Ludwig Van Beethoven
Le nove Sinfonie – I cinque concerti per pianoforte e orchestra – Overtures – String quartet
Il secondo ciclo beethoveniano di Bernstein, realizzato con i Wiener Philharmoniker alla fine degli anni Settanta, ha avuto una consistente notorietà mediatica presso il pubblico italiano per essere stato ripetutamente proposto in TV a partire dal 1984, quando fu presentato col corredo di brevi conferenze dello stesso Bernstein (in cui illuminanti intuizioni musicali si intercalavano ad assai meno illuminanti ovvietà buoniste) e da evitabili siparietti d’ambiente a cura di Maximilian Schell (comunque sempre preferibili a quelli di Albertazzi che avrebbero accompagnato, mezza dozzina di anni dopo, la programmazione dell’integrale delle sonate con Barenboim). Oggi i video di Bernstein,
beethoveniani e non, hanno una certa circolazione televisiva soprattutto su TV2000, la rete della Conferenza Episcopale, in pratica l’unica emittente che, tra un rosario e l’altro, dedichi stabile attenzione ai concerti sinfonici (salvo programmarli per lo più in orari infausti tipo le tre del pomeriggio o le sei di mattina, autentico supplizio di Tantalo per i musicofili non disoccupati). Proprio la diffusione dei video, in cui si vede il direttore mimare letteralmente la musica che sta interpretando (impagabile su tutti il momento in cui, nella Tempesta della Pastorale, si copre gli occhi con una mano mentre con l’altra dà l’attacco all’ottavino il cui sibilo dovrebbe rappresentare un fulmine), ha alimentato un equivoco di fondo, facendo recepire queste esecuzioni come una sorta di icona del Bernstein estroverso: mentre per nulla estroversa è in realtà la loro sostanza musicale.
All’incirca, si può dire che queste incisioni stiano a quelle newyorkesi di quindici anni prima come quelle viennesi dell’ultimo Furtwängler stanno a quelle berlinesi del decennio precedente: mutatis mutandis, in entrambi i casi vediamo affermarsi la tendenza al ripiegamento meditativo, allo smussamento dei contrasti, all’attenuazione delle soluzioni più personali in favore di una concezione più composta e uniforme.
In Bernstein, con la sola parziale eccezione della Settima, ciò si risolve innanzitutto nell’adozione di tempi più moderati. La cosa è particolarmente avvertibile nei primi due movimenti dell’Eroica, che qui inclinano decisamente alla monumentalità, anche se in modo molto meno accentuato rispetto per esempio alle incisioni di Solti o di Giulini. Anche il primo tempo della Pastorale si fa più statico e perde gran parte di quella magica vaporosità che lo contraddistingueva nella versione americana. Lentissima è l’enunciazione del tema della gioia nella Nona; mentre la Quinta, che già nella precedente versione era piuttosto moderata, rimane all’incirca invariata come tempi ma perde quel senso di elasticità che ne corroborava sia la forza d’urto del primo tempo, sia il fraseggio insinuante e frammentato dello scherzo, sia le progressioni dinamiche del finale.
Un caso a sé la lettura della Quarta, che, pur con tempi lievemente più moderati, rimane sempre robustamente collocata nel filone vitalistico (Bernstein, nella presentazione televisiva, la paragonava addirittura a Santa Claus!). Lo spunto più interessante sta però nella lentezza carica di mistero con cui viene affrontato l’adagio introduttivo, accentuando il contrasto col successivo allegro vivace: sviluppo di un’intuizione risalente a Toscanini.
In ogni caso, l’unica sinfonia che divenga più dinamica e, soprattutto, più articolata e ricca di sfumature rispetto alla precedente versione è la Settima (in cui per misteriose ragioni viene tagliato il ritornello del finale, unico caso in
tutta la raccolta a parte il “facoltativo” secondo ritornello dello scherzo della Nona).
Leonard Berstein
In conclusione: non è sempre automaticamente detto che gli sviluppi interpretativi di un grande artista costituiscano sic et simpliciter dei progressi; e per Bernstein, così come per Karajan, per Furtwängler e per Carlos Kleiber, le intepretazioni beethoveniane dei quaranta-cinquant’anni sono più personali e interessanti di quelle dell’età più matura. L’integrale viennese è sicuramente mirabile per equilibrio e trasparenza, ma, rispetto a quella newyorkese, vi appaiono meno spiccate l’attitudine a individualizzare ogni singola sinfonia attribuendole il suo specifico suono e le sue specifiche dinamiche (si pensi alla Pastorale eterea, alla Quinta elastica, all’Eroica insieme robusta e snella della precedente versione). E ancor più, non vi si ritrova quel prodigioso senso di fluidità per cui ogni composizione scorreva e progrediva dall’inizio alla fine con la naturalezza di un organismo vivente. Qui, a tratti, sembra per così dire di intravvedere le giunture della musica: e la cosa è ancor più singolare (e indicativa) se si considera che le incisioni viennesi sono state realizzate dal vivo e le precedenti in studio.
Il che non toglie, si ripete, che anche le letture più tarde siano accurate in ogni dettaglio e ricche di intuizioni interpretative nuove e geniali: in ultima analisi, le due integrali si completano per molti versi a vicenda, e meritano di essere entrambe conosciute ed amate, così come lo meritano le diverse stagioni della vita di una persona. A maggior ragione quando si tratta di un genio che ne interpreta un altro.
A parte il contatto diretto con la mimica di Bernstein, l’album in 7 DVD presenta, rispetto a quello in 5 CD, il vantaggio di un palinsesto molto più ampio, comprensivo di quasi tutte le incisioni beethoveniane realizzate dal direttore americano per la DG.
Fra di esse, spicca in primo luogo l’integrale dei concerti pianistici con Krystian Zimerman, espressione di uno dei più prestigiosi e affiatati sodalizi musicali di fine novecento.
Segue la Missa Solemnis con l’orchestra del Concertgebouw, Edda Moser e René Kollo: classica interpretazione del tardo Bernstein, dove si accentuano sia il senso della grandiosità sia, a tratti, la mancanza di fluidità; tanto più se la si confronta con le autentiche versioni di riferimento, tipo quelle EMI di Klemperer e Karajan anni sessanta.
Chiudono la rassegna un manipolo di ouvertures (Coriolano, Egmont, Re Stefano, Leonora n. 3, Le Creature di Prometeo, quest’ultima accompagnata da una nutrita selezione del balletto) e una curiosità di altissima levatura, il quartetto op. 131 nella trascrizione per orchestra d’archi di Weingartner (con qualche ritocco di Mitropoulos, soprattutto nella parte dei contrabbassi. Sette DVD da collocare nella vostra preziosa collezione. Altamente raccomandato.
Sinfonia n. 1 in do maggiore, op. 21
Beethoven soleva mandare avanti più composizioni alla volta, maturandole ciascuna lentamente. Questo non va inteso nel senso che il lavoro vero e proprio di composizione durasse molti anni; ma sì la decisione sui temi fondamentali delle varie opere. Possiamo intenderlo dai numerosi taccuini di appunti musicali che di lui ci sono rimasti, qualche volta accompagnati da annotazioni. Questi appunti e annotazioni non portano date; ma spesso le date possono essere, almeno, delimitate dall’ordine in cui si presentano: trovando, per esempio, il tema di un’opera eseguita per la prima volta in un dato anno fra appunti relativi a un’altra apparsa sei ami avanti, possiamo stabilire che quel tema era stato concepito almeno sei anni avanti alla sua utilizzazione definitiva.
Per quanto riguarda la Prima Sinfonia, abbiamo degli abbozzi che chiaramente (se non letteralmente) prefigurano il tema principale del suo finale e, un po’ meno chiaramente, quello del primo tempo, e che risalgono a non oltre il 1794- 95. Ora questo non ci dice esattamente quando questa sinfonia, per la prima volta eseguita il 2 aprile 1800, fu composta; ci dice però che non fu scritta al modo delle sinfonie di Mozart, il quale compose le sue tre ultime, e maggiori, nello spazio complessivo di un mese e mezzo.
L’esecuzione della Prima Sinfonia ci dice anche che Beethoven non ancora trentenne, aveva già conquistato rinomanza e autorità; perché fu data al Kärtnertortheater (Teatro di Porta Carinzia), cioè all’Opera Imperialregia; e in un concerto a suo beneficio in cui, oltre a due pezzi dell’oratorio La Creazione di Haydn e a una sinfonia di Mozart, si dettero dì Beethoven, oltre alla Prima Sinfonia, un concerto per pianoforte e orchestra (non sappiamo se il primo o il secondo) e il Settimino. Inoltre Beethoven improvvisò al pianoforte sul tema dell’Inno Imperiale di Haydn.
La Prima Sinfonia, in do maggiore, è assai vicina a Haydn, più che a Mozart; ma già mostra alcuni tratti innegabilmente nuovi, cioè puramente beethoveniani. Nel primo tempo per esempio, scritto in forma-sonata, si possono dire di sapore haydniano il tema principale, e anche il fatto che questo tema abbia forti parentele col secondo tema e con il “ponte” che lega l’uno all’altro: giacché la prassi di derivare il secondo tema dal primo è tipicamente haydniana. Ma già Beethoven si annuncia nel sorprendente inizio dell’introduzione “,adagio molto” (un accordo di settima dominante nel tono di fa, dunque diverso dalla tonalità principale) – nel fatto che nel primo tema il moto ascensionale degli archi è interrotto ogni volta da un indugio imposto dagli strumenti a fiato – nel breve sviluppo in minore del secondo tema che segue immediatamente, oscurandola, l’enunciazione del tema stesso – infine in non pochi momenti della seconda sezione (sviluppo).
Una reminiscenza mozartiana è nel tema principale del secondo tempo (Andante cantabile con moto, in fa maggiore), che ricorda molto nettamente quello del secondo tempo della Sinfonia in sol minore, uno dei culmini di tutto Mozart. Mozart è anche evocato in una soavissima modulazione che conduce lo sviluppo in una tonalità lontana (re bemolle) con casta gentilezza; ma Haydn è ancora presente nel fatto che, anche qui, il secondo tema deriva nettamente dal primo. Questo tempo è in forma-sonata come il primo; ma abbiamo già rilevato il diverso carattere che la forma-sonata assume anche in Beethoven, nei brani di carattere lirico, nei quali ogni contrasto radicale fra tema e tema è esitato: com’è qui il caso. La soluzione del brano è sorridente, in tono quasi settecentesco.
Barone von Swieten
Your Content Goes HereLa gran novità di questa sinfonia è il terzo tempo; che Beethoven intitola minuetto ma che minuetto non è più. Come abbiamo visto, il minuetto era la stilizzazione d’una sopravvivenza arcaica, un diversivo “,leggero” nella cornice severa della sinfonia. Beethoven porta la stilizzazione oltre, conservando lo schema formale del minuetto; ma tramuta la sua fisionomia di danza atteggiata e cerimoniosa in un’altra mossa e scapigliata.
L’evoluzione avviene nelle sonate per pianoforte e in altre composizioni da camera di Beethoven scritte prima dell’anno 1800, nelle quali sono sia minuetti veri e propri, sia minuetti animati da una vivacità nuova, sia inequivoci “scherzi”. Scherzo è infatti la denominazione che Beethoven dà al suo ritrovato; ma da principio con qualche incertezza: nelle sue musiche ante 1800 incontriamo infatti il termine “scherzo” applicato a minuetti, e viceversa il termine minuetto applicato a degli scherzi. E quest’ultimo è il caso, come abbiamo notato, della nostra sinfonia.
Lo scherzo si distìngue nettamente dal minuetto per il tempo più rapido che porta a doverlo battere in uno anzi che in tre; in altri termini, è in metro ternario come il minuetto, ma ha un solo accento al principio della battuta mentre nel minuetto sono percepibili accenti secondari sul secondo e terzo tempo (che infatti corrispondono, nel danzare, ad altrettanti “passi”). Il minuetto passeggia, lo scherzo vola. E questo implica un’ispirazione tematica d’altro genere, e sviluppi corrispondenti. Lo scherzo della Prima Sinfonia ha infatti un tema impetuoso, che nessuno prenderebbe mai per un tema di minuetto; e che modula subito, capricciosamente e nervosamente, in tonalità lontane, per tornare altrettanto improvvisamente alla tonalità principale. Il trio (s’è detto che lo schema formale dello scherzo è lo stesso del minuetto, già descritto nel capitolo sulla “Wienei Klassik”, dunque comporta un trio) è nello stesso tono della prima parte (cioè in do maggiore), e ha ritmo più molle e distensivo, com’è nella tradizione del minuetto; ma diversamente che in questa conclude in modo energico.
Il finale è in forma-sonata; ma è significativo che vari scrittori dell’Ottocento (anche competentissimi) lo citino chiamandolo rondò. L’errore si deve al fatto che il suo tema, brillante e incisivo, ha tutte le caratteristiche di un tema di rondò; e anche il modo con cui il discorso ne prepara le riapparizioni è quello della “,suspense”, tipico, come abbiamo visto, di quella forma. La critica ne dà tradizionalmente una valutazione non alta: sarebbe, fra tutti i tempi di sinfonia composti da Beethoven, il più debole. Ma è permesso di non condividere questo parere: è soltanto un pezzo dall’assunto più leggero degli altri, ma tuttavia di grazia e scorrevolezza perfette, non indegne del modello haydniano. E non manca dì intuizioni tipicamente beethoveniane: per esempio la breve introduzione che distilla lentamente, quasi parodisticamente, le note della scala ascendente che formeranno l’inizio del tema principale. Difatti questa introduzione, agli inizi, non fu compresa da tutti, e si trovarono direttori che ebbero l’ingenuità di sopprimerla.
