Ludwig Van Beethoven
9 Symphonien
Si tratta della seconda delle quattro integrali dirette dal maestro austriaco (quella stereo del 1963), che lo vede per la prima volta affrontare Beethoven con quella che diventerà la “sua” orchestra.
Siamo di fronte ad una delle interpretazioni che hanno fatto la storia del disco e che, meritatamente, occupa i primi posti nella graduatoria della critica e degli appassionati.
Tempi rapidi, intonazione perfetta, dinamica molto ampia (la distanza tra il suono più esile e quello più poderoso); questa integrale abbandona la tradizione monumentale della scuola tedesca e ci presenta un Beethoven vivo e vitale.
Di seguito le mie opinioni su ogni interpretazione:
N° 1: una lettura meravigliosamente raffinata e con un’andatura adeguata. Karajan non accelera i tempi di questa Sinfonia. Infatti, quest’ultima rappresenta forse una delle esibizioni meno dinamiche.
N° 2: molto buona, musica molto omogenea.
N° 3: questa versione dell’Eroica è uno dei punti più alti di questo celebre ciclo. Combina la sofisticatezza (con il suono eccezionale tipico dei Berliner Philharmoniker degli anni 60’) con un’ottima dose di solidità. I quattro movimenti sono affascinanti e il ritmo è molto animato durante tutto il suo percorso. Il secondo movimento è suonato con grande maestria, ma sicuramente l’ultima parte, con un veloce e potente crescendo, rappresenta lo zenit di questa splendida partitura (particolarmente in questa Sinfonia si sente la scuola di Toscanini di cui Karajan fu assistente).
N° 4: un altro punto saliente del ciclo, direzione estremamente attraente e ricca di atmosfera. L’audio è incredibilmente vivido.
N° 5: questa interpretazione ha una carica di irresistibile vitalità. Ciò che emerge dalla meravigliosa orchestra è il suono delle trombe che risulta molto energico in alcuni punti. L’estrema drammaticità sopratutto del primo movimento (qui Karajan è meraviglioso) rispecchia chiaramente lo stato d’animo in cui si trovava l’illustre compositore: i primi sintomi della precoce sordità.
N° 6: la Pastorale del 1962 è stata molto apprezzata dalla critica. La lettura è drammatica e tesa. L’orchestra mostra un brio ed un’energia incredibili nella sequenza della tempesta e i toni penetranti dell’ottavino in quel movimento da soli valgono l’ascolto di questo movimento. Di grande bellezza il finale che rappresenta la quiete dopo la tempesta.
N° 7: che fantastica interpretazione della Settima Sinfonia è questa! Molto intensa, drammatica e il finale ha il movimento entusiasta ed energetico che dovrebbe avere.
N° 8: un pezzo denotato ritmicamente e suonato a meraviglia. Assolutamente incantevole.
N° 9: la registrazione del 1963 rappresenta una famosa interpretazione di questo meraviglioso pezzo, il cui valore è eterno. Sotto la direzione di Karajan in questa fase della sua carriera, la Nona Sinfonia è sottoposta ad una lettura molto drammatica e aggressiva. Bellissimo il terzo movimento (Adagio molto e cantabile). Il quarto movimento rappresenta il punto di forza di questo
splendido spartito, rafforzato dalle fantastiche voci del tenore Waldemar Kmentt, del baritono Walter Berry, del soprano Gundula Janowitz, del contralto Hilde Rossel-Majdan e dal Coro Wiener Singverein. Le ultime battute provocano intensa emozione. Bravi!! Un ciclo davvero raffinato che merita un posto in una collezione di dischi che si rispetti. È anche una rappresentazione consistente di ogni Sinfonia che potrebbe qualificarsi come opera da consultazione. Per la prima volta i collezionisti saranno particolarmente ben serviti. Audio eccezionale. Cofanetto imperdibile!!
Il linguaggio delle sinfonie
Prefazione
Sono ben poche le opere d’arte di primissimo livello che, come le nove Sinfonie di Beethoven, siano riuscite e riescano tuttora a far comprendere ad un larghissimo pubblico in modo altrettanto chiaro e vincolante il loro valore intrinseco, la loro rilevanza artistica, il loro linguaggio. Esse sono divenute un sinonimo di concezione monumentale, grandiosa, dell’opera musicale. Già poco tempo dopo la loro composizione furono intese come creazioni d’incommensurabile, insuperabile valore normativo, tale da gravare su tutti gli ulteriori sviluppi nell’ambito di generi musicali d’impronta più marcatamente rappresentativa.
E si può dire senza esagerazione che dopo Beethoven non c’è stata più un’esperienza musicale che in modo simile avesse in sé il suggello della definitività, della costruzione eccezionale ed incrollabile, proprio perché nei suoi suoni, nel suo linguaggio, questa musica era permeata appunto della consapevolezza di tale impegno creativo.
Non è un caso che E.T.A. Hoffmann (nella sua famosa recensione della Quinta) rilevasse come in Beethoven la musica strumentale avesse raggiunto il suo acme come “arte autonoma” e come la “più romantica di tutte le arti”, senza peraltro disconoscere che accanto a Beethoven anche Haydn e Mozart erano stati “creatori della più moderna musica strumentale”.
Nell’enciclopedia “Brockhaus del 1833 (8a edizione) si può leggere che con Beethoven la musica sembra “aver osato l’impossibile”. Allora, come in seguito, si pensava che la musica come arte autonoma fosse pervenuta con le Sinfonie di Beethoven ad altezze impensate, ma al tempo stesso che il suo ambito fosse stato ormai penetrato esaurientemente.
Ciononostante, le esigenze che erano fatte valere per le prove più significative di musica sinfonica erano tutte rapportate alla “misura” beethoveniana. E a questo punto si pone la domanda: a che era dovuta quell’impressione incancellabile e senza precedenti, per nulla relativizzata col passare del tempo,
destata da questo linguaggio sinfonico? A conferire alla musica beethoveniana, e soprattutto alle Sinfonie, quella inaudita e stimolante posizione di preminenza, fino ad oggi non intaccata, non sono tanto singoli tratti, come ad esempio la complessa elaborazione motivica o i contenuti emozionali, ma più ampiamente quella connotazione di validità che è impressa negli sviluppi musicali e che si può rinvenire soltanto nelle correlazioni di tutti i loro elementi costitutivi. La qualità energica e la grande profondità – per riprendere i termini della dicotomia così facilmente formulata da Goethe – divengono immediatamente percettibili nel loro attuarsi, senza che l’effettività vincolante di queste composizioni sia originata da aspetti convenzionali, e senza che il messaggio di Beethoven sia messo alla portata di tutti a prezzo della pur minima riduzione della sua qualità artistica, con concessioni al gusto ogni volta dominante, quale che esso sia.
Già a partire dalla Seconda Sinfonia, non può sfuggire come Beethoven si rivolga all’intera umanità e non a questo o quel pubblico (che si trattasse della aristocrazia viennese o del più largo pubblico viennese del suo tempo).
Il Finale della Nona, la parola conclusiva, ed imponente nel suo assunto ideale, di tutte le nove Sinfonie, sottolinea ora con i versi di Schiller (“tutti gli uomini divengono fratelli………”) ciò che già prima traspariva indubbiamente dalle note di Beethoven.
Per lui non parla qui l’umanità così come è realmente, ma un’umanità ideale, rinnovata e congiunta in spirito di fratellanza e nella gioia. L’umanità in Beethoven presuppone l’affrancamento del singolo essere umano, che solo costituisce il punto focale di riferimento; essa precorre anzi questo affrancamento. Nel secolo 19o non c’è stato forse un malinteso maggiore di quello per cui si scorgeva nelle Sinfonie di Beethoven la manifestazione della sua soggettività, poiché le si sentiva pervase da un’inaudita energia volitiva e dal fuoco dell’emozione.
Per quanto nelle Sinfonie si presentasse la persona, il soggetto nel senso più pieno, si mancava però di considerare che la sensazione possente, sconvolgente, che non è soltanto sensazione oggettivata ma ha già prima rivelato ragioni del tutto inesplorate dell’animo, viene sempre suscitata e al contempo frenata nella più rigorosa architettura. Negli antagonismi tra sostanza musicale e quelle forze tettoniche sviluppate con logica stringente, le singole strutture ricevono la loro dignità e plasticità. Ma esse appaiono pure gravide di fatalità: partecipi dei travagli, dell’impegno, delle lacrime e delle gioie degli uomini, e al tempo stesso animate da incrollabile speranza, umana grandezza e sensibilità. L’espressione del destino che nello scultoreo motivo iniziale della Quinta” bussa alle porte”, non è una chiave per la comprensione dell’opera beethoveniana, ma forse la semplice metafora (peraltro attribuita da Anton Schindler allo stesso Beethoven) per il contenuto esistenziale, per la nuova gravità degli eventi musicali. Ma il “destino” non può essere scambiato con
quella forza cieca, fatale, funesta, cui l’essere umano si sente abbandonato senza difese, secondo la concezione viva nel secolo 19o – si pensi solo all’opera lirica ed al dramma in musica di quel periodo.
Si dovrà persino azzardare un’ipotesi paradossale, che la costruzione, densa e compatta in ogni suo punto, serve a mettere in luce la spontaneità, la libertà del soggetto intelligibile. L’affermazione di questo postulato libertario richiedeva tutta l’energia volitiva e la forza di una grande personalità, quale fu appunto Beethoven. Qui è radicata quella gestualità eroica più volte ricordata, che permea latentemente tutte le Sinfonie. È congenito nel tessuto musicale, e rimane perciò in ultima analisi irrilevante se fu l’ammirazione per Napoleone, da Beethoven condivisa con alcuni grandi contemporanei (per es. Goethe e Hegel), a dare l’impulso alla composizione della “Sinfonia Eroica” o invece un’altra persona o un altro evento.
Non v’è dubbio che soprattutto le Sinfonie sono state anche atti di autoliberazione e per questo esempi di una “grande confessione”. I toni trionfalistici di alcuni movimenti finali si riconnettono al soggetto affrancato, significano il trionfo dell’io individuale, e non sull’io.
Breve analisi tecnica
Quando Beethoven compose nel 1800, relativamente tardi dunque, la sua Prima Sinfonia in do maggiore, la “prima” delle tonalità, non vi era in realtà nulla da portare a perfezione. A confronto di Haydn e Mozart si poteva forse fare qualcosa di più, ma nulla di meglio, per usare un’espressione di Goethe e Haydn. La situazione storica fa comprendere come in un primo tempo Beethoven, che in seguito avrebbe saputo trattare l’orchestra con tanta ricchezza di fantasia e maestria, fosse pervenuto ad un linguaggio proprio non nella Sinfonia, ma nella Sonata per pianoforte, nel Trio con pianoforte, nel Quartetto per archi (op. 2, op. 1 e op. 18). Nella Prima Sinfonia sono infatti inconfondibili anche dei tratti classicistici, ed il modello di Haydn e Mozart, pur dell’incidenza originale che nel tessuto orchestrale vengono ad avere i fiati. Ma la Sinfonia è animata da un’energia originalissima, prodotto soprattutto dalla fisionomia ritmica, che nel Menuetto (dove il tempo è modernamente accelerato ad Allegro molto e vivace) conduce al tipo della Scherzo beethoveniano. L’accordo di settima con cui, contro ogni convenzione, ha inizio l’introduzione (Adagio molto) segnala chiaramente l’originale piglio beethoveniano. La costruzione intricata del tema principale, l’oscillazione nella parte conclusiva dell’esposizione nell’inattesa tonalità minore (oboi, violoncelli/contrabbassi) attirano l’attenzione dell’ascoltatore. Alla fattura magistrale nell’insieme – ed anche del Finale così leggermente levigato, eppure in genere sottovalutato – si presta di solito troppo poca attenzione, poiché si misura questa Prima Sinfonia
alle successive.
La Seconda Sinfonia è più compatta nella sua sostanza e più ampia al tempo stesso (introduzione lenta!), e nel complesso è più imponente. La costruzione appare più temprata, soprattutto per il più incisivo incalzare di contrasti ritmici e metrici. Per la prima volta prorompe l’accento eroico.
Ludwig van Beethoven
Beethoven scrive qui il suo primo Scherzo sinfonico, mentre il Finale costituisce un pedant del primo movimento, ed ha la medesima incidenza di questo. Il tipo di sinfonia con introduzione lenta, da cui Haydn aveva tratto tante ricche possibilità e che anche Mozart aveva significativamente utilizzato nella sua concezione sinfonica, fu ripreso in seguito da Beethoven solo nella Quarta e nella Settima. Per i contemporanei, “nella Seconda Sinfonia la ricerca del nuovo e del sorprendente era più evidente” che nella Prima. Sebbene la composizione della Sinfonia in re maggiore cadesse in un periodo critico – la si può intendere però come un procedere nella medesima direzione segnata dalla Prima. Idea ed ethos dello sviluppo progressivo fin dagli inizi vivamente sentiti da Beethoven. Molto più tardi, in una lettera del 29 luglio 1819 all’arciduca Rodolfo, faceva questo rilievo: “…… la libertà, il progredire sono nel mondo artistico, come nell’intera grande opera della Creazione, un fine……”. L’impressione di sviluppo rettilineo, che si può avere considerando il passaggio dalla Prima alla Seconda Sinfonia, svanisce con la Terza, la “Sinfonia Eroica” (“composta per festeggiare il sovvenire di un grand Uomo”, come nella prima edizione a stampa del 1806 fu completato il titolo).
La Sinfonia avrebbe dovuto in origine portare il titolo “Bonaparte”. Composta nel 1803 e compiuta definitivamente al più tardi all’inizio del 1804, non molto tempo dopo la Seconda dunque, la Terza parve però ai contemporanei scritta in “tutt’altro stile”. Ciò soprattutto per le sue dimensioni esterne, senza precedenti, alle quali Beethoven non si attende nelle Sinfonie successive, ad eccezione della Nona. Non meno “provocatoria” era la concezione globale dell’opera, la celebrazione dell’uomo eroico. Si richiama nel modo più evidente a questa istanza la Marcia funebre (Adagio assai) del secondo movimento. Ma con la musica a programma dell’epoca successiva l’Eroica non ha assolutamente nulla a che fare, né per il suo linguaggio né per i suoi intendimenti. Vi manca qualunque riferimento ad una virtuale vicenda – qualcosa come una successione di “scene” – , intesa come filo conduttore. Per la prima volta incontriamo un movimento in forma di variazione come Finale di grandi proporzioni e profondo significato.
Il quattro movimenti sono strettamente congiunti in una superiore unità, senza che tale coesione possa essere riportata al denominatore comune della componente motivico-tematica. Per la Sinfonia nel suo insieme si può rilevare all’inizio ed alla fine del movimento iniziale, incastonato rispettivamente tra due e tre poderosi accordi d’orchestra: la molteplicità apparentemente dirompente delle figure compositive, che sempre infrangono i loro contorni (emblematico il primo tema con le note della triade, che scivola sul famoso do diesis!), viene raccolta in un procedimento compresso e concentrato senza precedenti, che con inusitata energia ed ampiezza di respiro costringe gli elementi eterogenei in una salda architettura.
Anche lo Scherzo acquista nuove dimensioni, senza perdere nulla del suo carattere di danza. Si tenga solo presente con quale energica “torsione”, quasi avvertibile fisicamente, il tema viene “trascinato” per la prima volta nella tonalità fondamentale di mi bemolle maggiore e nel fortissimo. Nonostante le inconsuete dimensioni di questa Sinfonia, non viene eliminata quella disposizione della forma-sonata (esposizione, sviluppo, ripresa) che nel
classicismo era ancor sempre motivata coreograficamente, e cioè riconducibile alla danza. La Coda del primo movimento, configurata come un secondo sviluppo (quale già la Coda del Finale della Seconda), è un ampliamento, non una frattura del principio tettonico classico.
