). Il primo tempo in particolare ha bisogno di essere ascoltato più volte, prima che si possa seguirlo completamente, farlo proprio e così gustarlo veramente bene……”. Queste osservazioni rimandano a due aspetti essenziali della peculiarità del Concerto in sol M, davvero il più singolare, “das eigentumlichste” tra quelli beethoveniani per pianoforte: la continuità del respiro lirico del primo tempo e la natura stessa del rapporto solista-orchestra. In modo singolare il solista si integra nello svolgimento sinfonico del primo tempo: non stabilisce con l’orchestra un rapporto dialettico, ma una sorta di affettuoso colloquio, spesso intessendole intorno quasi una trama ornamentale (con una frequente valorizzazione del registro acuto, prefigurando forse in qualche misura l’aereo lievitare di disegni ornamentali nei capolavori pianistici del tardo stile), come se, parallelamente all’elaborazione sinfonica, con essa intrecciata, il pianista proponesse una libera fantasia, dove le difficoltà virtuosistiche sono poeticamente trasfigurate.
Nella continuità poetica del primo tempo va sottolineata la varietà, l’ampiezza della gamma espressiva all’interno di una sostanziale unità di tono. Il pezzo si svolge senza nette cesure, pur lasciando trasparire l’articolazione formale consueta.
Così la tradizionale distinzione tra esposizione dell’orchestra ed esposizione del solista è ancora riconoscibile; ma le due sezioni appaiono saldate insieme in una flessibile continuità. È il pianista che inizia, definendo subito un colore e un clima espressivo: una situazione non confrontabile con quella del Concerto in mi b. M. K. 271 del 1777 di Mozart, in cui pure il pianoforte entra subito in scena, ma rispondendo all’orchestra in un dialogo a botta e risposta.
In Beethoven le cinque battute iniziali del solista (che poi tace) e la risposta in pianissimo degli archi dell’orchestra (non più sulla tonica, ma sull’accordo di si
maggiore) schiudono un arcano mondo poetico, in un clima di sospesa dolcezza, di attesa e di meditativo lirismo. Nell'”Allegro moderato” il primo tema è il principale protagonista, e le altre idee che gli fioriscono intorno sono legate da affinità. Il secondo tema (presentato dall’orchestra seguendo un percorso tonale inatteso) si caratterizza per un ritmo quasi di marcia, sommesso, come un’eco lontana che non incrina la meditativa dolcezza del pezzo.
Dal ritorno del primo tema fiorisce una nuova idea; poi rientra in scena il solista, con figure cadenzali sul primo tema. Nell’elaborazione che segue troviamo un esempio del fiorire di figurazioni ornamentali nella parte pianistica mentre l’orchestra svolge il lavoro tematico con imitazioni sulla testa del tema.
Daniel Barenboim
E senza cesure il pianista passa dalle figure ornamentali a un’intensa idea cantabile, che si libra aerea alla mano destra nel registro acuto (batt. 105), accompagnata dalla sinistra nel registro grave, mentre gli archi dell’orchestra si inseriscono nello spazio intermedio. Poco oltre gli archi presentano una nuova idea, in re maggiore, sempre evitando cesure nette (la accomuna ad altri temi il ritmo puntato). Lo sviluppo, basato sul primo tema, è aperto dal solista in fa maggiore e raggiunge la tonalità lontana di do diesis minore: questa sezione propone un crescendo di intensità fino a un culmine di tensione drammatica subito seguito da un frammento di sospesa, spoglia desolazione, in pianissimo (batt. 231) e da un graduale trapasso verso la ripresa.