La Prima Sinfonia è l’unica che appartenga chiaramente alla prima maniera di Beethoven. Che tuttavia non confonderemo come una fase di apprendistato, di incertezza. Anche se di livello inferiore alle sinfonie successive, e ai capolavori di Haydn e di Mozart, la Prima Sinfonia è pur sempre una cosa in sé perfetta e compiuta: l’opera d’un maestro. Per prima maniera di Beethoven non s’intende infatti qualcosa di manchevole: soltanto, il periodo in cui gli elementi propriamente originali di Beethoven coesistono con altri, invece, ricevuti, e adottati come tali. Tuttavia l’amalgama fra vecchio e nuovo è completamente riuscito, non suona mai come eclettismo: noi distinguiamo, oggi, gli elementi vecchi dai nuovi soltanto perché conosciamo il Beethoven di poi, quello nel quale ogni elemento ricevuto è trasformato e rivissuto sul piano del “,nuovo”. Ma in sé moltissime opere della prima maniera di Beethoven possono essere tranquillamente riguardate come perfette, e legittimamente formano ancora oggi, per i frequentatori di concerti, altrettante gioie senza ombra.
Sinfonia n. 2 in re maggiore op. 36
I primi abbozzi della Seconda Sinfonia, sulla base dei taccuini di lavoro, risalgono all’anno 1800 e si intensificano nel periodo che va dall’ottobre 1801 al maggio 1802; l’opera viene completata nell’estate durante la villeggiatura trascorsa a Heiligenstadt (a quei tempi piccolo centro a nord di Vienna) e presentata al pubblico della capitale il 5 aprile 1803 sotto la direzione dell’autore; il concerto, al Teatro an der Wien era tutto di musiche di Beethoven: l’Oratorio Cristo al Monte degli Ulivi, la Prima Sinfonia, la Seconda appunto, e il Terzo Concerto per pianoforte e orchestra.
Mentre nasce quest’opera pervasa di energia e serenità, la vita di Beethoven attraversa uno dei momenti più dolorosi e scoraggianti; è di quel tempo infatti il manifestarsi della sordità dell’artista in forma acuta e la conseguente decisione di abbandonare la carriera concertistica; nonché la delusione sentimentale di essere stato rifiutato dalla Contessina Giulietta Guicciardi. “Posso dire che faccio una ben misera vita”, scrive Beethoven all’amico Wegeler di Bonn, “da quasi due anni evito compagnia perché non mi è possibile dire alla gente: sono sordo!”; ma tutto ciò, lungi dal penetrare allo stato grezzo nella composizione, si traduce in uno stimolo a moltiplicare le sue possibilità espressive, a consegnarsi anima e corpo alla sua vocazione creativa.
Infatti, nella Seconda Sinfonia i contemporanei avvertirono subito qualcosa di eccessivo e sorprendente rispetto alle loro abitudini di ascolto; l’opera “guadagnerebbe ove venissero accorciati alcuni passi e sacrificate molte modulazioni troppo strane”, è il parere espresso dall'”Allgemeine Musikalische Zeitung” nel 1804; e lo stesso autorevole foglio, dopo una esecuzione del 1805, avverte ancora: “troviamo il tutto troppo lungo, certi passaggi troppo elaborati; l’impiego troppo insistito degli strumenti a fiato impedisce a molti bei passi di sortire effetto.
Principe Karl von Lichnowsky
Il Finale è troppo bizzarro, selvaggio e rumoroso. Ma ciò è compensato dalla potenza del genio che in quest’opera colossale si palesa nella ricchezza dei pensieri nuovi, nel trattamento del tutto originale e nella profondità della dottrina”.
La Sinfonia, dedicata al fraterno amico principe Carl von Lichnovsky, si apre con una straordinaria introduzione lenta: dopo poche battute di cerimoniosa compostezza, ecco che si avvia per campi armonici cangianti, presentando e subito mettendo da parte frammenti e spunti melodici e ritmici sempre nuovi, come fosse decisa a misurare i confini di una regione sconosciuta: molto giustamente, Paul Bekker ci ha sentito dentro una sorta d'”improvvisazione per orchestra”; di qui si dinamizza l’Allegro con brio, basato su un’idea proposta sottovoce da viole e violoncelli, un’idea che sfreccia inquieta, stretta parente del nervosismo dell’Ouverture delle Nozze di Figaro mozartiane; ma una quantità di altre idee, e talvolta solo di brevi accenni, ma tutti di plastica evidenza, si stipano nella pagina in preda a un vero entusiasmo costruttivo.
Il Larghetto che segue è da considerare con la massima attenzione: esso rappresenta un sentimento di compresenza fra il possesso di tutte le grazie del Settecento e la consapevolezza di tenere in mano un bene perduto, un valore al tramonto; assumerlo come stabile vorrebbe dire diluirlo in manierismo stilistico (come avviene, ad esempio, nell’Andante della Sinfonia op. 30 di Tomàsek che ne deriva); mentre in Beethoven proprio lo scrupolo di trattenere ancora un poco un tesoro perituro dà intima consistenza alla sviscerata piacevolezza di dialoghi, versetti e arguzie della più sorridente socievolezza; in questa musica tutta di materiali “settecenteschi”, che tuttavia nelle loro venature quasi avvertono un brivido di malinconia, forse nessuno, fra i grandi interpreti moderni, s’era addentrato così a fondo come Bruno Walter.
Puro ritmo, al contrario, è l’essenza dello Scherzo, di geometrica economia di linee; mentre una vasta ricapitolazione di tutti gli atteggiamenti espressivi della Sinfonia è squadernata dal Finale, che parte da un tema che più di un tema pare un gesto fulmineo e scontroso; certo simili corse, leggere e crepitanti, specialmente Haydn aveva fatto conoscere; ma qui si sbrigliano con un gusto per i contrasti, per gli ostacoli da abbattere, che scuote da vicino il pacifico ascoltatore; siamo ancora nei limiti del Finale giocoso, ma messo a soqquadro da una vena umoristica turbolenta che ha ormai scavalcato la “vivacità”.
Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore, op. 55 “Eroica”
Se lo spirito della rivoluzione francese e gli ideali repubblicani di eguaglianza, libertà, fraternità, sono presenti in tanta parte della produzione musicale di Beethoven, soprattutto attraverso connessioni con molteplici lavori letterari, pure questi fattori si palesano in una chiara affermazione politica solamente nella partitura della Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore op. 55, grazie al riferimento diretto di questa Sinfonia alla figura di Napoleone Bonaparte. Anche accantonando l’idea – affermata da Schindler ma improbabile – che fosse stato il futuro re di Svezia Bernadotte a suggerire al compositore, nel 1798, una Sinfonia su Bonaparte, l’intenzione di Beethoven di trasferirsi in Francia nel 1803 e sicure tracce epistolari confermano che Napoleone doveva essere non solo e non tanto il dedicatario della Sinfonia (circostanza occasionale e secondaria), quanto piuttosto il suo ispiratore ed intestatario. Almeno queste erano le intenzioni dell’autore quando, fra la fine del 1802 e l’inizio del 1804, attese alla stesura della partitura.
Fiumi di inchiostro sono stati versati per narrare e commentare la mancata intitolazione della sinfonia a Napoleone. Converrà riassumere i termini della questione, partendo ancora una volta dal racconto di Ferdinand Ries – allievo, amico e poi biografo del compositore:
«A proposito di questa Sinfonia Beethoven aveva pensato a Napoleone, ma finché era ancora primo console. Beethoven ne aveva grandissima stima e lo paragonava ai più grandi consoli romani. Tanto io, quanto parecchi dei suoi amici più intimi, abbiamo visto sul suo tavolo questa sinfonia già scritta in partitura e sul frontespizio in alto stava scritta la parola “Buonaparte” e giù in basso “Luigi van Beethoven” e niente altro. Se lo spazio in mezzo dovesse venire riempito e con che cosa, io non lo so. Fui il primo a portargli la notizia che Buonaparte si era proclamato imperatore, al che ebbe uno scatto d’ira ed esclamò: “Anch’egli non è altro che un uomo comune. Ora calpesterà tutti i diritti dell’uomo e asseconderà solo la sua ambizione; si collocherà più in alto di tutti gli altri, diventerà un tiranno!” Andò al suo tavolo, afferrò il frontespizio, lo stracciò e lo buttò per terra.»
Il racconto di Ries, databile al maggio 1804, mese dell’incoronazione di Napoleone, è considerato generalmente attendibile da tutti gli storici; anche perché sembra confermato da un manoscritto non autografo della Sinfonia, dove, nell’intestazione, le parole “Intitolata Bonaparte” sono raschiate in modo da essere quasi illeggibili. Ma un’altra annotazione a matita sul medesimo frontespizio, certamente posteriore, “Geschrieben auf Bonaparte” (“scritta su Bonaparte”) indica come il riferimento all’uomo che aveva diffuso in tutta Europa, con le sue gesta militari, gli ideali rivoluzionari non poteva essere del tutto cancellato dalle intenzioni dell’autore. Lo conferma anche il fatto che in una lettera del 26 agosto 1804 agli editori Breitkopf e Härtel (dunque tre mesi dopo l’episodio narrato da Ries) il compositore poteva scrivere: “La Sinfonia, a dir il vero, è intitolata Bonaparte”.
Di lì a poco sarebbe stata probabilmente la guerra franco-austriaca del 1805 a spingere Beethoven a far prevalere i sentimenti patriottici su quelli rivoluzionari. Così l’edizione a stampa della Sinfonia, apparsa nel 1806, omette il riferimento diretto a Bonaparte, e recita: “Sinfonia Eroica […] composta per festeggiare il sovvenire di un grand’Uomo”. Difficile interpretare questo titolo nel senso che il “sovvenire” voglia significare “rimembranza” e, con la marcia funebre del secondo tempo, si riferisca al ricordo di quello che era stato il primo console. Più probabile che con “sovvenire” l’autore intendesse la “memoria” in senso celebrativo; intendesse insomma celebrare l’immagine di un eroe; ma non di un eroe astratto, quanto piuttosto di un ideale di eroe che si era concretamente incarnato in Napoleone.
Altro discorso è quello di come questo pensiero politico potesse inverarsi all’interno di una partitura musicale. Già larga parte della produzione cameristica dell’autore aveva riflettuto in termini musicali un conflitto di alte tensioni etiche. Tuttavia, proprio a partire dall’Eroica, è al genere della Sinfonia che il compositore doveva affidare soprattutto il compito di veicolare i suoi ideali illuministici, sconvolgendo di fatto gli obiettivi puramente intrattenitivi che avevano fino allora contraddistinto il genere sinfonico anche nelle sue forme più raffinate e impegnate, quali le ultime Sinfonie di Mozart; e che, di fatto, avevano ancora interessato le prime due compiute esperienze sinfoniche di Beethoven. Nata come genere di intrattenimento per udienze esclusivistiche, la Sinfonia veniva caricata così di significati estremamente più complessi ed ambiziosi. In che modo ciò potesse avvenire lo ha spiegato nel 1918, in termini nitidissimi, il musicologo tedesco Paul Bekker:
«Beethoven modifica la destinazione del genere sinfonico, nel senso che esso, se fino a quel momento serviva come intrattenimento per un ambiente ristretto e chiuso, supera ora questi limiti e diventa oggetto di discussione per una moltitudine finora sconosciuta, totalmente nuova nel numero e nella sua composizione. Lo schema tecnico musicale secondo il quale Beethoven scrive le sue Sinfonie è, nei caratteri fondamentali, quello tradizionale. La novità rivoluzionaria, grazie alla quale la Sinfonia di Beethoven rappresenta per noi l’inizio di una nuova era musicale, sta nel fatto che – se posso servirmi di una definizione drastica -Beethoven compone non una nuova musica, ma un nuovo uditorio. La Sinfonia di Beethoven viene concepita partendo dall’idea di un uditorio completamente nuovo. Tutte le differenze in senso strettamente musicale rispetto ai predecessori si possono spiegare, in parte persino riconoscere, come riflessi dell’idea dell’uditorio che è loro alla base.
Principe Max von Lobkowitz
L’immagine ideale di un uditorio per il quale Beethoven scrisse, e da cui attinse la forza e l’impeto delle sue idee, fu un’ulteriore elaborazione del grande movimento democratico che dalla Rivoluzione francese condusse alle guerre di liberazione tedesche. Elaborazione come si presentò allo spirito di Beethoven.
Possiamo percepirla ogni volta di nuovo quando viviamo in noi stessi la potenza catartica e solenne di una Sinfonia di Beethoven, poiché in tali momenti noi stessi diventiamo il pubblico per il quale Beethoven ha composto, la comunità cui egli parla.»
Lo slancio delle parole di Paul Bekker – scritte mentre l’Europa usciva dal
primo conflitto mondiale e credeva di avviarsi verso la pace – sembra figlio di un intero secolo di idealismo, sommato a una solidità di analisi scaturita dalla musicologia positivistica. E tuttavia concetti simili li ritroviamo – come suggerisce Carl Dahlhaus – già nel 1802, nel Musikalisches lexicon di Christoph Koch: «Poiché la musica strumentale non è altro che imitazione del canto, la Sinfonia in specie, prende il posto del coro e perciò, come il coro, ha lo scopo
di esprimere i sentimenti di una intera moltitudine».