La ricchezza di strutture – tra cui il “terzo tema”, che nella sua ondeggiante compiutezza sembra sprigionarsi da un mondo diverso, remoto – richiedeva ambiti più ampi, e porta ad agglomerazioni culminanti strutturalmente nel famoso passaggio di transizione dal sviluppo a ripresa. Qui risuonano contemporaneamente elementi per antonomasia inconciliabili, vale a dire dominante (nel tremolo degli violini) e tonica (nel corno), fino a che una vigorosa cadenza riporta ad unità questi elementi tendenti a divergere.
La Quarta Sinfonia, composta in tempi brevissimi nel 1806, si pone dopo la “sfida” dell’Eroica come un ripiego “classicistico”. Questo fatto suscitò già irritazione nei contemporanei, che pur tra varie critiche trovarono però la Sinfonia “nel complesso serena, comprensibile e di grande fascino” (Allgemeine Musikalische Zeitung, 1811). L’ipotesi che Beethoven avesse considerato questa Sinfonia meno significante delle altre, viene già confutata dalla presenza di un’introduzione lenta. È certo sintomatico che Richard Wagner, il grande ammiratore ed interprete delle Sinfonie di Beethoven non riusciva a comprendere dalla Quarta. La annoverava insieme con l’Ottava nella categoria della “musica fredda”. Per quella limpidità senza pathos e flessuosità raffinata, animato solo da una spiritualità sovrana, il secolo 19o non aveva molta comprensione. Eppure quella visione musicale spaziante da altezze supreme, che Beethoven ha saputo realizzare nella Quarta, è del medesimo livello della Terza.
Nel primo movimento vi sono momenti che ricordano nel loro accento la Pastorale (tanto più che le tonalità di si bemolle maggiore e fa maggiore non hanno caratteristiche poi tanto lontane l’una dall’altra), mentre nel Finale l’idea dell’impulso ludico, della figura vorticosa, non si era mai congiunta con maggior ricchezza di spirito e con così sorprendenti ispirazioni timbriche.
In antitesi con l’Eroica da una parte, con la Quarta dall’altra, si pone la Quinta Sinfonia, la cui composizione si prolungò per anni (tra il 1804 ed il 1808). Essa ha contribuito più di tutte a creare l’immagine di un Beethoven “titanico”, sebbene sia una delle sue Sinfonie più brevi. Sta sotto il segno del lapidario ed è improntata nel modo più imponente al principio della costruzione finalistica. Come il monumentale motivo anacrusico di quattro note del primo movimento ha in sé un’espressa tendenza in avanti, così l’intera composizione è tesa verso il Finale, con il suo caratteristico tono di nobile marcia trionfale, che dopo i conflitti del do minore prorompe con tutto lo splendore del do maggiore.
Herbert von Karajan
Senza che la varietà compositiva ne venga sminuita, non è solo il primo movimento ad essere ampiamente dominato dal motivo di quattro note, ma sono tutti i movimenti a tradire un’evidente correlazione anche motivica; lo Scherzo – ma non così denominato, come era già avvenuto nella Quarta – è direttamente collegato al Finale, in cui peraltro viene citato con effetto quasi spettrale. In questa Sinfonia la musica fa sorgere da se stessa l’idea di avvenimenti virtuali – mentre nella successiva musica a programma avviene esattamente l’inverso. Beethoven impiega in questo Finale (per la prima volta nella musica sinfonica) l’ottavino e tre tromboni, che per tradizione erano usati nel dramma scenico.
Tale impiego è qui legittimato dalla concezione di un’ideale marcia trionfale, sì che questi strumenti risultano parte integrante del tessuto sinfonico e non stando ad illustrare una qualsivoglia scena immaginaria.
Nella Sinfonia Pastorale Beethoven si addentrò in regioni nuove, ciò è tanto più sorprendente, in quanto la Sinfonia fu composta in un tempo relativamente breve, e in parte contemporaneamente alla Quarta (1807/08). Beethoven è il primo dei grandi compositori di cui sappiamo che la Natura, l’indugiare nella Natura, aveva un grande significato: “…… Fortunata lei”, scriveva nel 1807 all’amica Therese von Malfatti, “che ha potuto recarsi già così presto in campagna!…… Ne sono contento come un bambino; come sarò lieto di poter passeggiare tra cespugli, foreste, alberi, erbe, rocce, nessuno sa amare la campagna come me, le foreste, gli alberi, le rocce danno veramente quella risonanza che l’uomo desidera!”. A Beethoven, che già con la tonalità di fa maggiore attingeva ad una lunga tradizione, interessava di conferire una struttura formale alla “risonanza” suscitata dalla Natura nell’uomo pronto a recepirla. Per prevenire l’equivoco che qui si potesse trattare di una mera descrizione naturalistica, Beethoven ne ampliò il titolo: “Sinfonia Pastorale o ricordo della vita campestre. (Più espressione di sensazioni che pittura)”.
Non che qui sia escluso del tutto l’elemento descrittivo, realizzato ampiamente ed ingegnosamente nel “Temporale”. Ma tale istanza è subordinata ad un’immagine ideale della Natura, tradotta in sensazione, ed ancora alla presenza dell’uomo nella Natura solo dopo il “Risveglio di liete impressioni all’arrivo in campagna”, che prepara il terreno per tutto ciò che verrà, e dopo la “Scena presso il ruscello”, in cui la Natura è completamente sprofondata nella contemplazione di se stessa, fa la sua comparsa l’uomo. I contadini che danzano conosceranno ora la Natura come una forza ciecamente minacciosa, funesta. Nel “Canto pastorale” risuona il ringraziamento rassicurante per la salvezza dalla catastrofe, si instaura la felice armonia arcadica tra uomo e Natura.
La Settima Sinfonia (composta nel 1811/12) fu definita da Beethoven “una delle vie più eccellenti” (lettera del 1 giugno 1815 a Johann Peter Salomon). Il ritmo estaticamente trasfigurato del primo movimento, che si apre con una delle più significative introduzioni sinfoniche di Beethoven, indusse Richard Wagner a servirsi della famosa espressione “apoteosi della danza”. Già quando era ancora in vita Beethoven, la Sinfonia era divenuta, e soprattutto l’Allegretto che nella prima esecuzione dovette esser ripetuto, una delle sue composizioni più popolari. Con il suo enigmatico inizio e la sua enigmatica conclusione nell’accordo di quarta e sesta in la minore, e con la sua rigogliosa “sezione in tonalità maggiore, che promette consolazione” (Anton Schindler), questo Allegretto – come nell’Ottava, non è un vero e proprio movimento “lento” – congiunge la visione di un incedere misurato e raccolto (alla base v’è l’antico
solenne ritmo processionale!) ed una dizione sul tipo d’una litania con sapienti variazioni.
Lo Scherzo (Presto), nella tonalità non ortodossa di fa maggiore, riprende la serenità dionisiaca, tuttavia idealmente contenuta, del primo movimento, mentre nel Finale due figure potentemente marcate creano il moto vorticoso di una ridda idealizzata, ma pur sempre di grande concretezza.
Il fatto che l’Ottava composta in tempi brevissimi nell’estate del 1812, fu definita da Beethoven a confronto della Settima una Sinfonia “più piccola”, non significa una sminuita esigenza artistica rispetto alle opere precedenti. Questa Sinfonia discopre, come la Quarta, il fondamento comune della musica del classicismo viennese e soprattutto l’affinità spirituale fra Beethoven e Haydn. Nell’Ottava si può rilevare anche come la grande arte non esclude la componente ludica. Nell’Allegretto scherzando, basato sul canone “Ta ta ta…… caro malzel, salute a lei, tanta salute! Misura del tempo, grande metronomo……”, il ludus si spinge fino ai limiti della lampeggiante ironia.
Per le dimensioni e la concezione della “Sinfonia con coro finale all’Ode di Schiller: “Alla gioia”, la composizione sinfonica della tarda maturità (1822/24), non v’è alcuna opera preparatoria, sebbene singoli motivi della Nona Sinfonia fossero stati schizzati già a partire dal 1817. La Nona costituisce una sintesi, come ogni Sinfonia che l’aveva preceduta. Eppure essa è anche qualcosa di conclusivo, definitivo e onnicomprensivo. La convinzione di Wagner, che con la Nona di Beethoven fosse stata scritta l’ultima sinfonia, è ben più che una semplice asserzione pro domo sua.
Sembra che sia la composizione stessa ad indurre necessariamente ad un giudizio siffatto. Non è la parte iniziale con la sua caratteristica quinta vuota l’inizio per antonomasia, e il movimento conclusivo il Finale per eccellenza? – Almeno per Beethoven la lirica di Schiller, di cui del resto furono impiegate solo alcune strofe, non era uno spunto poetico qualunque che si fosse rivelato appropriato. Quella lirica coglieva piuttosto il nucleo centrale delle sue idee musicali. Già negli anni giovanili di Bonn, Beethoven aveva accarezzato il progetto di metterla in musica. Il verso “Muss ein lieber Vater Wohnen” si trova in un quaderno di schizzi del 1798, e nel Finale del “Fidelio” compaiono le parole “Wer ein holdes Weib errungen, stimm’ in unsern Jubel ein”.
L’idea di un Finale corale si trova già preformata nella Fantasia corale op. 80 (1808). – Il fatto che abbia concepito Beethoven il Finale della Nona in forma di variazione, si chiarisce in tutta evidenza con l’idea di una fusione estatica e globale, nata da una figura centrale – il tema – e realizzata con mezzi musicali autonomi.
E questo carattere è insito nello stesso tema della “Gioia”. Come sintesi ideale – ma questa volta nel senso d’una ricerca abissale – si configura l’Adagio molto e cantabile, anch’esso in forma di variazione. Affinché fosse chiaro il legame tra questi due movimenti in forma di variazione, che da una parte sono lontanissimi come mondi diversi, ma che dall’altra sono congiunti assai intimamente, può darsi che Beethoven si sia allontanato dalla successione consueta dei movimenti intermedi. Se è così, allora bisogna considerare complementari i primi due movimenti, il mondo dell’Allegro ma non troppo, un poco maestoso (in 2/4, l’unico movimento che dall’inizio alla fine sta in re minore), che si sprigiona dall’intervallo originario di quinta ed è percorso da tragica grandezza ed energia, e quindi la danza dionisiaca del Molto vivace in 3/4.
Traspare qui l’antichissimo modello della musica dei menestrelli, una danza grave e solenne in misura binaria seguita da un’altra danza in misura ternaria. Ma intanto il mondo della Nona Sinfonia è ben più ampio: se nei primi due movimenti si liberano forze esistenziali poderosamente tese, in quello lento l’io diviene consapevole della forza del ripiegamento interiore e delle istanze emotive, mentre il Finale instaura per l’ultima volta nella storia della musica quell’armonia tra ordine umano e cosmico-divino, quale è resa possibile dalla volontà morale della personalità creativa di Beethoven, in un’epoca in cui lo straniamento già cominciava a profilarsi all’orizzonte.
(Traduzione: Gabriel Cervone)
Questa è la prima registrazione dell’integrale delle Sinfonie beethoveniane con i Wiener Philharmoniker da parte di Claudio Abbado e risale alla metà degli anni 80. Questa integrale continua ad avere un valore musicale enorme, e a dare davvero delle gioie all’ascoltatore.
Le lettura di Abbado è notevole per ciascuna delle Sinfonie, ma ci sono dei vertici assoluti che merita di essere segnalata.
In particolare la nona Sinfonia è la più bella registrazione contenuta in questo box. Meriterebbe l’acquisto anche solo per questa incisione. Ma a dirla tutta anche la Quinta, la Sesta e la Settima sono da considerare. Sono incluse anche tre Ouvertures: Coriolano, Leonora II e Egmont.
A voler sintetizzare un giudizio sul cofanetto si potrebbe dire che la lettura di Abbado con i Wiener, ricorda molto quella straordinaria di Furtwangler per la bellezza del suono e la magniloquenza orchestrale.
Ma poi, in fondo in fondo, si può dire che Abbado è così grande che i paragoni anche con i grandissimi gli vanno un pò stretti! Quindi Abbado è sempre Abbado, e grazie a lui per le sue bellissime e sempre differenti visioni e interpretazioni di questa musica che è il capolavoro assoluto del sinfonismo classico.
Un breve commento tecnico sulla ripresa del suono: le registrazioni sono state
effettuate in studio in DDD e la qualità sonora è fantastica. In conclusione: un cofanetto bellissimo da annoverare nella vostra collezione. Ultraraccomandato.
Le 9 Sinfonie -3 Ouvertures -Meeresstille und Gluckliche Fahrt
L’interpretazione di Claudio Abbado
Per tutto l’Ottocento, ed anche oltre, la fama di Beethoven rimase legata in modo stretto alla sua produzione sinfonica. Nelle sue Sinfonie si vede non soltanto il progressivo arricchimento di un genere che sembrava aver raggiunto la perfezione con gli ultimi lavori di Haydn e di Mozart, e che era stato rimesso in discussione nei suoi valori fondamentali sconvolgendo prima, stabilendo poi la nozione stessa di tradizione, ma anche la più completa manifestazione della personalità di Beethoven, in virtù di un impegno formale determinato dalla stessa vastità e profondità delle idee.
Proprio con Beethoven la Sinfonia diviene il terreno di cimenti e conflitti che oltrepassano la misura delle proporzioni classiche per schiudere nuovi orizzonti espressivi, intensamente drammatici, ed affidare alla musica, perché se ne faccia carico, assunti poetici e spirituali concepiti in termini ideali, universali. Non che questi aspetti di un’arte sempre più esigente con se stessa e ribollente di aspirazioni perfino contraddittorie nella personalità di Beethoven fossero estranei agli altri generi della sua produzione. Anzi. Ma nelle Sinfonie sembrava che essi venissero racchiusi al massimo grado, e riassumessero perciò, emblematicamente, tutto Beethoven. Il modo in cui i romantici le interpretarono consolidò questa immagine di Beethoven e la rivestì di simboli e “significati” extramusicali che aiutavano a comprendere, se non a giustificare, le più audaci conquiste formali; precisando, almeno fino ad un certo punto, con riferimenti letterari e poetici, l’indefinibile. “La musica di Beethoven” – scriveva E.T.A. Hoffmann per la prima e più drastica di queste rivendicazioni, a proposito della Quinta Sinfonia – “muove le leve del terrore, dell’orrore, dello spavento, del dolore, e ridesta appunto quei desideri infiniti che sono l’essenza del romanticismo”.
Anche a prescindere da queste autorevoli affermazioni, o da quelle ancora più faziose di un Wagner, secondo il quale Beethoven avrebbe inteso la Sinfonia come un’opera d’arte totale composta di musica, poesia e dramma (senza azione visibile, però), è indubbio che l’Ottocento romantico vide nelle Sinfonie di Beethoven l’anelito a dilatare ed insieme concentrare le dimensioni formali per mezzo di contrasti e possenti sviluppi al fine di inglobare masse sconfinate di soggetti e pensieri di natura non soltanto musicale. Nondimeno, i puri valori musicali realizzati da Beethoven (nel linguaggio, nella struttura, nello stile), oltre che un modello ideale assoluto, irraggiungibile, divennero un terribile
termine di paragone per i compositori tentati dalla Sinfonia dopo di lui; e ciò prima ancora che con Bruckner e Mahler essa scegliesse percorsi alternativi, tortuosi e accidentali.
Ludwig van Beethoven
Basti pensare all’ultimo tratto di Schubert, alle peripezie di Schumann, e soprattutto alla tremenda impasse che dovette superare Brahms prima di assumersi, lasciata dietro le spalle l’ombra incalzante del gigante, il compito storico di chiudere per sempre l’epoca della Sinfonia classico-romantica.
