Ludwig Van Beethoven
Fidelio
Il cast rende lo spettacolo davvero intenso e lo scenografo Otto Schenk ha fatto a parer mio un lavoro meraviglioso nel tirar fuori esibizioni davvero dettagliate ed emozionanti!
I cantanti principali cantano molto bene e interpretano i loro ruoli in maniera credibile (un gran vantaggio quando si guardano i film!). La scenografia risulta intelligente e tradizionale.
L. Bernstein conduce con entusiasmo e maestria l’Orchestra e Coro dei Wiener Staatsoper
Se siete fan di “Fidelio”, o anche se siete solo interessati a vedere come Beethoven ha affrontato l’unica partitura composta nella sua attività lirica, provate questo DVD e sicuramente sarete soddisfatti!
Video e audio eccezionali. DVD altamente consigliato.
Superba registrazione dal vivo. Meravigliosi i cantanti. Scenografia tradizionale. Splendida la direzione di Christoph von Dohnanyi sul podio dell’Orchestra e Coro della Royal Opera House. La registrazione risale al 1981 e il video e l’audio sono a dire poco eccezionali. Sottotitoli finalmente anche in Italiano. Altamente consigliato!
Fidelio, op. 72
Beethoven scrisse un’unica opera teatrale, Fidelio oder Die eheliche Liebe (Fidelio o L’amore coniugale), la cui nascita è collegata ad una serie di circostanze sfavorevoli al compositore e ad una vivace rivalità esistente tra i due teatri viennesi aperti agli spettacoli d’opera nei primi anni dell’Ottocento: lo
“Hoftheater” diretto dal barone Peter von Braun, che sovrintendeva anche al Teatro di Porta Carinzia, e il “Theater an der Wien”, guidato da una delle più singolari personalità della vita teatrale del tempo, Emanuel Schikaneder (1751- 1812), attore, cantante, autore drammatico, librettista e impresario, ma conosciuto soprattutto come estensore del Flauto magico di Mozart, di cui, tra l’altro, fu primo interprete nella parte di Papageno.
Il barone von Brgun prese accordi con un musicista importante come Luigi Cherubini, che nel 1802 aveva suscitato larghi consensi a Vienna con la sua Lodoiska e allestì nell'”Hoftheater” le altre opere del compositore italiano, precisamente Les deux journées (Le due giornate o Il Portatore d’acqua) e Médée, di forte caratterizzazione drammatica e centrata sul ruolo di un soprano di spiccate qualità liriche. Schikaneder dal canto suo pensò di commissionare per il “Theater an der Wien” delle opere a Beethoven e all’abate Georg Joseph Vogler. Questi si affrettò a scrivere un testo musicale intitolato Samori, che dopo la rappresentazione avvenuta nel 1804 scomparve definitivamente scene. Beethoven fu consigliato a mettere in musica per quel teatro un libretto dello stesso Schikaneder, Vestas Feuer, ossia “Fuoco di Vesta”, ma si mostrò piuttosto cauto e reticente, tanto da comporre soltanto quattro pezzi. Nel frattempo la gestione del “Theater an der Wien” passò nelle mani del barone von Braun, il quale propose a Beethoven un altro testo, Léonore, su libretto di Joseph Ferdinand Sonnleithner, segretario dell’Opera di corte.