Momenti come questi, con la rapidità dei mutamenti espressivi, gettano quasi un ponte verso i contrasti che caratterizzano il secondo movimento (qualcosa di simile si può dire anche per una delle cadenze scritte da Beethoven per il Quarto, quella che qui si ascolta e che nel manoscritto beethoveniano porta l’indicazione “cadenza senza cadere”). Nella fluida e libera continuità dell'”Allegro moderato” è naturale che la ripresa si presenti sensibilmente variata rispetto all’esposizione. Si noti ad esempio, dopo il primo tema, la sognante apertura cantabile del pianoforte nel registro acuto (alla batt. 275), in una situazione che può ricordare, senza ripeterla, quella della batt. 105. Alla dolcezza lirica, alle luci sfumate e alla peculiare varietà espressiva del primo tempo segue il contrasto più violento nella incisiva concatenazione del secondo, breve, ma di straordinaria intensità, di inaudita tragicità: assume qui la più tesa evidenza il conflitto tra quelli che Beethoven chiamò widerstrebendes Prinzip e bittendes Prinzip, (principio di opposizione e principio implorante). Al tema in mi minore teso e aggressivo, dal profilo ritmico assai netto, presentato “forte, sempre staccato” dagli archi, il pianoforte contrappone un’idea cantabile di “implorante” dolcezza: a poco a poco i suoi interventi si fanno meno sommessi, per culminare in un canto intensissimo e in una ardita cadenza tonalmente ambivalente, quasi pre-impressionistica, mentre l’inesorabile incedere del ritmo degli archi riecheggia un’ultima volta in pianissimo e si spegne. L’evidenza del contrasto tra due principi contrapposti e di tale immediatezza che di questo brano sono state proposte interpretazioni programmatiche: il celebre musicologo ottocentesco Adolf Bernhard Marx evocò, riferendosi a Gluck, l’immagine di Orfeo e delle Furie. Secondo Johann Friedrich Reichardt, che assistette alla prima del 1808, Beethoven suonando questa pagina “cantò veramente sul suo strumento con profondo sentimento malinconico”.
Senza cesure attacca in pianissimo il “Rondò. Vivace”, dalla liberatoria luminosità (appaiono trombe e timpani): inizia sorprendentemente sul quarto grado, con un accordo di do maggiore, e solo poi raggiunge la tonica sol. È basato su due temi, il primo di marcata vitalità ritmica (protagonista degli sviluppi più ampi), il secondo di serena cantabilità, presentato dal pianoforte e subito dopo dall’orchestra in una scrittura di limpida trasparenza polifonica. In questo secondo tema si è vista una lontana anticipazione dell’inno alla gioia della Nona.
I cinque Concerti beethoveviani vengono interpretati da Wilhelm Backhaus con lo stesso viraggio interpretativo adottato per le Sonate: tempi risoluti e fraseggio fluente sia negli allegri che negli adagi, timbrica nel contempo nitida e calorosa; concezione al cui interno vengono valorizzate capillarmente le più varie esigenze espressive, in un perfetto connubio di essenzialità e spirito analitico, di eleganza e di energia (per la cronaca: nei Concerti n. 1, 2 e 4 vengono eseguite le cadenze originali dell’autore; nel finale del n. 4 una breve cadenza dello stesso Backhaus; nel Terzo la cadenza di Carl Reinecke, oggi decisamente démodée ma un tempo molto utilizzata).
Il ciclo ufficiale è quello celeberrimo del 1958-59 realizzato al fianco di Hans Schmidt-Isserstedt, direttore decisamente meritevole di rivalutazione, i cui talenti beethoveniani sarebbero stati confermati nel decennio successivo da un’aristocratica integrale delle Sinfonie incisa con i mitici Wiener Philharmoniker e per la stessa etichetta. Altamente raccomandato.
I cinque concerti per pianoforte (parte terza) – di Paolo Petazzi
Concerto n. 5 in mi bemolle maggiore
Nel 1809, anno di composizione del Quinto Concerto, si conclude l’esperienza beethoveniana nell’ambito del genere per strumento solista e orchestra. In
quello stesso anno Beethoven mostra una particolare predilezione per la tonalità di mi bemolle maggiore, da lui prescelta per altre due pagine contemporanee di altissimo significato di carattere totalmente diverso: il Quartetto op. 74 e la Sonata op. 81a (nel cui ultimo movimento qualche aspetto virtuosistico della scrittura pianistica si rivela affine a quella del “Rondò” del Quinto Concerto). La tonalità di mi bemolle maggiore potrebbe semmai richiamare la Sinfonia n. 3, perché la vastità del respiro sinfonico in essa definito si impone nel Concerto op. 73 con organica compiutezza, in una poderosa costruzione che assume davvero un carattere conclusivo, per la chiarezza con cui afferma una concezione del concerto ormai lontana dai sublimi modelli mozartiani e del tutto indipendente dal gusto concertante della moda.