Il fatto che tutte le Sinfonie (ad eccezione della Nona) appartenessero a quell’epoca di progressivo sviluppo e organica maturazione, che va sotto il nome di prima e seconda maniera, servì ulteriormente a fissare l’immagine (poi divenuta addirittura convenzionale) di Beethoven quale compositore eroico, epico, demoniaco, tutto pathos e profondità, ostinazione ed impegno.
Da questo punto di vista, perfino la Nona Sinfonia, che pur si distacca non solo cronologicamente da quest’epoca, apparve come la definitiva consacrazione, resa quanto mai esplicita dal ricorso alle voci ed al testo di Schiller, di uno strenuo impegno ideale, eloquentemente spirituale ed umano (e così si chiariva anche il senso dello stupefacente ordine costruttivo dell’ultima Sinfonia). Il Beethoven più controverso ed enigmatico, quello dell’ultimo periodo e del tardo stile, non si riconosceva affatto nel genere sinfonico, ma semmai nelle Sonate per pianoforte e nei Quartetti.
Qui egli aveva aperto nuove strade, intuito nuove possibilità, stabilito nuove norme, che però furono interamente intese e valutate nella coscienza dei contemporanei. Solo quando si cominciò a vedere Beethoven nella interezza della sua produzione, in modo più decantato ed obiettivo, partendo dagli esiti della sua carriera di compositore, tappa dopo tappa, anche le Sinfonie apparvero sotto nuova luce: per così dire meno impregnate di nozioni extramusicali e di fioriture letterarie, e del tutto autonomi, coerenti, nella logica del loro pensiero formale e musicale.
È significativo che ciò avvenisse nel momento più acuto della crisi del linguaggio romantico ed alle soglie delle trasformazioni della musica del nostro secolo. Fu allora, per quanto paradossale possa sembrare, che l’impalcatura ideologica della mitologia beethoveniana venne a poco a poco infranta, alla ricerca della grandezza intrinseca del compositore. Oggi nessuno sarebbe più disposto ad ascoltare la Quinta Sinfonia con la semplice chiave di lettura del “destino che bussa alla porta” (una delle trovate più fortunate di Schindler per il “suo” maestro, o a vedere nella Sesta l’idilliaca descrizione di paesaggi pastorali (ad onta delle didascalie programmatiche). E neppure ci accontentiamo più della definizione della Settima come “apoteosi della danza”, che è pur di Wagner; senza dire delle sue illustrazioni faustiane come guida alla comprensione della Nona. La forma organica, dalla costruzione dei temi al loro sviluppo, con tutte le conseguenze anche lontane che ne derivano, e sia pure con dimensioni ed aspirazioni più ampie e grandiose, tende ad essere significativa per se stessa; l’attenzione al divenire della costruzione puramente musicale, del linguaggio che si fa stile, assorbe le premesse di natura personale e storica, ed esclude un’interpretazione meccanica, estrinseca al carattere del processo creativo, di qualsivoglia genere: poetica, letteraria o simbolica.
Ciò ha cambiato profondamente anche il modo di eseguire le Sinfonie di Beethoven, una lettura come quella di Claudio Abbado, così serrata, si libera del tutto degli schemi programmatici precostituiti e mette a nudo la pura essenza musicale degli elementi compositivi, il coordinarsi delle costruzioni tematiche ed i nodi cruciali degli svolgimenti, l’intrecciarsi dei conflitti drammatici e delle loro risoluzioni all’interno di un processo che non ha bisogno
di soggetti o di guide per agire in tutta la sua forza espressiva. Anche una lettura analitica di questo genere non può comunque prescindere dal contesto storico e dalle vicende personali sottese alla nascita delle Sinfonie.
Per quanto unitario sia il periodo che va dalla Prima alla Ottava Sinfonia (appena una dozzina d’anni all’inizio dell’Ottocento), esistono distinzioni oggettive tra ogni Sinfonia in sé e in rapporto con le altre. Anche qui l’esegesi critica ha sovente proceduto per classificazioni, per esempio scorgendo i vertici nelle Sinfonie di numero dispari, dove le innovazioni formali e le tensioni eroiche sono più dichiarate mentre in quelle di numero pari si assisterebbe ad una sorta di rarefazione e di rilassamento dell’ansia espressiva. E ci si è spesso chiesti che cosa significhi, da un determinato momento in poi, il procedere compositivo beethoveniano per coppie di Sinfonie dall’apparenza contrastante, via via che l’autonomia strutturale e linguistica si faceva più completa, e quali relazioni si instaurino fra di esse nella concezione formale del loro autore.
Resta poi il problema, anche interpretativo, di come considerare oggi, alla luce cioè di una distanza che ci consente di abbracciare tutt’intera l’epoca di Beethoven, Sinfonie come la Prima o la Seconda, ancora intrise di tradizione, e l’Ottava, con il suo eccentrico ritorno a stilemi del passato: se cioè leggerle, come per esempio Abbado tende a fare, guardando in avanti, per sottolineare le anticipazioni e le aperture verso la “modernità”, oppure isolarle nell’astratta visione di un quadro “settecentesco”, magari in una cornice neoclassica.
Genesi ed analisi critica delle Sinfonie beethoveniane e delle Ouvertures
Quando intraprese la composizioni di quella che sarebbe diventata la sua Prima Sinfonia (in do maggiore op. 21:1799 – inizio 1800), Beethoven aveva già fatto importanti prove in campo strumentale ed individuato precisi punti di riferimento in Haydn e Mozart. Ma se a quest’ultimo si era ispirato componendo i suoi primi due Concerti per pianoforte e orchestra, non c’era dubbio che nella Sinfonia il punto di partenza dovesse essere Haydn, e cioè il magistero tecnico di Haydn, il suo modo di concepire l’elaborazione tematica e lo sviluppo sinfonico.
Haydn era infatti un maestro, mentre Mozart rimaneva un modello, da cui non poter ricavare per ora che raggi di luce e brividi di emozione: attimi folgoranti da destinare, come per improvvisa illuminazione, alla fluente e già incisiva espansività del movimento lento (Andante cantabile con moto). Ma nei tempi nei quali dominava l’elaborazione, e perfino nel Menuetto, che già prefigura lo Scherzo, Beethoven si attiene pur con qualche angolosità e rugosità nei collegamenti, alla plasticità e alla sobrietà haydniane: riservandosi un’uscita più personale, quasi dimostrativa, nelle introduzioni lente dei due movimenti estremi. Si narra che Haydn, presente alla prima esecuzione, se ne adombrasse e profetasse al giovane baldanzoso un futuro inquietante.
La Seconda Sinfonia in re maggiore op. 36 (1801 – autunno 1802) vide la luce nel tragico anno della sordità e del testamento di Heiligenstadt. Alcuni procedimenti compositivi caratteristici di Beethoven vengono qui messi a fuoco nell’imponenza del tessuto orchestrale: violenti contrasti dinamici e drammatiche contrapposizioni tematiche da cui prendono slancio densi episodi di sviluppo, a stento ricondotti nell’alveo delle consuete ripartizioni formali, e, nello stesso tempo, stretti rapporti di derivazione e relazioni che sottintendono ampie possibilità dialettiche. La lunga introduzione (Adagio) al primo movimento crea un clima di attesa sempre più protratta ed accentuata; l’eruzione dell’Allegro con brio vale come una liberazione, che non cancella però l’impressione che qualcosa di oscuro e minaccioso covi sotto la superficie di una eloquenza disinvolta. Solo nella coda gli equilibri interni si ricompongono per trovare un luogo di riposo. Analogamente, dopo il Larghetto e lo Scherzo (che per la prima volta appare con tal nome al posto del tradizionale Minuetto), nell’Allegro molto finale un gesto inatteso e bizzarro rompe l’incanto dello stile classico e accumula nuove tensioni, al limite della forzatura: e di nuovo spetta alla coda ristabilire la compattezza dell’insieme. Introduzione e coda, ossia le parti per così dire neutre, facoltative, della forma classica, sono i mezzi attraverso i quali Beethoven prepara e risolvere quegli attriti che sono già insiti nella densità e nella ricchezza del materiale tematico e che dall’esposizione, con il proliferare delle idee secondarie, si trasmettono anche all’elaborazione ed alla ripresa.
Con la Terza Sinfonia in mi bemolle maggiore op. 55 Beethoven compie un salto senza ritorno nella storia della Sinfonia, con un gesto di portata e conseguenze incalcolabili. È noto che essa (composta e lungamente meditata tra il 1802 e l’inizio del 1804) fu concepita in origine come un entusiastico omaggio a Napoleone primo console e che, dopo la decisione di lui di proclamarsi imperatore, mutò il titolo e la dedica in “Sinfonia Eroica, composta per festeggiare il sovvenire di un grand’ Uomo”. Ideali di libertà e di giustizia, sentimenti di orgoglio ferito e di fierezza in uno dei periodi più infiammati e tumultuosi della storia moderna, fanno di questa Sinfonia una creazione unica, tanto ricca di suggestioni e di pensiero quanto straordinaria per invenzione formale e profondità di stile. Basterà qui solo accennare ad alcune delle sue proprietà: l’afflato epico, le dimensioni colossali del primo movimento, privo affatto di preamboli e culminante nella sbalorditiva coda che dà al già monumentale sviluppo il suggello di un’ulteriore, inaudita trasformazione; l’empito lirico, il respiro solenne della Marcia funebre, il più grandioso ed intimo movimento lento sinfonico di Beethoven; la dilatazione dello Scherzo, per la prima volta elaborato e sviluppato nella ripresa, dopo l’episodio
contemplativo dei tre corni nel Trio (e come accadrà nelle Sinfonie successive, l’ampliamento dell’organico risponde qui a necessità espressive); la compatta costruzione ciclica del Finale, dove il tema non nuovo (quello già utilizzato nel Balletto Le creature di Prometeo e nelle Variazioni per pianoforte op. 35) si trasfigura nel poderoso lavorio di una serie di variazioni, anelando davvero a proporzioni titaniche.
Il passaggio dallo sfolgorante, affermativo mi bemolle maggiore dell’Eroica al fosco, interrogativo do minore della Quinta Sinfonia appare come la logica conseguenza di una piena creativa che avanza per contrapposizioni ed antinomie, e sottopone il materiale tematico, armonico, ritmico, timbrico ad un incessante lavoro di scavo, per giungere ad una sintesi e a un superamento. Tuttavia, dopo i primi abbozzi per la Sinfonia in do minore (che risalgono al 1804), Beethoven sentì il bisogno di una riflessione più distesa, che rivedesse i rapporti, già messi a dura prova, dell’organizzazione strutturale della forma sinfonica. Nacque così, nella seconda metà del 1806, la Quarta Sinfonia in si bemolle maggiore op. 60, tipica opera di transizione tra passato e futuro, dotata, però, di invidiabile stabilità.
Claudio Abbado
L’introduzione lenta, che inizia in Pianissimo, apre il sipario su un Allegro vivace nettamente profilato nei temi e conciso nell’elaborazione, ricco di chiaroscuri; l’Adagio seguente è un’oasi lirica di introspettiva riflessione, pacata ed insieme intensa; lo spirito del Menuetto rivive nel terzo movimento (Allegro vivace), con robusta baldanza ed intenerita dolcezza nel Trio; la giocosa eleganza del Finale s’infittisce di preziose trame contrappuntistiche e mostra tuttavia l’energia scattante che la scrittura imbriglia con disciplinato rigore (Allegro ma non troppo, intesta Beethoven: cioè moderazione e sovrano controllo del tempo). Eppure, circola dovunque in questa Sinfonia un senso di attesa, un’ombra di sospensione, una sottile irrequietezza, come se la sua stessa saldezza ed autorevolezza dovessero preludere a qualche evento straordinario (si può notare di passaggio che Abbado sa cogliere queste sfumature con una lucidità davvero rara).
Riconoscere nel celeberrimo, rapinoso incipit della Quinta Sinfonia in do minore op 67 la trasformazione della cellula iniziale della Quarta (la terza discendente, minore ed in valori larghi nell’op 60, maggiore e nel ritmo fatale nell’op 67) significa soltanto rendere esplicito con l’analisi ciò che ognuno avverte immediatamente all’ascolto: l’evento straordinario si è prodotto. La Quinta, la Sinfonia dei turbamenti e dei fantasmi, della nostalgia paurosa e del radioso giubilo, è un unicum nella produzione di Beethoven, sia sotto l’aspetto dei contenuti (tanto vari e variopinti che ognuno ci si può sbizzarrire a suo piacimento) sia sotto quello dell’impianto formale. La novità è data principalmente dall’ardito collegamento fra il terzo movimento (un Allegro cui manca l’abituale indicazione di Scherzo) ed il Finale, parimenti un Allegro.
È un collegamento senza soluzione di continuità, che dagli abissi più profondi ed oscuri del vuoto e del terrore ci innalza quasi fisicamente alle vette più alte di una trionfale affermazione vitale. Meno spettacolare, ma non meno audace, è il travolgente primo movimento (Allegro con brio), basato sull’ostinata ripetizione e poi elaborazione della figura iniziale, così insistita da rivelare un’intenzione forse non solo “monotematica” (altra novità della Quinta è il superamento delle categorie dialettiche tradizionali) ma perfino “monomaniaca”. Quanto all’Andante con moto, basterebbero le sue peripezie armoniche e le trovate timbriche, certo più nascoste e sfumate, per collocarlo alla stessa altezza, o meglio al centro, della Sinfonia. La composizione della Quinta Sinfonia in do minore, iniziato nel 1804 ma poi interrotta, fu ripresa nel 1807 e compiuta all’inizio del 1808.
Pressoché contemporanea (1808) è la genesi della Sesta Sinfonia in fa maggiore (op. 68), Pastorale: ossia di una Sinfonia che di quella è in un certo senso l’antitesi, frutto di sensazioni e di stati d’animo scevri da ostinato individualismo e da aspri conflitti drammatici. In realtà, il mondo della natura
aveva rappresentato da sempre per Beethoven il contrappeso alle agitazioni dell’animo, e, soprattutto dopo l’isolamento dovuto all’aggravarsi della malattia, un luogo di pace, di ristoro, di comunione con il creato e con gli uomini. Non antitesi, dunque, ma complementarità lega tra loro le due Sinfonie; e ciò spiega perché Beethoven vi lavorasse per un certo tratto contemporaneamente.
Nella Pastorale, Beethoven si guardò bene dal seguire intenti descrittivi ed illustrativi, per esprimere invece le sensazioni e i sentimenti evocati dal contatto con la natura: “più espressione del sentimento che pittura”, volle infatti precisare. In cinque movimenti hanno, è vero, indicazioni programmatiche (Risveglio di piacevoli sensazioni all’arrivo in campagna; Scena presto il ruscello; Allegra riunione di contadini; Temporale, tempesta; Canto pastorale: sentimenti di gioia e di gratitudine dopo la tempesta ); ma la stessa ambientazione campestre e l’imitazione di fenomeni naturali, come il mormorio del ruscello, il temporale, il canto degli uccelli e dei pastori, sono solo lo sfondo su cui si stagliano, in immagini sonore, idee poetiche e visioni interiorizzate della natura.
Non sorprende perciò che la Pastorale segni un ulteriore progresso nella individuazione di una struttura sinfonica più unitaria ed omogenea, concepita come una ininterrotta continuità, priva per così dire di blocchi e di frammentazioni fra un movimento e l’altro. L’esperimento di collegare i due tempi conclusivi, che nella Quinta porta ad uno stupefacente moto di accelerazione, nella Pastorale si estende agli ultimi tre, con introduzione del Temporale a far da ponte tra lo Scherzo ed il Finale: al calmo, sereno respiro della natura registrato con emozione nei due primi movimenti, succede l’animata concitazione dell’ultima parte (sublimazione del principio contrastante beethoveniano), che si scioglie nello squillante canto di ringraziamento finale.