Tale libretto era una versione tradotta e rimaneggiata di un testo già musicato, chiamato Léonore ou l’amor coniugal, fait historique en 2 acts, di Jean-Nicolas Bouilly, messo in scena con la musica di Pierre Gaveaux il 19 febbraio 1798 al “Théàtre Feydeau” di Parigi. È lo stesso testo adattato in italiano da Giovanni Schmidt e musicato da Ferdinando Paer per l’Opera italiana di Dresda e poi di nuovo utilizzato da Gaetano Rossi per la musica di Simon Mayr, con il titolo L’amour coniugale, rappresentato il 26 luglio 1805 a Padova. Bouilly (1763- 1842), che ricopriva il posto di magistrato ed era stato pubblico accusatore a Tours all’epoca del Terrore in Francia, si era ispirato per il suo libretto ad un fatto realmente accaduto nel periodo più sanguinoso della Rivoluzione giacobina e riguardante un gesto nobile ed eroico di una donna a favore del proprio amato. Sonnleithner modificò la vicenda e la trasferì nella Spagna del XVII secolo, trasformandola in tre atti, rispetto ai due originali, così da arricchire con più elementi teatrali questa “pièce a sauvetage”, tradotta in tedesco “Rettunsstück”, cioè in un dramma in cui, dopo una situazione di estremo pericolo per il protagonista e la protagonista, tutto si risolve felicemente con un colpo di scena, provocando un senso di sollievo e di favorevole adesione nel pubblico.
Nacque in tal modo l’opera beethoveniana, chiamata Fidelio per distinguerla dalla Leonora del parmense Paer, il cui tema dell’amore coniugale inteso nel suo profilo etico era perfettamente congeniale al temperamento idealistico e di educazione kantiana del compositore. Superato fortunosamente lo scoglio della censura, il primo Fidelio andò in scena al “Theater an der Wien” il 20 novembre 1805 sotto la direzione dell’autore e una compagnia di interpreti formata da Anna Milder (Leonora), il tenore Demmer, alla fine della sua carriera (Florestano), Sebastian Mayer – secondo marito di Josepha Weber, cognata di Mozart e cugina di Carl Maria von Weber – nel ruolo di Pizarro, Cache (Jacquino), Müller (Marcellina), Rothe (Rocco), Weinkopf (Don Fernando).
L’opera non ebbe alcun successo e fu replicata soltanto per due sere consecutive, il 21 e il 22 novembre, il che per quei tempi significava una prova deludente per il nuovo testo teatrale. Le ragioni di questo insuccesso della prima versione del Fidelio sono molteplici. Anzitutto la difficile circostanza politica in cui venne allestita a Vienna, dove da soli cinque giorni si era insediato Napoleone dopo aver sconfitto gli austriaci a Ulm (20 ottobre) e poche settimane prima della disfatta dell’esercito della grande coalizione (Inghilterra, Austria, Russia, Svezia, Napoli) ad Austerlitz.
Il pubblico che partecipò alla recita dell’opera beethoveniana era formato prevalentemente da ufficiali francesi, ignari della lingua tedesca e abituati ad ascoltare ben altre musiche. Un altro motivo dell’insuccesso va attribuito, molto probabilmente, alla disuguale esecuzione non propriamente all’altezza dell’avvenimento, specie per la diversità stilistica della compagnia di canto. Ma la ragione più profonda è quasi certamente un’altra ed è quella di cui si avvide subito lo stesso Beethoven: il rapporto troppo sbilanciato tra gli elementi descrittivi e di ambientazione, con spunti comici e diversivi che occupavano un intero atto, e la seconda parte dell’opera di tono drammatico e rispondente meglio al carattere del testo.
Con il ritorno della nobiltà austriaca a Vienna ormai evacuata dalle truppe francesi gli amici-estimatori di Beethoven persuasero il musicista a rivedere il suo lavoro per ripresentarlo nella stessa stagione teatrale. Fu Stephan von Breuning, amico di giovinezza del compositore, ad organizzare una riunione in casa del principe Carl Lichnowsky presente lo stesso compositore, per rileggere da capo a fondo la partitura del Fidelio. Per ben sette ore, fino a notte inoltrata (così raccontano le cronache) l’opera fu letta e discussa: al pianoforte c’era la principessa Lichnovsky con la collaborazione nelle parti melodiche del violinista Franz Clement, dedicatario del Concerto per violino e orchestra di Beethoven; le voci erano quelle del tenore August Roeckel che avrebbe poi interpretato la parte di Florestano nelle riprese del Fidelio, e del già citato Mayer. Anzitutto si pensò, d’accordo con Beethoven, di unire i primi tre atti in uno solo, ambientato nel cortile della prigione, sopprimendo tre pezzi per ragioni di sintesi drammatica: un terzetto fra Rocco, Marcellina e Jacquino, un duetto tra Leonora e Marcellina e l’aria del denaro, la cosiddetta “Goldarie”, di Rocco. Nel secondo atto furono tolti per motivi di struttura teatrale un quintetto e un’aria con coro di Pizarro, oltre a sfrondare certi passaggi troppo virtuosistici nella parte di Leonora e a rifare l’ouverture.