Dunque la Sinfonia “Bonaparte” doveva parlare di un eroe portatore di nuovi valori, rivolgendosi a un uditorio ideale. A tali obiettivi straordinari ed inediti doveva corrispondere anche un rinnovamento della forma sinfonica e del suo stesso linguaggio, che solo avrebbe potuto realizzare in musica tanta altezza d’intenti. Ecco dunque che nuove sono le dimensioni dei quattro movimenti, che dilatano la Sinfonia verso una lunghezza monumentale, del tutto ignota a Mozart e Haydn; nuova è la strumentazione, che vede i fiati affrancati dalla funzione di sostegno armonico e inseriti nel gioco di elaborazione motivica, il che vuoi dire che il linguaggio dell’orchestra diviene “sinfonico” in senso moderno; nuova è soprattutto la logica secondo cui viene condotto il discorso musicale, logica che supera i principi di nitida dialettica tematica che innervavano la Sinfonia d’intrattenimento.
Tali novità si impongono immediatamente nel movimento iniziale, il gigantesco Allegro con brio sulla cui analisi si sono soffermati, in modo tutt’altro che univoco, decine e decine di commentatori. Due grandi “colpi” orchestrali fungono da sipario per quanto segue, affermando la tonalità di mi bemolle con una nitidezza che presto verrà appannata. Come si è accennato, la dialettica classica vedeva contrapposti, all’interno della “forma sonata”, due temi principali, e alcune idee secondarie, che si confrontavano in modo piuttosto distinto. Nell’Eroica questo principio viene meno, nel senso che le varie idee tematiche non sono fra loro contrapposte, ma germinano l’una dall’altra, secondo un processo di continua tensione-distensione. La stessa idea principale – l’arpeggio dei violoncelli che si presenta all’inizio – difficilmente può essere considerato un vero “primo tema”, ma piuttosto una cellula neutra, da cui scaturiranno l’una dopo l’altra le varie idee. E infatti il vero principio costruttivo del movimento lo troviamo subito dopo, quando l’armonia di mi bemolle che era rimasta inalterata per le prime sei battute, scivola in un cromatismo e si increspa nelle note sincopate dei violini (la sincope è uno spostamento d’accento che crea dinamismo). Ecco dunque l’idea di base: l’instabilità, la tensione continuamente rinnovata, che vuole tradurre appunto in termini musicali quella tensione ideale di cui si diceva. Tutte le altre idee tematiche (un dolce dialogo dei legni con i violini; una lunga serie di note ribattute dei fiati; una melodia ascendente e cromatica) costituiscono ciascuna una tappa diversa di questo percorso di instabilità.
Se questa è l’esposizione, la sezione dello sviluppo, in cui l’autore deve rielaborare le idee precedentemente esposte, appare altrettanto ambiziosa, e si segnala per le sue proporzioni (250 battute). Beethoven vi riutilizza quasi tutte le idee già udite (tranne l’ultima, la melodia ascendente e cromatica), evitando però di attribuire loro delle chiare cesure cadenzali, portandole verso peregrinazioni lontane, attraverso un percorso conflittuale che, se non rinnega i principi dell’esposizione, pure attribuisce orizzonti non ancora esplorati a quelle idee. Se è impossibile una descrizione pedissequa di questo percorso, occorre segnalare in esso almeno due momenti: una vasta sezione in minore, con un dinamico fugato basato su un tema nuovo, e il passaggio che conduce alla riesposizione. In questo passaggio il conflitto fra le varie idee si è progressivamente spento, e su un tremolo degli archi entra, come in lontananza, il corno, riproponendo l’arpeggio che aveva dato il via a tutta la Sinfonia; il punto è che archi e corno portano con sé due armonie differenti, contraddicendo alle regole della buona composizione; e proprio questa sovrapposizione armonica crea un effetto di dissolvenza che porta alla riesposizione.
Appunto la riesposizione attribuisce un nuovo significato al materiale fino a questo momento udito. Il grande “viaggio” dello sviluppo ha come rigenerato il materiale tematico, che non si ripresenta più, come nella sinfonia classica, a ribadire l’ordine primigenio, ma invece viene presentato in modo da stemperare le tensioni accumulate, a appianare le ostilità del percorso, in modo da portare a una chiara e forte affermazione. Anche laddove il discorso procede in modo parallelo a quello dell’esposizione, Beethoven provvede a nuovi aggiustamenti coloristici, con una strumentazione che porta spesso in primo piano il corno, soprattutto per lo pseudo-primo tema. Chiude il movimento una vasta coda, adeguata per proporzioni a quanto precede, in cui un calibrato crescendo porta a una esplosione vitalistica.
Come nella Sonata per pianoforte op. 26, Beethoven sceglie, per il tempo lento della Sinfonia, la forma della marcia funebre, che, da una parte rimanda in senso lugubre alle tante marce rivoluzionarie della musica francese, dall’altra getta un ponte verso altre pagine di consimile luttuosità, come la marcia funebre che apre la Quinta Sinfonia di Mahler, o Metamorphosen di Strauss, dove 23 strumenti ad arco intrecciano polifonie che conducono, attraverso una progressiva chiarificazione, al tema principale di questa Marcia funebre dell’Eroica, come simbolo di una civiltà che esce prostrata dalla guerra, alla ricerca delle proprie radici.
Pagina simbolo di una civiltà, dunque, attraverso il “sovvenire” dell’eroe latore di un messaggio ideale. Sono gli archi a proporre il ritmo di questa marcia in do minore (importante il sostegno dei contrabbassi), in una prima sezione di granitica coerenza. Ed ecco che il minore diventa maggiore per la sezione del Trio, dove, sulle morbide terzine “napoletane” degli archi, i legni dipanano limpidi e nostalgici intrecci. Si giunge così alla sezione dello sviluppo, dove il ritorno del tema di marcia cede subito ad un lungo e solenne fugato, per seguire poi le tracce di sempre rinnovati bagliori. A una riesposizione resa più intensa da una più fitta strumentazione, segue la coda, in cui Trio e Marcia figurano in posizione invertita, lasciando spegnere il movimento sui frammenti del ritmo che lo aveva aperto.
Il movimento meno complesso della Sinfonia è certamente lo Scherzo; pagina che, tuttavia, si presta a qualche ambiguità di interpretazione. Se la sua scrittura aerea e trapuntata precorre Mendelssohn, troviamo in esso sia quel principio di increspamento cromatico che si imponeva già nel tempo iniziale, sia, nella sezione del Trio, una robusta fanfara di corni intorno all’arpeggio di mi bemolle, che riecheggia la pseudo-prima idea dell’inizio. In definitiva appare stimolante l’idea di Paul Bekker che questo tempo costituisca una conversione verso una scrittura leggera e quasi ludica di quei principi costruttivi che erano alla base del primo tempo.
Si giunge così al finale, movimento che si stacca nettamente rispetto ai modelli di Mozart e Haydn innanzitutto perché adotta la forma di una libera variazione, sostanzialmente assente dal sinfonismo classico (Beethoven la reimpiegherà poi nella Nona Sinfonia). Ma, se per i suoi “predecessori”, la forma della variazione come finale, nella musica da camera, implicava un alleggerimento dei contenuti della composizione, in una dimensione di giocoso disimpegno, Beethoven carica invece la variazione di complesse implicazioni concettuali. Non a caso il tema di questo finale trova qui la sua ultima collocazione dopo un “viaggio” che lo aveva visto apparire in una raccolta di danze strumentali, in un ciclo di variazioni pianistiche e, soprattutto, nel finale del balletto Le creature di Prometeo che il compositore aveva creato, nel 1801, per la coreografia del sommo Salvatore Viganò.
Leonard Bernstein
Se è vero che il finale del balletto non vedeva in scena il personaggio di Prometeo ma piuttosto quello di Bacco, è difficile resistere alla tentazione di seguire ancora Bekker nello stabilire una sorta di sovrapposizione, di coincidenza, fra il mito di Prometeo (l’uomo che aveva portato sulla terra le arti,
le scienze, la civiltà) e quello dell’eroe latore di valori universali. Coincidenza che chiarisce, se ce ne fosse bisogno, il significato ideale della Sinfonia.
A conferire la sua ingegnosità a questo finale è il fatto che esso non si basa su un tema solo, ma piuttosto su due temi che sono in relazione fra di loro. Dopo una rapida introduzione animata da una vibrante cascata di note, sono gli archi a proporre, in pizzicato, il primo dei due temi, subito ripreso in contrattempo, e interrotto da vigorosi ribattuti dei fiati; ma questo primo intervento costituisce già di per sé una prima variazione di un tema “a priori”, che non viene enunciato. La seconda variazione introduce un contrappunto degli archi. La terza variazione coincide con l’apparizione del secondo tema, che chiarisce la natura del primo: se il primo è la nuda linea del basso, il secondo è la vera linea melodica, una sorta di canzone popolare intonata dai legni. Una breve transizione conduce alla quarta variazione, un serrato fugato basato sul primo dei due temi. Da questo momento le variazioni diventano più complesse e non sempre nitidamente scandite, portando in primo piano l’uno o l’altro dei temi, se non entrambi; si distinguono soprattutto una vigorosa marcia in minore, e una lunga sezione in Poco Andante, aperta dai legni, che costituisce una sospensione lirica prima della conclusione. Attraverso queste trasformazioni il movimento realizza così una progressiva lievitazione espressiva, sigillata da una coda insieme festosa, solenne e quasi trionfale. Non è, questo finale dell’Eroica, il movimento in cui trovano sfogo tutte le tensioni accumulate nella partitura, ma piuttosto l’ultimo quadro di un polittico in cui mitologia e politica si sommano e si traducono in termini puramente musicali, secondo una lezione che – partendo dai 28 esecutori che si applicarono alla prima esecuzione privata nel palazzo del principe Lobkowitz, nell’agosto 1804, fino alle moderne orchestre sinfoniche – non ha mai cessato di dettare le sue alte ragioni alle generazioni.
Sinfonia n. 4 in si bemolle maggiore, op. 60
Dopo aver terminato all’inizio del 1804 la Sinfonia “Eroica” – eseguita nell’agosto dello stesso anno e pubblicata nell’ottobre 1806 – Beethoven si applicò quasi immediatamente alla stesura di una nuova partitura sinfonica in do minore, che sarebbe stata completata solamente all’inizio del 1808. Ricca di dubbi e ripensamenti, la gestazione di questo capolavoro (la futura Quinta Sinfonia) avrebbe dunque costituito per un periodo di quattro anni un impegno gravoso e quasi ossessivo, senza tuttavia impedire al compositore non solo di portare a termine il Quarto Concerto per pianoforte, il Concerto per violino, le prime due versioni di Fidelio, ma anche di scrivere un’intera altra Sinfonia, la “Quarta”, e di abbozzarne un’altra ancora per grandi linee, la Pastorale.
La Sinfonia op. 60 nacque così all’ombra dell’opera maggiore quasi come diversivo rispetto a questa, come spingono a ritenere le stesse circostanze della
genesi. Fu nell’autunno del 1806 che Beethoven, in compagnia di uno dei suoi primi mecenati, il principe Lichnowsky, compì una visita al castello del conte Franz von Oppersdorf, nella Slesia Superiore. Amante delle arti, Oppersdorf manteneva alle sue dipendenze un’orchestra che, in occasione della visita del maestro di Bonn, eseguì la Seconda Sinfonia; il padrone di casa chiese al compositore di scrivere per lui un’altra partitura sinfonica e questi, certo allietato da considerazioni economiche, accondiscese; in un primo momento pensò di destinare ad Oppersdorf la Sinfonia in do minore, ma evidentemente il completamento di questa avrebbe richiesto dei tempi troppo lunghi. Di qui l’idea di una partitura totalmente nuova; e, di fatto, la “Quarta” nacque in un periodo di tempo realmente breve; la mancanza dei consueti, vastissimi abbozzi preliminari, che è stata spesso attribuita a smarrimento, è invece più probabilmente da attribuirsi proprio al fatto che tali abbozzi non furono stesi affatto. Dedicata, ovviamente, a Oppersdorf, la Sinfonia in si bemolle fu eseguita il 5 marzo 1807 nel palazzo viennese del principe Lobkowitz, e fu pubblicata l’anno seguente.
Il carattere quasi parentetico della composizione della “Quarta” si riflette anche sul suo contenuto musicale, alieno da ambizioni titaniche e ispirato piuttosto ,a principi estetici di puro intrattenimento, per certi versi ancora settecenteschi; tanto che, schiacciata fra i massicci monumenti dell'”Eroica” e della “Quinta”, la Sinfonia in si bemolle ha spesso imbarazzato la critica romantica. Gradita a Schubert (che d’altra parte, nelle sue prime Sinfonie seguiva la scia haydniana), fu definita da Schumann «una slanciata ragazza greca fra due giganti nordici», con un complimento che è tale solo apparentemente; e in effetti per accettare pienamente la Sinfonia i romantici ebbero bisogno di ricercare il solito connubio fra l’uomo e l’artista, attribuendo il contenuto “sereno” della partitura al momento “sereno” attraversato dal musicista, innamorato di Teresa Brunswik.
Ma, se manca di forte impegno contenutistico, non per questo la “Quarta” segna un arretramento nello stile sinfonico beethoveniano. La consapevolezza raggiunta dall’autore con l'”Eroica” nella scrittura sinfonica e nella tecnica della dialettica tematica segna un divario incolmabile rispetto alle Sinfonie “settecentesche”, la “Prima” e la “Seconda”.
Conte Franz Von Oppersdorff
A suo modo la “Quarta” spinge i suoi compiti d’intrattenimento verso limiti difficilmente valicabili; le sperimentazioni timbriche che percorrono internamente l’intera partitura non hanno un carattere decorativo, ma minano dall’interno la struttura tradizionale, apparentemente rispettata nella scansione in quattro movimenti che si rifanno ai moduli haydniani: primo tempo in forma
sonata con introduzione lenta, secondo tempo contemplativo, Minuetto con Trio e Finale con “moto perpetuo” in forma sonata.