Anche la Settima Sinfonia in la maggiore op. 92 e l’Ottava Sinfonia in fa maggiore op. 93 nacquero gemelle, nel 1811/12 la prima, nell’estate-autunno 1812 la seconda. Entrambe ripresentano l’organico classico (nelle precedenti l’autore aveva introdotto l’ottavino, i tromboni e, nella Quinta, il controfagotto) e sono in quattro movimenti; ma diverso è lo spirito, il senso dell’ordine costruttivo. Nella Settima, tutto ciò che è energia, forza e pienezza vitale si afferma senza bisogno di scontrarsi e misurarsi con le potenze oscure del caos: l’elemento unificatore della Sinfonia è dato dal ritmo, che innerva non solo gli svolgimenti ma anche le figure tematiche. Quella principale nasce nell’introduzione (Poco sostenuto) come per progressiva germinazione e, una volta rinvigoritasi, domina incontrastata sino alla coda del primo movimento (Vivace), dove si prepara la metamorfosi per il solenne incedere dell’Allegretto. Qui, nei colori iridescenti del modo minore, il ritmo di danza si distende in una figura più cadenzata, da cui fioriscono linee melodiche polifonicamente intrecciate, che si espandono armonicamente in una serie di variazione per così dire a raggiera, attorno al centro del ritmo-base.
La “circolarità” dell’Allegretto, cuore della Sinfonia (significativamente esso si apre e si chiude con uno stesso accordo sospensivo), si spezza nel Presto per dare vita ad una corsa sfrenata, interrotta due volte da un episodio (Assai meno presto) di misteriosa attesa, di statica contemplazione (corni accompagnati da clarinetti e fagotti): alla terza interruzione, cinque accordi imperiosi rompono gli indugi e chiudono la cadenza. All’Allegro con brio conclusivo non resta che compiere l’apoteosi in una irrefrenabile esultanza ritmica, con slancio ormai incontrastato, fino all’esaurimento delle forze.
La disciplina ed il controllo che, nonostante le apparenze, governano la “dionisiaca” Settima risaltano in modo più evidente insieme problematico nella “apollinea” Ottava. Le dimensioni ridotte (è la più breve fra le Sinfonie di Beethoven), il settecentismo ricercato, l’umorismo scherzoso e la parodia (come nell’imitazione del ticchettio del metronomo nell’Allegretto scherzando) sono motivi che sembrano contraddire l’immagine più consueta del sinfonismo severamente impegnato di Beethoven. Ma l’Ottava è anche una delle sue Sinfonie più strenuamente lavorate e cesellate, pervasa non solo di buonumore ma anche di drammaticità. Ognuno dei quattro movimenti è compiuto in se stesso; ma i trapassi ed i collegamenti prefigurano nessi inediti nell’organismo sonatistico e sinfonico.
Nei due tempi estremi si assiste ad una graduale intensificazione espressiva, che tuttavia non si finalizza ad un traguardo ma resta per così dire in sospeso, si ritira in se, quasi astraendosi a poco a poco dal contesto del suo divenire: tutto è perfetto, ma svuotato di sostanza. Ciò che resta è il gioco, con le forme e con le idee: nell’Allegretto scherzando, per esempio, la meccanicità burlesca, il sorriso compiaciuto, scosso da repentini sogghigni (sforzati e fortissimi), accettano il vuoto come punto di partenza (e non è dunque un caso che questa pagina ci appaia straordinariamente moderna); nel terzo movimento, invece, è l’idea del Minuetto (non Menuetto, ma Tempo di Menuetto intitola Beethoven) a suggerire teneri ricordi, tra ironia (l’ansimare degli sforzati all’inizio) e nostalgia: una nostalgia che nel Trio è già tinta di brahmsiana malinconia. Mai come qui Beethoven collega l’aurora della Sinfonia al suo crepuscolo.
Tra l’Ottava e la Nona Sinfonia in re minore op. 125 (1822-1824) intercorrono circa dieci anni, durante i quali non solo videro la luce alcuni importantissimi lavori da camera e la Missa solemnis, ma si produsse anche un vero e proprio sovvertimento nella coscienza creativa di Beethoven, il cui risultato fu un modo nuovo di pensare l’opera d’arte.
La Nona si colloca proprio al centro di questo mutamento; e le vicende, lunghe e tormentate, della sua genesi (i primi abbozzi risalgono al 1817/18) provano che solo strada facendo Beethoven chiarì a se stesso ciò che esso potesse significare ed implicare nel dominio sinfonico. Più che da soggetti tematici e da principi asseverativi, i primi tre movimenti sono dominati dalla riflessione sull’essenza del linguaggio della musica assoluta: l’armonia, il ritmo, la melodia, il timbro (cioè i suoi elementi costruttivi), sono indagati a fondo non solo sulla base delle prerogative proprie della Sinfonia, ma anche estendendoli alla polifonia, al contrappunto, alla fuga, alla variazione integrale. E condotti ad esaurimento, dopo grandiosi, smisurati sviluppi.
Per fare ciò Beethoven ha bisogno di tempi e spazi insolitamente dilatati: la sostanza pura e assoluta, per completarsi e realizzarsi, vuol dimensioni monumentali.
Wiener Philharmoniker
L’ultimo movimento segna un passaggio di livello, attraverso fasi accortamente distinte: il cataclisma sonoro iniziale, la citazione fantomatica dei tre movimenti precedenti; poi il recitativo del basso (“O amici, non questi suoni!”); l’espandersi della melodia della gioia dal mormorio indistinto di violoncelli e contrabbassi all’orchestra sempre più piena e, dopo l’intervento del solista, alle voci ed al coro, sino allo svolgimento molteplice, immenso nel suo mutar di carattere, del finale. Tanto sconvolgente, sublime e commovente è ciò che vi accade, che quasi non ci rendiamo conto che la Sinfonia stà dichiarando la propria fine, non solo come forma, ma anche come epoca della storia della musica. Che Beethoven avesse scelto per compiere quest’atto estremo i versi dell’Inno alla gioia di Schiller, esaltando la fratellanza umana nell’abbraccio di un amore universale, accresceva soltanto la solennità del congedo.
Brahms, rettificando le conclusioni di Beethoven, avrebbe dimostrato che quell’epoca consentiva ancora alcune postille: paralipomeni, forse, di una fine annunciata.
Coriolano, ouverture in do minore op. 62.
L’ouverture del Coriolano fu composta tra il gennaio ed il marzo del 1807 per la tragedia omonima del consigliere aulico e poeta Heinrich Joseph von Collin (1771-1811), amico di Beethoven. Si tratta di una composizione di grande concentrazione espressiva, dai colori foschi ed accesi, caratteristica del titanismo eroico beethoveniano e affine, come tema musicale e spirituale, alla quasi contemporanea Quinta Sinfonia. Un drammatico inciso iniziale (divenuto uno dei motti più famosi di Beethoven) immette subito nell’atmosfera tempestosa della tragedia ed introduce due temi di impronta nettamente opposta, incalzante ed anelante l’uno, nobilmente supplichevole il secondo. Dopo una serie di contrasti e di conflitti, l ‘Ouverture si conclude con il ritmo dell’inciso iniziale, che si estingue con effetto sinistro nel registro grave degli archi.
Egmont, ouverture in fa minore opera 84.
Per una ripresa sulle scene del Teatro di Corte di Vienna della tragedia Egmont di Goethe (1810), Beethoven compose, oltre all’Ouverture iniziale, nove numeri, strumentali e vocali, da inserire nei momenti dell’azione secondo le indicazioni di Goethe. L’Ouverture, composta per ultima nel giugno 1810, riassume in potente sintesi i motivi ideali del dramma, nel quale il protagonista incarna principi di libertà e di ribellione all’ingiustizia, da sempre cari a Beethoven. Una introduzione lenta (Sostenuto, ma non troppo), ancora una volta aperta da un motto simbolico di nudi accordi inframmezzati da pause, conduce alla presentazione dei temi dell’Allegro, pervasi di accenti patetici, anche nel motivo contrastante (affidato ai legni) dell’appassionato amore di Chiarina per Egmont, votato al sacrificio ed alla rinuncia. Aspre tensioni si accumulano nello sviluppo e, dopo che la ripresa ha riaffermato l’eroismo di Egmont, una giubilante coda in fa maggiore, che ritornerà come Siegessymphonie (Sinfonia della vittoria) alla fine della tragedia, celebra la gloria del guerriero caduto per la libertà.
Leonora n. 2, ouverture in do maggiore opera 72.
Per quella che sarebbe rimasta la sua unica opera teatrale, Fidelio, Beethoven compose in tutto ben quattro Ouvertures, che accompagnano la genesi estremamente travagliata di questo lavoro, andato in scena per la prima volta con il titolo Leonore il 20 novembre 1805 al Theater an der Wien, riveduto nel 1806 e definitivamente rielaborato in due atti nel 1814.
L’Ouverture del Fidelio fu scritta per quest’ultima occasione, che decretò il successo dell’opera; le altre tre appartengono invece alle prime due versioni, e recano perciò ancora il vecchio titolo Leonora.
Con la Leonora n. 2, composta per la prima rappresentazione del 1805, Beethoven crea un tipo di ouverture che anticipa e sviluppa con ampiezza di idee e grandiosa pregnanza d’espressione i motivi fondamentali del dramma. Nell’Adagio introduttivo, dopo alcune battute di preparazione cariche di tensione, il tema di Florestano, esposto da clarinetti e fagotti, avvia un’elaborazione densa e fremente, sfociante nel misterioso tema dei violoncelli che apre l’Allegro. Esso ha dimensioni sinfoniche d’inusitata vastità e complessità, soprattutto nello svolgimento, non solo particolarmente esteso (almeno per un’ouverture), ma anche scosso da drammatici contrasti.
Al suo culmine risuona la fanfara della tromba fuori scena, ripetuta due volte, cui segue la ripresa dell’Adagio, con il tema di Florestano e, in eco, una curiosa appendice del violino solo (soppressa nella Leonora n. 3); prima che un grido gioioso di tutta l’orchestra scateni la trionfale conclusione.
Da notare che la fanfara della tromba, la quale annuncia la liberazione di Florestano e segna così la peripezia dell’opera, presenta un disegno melodico diverso, meno pregnante e risolutivo, rispetto a quello che diverrà in seguito definitivo.
Meeresstille und gluckliche Fahrt
(Calma di mare e viaggio felice) per coro misto e orchestra, op. 112. Beethoven compose questa breve Cantata per coro a quattro voci miste e orchestra su testi di Goethe (due liriche risalenti al 1795) tra la fine del 1814 e l’estate del 1815. Da quando lo aveva incontrato personalmente a Teplitz nel luglio 1812, la sua ammirazione per l'”immortale poeta” era diventata venerazione, ed insieme speranza di intrecciare la propria musica alla parola di Lui per l’eternità. Ma Goethe non ricambiò mai questi sentimenti; ed anche di fronte alla dedica di questa composizione, che certo non turbava le sue convinzioni in fatto di musica, mostrò soprattutto indifferenza. “Spero che avrà ricevuto la dedica a Vostra Eccellenza di Meeresstille und gluckliche Fahrt,
messa in musica da me” – scriveva Beethoven a Goethe l’8 febbraio 1823 – “Entrambe mi sembravano molto adatte ad esprimere il loro contrasto anche con la musica. Quanto avrei caro di sapere se ho legato bene la mia armonia con la Sua!”. A questa lettera, Goethe neppure rispose.
Se, come pare, le due poesie furono ispirate a Goethe dalla traversata da Napoli a Palermo durante il viaggio in Italia del 1787, Beethoven, per parte sua, non aveva mai visto il mare.
La musica gli sgorgò perciò da una visione puramente immaginaria e lirica del testo, attratta probabilmente dal contrasto fra la prima poesia, che descrive la calma profonda delle acque nell’orizzonte infinito, e la seconda, che si anima al soffio mormorate del vento e riconduce il navigante inquieto alla terra desiderata. Alla soffocante immobilità della prima parte (Poco sostenuto), tutta percorsa nel dialogo fra voci e orchestra da un’angoscia panica, fa seguito, nell’Allegro vivace, il ridestarsi della natura e delle energie sopite: prima con un tempo di barcarola che imita suggestivamente la brezza marina, poi con l’esultanza dei marinai, che rischiara di colpo l’atmosfera timorosa e si slancia, beethovenianamente, in un inno di gioia.
(Sergio Sablich)
Il Lenny di questa integrale con i Wiener non è un Lenny “ripiegato su se stesso”, a causa di una malattia incurabile, ma un Lenny con ancora lo stesso entusiasmo “bambino” nel fare musica, ma con strumenti (tecnica direttoriale affinata e orchestra dei Wiener molto migliore rispetto alla New York Philarmonic, una registrazione Sony) molto più precisi nelle sue mani per poter esprimere le sue dee musicali.
Ecco che nasce un ciclo con i Wiener Philharmoniker memorabile, nato “apposta” per contrapporsi a quello di Karajan con i mitici Berliner Philharmoniker del 63’.
Un ciclo che ha la sua punta di diamante nelle terza Sinfonia, l’Eroica, la più bella versione disponibile su disco, interpretazione che sostituisce la classica visione monumentale di questa sinfonia-capolavoro con una interpretazione serrata e tutta permeata di slancio vitale incontenibile, con tempi rapidi e con tensione emotiva.
La Quinta, poi, è invece un capolavoro di lettura “eroica” del destino dell’uomo, lettura tenuta volutamente a “passo lento” e con visione “monolitica”. Certamente le letture “aggressive di Karajan o quelle meditative di Furtwangler e del giovane Abbado (con i Wiener), hanno il loro fascino irresistibile, ma se si entra nell’ottica relativistica di Bernstein allora tutto torna, “tutto si tiene”. E quanto detto per la Quinta vale anche per la settima, una lettura personale e
affascinate, con tempi più lenti ma non meno coinvolgenti delle versioni di riferimento sopra citate. Un discorso a parte merita la Nona, forse un pò troppo meditativa e “poco gioiosa”, ma scrivo questa recensione appena dopo aver riascoltato quella prestigiosa di Karajan che non teme confronti. Essendo un grande estimatore di Karajan, risulto forse un po’ troppo di parte. In questa integrale sono incluse 6 Ouvertures: Coriolano, Leonora III, Fidelio, Egmont, Prometheus e Konig Stephan.
La qualità tecnica di ripresa sonora, seppure in ADD perchè fine anni ’70, è molto bella, e ricrea una bellissima orchestra corretta sia per timbro brunito caratteristico dei Wiener che per la ricostruzione ambientale della sala del Musikverein.
Questa integrale nel complesso si pone fra le prime tre più belle in assoluto, insieme a quelle di Karajan e di Abbado, non sottovalutando quelle di Toscanini, Klemperer e di Furtwangler Ultraraccomandato.
A colloquio col direttore d’orchestra
In un periodo di tempo relativamente breve, Leonard Bernstein e l’Orchestra Filarmonica di Vienna hanno interpretato le Sinfonie di Beethoven al Festival di Salisburgo e soprattutto a Vienna, nella Grande Sala del Musikverein e quindi all’Opera di Stato. Sarebbe falso credere che Bernstein abbia eseguito queste Sinfonie esclusivamente per le registrazioni discografiche e televisive. Egli le ha interpretate insieme con un’Orchestra da lui particolarmente apprezzata e davanti al pubblico, che per lui è un fattore assolutamente irrinunciabile. Non ha tuttavia dimenticato che durante le esecuzioni erano istallati microfoni e telecamere e che era presente tutto il personale addetto alle attrezzature tecniche.