A proposito di quest’ultimo argomento è bene ricordare che le ouvertures che vanno sotto il nome di Leonora sono quattro: la prima scritta nel 1805 venne eseguita solo privatamente e pubblicata postuma da Haslinger nel 1832 con il numero di opus 138 e con il titolo di “Ouverture caratteristica”; la numero 2 è quella fatta conoscere pubblicamente nello stesso 1805: la numero 3, del 1806, è una rielaborazione più sintetica e compatta della numero 2 e viene eseguita in sede scenica come un intermezzo strumentale fra il primo e il secondo quadro del secondo atto, secondo una scelta felicemente imposta nel rispetto della dinamica teatrale da due illustri direttori d’orchestra, Felix Motti e Gustav Mahler; la numero 4 è l’ouverture destinata al Fidelio del 1814 e tuttora anteposta all’opera nelle esecuzioni moderne.
Ora, per tornare alla seconda versione del Fidelio si sa che essa andò in scena il 29 marzo 1806 al “Theater an der Wien” sotto la direzione d’orchestra di Ignaz von Seyfried e con la stessa compagnia della prima edizione, tranne il nominato Roeckel nel ruolo di Florestano. L’opera ebbe un successo di stima e non superò la terza rappresentazione (10 aprile). Stavolta non c’erano ufficiali francesi in platea e allora perché il Fidelio stentò ad ottenere quel successo che sarebbe venuto successivamente? Evidentemente le prove erano state insufficienti e i tagli non avevano dato quella omogeneità drammatica al testo musicale. Fatto sta che Beethoven rimase molto deluso e ritirò l’opera dal teatro, anche se alcune parti staccate per canto e pianoforte vennero stampate ed eseguite in sede concertistica. La riscossa del Fidelio avvenne con la terza versione del 1814, promossa dal regista della Hofoper, Georg Friedrich Treitschke e da tre cantanti dell’Opera di corte di Vienna, Saal, Vogl e Weinmüller, che credevano nei valori musicali di questo tormentato dramma beethoveniano.
Il musicista aveva stima di Treischke, anche perché aveva collaborato con lui ad un Singspiel intitolato Die gute Nachricht (La buona novella) a celebrazione nell’aprile del 1814 della vittoria delle monarchie europee contro Napoleone. Ne fa fede una lettera scritta al poeta dopo le modifiche apportate al vecchio libretto del Fidelio, in cui si esprimono le ansie e le preoccupazioni sofferte dal compositore per riuscire a realizzare un’opera di piena soddisfazione per sé e per il pubblico. «Ho letto con grande piacere le sue correzioni all’opera – scrisse Beethoven – e mi decido sempre più a fabbricare sulle deserte rovine di un antico castello. Quest’opera mi acquisterà la corona del martirio; se ella non se ne fosse data tanta premura e non vi avesse rimaneggiato tutto così felicemente, per cui la ringrazierò in eterno, io non mi sarei potuto mettere al lavoro. Ella ha salvato ancora alcuni buoni resti di una nave arenata».