L’Adagio introduttivo si svolge in un misterioso clima aspettativo, che sfocia nei bruschi “colpi” orchestrali che aprono l’Allegro vivace; qui emergono subito i tratti caratteristici di ironia che appartengono a tutta la partitura: l’aggressività ritmica, la contrapposizione fra gruppi strumentali, il dolce rilievo espressivo del gruppo dei legni, la raffinatezza cameristica dei giochi timbrici, evidente soprattutto nel periodo che conclude lo Sviluppo, prima della Ripresa. L’Adagio, il secondo movimento, si anima di idee cantabili dal profilo non nettamente definito, cementate fra di loro da un principio ritmico giambico che appare immediatamente come figura di accompagnamento e assume poi, nel corso del movimento, le più diverse funzioni. Ancora un principio ritmico è alla base del Minuetto (un ritmo binario calato in una misura ternaria), che si contrappone poi nettamente al Trio, con la cantilena dei fiati; è questo il movimento dove appare più scopertamente la logica di contrapposizione fra archi e fiati. Chiude la Sinfonia un Allegro ma non troppo estremamente brillante, simile nell’impostazione a certi Finali di Haydn, ma con una ruvidezza ritmica e dei contrasti dinamici che sono del tutto peculiari; e una conclusione ad effetto riafferma con decisione i contenuti giocosi della partitura.
Sinfonia n. 5 in do minore op. 67
La stesura della Quinta Sinfonia beethoveniana occupa un periodo di tempo assai ampio. Dopo i primi abbozzi risalenti al 1804, il compositore la riprese nel 1807 e la completò solo nella primavera dell’anno successivo; una testimonianza della particolare cura e attenzione che Beethoven riservò al suo lavoro, frutto di un processo creativo lungo e sofferto. La «prima» della Sinfonia ebbe luogo il 22 dicembre 1808 nel celebre teatro viennese An der Wien sotto la direzione dello stesso autore. Durante il concerto, dalla durata interminabile, – secondo l’uso avvalso nell’epoca – furono eseguiti anche la Sesta Sinfonia, sezioni della Messa in do maggiore, il Quarto Concerto per pianoforte e orchestra e altre composizioni ancora.
All’atto della pubblicazione la Sinfonia venne dedicata al principe Andrej Kyrillovic Razumovskij (noto anche per la dedica dei celebri quartetti dell’op. 59) e a Franz Joseph Lobkowitz (a lui Beethoven aveva dedicato anche la Terza Sinfonia), preziosi mecenati e amici del compositore. Come per la Terza Sinfonia, Beethoven torna nella Quinta a un fitto reticolo di riferimenti allegorici e morali, un simbolismo perfettamente radicato nella cultura filosofica e spirituale del tempo, fortemente imbevuta di concezioni illuministiche. Pensiamo già solo al ritmico e lapidario inciso d’apertura che l’orchestra disegna subito in modo netto e perentorio, «il destino che bussa alla porta» – secondo l’interpretazione che un giorno ne diede l’amico Anton
Schindler. Vi si legge la reazione di un’umanità in perenne lotta contro il proprio drammatico destino, un destino senza volto, cieco, spesso implacabile, contro il quale l’uomo si erge a combattere eroicamente in nome della ragione. E solo in virtù di questo atto di ribellione che il mondo giunge a trionfare sulle forze delle tenebre, sui pregiudizi e sulla superstizione.
Così nella Sinfonia vediamo continuamente emergere gli opposti in lotta, in una gigantesca visione antagonistica in perenne mutamento: contrasti violenti si susseguono a momenti più mitigati e lirici, passi ritmici tensivi si alternano a più morbidi accenti, la concitazione melodica si confronta con linee tematiche più tenui ed addolcite nel loro profilo. Infine i quattro movimenti paiono procedere in modo ineluttabile verso un compimento che pare già presagito, attraverso una sapiente progressione simbolica che conduce all’apoteosi finale. È un Beethoven titanico, quello della Quinta. Ma è anche un Beethoven più asciutto e meno enfatico rispetto a quello dell’Eroica. La forma stessa è essenziale, senza espansioni retoriche, la coerenza interna rigorosa. I temi sono netti e concisi, come lo scarno inciso d’apertura, un motto di sole quattro note. Così si apre il primo movimento, l’Allegro con brio. Ancora sull’inciso «del destino» è fondato il primo tema, che percorre interamente la Sinfonia rendendola ulteriormente più solida ed unitaria. Proprio a questa estrema concentrazione tematica, a questa sobrietà di caratteri va ricondotta la grande efficacia espressiva che la Sinfonia in do minore esprime. Una vigorosa frase di transizione, consistente nella trasformazione del primo tema e dell’inciso d’apertura, porta al delicato secondo tema principale, introdotto da uno squillante richiamo dei corni pure ricavato dal motto d’apertura.
Questo momento disteso e cantabile però non riesce a rimuovere il ricordo dell’inciso iniziale, che infatti presto si fa di nuovo avanti sotto forma di ripetute iterazioni nella parte finale dell’Epilogo. Si conclude così l’Esposizione, la prima grande sezione di forma-sonata in cui il movimento è costruito. Anche la parte centrale di Sviluppo è aperta dalle quattro scolpite note del motto, seguite da una varia ed articolata elaborazione del primo tema. E il momento di maggior intensificazione drammatica della Sinfonia, là dove sono più vividi i contrasti armonici, le opposizioni motivico-dinamiche e più marcata la densità contrappuntistica.
Conte Andreas Razumovsky
Nella Ripresa Beethoven inizia a ripresentare – secondo la norma – il materiale dell’Esposizione. Ma, dopo il ritorno del motto e del primo tema, ci riserva una sorpresa: l’oboe, lasciato improvvisamente solo, intona in modo inaspettato un recitativo dai caratteri intensi e delicati: è un momento di calma e commozione, quasi una sosta incantata ed assorta di fronte alla lotta titanica intrapresa. La meccanica frase di transizione riporta all’impeto originario, poi la Ripresa prosegue nel richiamo che prima era stato enunciato dai corni, ora lasciato al timbro nasale dei fagotti. Dopo il secondo tema, interviene infine l’Epilogo. Beethoven compie qui ancora una deroga alla regola: l’Epilogo non si conclude, ma prosegue in una ulteriore e imprevista frase enfatica costruita sul motto del primo tema sino ad un fragoroso climax, ancora sul motto. Nella Coda una breve ripresa del primo tema conclude «eroicamente» il movimento. L’Andante con moto corrisponde ad un momento di stacco emotivo, con due temi cantabili di matrice popolare.
Mentre però il secondo tema nel corso del brano viene semplicemente ripreso e in sostanza solo nell’accompagnamento subisce alcune varianti ornamentali, il primo tema si ripresenta più frequentemente ed è sottoposto ad una assai articolata serie di variazioni che ogni volta lo ripropongono in modo diverso nel profilo melodico, nella quadratura ritmica, nell’orchestrazione. Dopo la fluente prima variazione, in cui il primo tema è letteralmente diluito nel moto denso di semicrome dipanato da viole e violoncelli – mentre il clarinetto vi sovrappone la sua voce piena e pastosa -, nella seconda variazione un flusso ancora più movimentato di quartine di biscrome passa dal gruppo di viole e violoncelli a quello dei violini primi e poi ancora a celli-contrabbassi, là dove l’orchestra tutta inizia a fremere con trasporto su di una robusta ed energica enunciazione corale. Nella terza variazione i legni eseguono il primo tema in modo minore e a note staccate e puntate, offrendo una versione assai lontana dall’originale. Il ritmo è di marcia e l’incedere nobile e solenne, sostenuto dal ben scandito pizzicato degli archi.
Ora le frasi di collegamento, ora i già citati ritorni del secondo tema costituiscono i raccordi per l’avvento di ogni nuova variazione. La quarta, ad esempio, è preparata da una scala prima intonata timidamente da flauto e clarinetto, poi resa via via scorrevole dalla spinta dell’orchestra che letteralmente prorompe nella grandiosa enunciazione del tutti. Una zona di Epilogo si incarica di condurre a compimento l’Andante. Il terzo movimento, l’Allegro, si apre con un fosco e misterioso arpeggio dei bassi cui risponde la voce più chiara di violini e clarinetti. A questo primo elemento ne fa seguito un secondo più netto e deciso nello squillo dei corni, in realtà una variante del motto «del destino» del primo movimento, che immediatamente pare risvegliare antichi presagi. Inizia uno scambio tra i due elementi, che cominciano a i confrontarsi dialetticamente ed in modo serrato nelle varie regioni orchestrali. Nella parte centrale interviene un pressante fugato affidato ai poco disinvolti contrabbassi e violoncelli, presto imitati dai violini. È un episodio scherzoso, dalle tinte ironiche e tipicamente beethoveniane, reso ancor più grottesco dalle frequenti e dispettose ripetizioni e anche dall’imprevisto aggiungersi, poco più avanti, dei pesanti fagotti. Ad ogni ripresa esita, poi si riavvia senza interrompersi. Nella parte conclusiva, dopo il solito avvio ripetitivo e titubante, il soggetto punta verso l’alto, trasmigra dal gruppo dei contrabbassi-violoncelli a quello dei violini, poi su sino al primo flauto; infine, come deprivato del peso, si spegne gradualmente in un tenue diminuendo, «sempre più piano» ed in pizzicato. La scorciata Ripresa è fatta in termini sbrigativi, quasi dovesse risolversi in modo defilato, e con fare commediante.
Il primo tema, ad esempio, torna quasi «regolarmente» all’inizio, però è subito come falsato dall’interruzione del grande respiro in «legato» che l’aveva contraddistinto nella prima parte: qui sono utilizzate ingegnose pause di semiminime poste all’interno della frase, in modo da frazionarla. Poi viene ripetuto e si trasforma in un vezzoso pizzicato. Anche il secondo tema non è più solenne come prima, ma risuona piano, come estraniato, alleggerito nella voce solitaria del primo clarinetto, o dell’oboe, o del flauto, o ancora nel pizzicato leggero dei violini. Il pedale immobile degli archi, su una lunga serie di colpi di timpano, annuncia infine la Coda. Inizia in un cupo e turbato pianissimo che però, progressivamente, aumenta d’intensità, si schiarisce ed infine – al culmine di un poderoso crescendo – sfocia nel quarto movimento. Si apre così l’Allegro. L’orchestra annuncia il primo tema in una fanfara esultante. Una frase di transizione, anch’essa dai toni trionfali, si collega al secondo tema con le sue slanciate e svettanti terzine. È l’annuncio della vittoria dell’intelletto e della ragione contro le forze oscure del destino, la celebrazione finale dell’uomo che combatte contro le avversità. L’Epilogo completa in una grandiosa frase di congedo la parte di Esposizione.
Nello Sviluppo è elaborato soprattutto il secondo tema, mentre un nuovo motivo presentato dai tromboni viene presto enfatizzato dai violini, sino a giungere ad un vibrante climax. Qui l’orchestra tutta pare palpitare, rapita e inebriata – nel registro sovracuto – come cullata dai suoi stessi suoni. E un’atmosfera particolarissima, vivida e sognante, un’immagine di un Beethoven solare assai vicina a quelle del finale della Nona Sinfonia. D’improvviso la dinamica si riduce, dando vita ad una sezione di collegamento basata sulla reminiscenza del secondo tema del precedente movimento. Ma è solo un momento di passaggio, che lascia presto il posto all’incalzante Ripresa e all’Epilogo. Quest’ultimo è molto più esteso rispetto a quello dell’Esposizione e comprende anche il ritorno del secondo tema. Infine si aggiunge una complessa elaborazione del tema della transizione, questa volta imitato a varie altezze e via via più esuberante e fremente sino alla vorticosa stretta conclusiva (Presto).
Sinfonia n. 6 in fa maggiore, op. 68 “Pastorale”
La novità della Pastorale, la più eccentrica ed enigmatica tra le Sinfonie di Beethoven, consiste paradossalmente nel carattere retrospettivo della sua musica. Un quaderno di appunti, conservato al British Museum di Londra, consente il privilegio di gettare uno sguardo sul lavoro preparatorio per la Sinfonia, che fu elaborata in gran parte tra il 1807 e il 1808. In margine al primo foglio del fascicolo, Beethoven ha scritto una definizione interessante, sinfonia caratteristica, che merita di essere approfondita. L’aggettivo “caratteristico”, nel Settecento, richiamava un insieme di aspetti peculiari dello stile e della forma di un brano musicale, collocabile cosi in un genere più o meno strettamente codificato. Il concetto di “carattere”, in un’epoca ancora influenzata dal manierismo settecentesco, si riferiva in primo luogo all’espressione di un unico sentimento, o affetto, nell’arco dell’intera composizione. Nell’opera, per esempio, si usava definire “caratteristica” l’Ouverture legata al clima espressivo della scena immediatamente seguente, come accade nel caso dell’Alceste di Gluck o del Don Giovanni di Mozart.