Ma ciò non era poi così importante per lui come alcuni potrebbero credere. In mezzo a tutta quella confusione di cavi e riflettori e nella grande tensione nervosa provocata dalla consapevolezza che ogni momento dell’esecuzione sarebbe stato fissato “per sempre” Bernstein sentiva la musica e soltanto quella. Anche a lavoro ultimato non riusciva a parlare che di musica.
Durante il colloquio un solo elemento indicò che Bernstein era disposto a scorgere in queste esecuzione delle Sinfonie beethoveniane anche un valore documentario.
Prima di partire per l’Europa per la registrazione della Nona, aveva ascoltato a New York i nastri delle altre Sinfonie già registrate. Ne fu contento e soprattutto fu contento dell’Orchestra. “Ha raggiunto il vertice delle sue possibilità. Finora non aveva mai suonato così bene”, disse della Filarmonica di Vienna. Ed il pieno significato di queste parole di lode può esser compreso solo da chi in altre occasioni, se il discorso cadeva sulle prestazioni e capacità di
alcune orchestre, ha già sentito trapelare dalla voce di Bernstein una certa disperazione. Un documento, dunque, dove è fissata l’interpretazione data da Bernstein alle Sinfonie beethoveniane (sulle quali egli ha scritto e parlato quasi in egual misura).
Leonard Bernstein
Però il valore documentario di queste registrazioni non significa certo che Bernstein non possa rivedere in futuro la sua concezione. Tanto più che ha già considerato egualmente valide più versioni delle sue interpretazioni beethoveniane ed una volta ha cercato anche di spiegare come orchestre e circostanze diverse avessero portato a risultati completamente differenti.
Ma per quanto riguarda alcuni particolari, Bernstein pensa che non riuscirà tanto presto ad eseguirli in maniera così perfettamente rispondente alla sua concezione.
Nell’ultimo concerto viennese, nel quale fu eseguita la Nona Sinfonia, Bernstein poté constatare che la Filarmonica di Vienna aveva realizzato nel miglior modo possibile i suoi intendimenti. Era felicissimo che a lui ed agli orchestrali fosse riuscito in maniera perfetta ciò che prima, a Salisburgo e a Vienna, avevano “cercato” di realizzare. Così acconsentì a parlare nei dettagli soltanto dell’ultima esecuzione – solo questa era importante per lui.
E se aveva sostenuto altre volte che durante un concerto quasi si accingeva a “ricreare” una composizione, così questa volta dichiarò espressamente di esser finalmente riuscito ad interpretare Beethoven proprio come avrebbe voluto farlo da sempre.
C’è qui una contraddizione, ma una di quelle contraddizioni che rendono Bernstein molto simpatico. Se vuole spiegare a qualcuno ciò che prova quando dirige il “Fidelio” nel Theater an der Wien, egli dichiara di sentire dietro di sé nel pubblico la presenza degli ufficiali di Napoleone (che furono effettivamente presenti alla première dell’opera).
Dopo un’interpretazione della Nona sinfonia che ha corrisposto alle sue esigenze, se conversa di questioni tecniche, fa capire che ha cercato di risolvere ancora prima di presentarsi davanti all’orchestra – con la mente e l’intelligenza, s’intende. Lo stile direttoriale di Bernstein è stato da molti definito uno show, e nelle sale da concerto, anche tra gli appassionati di musica, c’è sempre qualcuno che rivolge la sua attenzione più ai “salti di gioia” di Bernstein che alla sua logica interpretativa.
Per Bernstein la musica è un’arte che non può essere esercitata nell’isolamento o nel silenzio. Essa è fatta per gli ascoltatori. Egli la interpreta, almeno in un primo tempo, per gli appassionati, di cui ha bisogno di sentire la presenza. Così si spiega il numeroso pubblico ammesso ad assistere alle sue prove, ed ancora il fatto che Bernstein è sempre disposto a mostrare a tutti ciò che succede “dietro le quinte”; ma si spiega anche la sua convinzione che i grandi momenti interpretativi si hanno solo quando un musicista vede e sente il pubblico per cui sta facendo musica.
E che cosa dice di Beethoven? Della Nona? Di alcuni dettagli di questa Sinfonia? “È quasi impossibile descrivere tutto quello che vi ho trovato di nuovo, per esempio l’Adagio. La maggior parte dei direttori d’orchestra legge come indicazione di tempo Adagio e molto cantabile. Però c’è scritto Adagio molto e cantabile. E quando nell’Inno alla gioia Beethoven alla parola “Dio” scrive molto tenuto, vuol dire anche che la nota va tenuta il più a lungo possibile. Quando scrive molto crescendo intende davvero molto”. Bernstein nel parlare non si contenta di un esempio, ma ne ha pronti due che vuol subito spiegare.
Nel secondo movimento Beethoven prescrive dapprima uno sforzato permanente che poi nella ripresa non si trova più – per Bernstein ciò vuol dire che i tempi della battuta hanno la stessa gradazione dinamica, un costante forte, sì che la musica deve incalzare come una tempesta smisurata. “Tutto l’universo trema”, dice Bernstein, che ritorna quindi a parlare dell’Adagio: “Là regna un’atmosfera tranquilla. Quasi non si può più percepire il pulsare della musica. È come se il tempo si fermasse. Gli orologi si fermano tutti, tutti. Segue l’Andante, l’umano, e per noi comprensibile. Deve essere assai scorrevole. E quindi di nuovo l’Adagio – ma questa volta più incisivo, appena più veloce. Tradotto in dati metronomici, significa che comincio con una croma equivalente a 80, nella prima variazione passo a 96, nella seconda a 100, così che la pulsazione della musica aumenta ogni volta di poco. La differenza tra Adagio ed Andante, da me sempre osservata, non è mai stata così grande come questa volta – l’Adagio dovrebbe essere “senza tempo”.
Bernstein ha poi anche detto: “Io mi servo delle parti strumentali mie personali. Questa volta, durante le prove dello Scherzo, sono sorti dei dissensi tra violini e viole – c’erano linee o punti sopra le note, si dovevano suonare staccato o portato? Ed io ho trovato la risposta sul podio. In pianissimo sempre note staccate, poi, nel corso del crescendo, note sempre più tenute – e ciò in tutti gli strumenti. Abbiamo provato e questa è stata la soluzione. Non l’ho trovata prima, bensì durante le prove”.
Leonard Bernstein
Quando Bernstein, ricordando l’episodio, si entusiasma ancora al pensiero di aver risolto tale problema tecnico, pur così tardi, quasi all’ultimo momento, allora si capisce bene come sia assurdo credere all’ispirazione del momento. Questa “ispirazione” è il risultato d’una preparazione di mesi, d’una vita intera. Per Bernstein questa è stata – per dirlo con le sue stesse parole – quasi “un’esperienza religiosa”.
E così via – non si può cessare di parlare di quest’esecuzione senza pensare a tutte le Sinfonie di Beethoven ed all’interpretazione che ne ha dato Bernstein: “Spesso non c’è stato possibile raggiungere quello che volevamo. La conclusione del primo movimento della Nona, per esempio, dovrebbe avere proporzioni simili a quelle delle statue di Michelangelo. Io ho fatto di tutto per rendere in modo giusto e grande queste proporzioni. Adesso, nell’ultimo concerto a Vienna ci siamo riusciti. È stato un dono di Dio”.
E come se volesse ritrattare quel che aveva rivelato del suo lavoro “dietro le quinte”, parla ancora delle Muse che vengono a suggerirgli i tempi giusti – e ciò non è mimetismo, ma una sorta di autoinganno che è assolutamente lecito. Le Muse, in fondo, gli suggeriscono quello che lui stesso ha imparato dalle partitura di Beethoven nel corso di decenni.
Bernstein, nei tanti anni di attività concertistica in Europa, non ha mai schivato le più grandi difficoltà. In Ungheria ha interpretato Bartók, a Vienna Mahler e Beethoven e “Il Cavaliere della rosa” di Richard Strauss. Le Muse sono state sempre con lui. Ma egli è sempre stato pronto a ricevere la loro “visita”.
(Franz Endler)
Otto Klemperer è stato un grandissimo della direzione d’orchestra, fra i più grandi del ‘900 (peraltro il ‘900 è stato un secolo costellato da nomi mitici della bacchetta, da Toscanini a Furtwangler, da Giulini a Walter, da Karajan a Kleiber, da Böhm a Celibidache, da Bernstein a Fricsay……..). L’interpretazione del gigante di Bonn (Beethoven) da parte di questo gigante della bacchetta non può che essere….titanica! Nel senso che viene esaltata la grandiosità del sinfonismo beethoveniano, in parte accentuando l’organico orchestrale, in parte “dilatandone” i tempi… ma è un rallentamento fatto mantenendo sempre l’orchestra “tesa come una corda d’arco”, e quindi il tempo più lento viene apprezzato dall’ascoltatore come una continua esaltazione del lato eroico di queste pagine. Una lettura sicuramente interessante, ma anche appropriata, per la maggior parte delle sinfonie di Beethoven.
Da notare che questo box della EMI contiene tutte le registrazioni beethoveniane di Klemperer, quindi spesso c’è più di una versione per alcune Sinfonie, e questo è motivo di grande gioia per noi appassionati in quanto, oltre a poter confrontare una interpretazione con l’altra, ci è data la possibilità di ascoltare alcune registrazioni ormai introvabili sul mercato ed uscite fuori dal catalogo della EMI da decenni o addirittura mai “digitalizzate” fino ad oggi! La tecnica di registrazione ed incisione, in Mono per alcuni CD (ma tutte e nove le Sinfonie sono anche nella versione in stereo) è decorosa anche se non eccelsa,
come invece la EMI di quegli anni aveva esibito in altre occasioni (anche in molte incisioni dello stesso Klemperer). In questo cofanetto sono incluse tre Ouvertures: Leonore III, Fidelio e Die Weihe des Hauses.
In conclusione questo è un bellissimo box commemorativo (40esimo anniversario della morte), con interpretazioni che hanno fatto non solo scuola, ma anche storia, anzi la Storia della musica.
Buon ascolto a tutti…
Come le Sinfonie di Beethoven hanno trovato il loro pubblico
Per quale motivo Beethoven ha scritto delle Sinfonie? – Se volessimo porre tale domanda, l’unica risposta possibile ci sarà data da una disamina del processo creativo dell’artista: infatti le Sinfonie di Beethoven non si possono annoverare tra le composizioni scritte su commissione. Tuttavia, se si formula la domanda in maniera leggermente differente, sarà allora possibile dare delle risposte molto più concrete. Si dovrebbe chiedere cioè: con quali intenti ed in vista di che cosa Beethoven ha composto le sue sinfonie?
E qui si può rispondere: per i concerti da lui stesso organizzati, nei quali si presentava al pubblico in veste di compositore ed i cui introiti rappresentavano per lui un’importante fonte di reddito.
Le Sinfonie erano dunque per Beethoven un mezzo per farsi conoscere, ma soprattutto gli permettevano di trarre dei guadagni. Non sotto forma di diritti d’autore – come avviene per i compositori d’oggi – bensì grazie agli incassi della serata. Pertanto, per lui il ricavato dalla vendita dei biglietti doveva avere maggiore importanza della fama stessa che sperava di ottenere presentando opere proprie. Ciò spiega perché egli non fosse troppo interessato al fatto che le sue opere, almeno in un primo tempo, fossero proposte in pubblico da altri. Solo quando non poteva più presentare nei concerti propri, gli unici che assicuravano guadagni, qualche sua opera come nuova, o relativamente nuova – il pubblico di allora era sempre avido di novità -, solo allora si decideva a fare il secondo ed ultimo passo in senso commerciale, che portasse ad una più ampia diffusione della propria musica e che pertanto assumeva ai suoi occhi un alto valore ideale: la messa a punto di un’edizione a stampa.
Questo spiega perché tutte le Sinfonie beethoveniane fossero eseguite per la prima volta sulla base di copie manoscritte. Dei copisti erano incaricati di trascrivere le singole parti orchestrali, che erano poi utilizzate in tutte le esecuzioni immediatamente successive, dirette dallo stesso Beethoven o per lo meno da lui predisposte.
Le parti orchestrali erano sempre rivedute e corrette attentamente da Beethoven; in alcuni casi vi apportava dei cambiamenti, in seguito alle esperienze acquisite durante le prove o esecuzioni pubbliche: nel rivedere le parti orchestrali,
Beethoven ha dunque avuto anche occasione di correggersi e migliorarsi.
In genere, non si è trattato tanto di modifiche essenziali o di rilievo, quanto piuttosto di varianti nei dettagli, le quali possono tuttavia risultare quanto mai istruttive. Ciò che si è conservato di questo più antico materiale manoscritto approntato per le prime esecuzioni, si trova ora nell’Archivio della Società degli Amici della Musica (Gesellschaft der Musikfreunde) a Vienna.
Nel dare per la prima volta alle stampe le sue Sinfonie, Beethoven le vendeva ad un editore ed al tempo stesso le offriva ad un pubblico più vasto. Non era prevista alcuna percentuale sulle vendite, bensì semplicemente un’unica somma come onorario.
Otto Klemperer
Dopo le esecuzioni in concerti da lui organizzati, questo era il secondo tipo di guadagno che Beethoven poteva trarre con la composizione di Sinfonie.
Di regola esse venivano eseguite lo stesso anno in cui il musicista finiva di scriverle o al massimo l’anno successivo, mentre le prime edizioni comparivano
l’anno dopo; nel caso della Settima e dell’Ottava Sinfonia Beethoven fece trascorrere tre anni dopo la prima esecuzione, per la Nona invece due anni. Fino alla Sesta Sinfonia le prime edizioni a stampa si ebbero esclusivamente in parti orchestrali staccate, dato che solo queste erano necessarie per una pubblica esecuzione; prima della pubblicazione delle partiture dovettero invece trascorrere ancora una quindicina d’anni, ed a volte persino di più.
Le ultime tre Sinfonie, al contrario, furono pubblicate contemporaneamente in parti singole ed in partitura; ciò si spiega col fatto che cominciava ormai ad imporsi l’usanza del direttore d’orchestra in senso moderno (posto cioè di fronte ad essa), e pertanto l’editore aveva già sufficiente interesse ad accollarsi i rischi di una stampa della partitura ed a sostenerne gli alti costi (assai tipico di un’epoca che non conosceva ancora i diritti d’autore, è che Beethoven non sapesse nulla di un’edizione londinese del 1808/09 – evidentemente non autorizzata – delle partiture delle sue prime tre Sinfonie.)
Beethoven pubblicò la maggior parte delle sue Sinfonie a Vienna. La capitale asburgica era divenuta infatti, già negli ultimi due decenni del 18o secolo, uno dei principali centri europei dell’editoria musicale, forte era la concorrenza tra gli editori, tutti mossi da grande ambizione e pronti ad affrontare non pochi rischi. Erano circostanze ideali per un compositore che volesse ottenere il miglior onorario possibile per le proprie opere, tanto più che poteva usare come arma di contrattazione la minaccia di rivolgersi alla concorrenza straniera. (Ciò in effetti capitava abbastanza di frequente, sebbene gli onorari offerti dagli editori viennesi fossero i più alti.) Solo nel caso della Prima e della Nona Sinfonia Beethoven si rivolse direttamente ad editori stranieri, senza lunghe trattative preliminari a Vienna.
Nel caso della Prima Sinfonia molto probabilmente Beethoven desiderava farsi conoscere al più presto anche al di fuori di Vienna, sua nuova patria d’adozione; per la Nona le ragioni vanno invece ricercate nella dedica a Federico Guglielmo III di Prussia. Il fatto che la Quinta e la Sesta Sinfonia apparvero a Lipsia nel 1809 fu dovuto invece a pressanti contingenze storiche: l’Austria era infatti in guerra con la Francia e Vienna venne occupata quello stesso anno dalle truppe francesi, così che l’editoria della capitale asburgica conobbe una stagnazione sia nella produzione che nelle vendite.