Treischke sfrondò ancora il libretto e gli chiede una forma più organica ai fini della vicenda drammatica. Ad esempio, i primi due pezzi vocali furono invertiti, collocando prima il duetto fra Marcellina e Jacquino e poi l’aria di Marcellina; il celebre coro dei prigionieri “O welche Lust” (Ah! che piacer!) acquista nella nuova versione una fisionomia più rilevante con il dolente addio alla luce; più stringente e incalzante risulta il dialogo tra Rocco e Fidelio intenti a scavare la fossa che dovrebbe servire per rinchiudervi Florestano; il grido di Leonora davanti al pugnale di Pizarro “Töt erst sein Weib” (Prima uccidi la sua donna) è affidato alla sola voce e assume un risalto particolare, come pure il duetto di gioia tra Florestano e Leonora “O namenlose Prende” (Felicità ineffabile) esplode in modo perentorio e travolgente, senza il coro e il recitativo inseriti nella precedente edizione; a parte il recupero della “Goldarie” di Rocco, soppressa fin dalla terza recita della prima versione, del tutto nuova è la scena con il preludio, il coro e l’entrata di Fernando sulle parole “Es sucht der Bruder
seine Brüder” (II fratello cerca i fratelli), molto significativa per capire lo spirito umanitario dell’intera opera.
Così nella edizione definitiva il Fidelio venne rappresentato il 23 maggio 1814 al Teatro di Porta Carinzia diretto da Beethoven assistito, perché già fortemente colpito dalla sordità, da Michael Umlauf. Gli interpreti principali furono Anna Milder (Leonora), l’italiano Giulio Radichi (Florestano), Saal (Fernando), Vogl (Pizarro) e Weinmüller (Rocco). Questa volta il successo fu pieno e senza riserve, anche se la nuova ouverture non era pronta la prima sera e venne sostituita da un’altra dello stesso Beethoven: c’è chi sostiene l’ouverture delle Rovine d’Atene e chi parla di quella del Prometeo. La prima replica ebbe luogo il 26 maggio (per la prima volta con la nuova ouverture) e poi ne seguirono altre il 2, il 4 e il 7 giugno, alle quali se ne aggiunsero altre il 18 luglio e il 26 settembre: a quest’ultima recita assistettero re e ministri convenuti a Vienna per il congresso della Restaurazione.
Il 22 novembre il Fidelio fu eseguito a Praga diretto da Weber; a Berlino giunse l’11 ottobre 1815; ad Amburgo il 22 maggio 1816 e poi a Wiesbaden. Il lancio europeo dell’opera avvenne grazie alla superba interpretazione di Wilhelmine Schroeder-Devrient, che la impose trionfalmente da Vienna (novembre 1822) a
Parigi e a Londra. In Italia il Fidelio approdò molto tardi, il 4 febbraio 1886 al Teatro Apollo di Roma, sotto la direzione d’orchestra di Edoardo Mascheroni. Non mancarono articoli, saggi critici e analisi sul valore “storico” di questa partitura. Per tutti basti citare quanto scrisse il musicologo francese Jean Chantavoine (1877-1952) nel suo libro su Beethoven: «Per la forza dell’accento drammatico, per l’esattezza della declamazione, per la libertà del dialogo musicale nelle sue scene d’assieme, Fidelio è, come lo hanno proclamato Liszt, Wagner, Rubinstein, il padre del dramma lirico moderno; la sua importanza nella storia della musica drammatica non è inferiore a quella dell’Eroica nella storia della sinfonia».
Ecco il soggetto dell’opera, che si richiama al modello del Singspiel in quanto le parti cantate si alternano a quelle recitate, così come nel Flauto magico mozartiano. Per salvare lo sposo Florestano, incarcerato sotto l’accusa di un non ben precisato delitto politico da Pizarro, governatore della prigione di Stato, Leonora si traveste da uomo con il nome di Fidelio e si fa assumere come aiutante del vecchio custode del carcere, Rocco, destando involontariamente l’amore di sua figlia Marcellina, della quale è invece innamorato il giovane Jacquino. Pizarro, che si proponeva di lasciar morire il prigioniero di fame, avvertito di una imminente ispezione del ministro Don Fernando, decide di uccidere egli stesso Florestano e ordina a Rocco di scavare una fossa all’interno del carcere. Quando sta per compiere il suo misfatto Fidelio gli punta contro la pistola. La tensione drammatica si trasforma in lieto fine: squilli di tromba l’arrivo di Don Fernando; Pizarro è smascherato e Florestano si riunisce alla sposa, inneggiando all’amore coniugale e al trionfo del bene e della fraternità fra gli uomini, un concetto al quale il compositore ritornerà più tardi nella Nona Sinfonia.