Il concetto di “caratteristico” tendeva inoltre a mescolarsi con quello di musica a programma. Nel Settecento l’uso di un programma extra-musicale serviva soprattutto per evocare immagini, scene di paesaggio, battaglie o personaggi classici. Il gusto di questo genere di composizioni richiedeva soprattutto delie metafore musicali scelte nell’ambito visivo, a differenza di quel che accadde poi nel Romanticismo, dove l’ispirazione era in primo luogo letteraria. I precedenti della Sinfonia Pastorale sono numerosissimi e in taluni casi hanno sorprendenti affinità con il capolavoro di Beethoven, come per esempio nel Portrait musical de la nature (1785) di Justin Hinrich Knecht. Il 15 ottobre 1755, per esempio, Leopold Mozart scriveva al suo editore di Augusta, Johann Jakob Lotter:
“Monsieur Gignoux [direttore del Collegium musicum di Augusta, formato da musicisti amatori, ndr.] vuole un nuovo paio di PastorellSymphonie? Mi sa che costui creda che siano sempre pronte, come il pane in bottega. Perché non ho sempre il tempo di farne una all’impronta. E questo lo dovrebbe sapere da sé, dal momento che pensava che non avessi il tempo nemmeno di leggere da cima a fondo una sua lettera. Sappiate che ho in effetti una PastorellSymphonie nuova di zecca: soltanto, sarò franco, non posso proprio darvela, perché ho pensato di mandarla a Wallerstein assieme a degli altri pezzi. Penso anche di piazzarla bene”.
La lettera dimostra in maniera indiscutibile quanto la musica a programma fosse popolare, specie tra le orchestre di dilettanti, una o due generazioni prima di Beethoven, il quale in gioventù, nell’orchestra di Bonn, ebbe senz’altro occasione di suonare spesso simili composizioni.
Il programma della Pastorale è contenuto in brevi didascalie che accompagnano i cinque movimenti della Sinfonia. La presenza di un testo e il ricorso alla ricca simbologia musicale codificata nei secoli (bordoni, ranz-des-vaches, l’imitazione del fluire dell’acqua e del canto degli uccelli, la parodia di musica
popolare eccetera) dimostrano l’intenzione dell’autore di riportare un genere ormai considerato antiquato, come quello “pastorale”, all’interno del laboratorio musicale viennese. Assieme alle forme di pittura musicale ritenute sorpassate e persino volgari, nella Pastorale si manifestava infatti anche il mondo nuovo del moderno stile classico, espresso dalla logica astratta e formale della struttura sonatistica. Beethoven conferì dunque alla nuova Sinfonia, con un disegno ideale d’ampio respiro, una dualità di stile, che si manifestava in un confronto serrato tra l’attuale e l’inattuale, tra il “realismo” della forma-sonata e la “finzione” del mondo pastorale.
L’interminabile dibattito sul valore da attribuire’al programma della Pastorale ebbe origine probabilmente in questa natura ambigua della Sinfonia. Beethoven s’invaghì del progetto ardito e sperimentale di comporre una Sinfonia cercando uno stile di mezzo tra l’antico e il moderno, inoltrandosi su un sentiero radicalmente nuovo anche per lui. L’autore era consapevole che il suo progetto non era facile da comprendere e si premurò di aggiungere, nel manoscritto della Sinfonia usato per la prima esecuzione, avvenuta a Vienna il 22 dicembre 1808, la definizione divenuta celebre “Sinfonia pastorella – mehr Ausdruck der Empfìndung als Malerey” (più espressione del sentimento che pittura).
La preoccupazione dell’autore non era infondata. Da allora infatti la critica ha oscillato come un pendolo tra letture di tipo rigorosamente ermeneutico e la negazione di qualsiasi rapporto tra forma musicale e descrizioni poetiche. Il musicologo americano Owen Jander, per esempio, ha di recente propugnato la tesi che l’episodio dell’usignolo, della quaglia e del cuculo in coda al secondo movimento raffiguri in realtà la profezia dell’imminente sordità. Ammesso che gli argomenti portati a sostegno di questa tesi siano inoppugnabili, qual è il vantaggio in definitiva di addentrarsi in una selva inestricabile, popolata di simboli e figure metaforiche che nessuno può interpretare in modo ragionevole? D’altra parte sarebbe molto discutibile ignorare il fatto che l’autore ha senza dubbio cercato di delineare nelle didascalie un disegno spirituale, che non si può cancellare accantonando ogni aspetto non riconducibile direttamente al testo musicale.
La Pastorale è articolata sulla carta in cinque movimenti, ma in effetti la struttura complessiva della Sinfonia è percepibile in due metà chiaramente distinte. La prima parte è formata dai due movimenti iniziali, l’arrivo in campagna e la scena al ruscello, indipendenti l’uno dall’altro; la seconda invece corrisponde alla sequenza ininterrotta degli ultimi tre movimenti, che configurano nel loro insieme un percorso narrativo unico. La compresenza di un principio descrittivo e di uno di tipo formale implica una tensione alternata della percezione del tempo, che si articola in una duplice dimensione. La musica della prima parte, obbediente all’impostazione classica, comprende due movimenti composti in forma-sonata, secondo la tradizionale sequenza di un movimento iniziale molto elaborato e di un tempo lento. Pur accomunati idealmente dal fatto di condividere il medesimo clima espressivo, non si stabilisce tra loro alcuna relazione temporale. I due brani potrebbero esprimere lo stato d’animo di un’esperienza vissuta tanto nello stesso momento, quanto a distanza di molti giorni. La musica della seconda parte invece collega assieme nel tempo una serie di avvenimenti. Il concatenamento degli episodi induce l’ascoltatore a recepire l’ultima parte della Sinfonia come il racconto di un’unica vicenda, il cui significato è pienamente comprensibile solo attraverso le didascalie.
La differenza tra le due parti non riguarda però soltanto il carattere narrativo, ma anche la percezione psicologica del tempo musicale. Solo l’ultimo dei tre movimenti che formano la seconda parte è concepito in forma classica. Il primo, la “Riunione dei contadini”, ha più il sapore che la forma di uno Scherzo beethoveniano, mentre la sezione indiscutibilmente più descrittiva della Sinfonia, il “Temporale”, è scritta in stile del tutto libero, quasi teatrale. La forma-sonata classica, particolarmente in Beethoven, configura una concezione del tempo fortemente direzionale, in cui predomina la volontà del presente di proiettarsi sul futuro. In questa Sinfonia, a differenza delle altre, sembra che Beethoven cerchi di rappresentare in vece la circolarità del tempo, il divenire immobile della natura nel suo percorso di eterno ritorno. Nella Pastorale si nota uno stile compositivo insolito per l’autore, attraverso l’uso di forme ripetitive, l’assenza di forti contrasti tematici, l’uniformità della struttura armonica.
La differenza di stile tra le due parti corrisponde a un diverso grado d’identificazione con la figura del protagonista. La forma-sonata della prima parte esprime un senso elegiaco dello scorrere del tempo, che rispecchia il mondo antico, stabile e ben ordinato della campagna.
Ludwig van Beethoven
La natura, vista dall’eroe, appare come un luogo sicuro e immutabile nel tempo, governato da leggi patriarcali. Il carattere narrativo della seconda parte spezza invece il lento ruotare del tempo. Lo scoppio del Temporale determina un’improvvisa accelerazione, catapultando nel mondo immobile dell’elegia una dimensione estranea e lacerante. Il contrasto drammatico di questo episodio è simbolicamente espresso dall’uso della tonalità di fa minore, che rappresenta una radicale rottura con il resto della Sinfonia, interamente avvolta nella distesa tonalità di fa maggiore. Ma il carattere elegiaco della prima parte era stato contraddetto in precedenza anche dallo stile realistico impiegato da Beethoven per raffigurare il mondo contadino, nella scena del ballo. La comicità dei musicanti, con i loro errori grossolani e la frettolosa, incongrua sovrapposizione delle danze, sembra corrispondere a una qualche deformità morale, intervenuta a turbare la purezza dell’antica vita pastorale. Il ritorno della forma-sonata nel Finale acquista così un senso quasi religioso, apparendo appunto come una rilettura degli antichi culti. Questo aspetto rituale è confermato, negli abbozzi di Beethoven, da una precedente versione della didascalia che accompagna l’ultimo movimento, in cui si parla di un ringraziamento an die Gottheit, alla divinità.
Resta da chiarire qual è il disegno ideale che collega l’intero percorso. Una lettura della Pastorale non può prescindere forse dalla figura di Goethe, che s’intreccia in molteplici modi con le opere create da Beethoven in quegli anni. Il tentativo della Sinfonia d’interpretare in chiave moderna l’antico genere “pastorale”, per esempio, potrebbe essere legato all’aspirazione goethiana di rinnovare il genere dell’idillio, di cui lo scrittore si era occupato in un testo allora notissimo, Hermann und Dorothea (1797). Ma certe risonanze profonde si percepiscono anche mettendo a confronto la Pastorale con alcune pagine dei Dolori del giovane Werther. In una delle prime lettere del romanzo (10 maggio), Werther parla della natura con accenti che sembrano evocare immagini precise della Pastorale (“Una meravigliosa serenità, simile a questo dolce mattino di primavera, mi è scesa nell’anima […] Quando la bella valle effonde intorno a me i suoi vapori e il sole alto investe l’impenetrabile tenebra di questo bosco […] e io mi stendo nell’erba alta accanto al torrente […] oh, se tu potessi esprimere tutto questo, se tu potessi effondere sulla carta ciò che in te vive con tanta pienezza e tanto calore…”).
La famosa scena del ballo, cui è legato l’episodio cruciale dell’incontro con Lotte, mostra delle sorprendenti affinità con la seconda parte della Sinfonia. Werther è invitato a un ballo (“I nostri giovanotti avevano organizzato un ballo in campagna al quale ero felice di partecipare anch’io”). Nel mezzo delle danze scoppia un temporale, che spaventa le ragazze e turba l’animo di tutti. Passato il peggio, Lotte e Werther si ritrovano insieme a osservare il paesaggio. “Ci avvicinammo alla finestra, tuonava ancora lontano, una magnifica pioggia cadeva scrosciando leggera e soave sui campi e un profumo vivificante saliva fino a noi come un soffio di vento pieno di tepore. [Lotte] stava appoggiata sui gomiti e contemplava la campagna; alzò gli occhi al cielo, poi li rivolse verso di me e vidi che erano pieni di lacrime. Posò la mano sulla mia e disse: – Klopstock! – mi ricordai subito della stupenda ode”. La poesia evocata da Lotte s’intitola Frühlingsfeier (Festa di primavera) e costituisce un testo cardine dell’estetica kantiana del sublime. L’ode di Klopstock termina appunto con una grande preghiera alla divinità (Jehova) dopo un violento temporale, così come l’Allegretto finale esprime la gratitudine commossa verso il Creatore benevolo con accenti e modi (la forma ripetitiva del tema, la sua trasformazione in un corale) pervasi da un potente e nuovo afflato religioso.
Sinfonia n. 7 in la maggiore, op. 92
Fra il compimento delle Sinfonie quinta e sesta e quello della settima passarono circa quattro anni, durante i quali Beethoven compose fra l’altro i due Trii op. 70, il Trio op. 97, la Sonata per pianoforte op. 78 e quella op. 81a (detta L’adieu, l’absence et le retour), il Quartetto op. 74 e quello op. 95, il Quinto Concerto per pianoforte e orchestra, le musiche di scena per la tragedia Egmont di Goethe. La Settima Sinfonia fu probabilmente stesa nell’inverno 1811-12, certo era compiuta in maggio; ma le sue prime idee risalgono a vari anni addietro: alcuni dei suoi abbozzi sono mescolati, nei taccuini di Beethoven, ad appunti relativi al Quartetto op. 59 n. 3, che fu compiuto nel 1806. Fu eseguita per la prima volta oltre un anno e mezzo dopo il suo compimento, l’8 dicembre 1813, in un concerto all’Università di Vienna organizzato da Malzel (l’inventore del metronomo e di cento altri congegni d’orologeria musicale e affini) a beneficio dei soldati austriaci e bavaresi feriti alla recente battaglia di Hanau (30-31 ottobre).
II concerto era una manifestazione patriottica; e il suo pezzo forte non fu la Settima bensì un pezzo “militare” in due parti composto da Beethoven in ottobre per celebrare il trionfo di Wellington sull’esercito francese in Ispagna, presso la città di Vitoria, il 21 giugno, e appunto intitolato Wellington Sieg bei Vitorìa, cioè La Vittoria di Wellington a Vitoria (inutile spiegare che l’involontaria freddura è solo della traduzione). Della partitura di questo pezzo facevano naturalmente parte ordigni fabbricati da Malzel, che imitavano le cannonate. I primi musicisti di Vienna parteciparono alla sua esecuzione: ai “cannoni” erano Salieri (che conosciamo come uno degl’insegnanti di Beethoven) e il pianista-compositore Kummel, alla grancassa era il giovane Meyerbeer, primo violino era Schuppanzigh, e fra gli altri violini era Spohr, compositore assai ragguardevole e futuro direttore d’orchestra di primissimo ordine. E il successo fu strepitoso: con nessun’altra delle sue partiture Beethoven ottenne in vita tanti applausi. Il concerto intero (che comprendeva anche due marce di altri compositori) fu ripetuto quattro giorni dopo, con incasso eccezionale.
Tuttavia anche la Settima Sinfonia, che lo concludeva, fu ammirata. Il pessimismo sul gusto dei pubblici che potrebbe nascere considerando il non immeritato oblio in cui oggi è lasciata la Vittoria di Wellington, tanto ammirata allora, può essere equilibrato da una considerazione opposta: che il secondo tempo della Settima, quell’Allegretto che oggi è da tutti stimato una delle più stupende creazioni di tutta la musica, fu immediatamente compreso e portato alle stelle. Se ne dovette infatti dare il bis, come poi tornò ad accadere per molti anni quasi dovunque la Settima fosse eseguita. Quanto alla Sinfonia nella sua integrità, incontrò come le altre qualche opposizione nei particolari; ma il suo successo complessivo è indubitato, e tra l’altro attestato dal fatto che nel 1816 se ne pubblicarono, insieme con la partitura, ben sei trascrizioni diverse (per banda, per quintetto, per trio, per pianoforte a quattro mani, per due pianoforti, per pianoforte solo).