Queste edizioni originali consistevano in incisioni o litografie. La “incisione” delle note su lastre di rame era il metodo più antico usato dall’editoria musicale. Subito dopo il 1800 tuttavia, prendendo le mosse proprio da Vienna, iniziò a diffondersi come metodo alternativo anche la litografia, nella quale righi musicali e note venivano incisi su di una lastra di pietra e trattati con soluzioni acide. Entrambi i procedimenti permettevano di ottenere rapidamente delle copie a seconda delle necessità. I frontespizi – per lo più nella lingua
internazionale dell’epoca, il francese – presentavano un aspetto tipografico pregevole; al centro campeggiava in bella calligrafia il nome del dedicatario dell’opera. Queste dediche erano sempre ben ponderate da parte del compositore, che in segno di gratitudine poteva attendersi dal dedicatario un regalo in denaro oppure una distinzione onorifica; pertanto anche le dediche avevano in ultima analisi un risvolto economico.
Tuttavia nelle figure dei dedicatari delle Sinfonie beethoveniane non si possono mai individuare dei committenti. Vendendo le proprie Sinfonie agli editori, Beethoven cedeva loro tutti i diritti su di esse. Gli editori le pubblicarono poi anche in differenti trascrizioni, e ciò non solo per ragioni commerciali ma anche per venire incontro alle esigenze dei propri clienti.
Chi voleva farsi un’idea più precisa di queste Sinfonie, al di là delle occasioni di ascoltarle in concerto, doveva ricorrere infatti ad una riduzione per pianoforte a due o a quattro mani oppure ad una trascrizione per piccolo complesso da camera, così da poterle suonare ed ascoltare anche tra le pareti domestiche. Le trascrizioni in cui le Sinfonie beethoveniane venivano pubblicate possono apparire oggi piuttosto curiose ed addirittura assurde, tuttavia questi arrangiamenti erano di capitale importanza per diffonderne la conoscenza e metterle a contatto con un pubblico più vasto.
Di questo fatto era ben consapevole Beethoven stesso, anche se come compositore non poteva che avere un atteggiamento critico nei confronti di tali riduzioni. Alcune furono infatti rifiutate, altre approvate, mentre nel caso della Seconda Sinfonia giunse addirittura a scrivere di suo pugno un arrangiamento per Trio con pianoforte.
Anche se non abbiamo troppe informazioni su tutte le esecuzioni di Sinfonie beethoveniane avutesi finché era in vita l’autore, è tuttavia fuori di dubbio che queste composizioni furono conosciute più in riduzioni pianistiche o cameristiche che nella versione orchestrale. Le prime esecuzioni viennesi delle Sinfonie di Beethoven – vale a dire le prime assolute in concerti organizzati dal compositore e le prime repliche di poco successive, in parte dirette ancora da Beethoven o comunque sempre sotto il suo controllo – ebbero luogo in sale o teatri che potevano essere utilizzati per manifestazioni pubbliche nelle occasioni più disparate.
Solo a partire dal 1831, con l’inaugurazione di un edificio di proprietà della Gesellschaft der Musikfreunde, l’Associazione fondata nel 1812, Vienna ebbe infatti la sua prima sala da concerto vera e propria, costruita come tale ed impiegata esclusivamente per esecuzioni musicali.
Otto Klemperer e la New Philharmonia Orchestra
Fino ad allora, per i concerti tenuti nei teatri si approfittava dei giorni in cui non vi erano in programma degli spettacoli; in tali giorni gli organizzatori dei concerti potevano affittare sia dei teatri di prosa che dei teatri lirici, come il Grosser Redoutensaal (Grande Salone delle feste) della Imperial-Regia Hofburg, il palazzo imperiale, o il Salone delle feste dell’Università – tanto per fare solo due esempi.
La prima esecuzione della Prima Sinfonia (1800) ebbe luogo in un concerto per il quale Beethoven aveva affittato il Burgtheater – o più precisamente: “Imperial-Regio Teatro presso la Hofburg”. La Seconda (1803), la Terza (1805), la Quinta e la Sesta Sinfonia (1808) furono invece eseguite per la prima volta nel Theater an der Wien, ancora oggi esistente.
Per la prima esecuzione della Nona Sinfonia (1824) Beethoven affittò il Karntnertortheater (“Imperial-Regio Teatro presso la Porta Carinzia”); si trattava anche in questo caso di un teatro di corte, come il Burgtheater, mentre il Theater an der Wien, fatto erigere da Emanuel Schikaneder (il celebre attore ed autore fra l’altro del libretto del Flauto magico di Mozart), era un teatro privato. Nel marzo del 1807 Beethoven organizzò due concerti nel Salone delle feste del Palazzo Lobkowitz; in uno di questi concerti fu eseguita per la prima volta la Quarta Sinfonia. Questo Salone di regola non veniva usato per concerti pubblici, ma era per lo più messo a disposizione di artisti amici del principe o da lui protetti.
Si trattava della sala più piccola fra quelle che abbiamo finora ricordato, tuttavia fu anche l’unica in cui Beethoven non dovete pagare l’affitto. Il Salone delle feste dell’Università (oggi: Vecchia Università), dove nel 1813 Beethoven fece eseguire per la prima volta la sua Settima Sinfonia, era già da tempo familiare al compositore.
Nell’inverno 1807/08 una Società precorritrice della Gesellschaft der Musikfreunde aveva organizzato proprio in questo Salone un ciclo di venti concerti, undici dei quali avevano in programma anche opere di Beethoven, in parte dirette dall’autore stesso.
Dal momento che sappiamo con certezza che per questo ciclo furono distribuiti 1102 abbonamenti e 207 biglietti gratuiti per gli artisti, possiamo valutare anche il numero complessivo degli spettatori presenti ad ogni concerto. Se si tengono presenti le dimensioni del Salone, tuttora esistente, bisogna allora constatare che un tale numero di persone poteva essere raggiunto solo a patto che una buona parte del pubblico rimanesse in piedi.
Ciò spiega anche perché le indicazioni sulla capienza dei teatri succitati divergono così profondamente; in essi infatti, sia in platea che tra le file delle sedie, vi erano sempre dei posti in piedi e questi probabilmente non erano limitati. In media, dunque, nei teatri dovevano trovar posto non meno di 1500 persone.
Il Grosser Redoutensaal, anche questo tuttora esistente, dispone oggi per le manifestazioni artistiche 400 posti a sedere. Si può ben immaginare non solo l’affluenza ma anche la gran ressa di pubblico durante i concerti qui tenuti agli inizi del 19o secolo, se si tiene presente che a quell’epoca avevano accesso alla sala fino a 1000 spettatori, buona parte dei quali non poteva che rimanere in piedi. Qui Beethoven fece eseguire per la prima volta la sua Ottava Sinfonia.
In qualità di organizzatore di questi concerti, Beethoven si assumeva certamente un rischio, tuttavia non ebbe mai occasione di pentirsene. Infatti, non solo fu sempre in grado di coprire interamente le spese del teatro, ovvero della sala, e degli esecutori, ma riuscì anche a trarne dei guadagni – in ciò conformemente alle finalità dei concerti stessi. Ciò nonostante, Beethoven non rimase sempre del tutto soddisfatto ed il successo artistico non fu sempre così entusiastico come nella prima esecuzione della Settima Sinfonia, l’8 dicembre 1813 nel Salone delle feste dell’Università, fatto questo che indusse il compositore a replicare per ben tre volte l’intero concerto.
Le Sinfonie di Beethoven hanno sempre trovato un loro pubblico: prima nelle sale da concerto di Vienna; poi, tramite le edizioni a stampa, all’estero, sulla scena musicale internazionale; infine, con le trascrizioni che gli editori approntavano e diffondevano, anche nella più ristretta cerchia della “musica domestica” e – come si usava dire a quell’epoca – nei “salotti musicali”.
(Traduzione: Marco Marica)
Questa è una raccolta fantastica delle nove sinfonie di Beethoven, con Herbert von Karajan sul podio dei Berliner Philharmoniker. La chiarezza del master digitale è sbalorditiva. Mentre si potrebbe discutere su quale sia l’interpretazione migliore dell’illustre maestro austriaco delle sinfonie beethoveniane, questa rimane tra le migliori registrazioni di queste magnifiche partiture. Sono consapevole che le tecniche di registrazione sono continuamente in evoluzione. La registrazione digitale diretta consente una maggiore precisione nei master risultanti. Naturalmente, le tecniche d’incisione migliorate non scalfiscono la qualità delle antecedenti prestazioni.
Le Sinfonie di Beethoven nella riflessione critica – Una scelta di Hans- Gunter Klein
La presente scelta mette a confronto, per ogni Sinfonia, le reazioni di critici contemporanei di Beethoven con i giudizi di autori vissuti negli ultimi cento anni. Alcune citazioni sono state considerevolmente abbreviate senza che ne sia stata fatta ogni volta esplicita menzione.
Sinfonia n. 1 op. 21
Prima esecuzione: 2 aprile 1800 nel Burgtheater di Vienna
Una Sinfonia in cui c’era moltissima arte, novità e ricchezza di idee; l’impiego degli strumenti a fiato era però eccessivo.
Allgemeine Musikalische Zeitung 1800
sulla prima esecuzione assoluta a Vienna.
Una Sinfonia piena di spirito, vigorosa, originale e difficile – solo che qua e là è troppo ricca di dettagli.
Allgemeine Musikalische Zeitung 1802
sulla prima esecuzione a Lipsia.
La Sinfonia è d’un genere totalmente differente da una Sinfonia di Haydn anch’essa eseguita in quell’occasione. Lo stile è chiaro, brillante e agile. La Revue Philosophique, Litteraire et Politique 1807 sulla prima esecuzione a Parigi.
La Sinfonia in do maggiore è pure una creatura del Reno, un poema di un adolescente che sorride ai suoi sogni. È una Sinfonia gaia, languida; vi si sente il desiderio e la speranza di far cosa grata. Ma in alcuni passaggi, nell’introduzione, nel chiaroscuro di alcuni bassi cupi, nel bizzarro Scherzo, si avverte in questa giovane figura – con tanta emozione! – lo sguardo del genio avvenire. Sono gli occhi del Bambino nelle Sante Famiglie di Botticelli, quei piccoli occhi infantili in cui si crede già di leggere la prossima tragedia. Romain Rolland 1903
Sinfonia n. 2 op. 36
Prima esecuzione: 5 aprile 1803 nel Theater an der Wien
Un’opera singolare, colossale, di una profondità, energia e sapienza artistica come pochissime altre; di una difficoltà esecutiva certamente ignota a tutte le sinfonie finora conosciute. Bisogna sentirla sempre di nuovo prima che l’ascoltatore sia in grado di cogliere il particolare nell’insieme e l’insieme nel particolare – per non parlare poi del fatto che ognuno si deve abituare un po’ a quelle tante singolarità che la caratterizzano quasi per intero.
Allgemeine Musikalische Zeitung 1804 sulla prima esecuzione a Lipsia.
Un’immensa ricchezza inventiva, effetti strumentali di affascinante bellezza timbrica, inoltre un liberissimo trattamento della forma, che sotto il peso delle idee si piega e si amplia – il tipo della sinfonia viennese si è sviluppato alla perfezione, pervenendo quasi ad un’eccessiva maturazione. È qui preannunciata l’intera produzione sinfonica della generazione successiva. Paul Bekker 1911
Sinfonia n. 3 op. 55 “Eroica” Prima esecuzione pubblica: 7 aprile 1805 nel Theater an der Wien
Questa lunga composizione, d’esecuzione estremamente difficile, è in realtà una fantasia sviluppata assai ampiamente, audace e sfrenata. Non vi mancano affatto passaggi sorprendenti e belli, in cui si deve riconoscere lo spirito energico, pieno di talento, del suo creatore: ma assai spesso sembra perdersi completamente nel disordine. Il recensore è senz’altro uno dei più sinceri ammiratori di Beethoven, ma deve confessare di rinvenire in questa composizione fin troppe cose stridenti ed eccentriche.
Allgemeine Musikalische Zeitung 1805
su un’esecuzione privata che precedette la prima pubblica.
Sì, l’eroe era la quintessenza del mondo per Beethoven. I suoi sguardi caddero sulla grande stella di Bonaparte. Beethoven gli dedicò la sua composizione ancor prima di scriverla. Ma le cose andarono assai diversamente. Quando l’ebbe composta, ecco che il console Bonaparte si mise in cattiva compagnia. Pieno di sdegno, Beethoven strappò la dedica e con ironia tagliente vi pose, al posto di questo grande nome, quello di un semplice, mediocre aristocratico. Ora, noi abbiamo tolto via anche questa nuova dedica, e non abbiamo bisogno di cercare a lungo chi dovrà figurare sul frontespizio della Sinfonia Eroica. La consacriamo oggi al più grande uomo di genio che ha visto la luce dopo Beethoven. La dedichiamo al fratello di Beethoven della politica tedesca, al principe Bismarck!
Hans von Bulow 1892.
Sinfonia n. 4 op. 60
Prima esecuzione: 7 marzo 1807 nel palazzo Lobkowitz a Vienna
D’ un tratto entrò colui che aziona il mantice dell’organo, e gli strumenti si separarono spaventati, poiché sapevano bene come la sua mano robusta li impacchettava e li portava alle prove. “Aspettate”, gridò, “vi ribellate già un’altra volta? Aspettate! Sarà subito la volta della Sinfonia Eroica di Beethoven, e chi potrà allora muovere un qualche arto o un pistone, si faccia avanti!”
“Ah, questo proprio no!” pregarono tutti. “Meglio un’opera italiana, là si può ancora ogni tanto schiacciare un pisolino”, disse la viola. “Sciocchezze!” gridò l’assistente all’organo, “ve lo insegneranno bene! Credete forse che nella nostra epoca illuminata, in cui ci si spinge al di là di ogni misura, un compositore rinunci per causa vostra al suo divino, immenso estro spirituale?
No, sentite la ricetta della più recente Sinfonia, che ho appena ricevuto da Vienna, e giudicate di conseguenza: prima di tutto, un tempo lento, pieno di brevi idee sconnesse (introduzione al primo movimento), dove a nessuna di esse è consentito di collegarsi alle altre, tre o quattro note ogni quarto d’ora! – È eccitante! Poi un cupo rullo di timpani e misteriosi passaggi delle viole, il tutto adornato con la dovuta porzione di pause geniali e sospensioni; finalmente, dopo che l’ascoltatore tra tanta tensione ha già rinunciato all’Allegro, un tempo furioso, in cui si deve pensare soprattutto a non far emergere nessun’idea principale.”
Carl Maria von Weber 1809
Rispetto alla musica sonatistica, le audacie dell’introduzione (al primo movimento) si qualificano come una compiuta opposizione ad essa, anzi giungono a negarla, ad evitarla – spingendosi avanguardisticamente ben al di là della sua situazione linguistica, ma pur sempre con una funzione che è come un’apologia dello “status quo”. Inversamente, l’introduzione deve confrontarsi ad ogni istante con la logica stabilizzata; non è solo la licenza a creare qualcosa di singolare che sta all’origine di quelle audacie, ma anche la necessità di evitare qualcosa. Per l’orecchio, l’introduzione perviene alla negazione della logica stabilizzata, deludendo ogni aspettativa preformata: cadenze d’inganno, inflessioni sorprendenti, risoluzioni fittizie, arbitri ne fanno parte (di necessità, nel senso di una “contraddizione nel sistema”).