Dopo l’ouverture vigorosa e tagliente nel ritmo, il primo atto inizia con il duetto tra Mancellina e Jacquino e con l’aria di Marcellina “Ach wär ich schon mit dir vereint” (Ah, se io fossi unito a te), in cui con eleganti passaggi melodici e armonici viene tratteggiato il clima piccolo-borghese (la “Kleinwelt” viennese) della famiglia del carceriere Rocco. Il clima espressivo si innalza con il quartetto a canone puntato sulle voci di Marcellina, Fidelio, Jacquino e Rocco “Mir istso wunderbar” (È così meraviglioso), dove si ascolta già il battito cardiaco beethoveniano. La canzone di Rocco sul potere del denaro, la cosiddetta “Goldarie”, non si discosta dai modelli conosciuti di musica settecentesca, né il trio successivo tra Marcellina, Fidelio e Rocco, che nella versione primitiva annuncia l’arrivo di Pizarro, il duro e spietato governatore della prigione di Stato: l’orchestra sottolinea efficacemente il personaggio con guizzanti accordi di settima diminuita e bruschi contrasti dinamici. Altrettanto espressivo è il duetto tra Pizarro e Rocco, che raggiunge una notevole tensione psicologica nel passaggio dal pianissimo in do maggiore sulle parole “Der kaum mehr lebt” (Egli è ancora vivo) di Rocco all’esplosione in fortissimo che sottolinea la determinazione di Pizarro di eliminare Florestano “Ein Stoss!” (Un sol colpo). Ed eccoci al momento culminante dell’atto con il grande recitativo e l’aria di Leonora in cui si staglia in tutta la sua nobiltà questa figura di eroina senza paura. L’atto si conclude con il magnifico coro dei prigionieri, anelanti all’aria libera e alla luce del sole.
Il secondo atto è un blocco omogeneo e il fuoco drammatico divampa e brucia ogni scoria, dalla commovente introduzione orchestrale fino ai luminosi accordi finali. È un susseguirsi di quattro scene che costituiscono la struttura emblematica dell’opera e gli conferiscono una straordinaria individualità teatrale: l’aria di Florestano languente nell’oscurità del carcere e invocante il nome di Leonora “In des Lebens Frühlingstagen” (Nei giorni di primavera della mia vita), che è la più bella in senso assoluto dell’intera opera; il melologo e duetto di Leonora e Rocco, scesi nella prigione per scavare la fossa a Florestano; il terzetto in la maggiore in cui Florestano chiede soccorso ed è riconosciuto e aiutato da Leonora; il magnifico quartetto, contrassegnato dall’arrivo di Pizarro e culminante nel gesto aggressivo di Leonora che insorge come una tigre a difesa del suo amato “Töt erstsein Weib”: è la scena famosa in cui si distinse l’arte interpretativa della Schroeder-Devrient, che fece impazzire d’entusiasmo la gioventù romantica tedesca. Seguono un impetuoso e travolgente duetto di gioia di Leonora e Florestano e il coro finale con tutti i personaggi inneggianti alla libertà e alla giustizia.
Per ritrovare però lo stupendo sinfonismo beethoveniano basti ascoltare l’ouverture Leonora n. 3, che si interpola nel secondo atto come una lucente spada d’acciaio: essa è costruita sul contrasto fra l’Adagio introduttivo, così carico di misteriosa attesa, e l’Allegro vigorosamente possente che sboccia dal tema di Florestano e si espande in una luminosa progressione armonica, la quale, dopo i radiosi e libertari squilli di tromba (un’idea di sicuro effetto emotivo), irrompe come un magma vulcanico di impetuosa forza orchestrale, senza precedenti nella storia del sinfonismo.