La Settima Sinfonia non esprime un dramma nel senso in cui lo esprime la Quinta; ma tuttavia non si trova davvero nella situazione della Pastorale, il cui assunto è puramente idillico, e perciò radicalmente estraneo ad ogni idea drammatica (a meno che non si voglia chiamar drammatico il contrattempo d’una festa all’aperto interrotta da un acquazzone). Nella Settima il dramma vero e proprio è come in un antefatto; ma un antefatto le cui vibrazioni sono immanenti nel discorso ch’essa svolge ora dinanzi a noi. È come se le conquiste compiute nella Quinta (oltre che in tante opere di musica da camera o per pianoforte) si fossero tradotte in uno stato d’animo: in una fremente esaltazione delle energie vitali che l’esperienza del “dramma” aveva scatenato. Se dunque per dramma s’intenda, come per la Quinta, un conflitto fra principi avversi che, posto all’inizio della sinfonia, sia risolto alla fine, non lo troveremo nella Settima; vi troveremo però un linguaggio drammatico, un’animazione che ripropone il contrasto al livello d’un gioco psicologico continuo di azioni e reazioni che non sono più la dialettica fra il fato e l’uomo, fra il male e il bene, fra la materia e lo spirito, bensì quella dialettica fra luce e ombra, fra tensione e riposo, ch’è insopprimibile alla vita interiore. E che nel nostro caso si trova lanciata nella scia di una vittoria: quando il dramma fra il male e il bene è stato preventivamente risolto in favore del bene, cioè della positività della vita.
Dunque il primo tempo della Settima, diversamente da quello della Quinta, non pone i termini d’un conflitto che il quarto risolverà: avvia invece una specie di vortice che il quarto tempo non “concluderà” bensì porterà al parossismo. In questo senso va interpretata la famosa definizione che Wagner dette di questa sinfonia: “l’apoteosi della danza”. In questa definizione c’è ben più che una vaga suggestione poetica. Danza, dal punto di vista musicale, è infatti una composizione il cui genere si definisce non tanto dalla sua forma quanto dal metro, cioè da quel determinato ritmo che la percorre costantemente. Ora è vero che le forme, nella Settima, sono quelle sinfoniche, che ben conosciamo; ma è anche vero che qui contano meno del divenire ritmico generale. Non tanto abbiamo un sistema di temi contrapposti quanto una loro varietà che si rileva su una continuità di fondo: una continuità, appunto, ritmica, che parte da un minimo per arrivare a un massimo di animazione.
Lenta perciò è la messa in moto. Il primo tempo è preceduto da un’introduzione (Poco sostenuto), la più lunga che Beethoven abbia mai composto, e che possiede una sua forma ben definita, non ha tono di improvvisazione. Si fonda infatti su due temi, il primo scandito in valori larghi, di compressa energia, il secondo tenero e grazioso; ma quel che più conta per il divenire del pezzo è una scala in quartine di semicrome, “staccato”, che collega l’uno all’altro, e fissa soprattutto un sottofondo ritmico. Infatti questa scala, sempre mantenendo le quartine, a un certo punto cessa di essere una scala per fissarsi su una sola nota, ribattuta a perdita di vista. Ed ecco, quando l’orecchio si è ormai intonato su questa nota (che è mi, la dominante del tono di la maggiore), il ritmo insensibilmente muta, mentre dal canto suo il timbro va trascolorando, nel pianissìmo, dai legni ai violini e viceversa. Flauti e oboi infine si consolidano, sempre su quella nota, in un metro formato da una battuta in sei ottavi costituita da due terzine identiche (croma puntata – semicroma – croma). Senza accorgercene siamo entrati nel Vivace, cioè nel primo tempo propriamente detto, dove quel metro sarà la base di tutto, rendendo praticamente irrilevante la distinzione fra primo e secondo e terzo tema. E il discorso si aprirà a innumerevoli prospettive; ma sarà un discorso unico, dominato da un’unica, rattenuta tensione, di cui ora ci scoprirà un aspetto, ora un altro, ora aprendosi ad abbandoni quasi canori, ora aggrovigliandosi nelle maglie di complesse rifrazioni armoniche. Il che avviene per esempio in un originalissimo frammento della coda, in cui su un tormentato ostinato dei bassi i violini tentano, quasi balbettando, un loro disegno melodico che li porterà a ritrovare il ritmo fondamentale del pezzo.
Significativa caratteristica di questa Sinfonia (come dell’Ottava) è l’assenza d’un tempo propriamente lento: il suo assunto non tollera un pathos dichiarato, e il luogo dell’Adagio o dell’Andante è preso da un Allegretto. Dal che s’intende quanto grave sia l’errore, tuttora diffuso, di quei direttori che a questo tempo impongono un movimento lento, trasformandolo in una sorta di marcia funebre.
Conte Moritz von Fries e famiglia
L’allegretto della Settima non costituisce rispetto agli altri tempi un contrasto reale, è solo un episodio fra i tanti. Ma riceve uno spicco particolare dalla sua andatura immateriale, da quel suo librarsi in una sorta di stratosfera della coscienza; l’ingresso alla quale (e l’uscita dalla quale) è simboleggiato dall’accordo degli strumenti a fiato che lo apre e lo chiude. La stessa malinconia che sembra aver presieduto alla sua nascita è solo un antecedente, ormai risolto in un lirismo che la trascende in una contemplazione del tutto rasserenata.
L’Allegretto è articolato in forma-Lied secondo uno schema A-B-A’-B’-A”. La sezione A, dopo l’accordo che s’è detto, consiste in una melodia in la minore di ventiquattro battute che è enunciata quattro volte di seguito, ma che solo a partire dalla seconda volta assume i suoi connotati definitivi; ad ogni ritorno la veste strumentale si arricchisce, fino a comprendere tutta l’orchestra (all’inizio, erano solo viole, violoncelli e contrabbassi, “piano”). B è una melodia in la maggiore intonata dai legni, che infine modula in do maggiore per ricondurre al tono di la minore. A’ è un ritorno della melodia principale (A) seguita da uno sviluppo della medesima in stile fugato; B’ un ritorno abbreviato di B, A” è la conclusione, basata sul tema principale ora enunciato, frammento per frammento, da gruppi strumentali diversi, sempre in pianissimo.
Questa la forma del pezzo, molto semplice; ma anche qui, il fatto più rilevante è la continuità ritmica. La melodia di A deve la sua fisionomia inconfondibile a un metro caratteristico costituito dalla successione di due battute, la prima scandita in due semiminime, la seconda in una semiminima seguita da due crome: abbiamo dunque, in termini di metrica classica, un dattilo seguito da un spondeo. E questo ritmo percorre tutto il pezzo, compresa la sezione B; la cui melodia, abbandonata su un accompagnamento di molli terzine degli archi, si rileva pur sempre su un basso che ripete il metro dattilico senza abbandonarlo un istante.
Il principio della continuità sussiste, in qualche modo, anche nel successivo Scherzo. Questo Scherzo (in fa maggiore, col Trio in re maggiore) riprende l’innovazione che abbiamo visto in quello della Quarta Sinfonia: cioè una seconda apparizione del Trio dopo la ripresa della prima parte, seguita da una ulteriore ripresa di questa in fine (dunque A-B-A-B-A in luogo del tradizionale A-B-A). Qui il Trio ha carattere molto diverso dell’accaldato “presto” che costituisce la prima parte: è una distesa melodia (in tempo “assai meno presto”) che deriva, a quanto pare, da un canto popolare di pellegrini. Dunque il principio della continuità ritmica, letteralmente parlando, parrebbe sostituito da quello del contrasto. Ma in pratica le cose non vanno così perché il “presto” si conclude, ogni volta, con una nota tenuta dai violini (un la), che durante tutto il corso del Trio i violini non abbandoneranno più se non per passarla ad altri strumenti; e questa nota finisce col costringerci a guardare il Trio, per così dire, dal punto di vista del “presto” da cui essa proviene. Sì che il Trio ci si presenta come un suo interno indugio, una sua parentesi, non come qualcosa che gli opponga un contrasto.
Il finale, come s’è già inteso, è il culmine della Sinfonia, il luogo in cui gl’impulsi posti nel primo tempo, e variamente avviati negli altri due, arrivano al dispiegamento più violento, a un’esaltazione dionisiaca. Il suo carattere è determinato soprattutto dal primo tema, che Beethoven aveva già usato nella sua trascrizione d’un canto popolare irlandese, ma in altra forma. Questo tema è come un seguito di scosse che percorrano una folla trascinandola al tumulto: i temi secondari (dei quali quello, sfacciatamente chiassoso, che risponde immediatamente al primo tema, è tratto da un canto popolare russo) sono come ingoiati nel suo gorgo ascendente. Nel quale d’altronde sembra sboccare l’intera Sinfonia, anche perché molte idee ritmiche e armoniche dei tempi precedenti vi riappaiono, a un grado di esaltazione maggiore: esempio tipico quella lunga linea cromatica dei bassi che serpeggia a lungo prima della conclusione mentre i violini e le viole si rimandano a vicenda, freneticamente, i frammenti del tema, con un procedimento che ha lo stesso senso di quello che abbiamo ricordato per la conclusione del primo tempo.
Sinfonia n. 8 in fa maggiore, op. 93
L’Ottava Sinfonia in fa maggiore fu composta, con una rapidità per Beethoven insolita, tra l’estate e l’autunno del 1812, principalmente durante il soggiorno di cura a Teplitz (rimasto famoso per l’incontro con Goethe) e Karlsbad. Di ritorno da Teplitz, Beethoven si fermò per alcun tempo dal fratello Johann a Linz, dove sappiamo che dette gli ultimi ritocchi alla nuova opera. Il manoscritto originale, infatti, reca annotato: «Sinfonia Linz, nel mese di ottobre 1812». La prima esecuzione ebbe luogo alla Redoutensaal di Vienna il 27 febbraio 1814, nel corso di un concerto, come allora si usava, ponderoso assai, comprendente, oltre alla «Ottava» e cose minori, «La battaglia di Vittoria» e la «Settima». E proprio alla Settima Sinfonia l’«Ottava» si apparenta strettamente per circostanze di nascita e affinità di caratteri, tanto da essere unanimemente indicata come la sua sorella gemella.
Eppure, l’Ottava Sinfonia è stata a lungo considerata la cenerentola delle Sinfonie beethoveniane. Le minuscole proporzioni di questa «piccola Sinfonia», come la chiamò lo stesso autore, la piú breve fra quelle da lui scritte, che sembrano formalmente additare orizzonti settecenteschi, tratti umoristici se non addirittura burleschi, sullo sfondo di una indefinibile e inquietante stranezza, tra ambigua e capricciosa, disorientarono e delusero i contemporanei e i posteri che in essa non riconobbero piú il Beethoven titanico e mitico, patetico e «profondo», delle loro sclerotizzate visioni. Inevitabilmente, il ritorno ai modi di Haydn e Mozart (dopo l’«Eroica», dopo la «Quinta»!), fu considerato un segno, se non proprio d’involuzione, di stasi e di disimpegno creativo: un curioso incidente, nella migliore delle ipotesi una vacanza, dello spirito malinconico, del lottatore ben altrimenti vittorioso. Famoso rimase il grido piovuto dal loggione la sera della prima esecuzione: «Es fällt ihm schon wieder nichts ein!». «Ecco che è di nuovo privo di idee!»: testimonianza tremenda di insensibilità umana prima ancora che artistica.
Vi furono, è vero, nel corso dell’Ottocento, voci che si levarono in difesa della «piccola Sinfonia»: oltre a Wagner, che amò dirigerla sovente nei suoi concerti, quella di Robert Schumann, profondo conoscitore e ammiratore di Beethoven, che scrisse, dopo un’esecuzione dell’opera, il 10 dicembre 1840: «Fra le Sinfonie beethoveniane quella in fa è la meno eseguita e ascoltata: perfino a Lipsia, dove tutte sono conosciute e quasi popolari, si nutre qualche prevenzione proprio contro questa che per profondità umoristica non ha forse l’uguale fra le opere del Maestro. I crescendo, come quello verso la fine dell’ultimo tempo, sono rari persino in Beethoven, e quanto all’«Allegretto» in si bemolle non c’è niente da fare se non starsene zitti e felici…». Valga, dunque, come indicazione di massima, il definirla la «Sinfonia del buon umore»; a patto di chiosare, con Riezler: «Ma che potenti pensieri, sono quelli che gl’ispirano questo buon umore! È davvero il buon umore di un dio; dal tema principale del primo movimento fino al Finale, ogni battuta ha uguale ‘ peso specifico ‘». Che nulla fosse piú estraneo a Beethoven dell’idea di un giocherellare aggraziato e sereno, lo dimostrano lo sforzo e la meditazione di una piena consapevolezza stilistica nell’intenzionale ricorso alle forme del passato (del «suo» passato, piú che di quello dei modelli classici), nel clima di ciò che il Lenz, acutamente, chiama «un nuovo ordine spirituale». Sforzo, si è detto: di nessun’altra Sinfonia, al di fuori della «Nona», sono rimasti tanti appunti, tanti abbozzi variamente elaborati, tante diverse stesure per i vari tempi; senza contare i ritocchi e le aggiunte sostanziali apportate anche dopo la prima esecuzione, come la soppressione di un’introduzione lenta al primo tempo, che si slancia cosí fin dall’inizio come «in medias res», o l’aggiunta, al medesimo primo tempo, delle trentaquattro battute della coda, con l’ultima intensificazione del tema principale culminante in un fff, un forte con tre f, come non era accaduto mai neppure nei vertici dell’Eroica o della Quinta. Altro che puro gioco musicale, altro che settecentesca gracilità costituzionale! L’Ottava è il frutto della completa maturità di Beethoven, un frutto prezioso e perfetto, una conquista dell’ultima postazione prima di spiccare il salto verso le regioni incontaminate dell’ultimo e piú tardo stile.