Peter Gulke 1969
Sinfonia n. 5 op. 67
Prima esecuzione: 22 dicembre 1808 nel Theater an der Wien
La musica di Beethoven muove le leve del brivido, della paura, del terrore, del dolore e risveglia quello struggimento infinito che è l’essenza del Romanticismo. Beethoven porta nel profondo dell’animo il Romanticismo musicale, che sa esprimere nelle sue opere con somma genialità e riflessione. Questo il recensore non l’ha avvertito in modo più vivo che in questa Sinfonia, che in un’intensificazione sempre crescente fino alla conclusione rivela più d’ogni altra sua composizione il romanticismo beethoveniano, trascinando irresistibilmente l’ascoltatore nel meraviglioso regno ideale dell’infinito.
Ernst Theodor Amadeus Hoffmann 1810
In molte composizioni di Beethoven i movimenti finali riassumono in sé i problemi dell’intera opera, “correggono”, rifiutano “soluzioni” offerte da altri movimenti, sì che il Finale riceve una funzione paragonabile alla soluzione del conflitto nel dramma. L’ultimo movimento della Quinta Sinfonia è il primo dei giganteschi Finali di Beethoven. Che il primo movimento di questa Sinfonia prospetti un problema senza risolverlo, risulta già dalla sua impostazione. Il secondo movimento tenta una soluzione, che però fallisce. Solo l’ultimo movimento perviene ad una soluzione. Quello spettatore entusiasta che – come si racconta – in occasione dell’esecuzione parigina della Quinta salutò l’inizio del Finale con le parole “C’est l ‘Empereur! Vive l ‘Empereur!”, non aveva poi tutti i torti. Anche se Beethoven aveva da tempo rinunciato a collegare l’idea della vittoria popolare con la figura di Napoleone, tuttavia per tutta la vita trasse dalla Rivoluzione Francese quegli accenti con cui seppe dare espressione a forza popolare e vittoria. Di questo si tratta dunque: i travagli ed i dubbi del singolo possono essere “risolti” solo nella vittoria di tutto il popolo. Georg Knepler 1961
Sinfonia n. 6 op. 68 “Pastorale”
Prima esecuzione: 22 dicembre 1808
nel Theater an der Wien
È veramente eccentrica la via che lo stesso Beethoven si è tracciata: egli ci innalza al di sopra della normalità e ci conduce nel regno della fantasia, sebbene a volte in maniera alquanto rude. Più di tutto ci è piaciuto il primo Allegro, meno la scena presto il ruscello. L’intrattenimento in campagna (Minuetto) ed il Temporale che segue sono brani sommi ed assai caratteristici. Ma l’ascoltatore non esperto aveva difficoltà ad addentrarsi in tutti quei segreti per lui impenetrabili. Il linguaggio musicale qui impiegato è ancora sconosciuto a tantissimi.
Allgemeine Musikalische Zeitung 1812
sulla prima esecuzione a Monaco.
Questo straordinario passaggio sembra essere stato ideato da Poussin e disegnato da Michelangelo. L’autore ha senza dubbio creato il mirabile Adagio (si tratta in realtà della Scena presto il ruscello) disteso sull’erba, con gli occhi al cielo, l’orecchio al vento, affascinato da migliaia e migliaia di dolci riflessi di suoni e di luce, contemplando ed ascoltando allo stesso tempo le piccole ondate argentee e scintillanti del ruscello, che si rompevano con un leggero mormorio di ciottoli sulla riva – un incanto!
Hector Berlioz 1838
La popolarità della Sinfonia Pastorale è dovuta ad un malinteso abbastanza diffuso nel rapporto tra uomo e Natura. Pensate alla scena presto il ruscello…… Sembra che in questo ruscello vengano ad abbeverarsi le mucche (il suono dei fagotti mi spinge a crederlo). In questa Sinfonia Beethoven si
rivela come il rappresentante di un’epoca che sapeva contemplare la Natura soltanto attraverso i libri…… Ciò si verifica nel “Temporale” che fa parte della medesima Sinfonia, nel quale il terrore degli esseri umani e delle cose si avverte nelle pieghe dell’ammanto romantico, mentre rimbomba un tuono da non prendere troppo sul serio.
Claude Debussy 1903
Sinfonia n. 7 op. 92
Prima esecuzione: 8 dicembre 1813
nella Grande Sala dell’Università di Vienna
Tutto, ad eccezione del movimento in la minore (l’Andante), fu sentito come del caviale che solo gli intenditori sanno gustare; ma a poco a poco si rivelarono altre bellezze, anche se da una riduzione di almeno 10 minuti la Sinfonia può trarre giovamento e miglioramento.
William Ayrton
(uno dei fondatori della Philharmonic Society di Londra) 1817
dopo la prima esecuzione a Londra
(Una lirica) (Poco sostenuto – Vivace). La dovizia celeste nelle terre del Sud ravviva i canti alla festa dell’uva. Risplende la frutta dorata nelle cascine e pergole, tutt’intorno si beve a profusione il vino stagionato. (Allegretto). Una giovane coppia riesce ad appartarsi, sussurrandosi querele e rampogne sempre più intense. Così dovranno passare ancora alcuni istanti perché possano poi godere appieno momenti di gioia. (Presto). La gioventù, leggiadra, agile e spigliata, ama unirsi nello scherzo e nei giochi; gli anziani stanno a guardare, tranquilli e di lieto umore. (Allegro con brio). Si sente il desiderio di danze locali: su con tamburino e le castagnette! Che la grazia faccia a gara con la bellezza.
S. v. W (?) 1825
(Berliner Allgemeine Musikalische Zeitung)
Sinfonia n. 8 op. 93
Prima esecuzione: 27 febbraio 1814
nel grande Redoutensaal di Vienna
Il Finale è una di quelle composizioni, a proposito delle quali il recensore – anche ad un esame assai attento – non osa affermare con certezza, se durante la loro esecuzione riescano a destare l’effetto desiderato, o se pure un orecchio meno esercitato sia in grado di seguire il flusso di idee del compositore, di decifrare questo groviglio così manifestamente caotico.
Allgemeine Musikalische Zeitung 1818
in una recensione della prima edizione a stampa.
Il Finale è il movimento più spiritoso, per non dire il più irruente della Sinfonia. È un Beethoven schietto, nella sua vena più matura, individuale e caratteristica, ricca di genuino umorismo, di quelle sorprese create da improvvisi ed inattesi effetti, di quella mescolanza di tragedia e commedia, per non dire farsa, che ebbe una parte così significativa nella sua esistenza, e che fa della sua musica uno specchio fedele della vita umana, così autentico nella sua sfera di espressione artistica come i grandi drammi di Shakespeare lo sono nella propria – e ciò per ragioni simili.
Georg Grove 1896
Sinfonia n. 9 op. 125
Prima esecuzione: 7 maggio 1824
nel Karntnertortheater di Vienna
Nella Sinfonia non rileviamo un venir meno del talento creativo di Beethoven; vi si mostrano tanti nuovissimi tratti caratteristici, e nella sua tecnica compositiva si rivelano un’ingegnosità sbalorditiva ed un’inalterata energia spirituale. Ma con tutti i pregi che indiscutibilmente possiede, la Sinfonia è lunga almeno il doppio del dovuto.
The Harmonicon 1825
sulla prima esecuzione a Londra.
Ma per quanto riguarda il grande e intoccabile Finale, non c’è ancora nessuno che abbia osato dire la verità, anche se il compositore sembra averla riconosciuta lui stesso. La verità è che la musica è in parte estremamente banale. Per esempio, l’ultimo Prestissimo e la prima proposizione del tema da parte di tutta l’orchestra non sono altro che musica per banda militare tedesca, più o meno del livello del Kaisermarsch (Marcia imperiale) wagneriano. E poi, il più grande errore sta nel “messaggio” e ancora, mi si perdoni l’espressione, nel “medium”. Il messaggio delle voci è limitato e sminuisce considerevolmente il messaggio di quella musica che non è fornita di testo.
Igor Stravinski 1970
Ad una prima impressione sembrerebbe che la controspinta concettuale della Nona Sinfonia si appoggi soprattutto sul quarto movimento. Ma non sono soltanto dettagli riguardanti il materiale e la tecnica compositiva a contraddire l’ipotesi che questo Finale costituisca il vero e proprio nucleo della Sinfonia. Ciò che Beethoven intendeva rivelare in questa musica non era l’iridescente disegno di un ideale, ma le sue riflessioni ed esperienze sulla attualità di questo stesso ideale. Questo lo fa nel primo movimento. Ne sono tema: gli sforzi, le fatiche e ricadute sulla via che conduce alla meta, su una via travagliata e
piena di avversità, l’unica che sembra però possibile a Beethoven per giungere alla meta rivoluzionaria, dove milioni di uomini si tengono veramente abbracciati.
Jens Brockmeier e Hans Werner Henze 1981.
Herbert von Karajan
Le Ouvertures, drammi concisi e concentrati – Stefan Kunze
Nonostante che l’opera “Leonore” (1804/05, 1805/06), poi denominata “Fidelio” nella versione definitiva del 1814, gli avesse procurato esperienze anche dolorose, Beethoven si sentì tuttavia sempre più attratto dal teatro. Il fatto che fino al 1807 aveva composto ben tre Ouvertures per la “Leonore”, indica che Beethoven, il grande compositore di musica strumentale, deve aver avvertito soprattutto la forte esigenza di trasformare lo sviluppo d’idee d’un dramma in un brano strumentale autonomo e tuttavia ben eloquente. A tale fine si rivelava appropriato il genere dell’ouverture, innalzato d’improvviso ed inaspettatamente a grande significato già da Mozart (soprattutto con “Don Giovanni”), e poi da Cherubini, il compositore assai stimato da Beethoven. Così fu scritta nel 1807 l’ Ouverture per la tragedia “Coriolano” (1802) di heinrich Joseph von Collin (1771- 1811). Collin era un poeta drammatico che allora godeva a Vienna di una grande stima – il suo “Coriolano” vi riscuoteva molto successo – ed era anche amico di Beethoven, che a lui dedicò quest’Ouverture.
Il compositore non l’aveva scritta per una rappresentazione della tragedia, ma come composizione autonoma. Tuttavia Beethoven poteva contare sulla notorietà dell’opera di Collin, nella quale il cognato di Mozart, l’autore Joseph Lange, aveva riportato successi trionfali nel ruolo del protagonista. La prima esecuzione dell’Ouverture si ebbe nel marzo 1807 in uno dei concerti per sottoscrizione organizzati nel Palazzo del principe Lobkowitz. Il 24 aprile l’Ouverture fu eseguita per la prima volta in occasione di una ripresa della tragedia di collin, ed il motivo di questa ripresa – in un singolare rovesciamento dei termini – deve esser stato offerto proprio dall’Ouverture di Beethoven. È una di quelle composizioni che per la loro “energia e fervore” suscitarono subito pieni consensi. Un’entusiastica recensione dell’Ouverture fu scritta nel 1812 nientemeno che da E.T.A. Hoffman, il quale vi scorgeva una ricchezza di contenuti di gran lunga superiore al dramma di Collin. In effetti, nell’imponente introduzione, che con i suoi unisoni dilatati e vigorosi impulsi dell’orchestra non sembra inquadrabile nel tempo principale (Allegro con brio), si profila un evento tragico.
Non fu un caso che Beethoven scelse qui la tonalità di do minore. I caratteri di questo “dramma” si dispiegano però nei temi, l’uno dinamico, incalzante, articolato, l’altro che è come l’immagine di un meraviglioso mondo ideale. Beethoven innalza una “costruzione di grande arte” con “elementi estremamente semplici”. In tratti assai incisivi si svolge un dramma sonoro che si conclude con l’estinzione del soggetto intelligente, e che può essere compreso senza che si renda necessaria una successiva esplicazione sulla scena.
A differenza dell’Overture di “Coriolano”, quella di “Egmont” (1809/10) fa parte delle musiche di scena per la tragedia di Goethe. L’incarico di comporre queste musiche di scena era stato affidato a Beethoven dalla direzione dell’Imperial-Regio Teatro di corte. Si era allora deciso di far rappresentare “Egmont” di Goethe e “Wilhelm Tell” di Schiller. Pare che Beethoven – secondo quanto riferì Carl Czerny – avesse mostrato interesse soprattutto per il “Tell”, ma l’incarico di scrivere le musiche di scena fu dato al compositore viennese Adalbert Gyrowetz. E in una lettera di Beethoven del 21 agosto 1810 si può leggere che egli aveva scritto la musica per “Egmont” “solamente per amore per il poeta”. Fece pervenire a Goethe la partitura originale, su cui si basò la prima edizione da parte dell’incisore, e gliela annunciò in una lettera in cui si possono leggere tra l’altro queste parole: “…… questo meraviglioso Egmont, che attraverso Lei io ho rimediato, sentito e messo in musica con quel medesimo fervore con cui l’avevo letto – desidero vivamente conoscere il suo giudizio a proposito……” (12 aprile 1811).
Goethe ringraziò cortesemente. Il 15 giugno 1810 “Egmont” fu rappresentato per la prima volta con le musiche di scena di Beethoven. (Il ruolo di Klarchen fu recitato e cantato da Antonie Adamberger, figlia del primo Belmonte nel
“Ratto dal serraglio” mozartiano). L’Ouverture di “Egmont” non offre un’immagine concisa degli sviluppi drammatici che si dispiegheranno sulla scena, ma presenta una vicenda sonora che riecheggia lo spirito della tragedia goethiana, e che trae la sua sostanza ideale da strutture musicali autonome. Per la sua tonalità di fa minore, cupa e intrisa d’un senso di fatalità (come nella scena del carcere del “Fidelio”!), e per la fisionomia gravemente espressiva dei suoi motivi, la greve introduzione (Sostenuto, in 3/2) – che inizia con un unisono tenuto, come l’Ouverture del “Coriolano” – rivela un mondo di sofferenze e conflitti eroici.
I motivi della sezione principale (Allegro in 3/4) sono talmente impregnati di una ardente ed energica volontà combattiva, la costruzione formale è talmente dominata da un risoluto senso di azione drammatica, che Beethoven non ha bisogno di conformarsi né ai vari episodi della tragedia né ai suoi personaggi, ma può invece erigere nei moduli formali di esposizione, sviluppo conciso e ripresa, un’architettura strumentale serrata, con tutti i segni di una densa sequenza di eventi.
Questa raggiunge il suo acme alla fine dell’Allegro, quando il motivo inesorabilmente pulsante che era già risuonato con ampia gravità nel Sostenuto introduttivo provoca una rottura. Segue un momento in cui tutto si spegne (p p p), quindi si leva il trionfale Allegro con brio, con la sua estatica marcia (ora in fa maggiore, che anticipa la “Siegessymphonie” (Sinfonia della vittoria), la conclusione di queste musiche di scena per “Egmont”. Sebbene sia difficile condividere ancora la famosa interpretazione di E.T.A. Hoffman, che Beethoven avesse voluto raffigurare nell’Ouverture l’amore di Egmont e Klarchen, tuttavia si rivelano giuste queste sue parole: “È un fatto che procura veramente grande gioia, vedere congiunti in un’opera splendida due grandi maestri”.
La “Leonora n. 3” in do maggiore, è la più ampia e senza dubbio la più importante di tutte le Ouvertures beethoveniane – va qui ricordato che la Leonore n. 1 è del 1806/07, mentre la n. 2, composta nel 1804/05 fu eseguita in occasione della rappresentazione della prima versione dell’opera, nel 1805. La Leonora n. 3 fu composta per la ripresa dell’opera nella sua seconda, e ridotta, versione, il 29 marzo 1806.