Wilhelm Backhaus
Non sappiamo a chi risalga l’arbitraria idea di chiamare il Quinto “Imperatore”: se l’inventore di questo titolo intendeva riferirsi a Napoleone, si pose certamente agli antipodi della posizione di Beethoven, che lo considerava ormai usurpatore e nutriva nei confronti delle truppe francesi l’ostilità di molti altri patrioti tedeschi verso l’invasore. La dedica dell’Eroica a Napoleone fu cancellata, il Quinto Concerto è dedicato all’arciduca Rodolfo. E tuttavia la fortuna dell’improprio titolo si potrebbe forse spiegare ricordando che la Sinfonia e il Concerto appartengono all’epoca in cui Hegel potè scrivere di aver visto in Napoleone “lo spirito del mondo cavalcare attraverso la storia”.
È comunque evidente che l’ispirazione dell’op. 73, anche se può aver ricevuto in qualche modo sollecitazioni dalla voga della musica “militare”, nella sua sostanza si ricollega idealmente all’Eroica, al Fidelio, alla Quinta Sinfonia, alle
istanze etico-politiche di cui si nutrono, alla loro impronta rivoluzionaria. Un altro aspetto del Quinto Concerto può rivelare un punto di contatto con la concezione prevalente in quegli anni ad opera di musicisti come Moscheles, Hummel, Kalkbrenner o Dussek: a suo modo infatti Beethoven partecipa al processo di esaltazione del virtuosismo pianistico che si delinea nei loro Concerti. Ma certi nuovi sviluppi della tecnica brillante non sono accolti da Beethoven per conferire al solista quell’assoluta preminenza che caratterizza i lavori dei suoi contemporanei: al contrario servono a potenziare e arricchire una concezione già affermata chiaramente nel Terzo Concerto, la definizione cioè di un rapporto dialettico tra il solista, individuato fin dalle prime battute con perentoria autorevolezza, e l’orchestra. La scrittura virtuosistica non contraddice l’integrazione di pianoforte e orchestra nella costruzione di un edificio sinfonico straordinariamente ampio e compatto, dove sarebbe impensabile conferire all’uno o all’altro un ruolo subordinato, dove il solista talvolta accompagna altri strumenti, dove lo stesso momento in cui si dovrebbe celebrare liberamente l’emergere della sua individualità, la cadenza, diventa, con soluzione senza precedenti, un episodio rigorosamente integrato nel primo tempo e in tutto e per tutto determinato dal compositore.
La concezione dialettica del rapporto solista-orchestra è dunque non smentita, ma rafforzata dalla qualità virtuosistica della scrittura pianistica (che accoglie alcune soluzioni fino ad allora poco familiari a Beethoven, tese ad ottenere un più potente volume di suono), e che concorre organicamente a definire il grandioso respiro, davvero “titanico”, della composizione. Muovendo in una direzione profondamente diversa da quella del Concerto precedente, l’op 73 assume un carattere epico-eroico che, senza nulla concedere alla retorica trionfalistica, presenta accenti prevalentemente solenni e luminosi, quasi come se fossero già superati, e a tratti solo rievocati, i drammatici conflitti riconoscibili in tanti altri capolavori beethoveniani.
Come già era accaduto nel Concerto op. 37, il solista non ha nel primo tempo un tema a lui esclusivamente riservato, e non ne ha bisogno, data l’energica evidenza con cui afferma la propria individualità fin dalle prime battute, nell’episodio dal carattere improvvisatorio, quasi di cadenza, che introduce nella poderosa architettura dell'”Allegro”.