Leonard Bernstein
Che cosa è del resto la «gioia, bella scintilla divina» della Nona Sinfonia se non una metafisica trasfigurazione del buon umore della «Settima» e dell’«Ottava»? Cosí, i quattro tempi di cui l’opera si compone sembrano scandire le tappe di un itinerario che dalla iniziale radiosità, colta per cosí dire di soprassalto, del primo tempo, «Allegro vivace e con brio», giostrato su un’unica figura tematica che si espande inarrestabile, giunge fino al calor bianco dell’ultimo tempo, spalancando profondità improvvise e inattese aperture di grande pathos, in un subbuglio di forme, ora Sonata ora Rondò, con due sviluppi e due riprese, e una finale, estesa coda, la quale finisce per proiettare la sua luce sull’intero movimento, anzi sull’intera opera.
Proprio per preparare il contrastante squarcio di questo movimento finale, che dura da solo quasi quanto gli altri tre messi insieme, Beethoven alleggerisce il peso dei due tempi centrali, legandoli a un materiale tematico e a una temperie espressiva burleschi e ironici, ma soavemente leggeri. È noto che il secondo movimento, il celebre «Allegretto scherzando», si basa sul tema di un canone composto da Beethoven per Johann Nepomuk Mälzel, il perfezionatore del metronomo, in cui si allude, appunto, per burla, all’implacabile ticchettio del metronomo. Sull’accompagnamento «meccanico» dei legni, gli archi ricamano una linea melodica ora incisiva ora grottesca, come di chi perdesse e ritrovasse la strada, in continua variazione. Qui ogni riferimento al Settecento è francamente escluso: l’«Allegretto» – se ne accorse Berlioz – «è una di quelle creazioni alle quali non si può trovare né modello né corrispondente», il parto di una fantasia scatenata e allo stesso tempo controllata. Metteteci un po’ di teatrale serietà, e di tragedia vera, e avrete le Burlesche di Mahler.
Anche il terzo tempo, «Tempo di Menuetto», non nasce dalla volontà di riesumare una forma che, nella Sinfonia, Beethoven aveva già da tempo superato e sostituito con il piú moderno Scherzo. Il musicista ne accentua maliziosamente l’incedere pomposo e nel Trio crea un piccolo capolavoro dove la parodia si eleva inconsapevolmente a poesia: su un accompagnamento in terzine, vecchiotto e asmatico, dei violoncelli, i corni e il clarinetto risuscitano la melodia di un minuetto scritto da Beethoven nel lontano 1792. Va dato atto a Carli Ballola, la cui monografia beethoveniana sempre piú col tempo riluce, quando stupendamente aggiunge e conclude: «Il vecchio motivo, nella seconda parte, ci riserva la sua sorpresa piú incantevole, colorandosi magicamente d’iridescenze armoniche quasi brahmsiane: un intenerimento improvviso, quasi uno struggente e fuggevole senso di rimpianto per il ragazzo scontroso in codino e calze di seta della piccola Bonn, apparso per un istante alla memoria dell’uomo maturo e amareggiato».
Spigolature d’archivio
L’Ottava Sinfonia di Alberto Savinio
Sei tu cabalista, o lettore? Se ancora non lo sei, certamente lo diverrai considerando e interpretando il significato “numerale” delle sinfonie di Beethoven. Tre, Cinque, Sette, Nove: numeri dispari e “fatali”, segnano le sinfonie “fatali” di Beethoven: Napoleone rivoluzionario e liberatore, Colpi alla porta del Destino, Apoteosi della Danza, Inno alla Gioia (e non si tratta, com’è facile capire, di una danza semplice e “spensierata”, ma di quella perlomeno che sognava di danzare Zaratustra). E dall’altra parte: Due, Quattro, Sei, Otto: le sinfonie piane di Beethoven, le sinfonie bianche, le sinfonie “senza destino”; non perché “prima del Destino”, sì perché hanno varcato la porta del Destino, questa “cosa” umana e mortale (tutta l’arte “vera” del resto è di là del destino) e una, la Sesfa, è addirittura naturalistica, di quel medesimo naturalismo delle tende di una volta, che calate alle finestre mostravano in trasparenza paesaggi ameni e gaiamente tinteggiati, che pur nel cuore più duro dell’estate e nella stessa bocca infocata del cane, trasformavano l’interno di una camera in una fresca arcadia. E sono le sinfonie bianche che noi preferiamo: quelle nelle quali Beethoven dimette le sue ingenue e incaute ambizioni demiurgiche e sale alla calma di un’arte divina.
Queste sinfonie, e particolarmente l’Ottava, si distinguono pure per un che di maggiormente meccanico, di più “fatto”, di più artefatto, e del compiacimento dell’artista nel fabbricare questi giochi sonori con mani espertissime e leggere. Non un solo pensiero nero traversa la mente di Beethoven nella scrittura di questa sinfonia, non un solo sguardo torbido, o appena cupo, o troppo imperativo nei suoi occhi. E neppure si lascia rapire dai sogni nel sogno, ed essa stessa è sogno. La fronte gibbuta di Beethoven si spiana. Beethoven qui è ragazzo: ritrova l’arte migliore e più confortante: l’arte come “una lunga infanzia”. Aggiungo che questa sinfonia è più “tedesca” delle altre: più antica tedesca: Altdeutsch; più nella germanità gotica, lucida, metafisica di Bach. Tedesco il tema iniziale, tedesco il secondo tema che si apre sulla battuta 37 e che veramente non è se non una variante del primo tema, con in più qualcosa dell’esercitazione scolastica e dell’anticipazione della macchina da cucire; mirabili le ultime 12 battute del Primo Tempo: forse la musica più chiara e leggera che Beethoven abbia mai scritto.
Segue l’Allegretto Scherzando, questo gioco di angel tra bianche nuvole globose, ma qui pure il meccanico dell’arte superiore, avvalorato dalla leggenda che questo scherzo è stato ispirato dal tic tac del metronomo: clessidra dei musicisti.
Nel Tempo di Minuetto poi la mente musicale di Beethoven si sfronda anche più e si assottiglia, finché arriva del tutto purificata al finale: al finale così squisitamente povero d’invenzione, così parco di temi – questo finale che si direbbe scritto solo perché, nell’economia di una sinfonia, finale ci vuole – e che in molte sue parti, e soprattutto nel finale di lui finale, non è altro che note. E che altro è la musica che note? Gl’ignari, i rozzi, i d’insana fame affamati trovano nella nota quello che nella nota naturalmente non c’è né ci può essere: un valloncello, un fiume, gli occhi della donna amata, una nuvola che passa, il mare in burrasca, le voci dell’uragano; mentre “chi sa” non chiede alla nota ciò che la nota non può dare, ma ne accetta il suono soltanto e al più considera la nota e l’ama come segno sulla carta: la nota con la sua testina ora bianca e ora nera, ora con l’asticciola al fianco ora senza; e di questa scritta strategia si appaga.
Sinfonia n. 9 in re minore, op. 125 “Corale”
Monumento della musica di ogni tempo, la Nona Sinfonia prese forma molto lentamente nell’arco della vita di Beethoven. Si può infatti risalire al periodo in cui il compositore, non ancora ventenne, frequentava l’elite intellettuale di Bonn ed entrò in rapporti di amicizia con la ricca famiglia von Breuning, presso la quale conobbe il grecista e poeta Eulogius Schneider, entusiasta sostenitore degli ideali della Rivoluzione Francese e Ludwig Bartholomeus Fischenich, docente di diritto all’Università di Bonn e amico di Friedrich Schiller. È molto probabile che proprio in questa Università, dove Beethoven frequentava i corsi di filosofìa, Fischenich abbia fatto conoscere al giovane musicista l’opera di Schiller, e quell’Ode An die Freude (scritta nel 1785 e pubblicata nel 1786) che era diventata un simbolo degli ideali dei giovani tedeschi. Già allora Beethoven aveva immaginato di mettere in musica questa poesia, secondo quanto sostiene Fischenich in una lettera del 1793 indirizzata alla moglie di Schiller. Ma il progetto non andò in porto, forse a causa dell’improvvisa partenza di Beethoven per Vienna e della censura che aveva colpito le opere del poeta, messe all’indice nella città austriaca come scritti «immorali» e «pericolosi» (solo a partire dal 1808 i suoi drammi furono nuovamente rappresentati sulle scene e le sue opere poterono circolare liberamente). Progetto che però rimase sempre nella mente del compositore, anche prima di essere realizzato, nel 1824, nel celebre Finale della Nona. Nel 1790 Beethoven aveva utilizzato un frammento dell’Ode schilleriana nel testo della Kantate auf die Erhebung Leopold II zar Kaiserwürde, e non è da escludere che in quegli anni giovanili possa aver composto anche un Lied, andato perduto. Gli unici altri testi di Schiller che egli mise in musica furono una strofa della ballata Das Mädchen aus der Fremde, nel 1810, e il Cesang der Mönche (dal Wilhelm Tell), per coro a cappella, del 1817.
Federico Guglielmo III, Re della Prussia
Molti elementi musicali della Sinfonia in re minore si possono individuare in lavori precedenti, oltre a comparire in forma di appunti e schizzi nei taccuini di Beethoven sin dal 1794. Allo stesso anno risale la composizione del “Lied” Seufzer eines Ungeliebten und Cegenliebe, su versi di Gottfried August Bürger (1747-1794), la cui melodia prefigura per la prima volta il celebre tema dell’Ode alla Gioia della Nona. A questo tema Massimo Mila, nella sua Lettura della Nona Sinfonia, riconduce anche un breve frammento melodico appuntato in un quaderno del 1804. Già nei primi anni del secolo Beethoven immaginava di comporre un grande affresco sinfonico e corale, e aveva anche pensato di concludere la Sinfonia Pastorale con un coro religioso. Nel 1808 compose la Fantasia in do minore per pianoforte, coro e orchestra, che si può considerare quasi uno studio preparatorio della Nona, sia per la concezione sperimentale della forma, sia per il contenuto poetico, legato ai versi di Christoph Kuffner che inneggiano alla pace, alla gioia, all’armonia universale. Altri spunti che anticipano materiali motivici e soluzioni formali della Nona si possono cogliere nel Lied Kleine Blümen, kleine Blätter, su testo di Goethe, del 1810; in un frammento melodico schizzato nel 1812 sul verso «Freude, schöner Götterfunken», inizialmente pensato per un’Ouverture corale, e successivamente utilizzato nell’Ouverture Zur Namensfeier del 1815; in un tema di fuga annotato in un quaderno dello stesso anno, che appare come una chiara anticipazione del tema del secondo movimento della Sinfonia. I primi abbozzi veri e propri della Sinfonia corale risalgono però al 1817, nello stesso periodo della composizione della Sonata Hammerklavier. Questo lavoro preparatorio proseguì fino ai primi mesi del 1819, quando Beethoven abbandonò la Nona per dedicarsi ad altre composizioni, anche a causa delle esigenze economiche che lo costringevano a trovare fonti di guadagno; in quegli anni videro la luce capolavori come la Missa Solemnis, le Sonate per pianoforte op. 109, 110, 111, le 33 Variazioni su un Walzer di Diabelli.
Solo nell’estate del 1822 Beethoven ritornò finalmente al progetto momentaneamente abbandonato, anche se in realtà allora aveva in mente due differenti lavori sinfonici, come aveva confidato a Friedrich Rochlitz, primo direttore dell’Allgemeine Musikalische Zeitung di Lipsia: si trattava di una composizione in re minore commissionatagli dalla Società Filarmonica di Londra, e di una «Sinfonia tedesca» con intervento corale su un testo che non aveva ancora scelto. Nel 1823 i due progetti confluirono in un unico grande affresco, che rielaborava in modo organico tutti gli appunti messi insieme fino allora e che, proprio per questo, apparve come l’esito di una lunga maturazione (lo dimostra anche l’esiguo numero di ritocchi nel manoscritto della Sinfonia). Nella primavera di quell’anno Beethoven compose il primo e il secondo movimento, in ottobre portò a termine l’Adagio, e nel febbraio del 1824, con l’inserimento dell’Ode schilleriana affidata a voci soliste e coro, la partitura fu completata. Cominciarono allora i preparativi e le trattative per la prima esecuzione, che ebbe luogo a Vienna il 7 maggio 1824, al Kärntnertortheater. Un concerto rimasto memorabile, nel quale la nuova Sinfonia fu diretta, insieme a tre brani della Missa Solemnis, dallo stesso autore, benché, date le
sue condizioni di salute, la concertazione fosse stata curata da Michael Umlauff, maestro stabile del teatro. I quattro solisti erano le giovanissime Henriette Sontag e Caroline Unger, rispettivamente soprano e mezzosoprano, il tenore Anton Haitzinger e il basso August Seipelt. L’esecuzione non fu di altissimo livello, a causa del poco tempo destinato alle prove, ma il pubblico, numerosissimo, accolse la nuova Sinfonia con grande entusiasmo, tributando a Beethoven non gli applausi, che non poteva sentire, ma un festoso sventolare di fazzoletti. Fu quindi un trionfo, dal quale tuttavia Beethoven non riuscì a ricavare i guadagni che sperava, e anche una ripetizione del concerto, il 29 maggio non ebbe migliore successo finanziario. La partitura fu pubblicata da Schott nel 1826 con la dedica «a sua Maestà, il re di Prussia Federico Guglielmo III», e la copia manoscritta fu poi conservata alla Biblioteca Reale di Berlino.