La critica sfavorevole all’Ouverture della versione precedente potrebbe aver indotto Beethoven a rielaborarla. Ma anche la nuova versione dell’Ouverture non piacque. Ciò “per le incessanti dissonanze ed il quasi ininterrotto, sovraccarico garrire dei violini; c’è più artificio che arte autentica……” (Zeitung fur die elegante Welt). In effetti è qui spezzata la cornice di un’ouverture – beninteso, di un’ouverture d’un’opera che inizia come un Singspiel. Eppure la Leonora n. 3, come già la n. 2 e quindi la n. 1, si ricollega alla vicenda dell’opera. Nell’Adagio introduttivo di ampie proporzioni, dopo un
motivo discendente – è un po’ come una discesa nelle tenebre d’un carcere – risuona il tema della grande Aria di Florestan (“In des lebens Fruhlingstagen”).
Ludwig van Beethoven
Alla fine dell’imponente e contrastato sviluppo dell’Allegro, e cioè nel punto sempre critico nella costruzione d’un movimento sinfonico, si ode da fuori (“sul teatro”) il segnale della tromba, che nell’opera annuncia la liberazione. Coerentemente con la trama dell’opera, nella Leonora n. 2 prorompe subito il giubilo trionfante del Presto conclusivo. Ma la Leonora n. 3 fu invece ampliata da Beethoven: vi scrisse una ripresa di considerevoli proporzioni, che precede e differisce l’esplosione del Presto finale.
Richard Wagner criticò questa deviazione dall’effettivo svolgimento degli eventi drammatici e dette la preferenza alla Leonora n. 2. Ma a Beethoven premeva di più innalzare i momenti ideali del dramma in un contesto valido e reale nella sua autonomia musicale, e non invece la semplice definizione dell’azione concreta in una forma stringata.
Poiché la terza, definitiva versione di “Leonore”, ora denominata “Fidelio” (1814), non cominciava più con l’Aria in do minore di Marzelline, ma con un Duetto in la maggiore, Beethoven si sentì costretto a comporre una nuova Ouverture. Si tratta dell’Ouverture del “Fidelio”, in mi maggiore, che non fu però terminata per la prima rappresentazione (23 maggio 1814) di quest’ultima versione dell’opera, ma fu eseguita solo durante la seconda rappresentazione, il 26 maggio 1814. Qui Beethoven rinunciò a fare qualunque anticipazione degli eventi scenici. Eppure non si può immaginare nessun altro brano che sia in grado di immettere così irresistibilmente l’ascoltatore nell’ethos febbrile del “Fidelio”.
(Traduzione: Gabriel Cervone)
Cultura musicale e orchestrale a Vienna ai tempi di Beethoven – Otto Biba
Chi volesse considerare in qual modo a Vienna ed ai tempi di Beethoven si realizzassero le esecuzioni di sinfonie beethoveniane, dovrebbe prima di tutto tener presente che allora nelle manifestazioni concertistiche pubbliche non suonavano orchestre di professionisti. C’erano orchestre fisse e stabili di musicisti professionisti nei teatri, dove si eseguivano opere, Singspiel e musiche di scena; queste orchestre erano però disponibili solo in casi eccezionali, nei pochi giorni liberi dalle incombenze nei teatri. La cappella musicale di corte era attiva unicamente nella corte imperiale, mentre per motivi economici le orchestre dei palazzi aristocratici, pur di antica data, erano già state disciolte o ridotte ad un organico cameristico.
Il compositore o interprete che intendesse dare un concerto a Vienna, lo doveva organizzare per proprio conto, dal momento che non esisteva ancora la figura dell’impresario di concerti nel senso moderno dell’espressione. In assoluta indipendenza e a propria discrezione l’artista poteva scegliere date e programmi,
ma doveva provvedere personalmente ai preliminari organizzativi.
Tra l’altro doveva reperire un’orchestra, e normalmente era lo stesso artista che doveva metterle insieme. È vero sì, che Mozart per i sei concerti in abbonamento da lui stessi organizzati nel 1785 ebbe a disposizione un’orchestra d’un teatro (forse addirittura l’orchestra dell’Opera di corte); ed è anche vero che nel concerto di Beethoven del 2 aprile 1800 nello Hofburgtheater suonò appunto l’orchestra di quel teatro, mentre nell’altro concerto beethoveniano del 5 aprile 1803 nel Theater an der Wien (quando fu eseguita per la prima volta la seconda Sinfonia) fu con ogni probabilità l’orchestra di quell’altro teatro a suonare.
Ma queste erano eccezioni: nel fissare le date dei loro concerti, Mozart e Beethoven avevano infatti scelto proprio quei giorni in cui i teatri rimanevano chiusi.
In tutti gli altri casi gli strumentisti dovevano essere scritturati singolarmente e quindi raggruppati in un’orchestra. La corrispondenza di Beethoven, i suoi quaderni di conversazione ed altre fonti offrono numerose informazioni dettagliate a tale riguardo. Questa prassi, per cui un’orchestra veniva predisposta all’occasione e presentata in un concerto dopo un esiguo numero di prove, potrà sembrare a noi quasi inconcepibile, ma d’altro canto non abbiamo una chiara idea di quanto in realtà fossero abili e ricchi di routine gli esecutori di allora.
Un esame del materiale musicale di quell’epoca ne offre un’evidente testimonianza. Mentre a partire all’incirca dalla seconda metà del secolo 19o si possono rilevare nelle parti strumentali le minuziose annotazioni degli esecutori per ciò che riguarda tipo d’arcata e fraseggio – né vi mancano poi indicazioni da parte del direttore d’orchestra – nelle parti strumentali che risalgono alla fine del secolo 18o ed all’inizio del 19o è difficile trovare annotazioni del genere. Le indicazioni essenziali di fraseggio erano già nel testo musicale, e per il resto – come ad esempio per il tipo d’arcata – ci si poteva attendere a quelle norme d’esecuzione strumentale, che nell’apprendimento d’uno strumento venivano insegnate unitamente alla tecnica.
Quali musicisti potevano essere impiegati in linea di massima in un’orchestra? – In primo luogo i professionisti che non erano impiegati in un’orchestra di teatro, ma che invece si guadagnavano da vivere insegnando, suonando in complessi cameristici al servizio degli aristocratici (in casi più rari) nell’ambito delle celebrazioni liturgiche.
Ma poi c’erano anche i dilettanti – nel significato che allora aveva questo termine: il dilettante era un musicista che aveva studiato il suo strumento, ma che non si guadagnava da vivere con l’attività musicale.
Già nel 1781 un certo Philipp Jakob Martin tentò di fare l’impresario di concerti sinfonici a Vienna, e mise così insieme un’orchestra di dilettanti per un intero ciclo di concerti. Tentativi effimeri di dar vita ad orchestre simili si ebbero
anche negli anni seguenti, ma a riguardo non abbiamo in pratica ulteriori e più precise informazioni. Più importanti di tutti gli altri sembrano essere stati i “Liebhaberkonzerte” (Concerti di appassionati), che si svolgevano d’estate nell’ Augarten di Vienna e che per un periodo furono diretti da Ignaz Schuppanzigh. Bisogna attendere il 1807 per avere una documentazione assai precisa su un ciclo di venti concerti organizzati da una “Gesellschaft von Musikfreunde” (Società di amici della musica). Da questa ricca documentazione apprendiamo che questo ciclo di concerti, svoltosi tra il novembre 1807 e il marzo 1808 e basato sulle esperienze fatte in precedenti tentativi dello stesso genere, non poté continuare per motivi economici; esso però può esser considerato come un’anticipazione dei concerti organizzati dalla “Gesellschaft der Musikfreunde” (Società degli amici della musica), fondata nel 1812. Con 14 composizioni Beethoven fu, dopo Mozart, l’autore più eseguito nel ciclo concertistico del 1807/08.
Beethoven fu presente ad ogni concerto e ne diresse poi almeno uno. Sappiamo ancora che distribuì 11 biglietti gratuiti per ogni concerto ad amici, conoscenti ed allievi. Possiamo dunque considerare questa documentazione, che per fortuna è giunta sino a noi ed è stata scoperta solo alcuni anni fa, come indicativa per ciò che riguarda la vita concertistica viennese a quell’epoca, ed al tempo stesso, più in particolare, indicativa per ciò che riguarda le esecuzioni di composizioni beethoveniane.
In tutti e venti i concerti l’orchestra contava 55 componenti ed era costituita quasi sempre dalle stesse persone. Violini, viole e violoncelli erano suonati quasi esclusivamente da dilettanti; erano professionisti solo il primo violino, la prima viola e il primo violoncello. I contrabbassi erano invece tutti professionisti.
Quanto al gruppo degli strumenti a fiato, molti erano qui i professionisti; solo i due flautisti ed il primo clarinetto erano dilettanti. I 18 strumentisti professionisti provenivano dalle orchestre del Theater an der Wien, dello Hofburgtheater e del Karntnertortheater. I nomi di Franz Clement – cui Beethoven dedicò il suo Concerto per violino e orchestra – e di Joseph Mayseder – capostipite di una scuola violinistica viennese – indicano come anche per artisti di primo piano fosse assai naturale suonare in un’orchestra insieme con musicisti dilettanti. Clement era primo violino, mentre Mayseder guidava i secondi violini.
Tra i dilettanti troviamo aristocratici, alti e medi funzionari di Stato, tre avvocati, un medico e quindi dei commercianti. Nell’elenco degli orchestrali dilettanti compare anche il nome dell’allor giovane Conradin Kreutzer, che in quel periodo dimorava a Vienna. È interessante notare come nei primi cinque concerti al primo violino suonasse il banchiere Johann Baptist Haring. Sebbene nel 1808 si dicesse di lui che come violinista avrebbe potuto umiliare non pochi
maestri di questo strumento, insorsero tuttavia dissapori – non si sa se artistici o personali – e così Haring fu sostituito con il violinista professionista Clement. Si sa ben poco della formazione musicale di questi dilettanti.
Herbert von Karajan
Come i professionisti, anche i dilettanti ricevevano lezioni private, che a quei tempi oltre a far acquisire una padronanza tecnica dello strumento, non trascuravano mai le nozioni di cultura musicale generale. La vivace attività musicale nella cerchia domestica – spesso nell’atmosfera per metà privata e per metà pubblica del salotto musicale – offriva molteplici possibilità di perfezionamento e di sempre nuove esperienze. Negli statuti dell’orchestra così era scritto riguardo alla scelta dei suoi componenti dilettanti: sarebbero stati scelti solo coloro “che per la loro arte e precisione rispondevano agli scopi”. Le disposizioni riguardanti le prove danno un’ampia informazione sul livello artistico di quei dilettanti: “nei brani musicali di particolare grandezza e difficoltà, se il compositore o il direttore d’orchestra lo ritengono necessario, si devono tenere due prove”.
Di regola si faceva infatti un’unica prova. Gli esecutori professionisti di
strumenti a fiato potevano in via eccezionale essere dispensati dalle prove ed in tal caso suonavano nel concerto a prima vista. L’interpretazione errata di una lettura di Beethoven dell’aprile 1813, dove il compositore indicava le proporzioni minime di un’orchestra per una prova in cui si doveva eseguire senza interruzioni una nuova sinfonia, ha fatto nascere la favola tanto a lungo diffusa che l’orchestra beethoveniana di allora fosse di esigue proporzioni. Anton Schindler confermò a Julius Rietz che Beethoven desiderava per le sue Sinfonie un’orchestra con ben 60 strumentisti, mentre l’orchestra della Società degli amici della musica – i cui concerti si svolgevano però in una grande sala – suonava dal 1812 con un numero di archi che poteva giungere fino a 70 e con un numero di fiati che all’occasione poteva essere raddoppiato. Così anche l’orchestra della Società degli amici della musica era composta da professionisti e di dilettanti, proprio come l’altra orchestra su menzionata che suonò nei concerti del 1807/08.
Se si prende in considerazione la relazione fra archi e fiati, come anche il possibile raddoppiamento dei fiati (a riguardo sono rimaste persino delle parti strumentali approntate da Beethoven), bisogna tenere comunque presente la grande differenza tra l’organico strumentale di allora e l’odierno: l’orchestra di quei tempi aveva in complesso una sonorità meno intensa ed aveva in parte (ciò riguardava specialmente gli oboi e i corni) anche un timbro diverso.
Nei quaderni di conversazione di Beethoven si trovano testimonianze sulle proporzioni dell’orchestra e sulla partecipazione di dilettanti e professionisti alla prima esecuzione assoluta della Nona sinfonia. In questo memorabile concerto del 7 maggio 1824 Beethoven poté disporre dell’orchestra del Karntnertortheater con 44 strumentisti, rinforzata da un numero non definito di dilettanti, tutti membri della Società degli amici della musica.
Il numero di fiati era poi raddoppiato. Per l’equilibrio sonoro non è infine di poco conto il fatto che il coro stava allora immediatamente dietro il direttore, mentre l’orchestra – proprio al contrario della prassi odierna – era situata ancor più indietro, sui gradini ascendenti in fondo al podio. Sembra che l’atto di costituire orchestre del genere, il reperimento di un numero sufficiente di dilettanti dal livello artistico adeguato non abbia posto alcuna difficoltà. Anche se oggi siamo vincolati all’idea che la collaborazione di dilettanti rappresenti un compromesso, se non addirittura uno svantaggio, pur tuttavia la verità storica è ben altra: la peggiore prestazione orchestrale che la critica contemporanea rilevò in un concerto organizzato da Beethoven, fu quella del concerto nello Hofburgtheater il 2 aprile 1800, dove a suonare furono esclusivamente i componenti dell’orchestra di quel teatro, musicisti professionisti dunque.
Per i dilettanti si svilupparono quindi altre possibilità di formazione tecnica, al di là delle lezioni impartite nell’ambito dell’insegnamento privato. Nel 1817,
con la costituzione di due classi di canto, cominciava l’attività del Conservatorio della Società degli amici della musica, il primo istituto musicale viennese di più alto livello. Solo nel 1819 si costituì la prima classe di violino sotto la guida di Joseph Bohm, ed al tempo stesso si formava già la terza classe di canto. Nel 1821 seguirono una seconda classe di violino e le prime classi di violoncello, flauto, oboe, clarinetto, fagotto e corno; nel 1827 vi si aggiunse la classe di tromba, e nel 1831 seguirono anche quelle di contrabbasso e trombone.
Già dal 1814, e cioè ancor prima che cominciasse la vera e propria attività didattica del Conservatorio, furono istituite presso la Società degli amici della musica delle esercitazioni di canto corale, i cui partecipanti cantavano nei concerti della Società. Lo stesso avverrà poi dal 1817 per gli studenti di canto del Conservatorio. Questa circostanza sembra indicare che nella didattica della musica vocale vi siano carezze. La migliorata qualità dell’insegnamento ebbe immediatamente ripercussioni positive nell’attività concertistica. Nell’ambito dell’istruzione strumentale del Conservatorio gli sviluppi furono più lenti e non ebbero ulteriore incidenza nella prassi e situazione orchestrale attinenti a Beethoven.
Ma ora bisogna anche chiedersi quale fosse il livello ricettivo del pubblico, sebbene naturalmente solo con difficoltà si possa affermare qualcosa di concreto a riguardo. Si è accertato che il pubblico presente ai concerti era formato da persone appartenenti a tutti i ceti sociali della città. Per la borghesia, come per l’aristocrazia, l’istruzione musicale a livello pratico-esecutivo costituiva un momento significativo dell’ideale educativo. Tale istruzione era affidata ad insegnanti di musica, a musicisti professionisti che impartivano lezioni solo in via secondaria: ma l’insegnamento poteva essere impartito da membri della famiglia – fatto ampiamente documentato – ed infine non mancavano gli autodidatti. La pratica dell’ascolto della musica, sia in una cerchia privata sia nell’ambito di manifestazioni di società, era un momento essenziale nella vita dei viennesi.
Così cognizioni musicali ed abilità esecutiva erano allora – ci sia consentito il confronto diretto! – assai più diffuse che non oggi. E ci sono presupposti migliori che possano elevare il livello qualitativo del pubblico di una sala da concerto?
(Traduzione: Gabriel Cervone)