Non si tratta in realtà di una semplice introduzione, perché l’episodio si inserisce organicamente nell’insieme del brano riapparendo all’inizio della ripresa. Nella ricchezza del materiale tematico dell’esposizione il primo tema imprime nuovo, intenso vigore e grandioso respiro epico ad una formula il cui impianto è settecentesco; il secondo tema con la sua cantabilità schiude un altro mondo: colpisce il modo in cui Beethoven lo ripresenta di volta in volta in diverse, affascinanti varianti, dalla prima enunciazione (in mi bemolle minore) affidata agli archi, alla nobile frase (in maggiore) dei corni sostenuti da fagotto,
timpano e archi, fino alla stupenda, incantata trasformazione che ne propone più avanti il solista (in si minore, in pianissimo e in do bemolle maggiore, tonalità quest’ultima che, sfiorata nel primo movimento, corrisponde enarmonicamente al si maggiore del secondo movimento), e, subito dopo, alla marziale formulazione dell’intera orchestra.
Nel corso dello sviluppo troviamo altri esempi del complesso rapporto dialettico e insieme di integrazione tra solista e orchestra: il pianoforte accompagna i legni prima dell’episodio centrale in cui si contrappone vigorosamente all’orchestra con accordi in fortissimo, avviando quindi un energico episodio imitato con gli archi.
È uno dei momenti del primo tempo che creano una dialettica rispetto al tono epico-affermativo dell’inizio, proponendo, come già si è detto, eroici conflitti quasi nella dimensione della rievocazione. Dopo la ripresa, al punto in cui ci si attenderebbe la cadenza, Beethoven annota esplicitamente: “Non si fa una Cadenza, ma s’attacca subito il seguente”, e fa seguire un episodio di carattere improvvisatorio, interamente scritto, in cui l’orchestra si affianca al solista: questa pagina si salda direttamente e organicamente con la poderosa coda, che ha quasi l’ampiezza di una seconda ripresa.
In tal modo il momento improvvisatorio tradizionalmente costituito dalla cadenza si integra compiutamente in una concezione sinfonica che non potrebbe più tollerare nessun inserimento indeterminato, lasciato al solista. Questo risultato segna la conclusione di un processo che, attraverso le varie cadenze scritte da Beethoven per i suoi Concerti precedenti, tende alla fusione degli elementi di natura virtuosistico-improvvisatoria e di quelli tematico-motivici, strutturali.
Questa ricerca conduce alla crisi della ragion d’essere della cadenza stessa, una crisi che culmina con la sua ebolizione nell’op. 73 e a cui segue l’abbandono stesso del genere del concerto.
Nei capolavori del “tardo stile” riappariranno elementi di natura improvvisatoria, ma al di fuori delle collocazioni apposite, tradizionalmente previste. Il breve “Adagio un poco moto” costituisce un momento di meditativa purezza lirica, articolato in semplice forma di lied tripartito, aperto da un’estatica melodia degli archi. Il solista predomina nella sezione centrale, con l’incanto di una scrittura in cui il gusto dell’ ornamentazione presenta qualche sorprendente anticipazione chopiniana, poi ripropone l’idea iniziale variata, e infine ne accompagna l’ultima apparizione (con colori delicatissimi) ai legni, in un passo che fu citato da Berlioz come esemplare per l’inserimento del pianoforte in orchestra.
Hans Schmidt-Isserstedt
Di straordinaria suggestione è il trapasso dal secondo tempo al “Rondò”, che ad esso è collegato senza interruzione: la semplice discesa di un semitono (dal si a si bemolle) agli archi crea un senso di attesa, di misteriosa sospensione, che il solista non risolve subito, enunciando in tempo ancora lento il tema del “Rondò”. Solo quando esso si profila con uno scatto irruente il clima cambia completamente e ci si rende conto quanto sia originale la sua configurazione ritmica. Il terzo tempo ha la forma di un rondò-sonata, con un tema che si affianca a quello principale e con un episodio centrale che funge da sviluppo, basato sul materiale del primo tema. Nella coda conclusiva colpisce il mirabile episodio che ha per protagonisti soltanto il timpano e il pianoforte, definendo un decrescendo e un ritardando che precedono l’ultima impennata del solista e la chiusa.
Offerto a Breitkopf & Hartel con una lettera del 14 febbraio 1810, il Concerto op. 73 fu pubblicato nel 1811 con dedica all’arciduca Rodolfo. Fu eseguito per la prima volta probabilmente al Gewandhaus di Lipsia da Friedrich Schneider (dirigeva Johann Philipp Christian Schulz) il 28 novembre 1811; a Vienna lo presentò nel 1812 Carl Czerny.