La Nona Sinfonia apparve subito come un capolavoro rivoluzionario, non solo per la presenza delle voci e del coro, ma perché metteva in crisi il concetto stesso di “Sinfonia”. Oltre che una sintesi di tutto ciò che era stato fino ad allora sperimentato e acquisito nel genere sinfonico, dalla forma-sonata al Lied, dalle Variazioni allo stile fugato, la Nona è anche una grandiosa architettura sonora nella quale Beethoven fa convivere altri generi musicali: lo stile operistico, la musica militare, gli esotismi «alla turca», la scrittura polifonica tipica della musica sacra. Elementi eterogenei che compongono un organismo unitario, ricco di invenzioni timbriche e di finezze ritmiche e metriche (come le soluzioni poliritmiche del primo movimento o i raggruppamenti alternativamente a tre e a quattro battute dello Scherzo), e caratterizzato da continui impulsi dinamici che imprimono un’energia inesauribile al concatenamento delle figure musicali. Nonostante la grandiosità della concezione (secondo Igor Markevitch la Nona rappresenta «il massimo sforzo di sintesi e rinnovamento che mai sia stato compiuto nella storia della Sinfonia»), che determinò la successiva evoluzione del sinfonismo romantico fino a Mahler, in questa Sinfonia Beethoven ritorna allo stile eroico della Terza, composta tra il 1803 e il 1804, e sperimenta le sue audaci innovazioni rimanendo all’interno di un modello classico, come aveva già fatto nella Hammerklavier, portando la forma sinfonica ereditata dalla tradizione tedesca ai limiti estremi in senso dinamico ed espressivo. La solidissima unità strutturale dell’insieme deriva dal sapiente trattamento dei percorsi tonali, ma anche dal ricorso a matrici comuni per la sagomatura dei diversi temi: «tutti i temi tipici della Sinfonia – osserva Vincent D’Indy – presentano l’arpeggio degli accordi di re o di si bemolle, le due tonalità di base dell’opera; si potrebbe, di conseguenza, considerare questo arpeggio il vero tema ciclico della Nona Sinfonia». La convenzionalità del linguaggio armonico e della superficie formale, con una forma-sonata nel primo movimento, uno Scherzo nel secondo (con fugato e doppia ripetizione) e due serie di variazioni nell’Adagio e nel Finale, non impedisce a Beethoven di superare i modelli preesistenti e di individuare un percorso formale nuovo e di immediato impatto all’ascolto.
Una delle novità più rilevanti di questa Sinfonia, che non si limita a concludere un grande ciclo ma appare come la sublimazione dell’arte beethoveniana, è il superamento dello schema sonatistico dei due temi contrapposti a favore di un’elaborazione più complessa che non solo mette in gioco materiali diversi ma moltiplica i livelli di contrapposizione.
Ne è un esempio il primo movimento, Allegro ma non troppo, nel quale secondo Mila si potrebbero contare fino a cinque temi differenti, «perché in realtà non si tratta di semplici temi […] a rigore si deve parlare di tre “gruppi tematici”, cioè di tre complessi di idee strettamente embricate l’una all’altra». In questo movimento la tradizionale forma-sonata si trasforma quindi in un organismo musicale nel quale i temi si presentano a gruppi, formando un serbatoio di elementi per l’elaborazione, ed esposizione e sviluppo si trovano strettamente congiunti, producendo un continuo fermentare di motivi e di sequenze ritmico-armoniche. Anche la ripresa presenta al suo interno una sorta di sviluppo che suscita nuove tensioni, contribuendo a fare di questo movimento non un’arcata in sé conchiusa, ma un segmento di una grandiosa arcata che abbraccia l’intera Sinfonia.
Il secondo movimento non è, come voleva la tradizione, un tempo lento, ma uno Scherzo, Molto vivace, che si contrappone quindi al movimento precedente non sul piano agogico ma su quello espressivo: dopo un Allegro dal tono cupo e drammatico, questa pagina appare come un turbinio danzante e gioioso, nel quale fanno il loro ingresso anche i tromboni, assenti nel primo movimento. Dopo le otto battute iniziali, in cui è esposta una brevissima cellula ritmica, prima dagli archi, poi dai timpani, quindi da tutta l’orchestra, il tema principale emerge in forma di fugato, in pianissimo, innescando un meccanismo di progressiva stratificazione timbrica. Anche in questo movimento, molto più esteso di un tradizionale Scherzo, è presente una sezione di sviluppo, e la funzione del Trio è affidata ad un Presto in 4/4, introdotto da un disegno staccato del fagotto sul quale oboi e clarinetti espongono un calmo motivo di otto battute che anticipa il tema della Gioia.
Fridrich van Schiller
Dopo due tempi movimentati, l’Adagio molto e cantabile, in si bemolle maggiore, si presenta come una vera e propria oasi lirica, che introduce l’elemento della cantabilità attraverso due temi intensamente espressivi, i quali imprimono al movimento un sentimento di dolore e di contemplazione che ricorda la Missa Solemnis. Una cantabilità ancora senza voce, anche se il compositore aveva forse inizialmente progettato, stando a quanto sostiene George Grove, di fare entrare il coro già in questo movimento, in coincidenza con la enunciazione del secondo tema. Dal punto di vista formale, alla struttura
del Lied Beethoven sovrappone quella della variazione, individuando un modello che adotterà anche nei tempi lenti degli ultimi Quartetti per archi. La raffinatissima trama strumentale è illuminata da un’orchestrazione sempre cangiante, che si basa sul continuo scambio tra legni e archi, e che concorre a creare un’atmosfera estatica, appena increspata da un’improvvisa fanfara delle trombe nella parte conclusiva.
Ma è nell’ultimo movimento, Presto, che l’impulso al canto trova il suo sfogo e si materializza nell’inserimento delle voci soliste e del coro, infrangendo le barriere del genere sinfonico. Culmine dell’intera Sinfonia, questo Finale si snoda attraverso sezioni molto marcate e nettamente contrastanti: all’inizio compaiono brevi reminiscenze orchestrali dei movimenti precedenti, con temi che vengono accennati e immediatamente abbandonati; poi, lentamente, prende forma il tema della Gioia, che inizialmente si presenta appena abbozzato (in quattro battute) da oboi, clarinetti e fagotti, su un pedale dei corni, per poi espandersi in tutta l’orchestra e nelle voci. Negli abbozzi per il recitativo del basso (sulle parole «O Freunde, nicht diese Töne!») che precede l’esposizione cantata del tema della Gioia, Beethoven esplicita il significato simbolico e musicale del rifiuto dei movimenti precedenti, quasi una catarsi rispetto ai ricordi di lotte e tragedie, e scrive: «No, questo caos ci ricorda la nostra disperazione. Oggi è un giorno di celebrazione, celebriamolo con canti e danze». Il resto del movimento si dipana quindi festosamente intrecciando al celebre tema corale, quattro distinti episodi: il primo costruito come un’elaborazione polifonica del tema stesso, il secondo che lo trasforma in passo di Marcia, sottolineato da un’orchestrazione turchesca (con grancassa, piatti e triangolo), il terzo che introduce un nuovo tema (Andante maestoso) sulla penultima strofa dell’Ode «Seid umschlungen Millionen», il quarto che combina contrappuntisticamente il tema della Gioia con quello del terzo episodio, dando vita ad una doppia fuga che porta alla trionfale conclusione.
L’Ode di Schiller trovò quindi finalmente posto nella Nona Sinfonia. Ma nel metterla in musica Beethoven ne fece un libero arrangiamento, utilizzando solo una parte delle strofe e omettendo alcuni versi: quelli dionisiaci che inneggiavano al vino, e quelli che parlavano troppo esplicitamente della libertà dalle catene dei tiranni e della magnanimità verso il malvagio, versi evidentemente non politically correct in un’epoca di Restaurazione. Secondo Mila l’intenzione segreta di Beethoven era quella di celebrare non la Freude (gioia), bensì la Freiheit (libertà), e questa ipotesi è supportata da un quaderno del 1812 nel quale è annotato un verso dell’Ode di Schiller che Beethoven intendeva mettere in musica: «Bettler werden Fürstenbrüder» (i mendicanti saranno fratelli di principi) che poi diventò il più evangelico e generico «Alle Menschen werden Brüder» (tutti gli uomini saranno fratelli). Rielaborando il testo di Schiller Beethoven ottiene una sorta di sceneggiatura drammatica che ci pone all’inizio davanti alla Gioia, incarnazione della madre nutrice («Freude trinken alle Wesen / An den Brüsten der Natur»), che abbraccia tutta l’umanità («Alle Menschen werden Brüder / Wo dein sanfter Flügel weilt») e prepara il loro ricongiungimento con il padre («Brüder, über’m Sternenzelt / Muss ein lieber Vater wohnen»). Il tripudio musicale dell’ultimo movimento (nel quale Maynard Salomon vede fuse insieme quattro componenti caratteristiche dell’ultimo stile beethoveniano: il canto, la danza, la variazione e la fuga) diventa così festosa enunciazione di un messaggio di libertà di fratellanza universale, che riprende da Schiller l’ideale di una nuova società. Per il poeta tedesco, convinto seguace di Kant, lo scopo dell’arte era quello di indirizzare l’umanità verso un nuovo ordine sociale, verso una nuova forma di armonia e di pace, che avrebbe permesso il libero sviluppo di tutte le potenzialità umane. Sposando questo modello utopico Beethoven, nella Nona, dà quindi una soluzione di stampo illuministico e ideologico allo scetticismo e ai laceranti conflitti che caratterizzavano tante opere precedenti, attraverso immagini idealizzate, proiettate nel futuro. La complessa struttura musicale della Sinfonia, data anche dalle sottili correlazioni tematiche tra i primi tre movimenti e il Finale, si può allora leggere come un vero percorso drammaturgico, una visione cosmica che va dalle tenebre alla luce. E che rivela una sostanza etica, oltre che estetica.
Inno alla gioia
«O amici, non questi suoni!
ma intoniamone altri
più piacevoli, e più gioiosi.
Gioia, bella scintilla divina,
figlia dell’Elisio,
noi entriamo ebbri e frementi,
celeste, nel tuo tempio.
Il tuo fascino riunisce
ciò che la moda separò,
ogni uomo s’affratella
dove la tua ala soave freme.
L’uomo a cui la sorte benevola,
concesse il dono di un amico,
chi ha ottenuto una donna devota,
unisca il suo giubilo al nostro!
Sì, chi anche una sola anima
possa dir sua nel mondo!
Chi invece non c’è riuscito,
lasci piangente e furtivo questa compagnia!
Gioia bevono tutti i viventi
dai seni della natura;
vanno i buoni e i malvagi
sul sentiero suo di rose!
Baci ci ha dato e uva,
un amico, provato fino alla morte!
La voluttà fu concessa al verme,
e il cherubino sta davanti a Dio!
Lieti, come i suoi astri volano
attraverso la volta splendida del cielo,
percorrete, fratelli, la vostra strada,
gioiosi, come un eroe verso la vittoria.
Abbracciatevi, moltitudini!
Questo bacio vada al mondo intero!
Fratelli, sopra il cielo stellato
deve abitare un padre affettuoso.
Vi inginocchiate, moltitudini?
Intuisci il tuo creatore, mondo?
Cercalo sopra il cielo stellato!
Sopra le stelle deve abitare!
Gioia si chiama la forte molla
che sta nella natura eterna.
Gioia, gioia aziona le ruote
nel grande meccanismo del mondo.
Essa attrae fuori i fiori dalle gemme,
gli astri dal firmamento,
conduce le stelle nello spazio,
che il canocchiale dell’osservatore non vede.»
Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra in do maggiore, op. 15
Il Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in do maggiore di Beethoven uscì nel 1801 a Vienna per i tipi dell’editore Mollo. Fu in quell’occasione che ricevette il suo numero d’opera, cioè l’op. 15, così come il Concerto n. 2 in si bemolle maggiore ebbe il numero d’opera 19, sequenze che però in realtà invertivano il reale ordine cronologico di composizione. Era stato infatti scritto per primo il Concerto in si bemolle in una versione risalente già al 1794-95, e tale stesura era stata in parte abbozzata da circa un decennio, sin dal 1785; in questa versione il Concerto in si bemolle fu eseguito il 29 marzo 1795 e replicato in
un’accademia di Haydn il 18 dicembre dello stesso anno, ma poi andò perduto. Solo successivamente fu composto il Concerto in do maggiore, dai primi abbozzi del 1795 sino alla stesura completa, quella del 1798. Il Concerto in si bemolle fu quindi riproposto in una seconda versione, quella «ufficiale» giunta fino a noi e messa alle stampe da Hoffmeister & Kühnel a Lipsia nel 1801.
Comunque sia, i primi due concerti per pianoforte e orchestra di Beethoven riflettono l’immagine di un compositore non certo alle prime armi: sono sì opere giovanili, ma solo per l’età anagrafica dell’autore; dal punto di vista del valore musicale non rappresentano certo composizioni anonime o di maniera. Beethoven si rifà, naturalmente, alla grande tradizione del concerto per strumento solista e orchestra, ma introduce suoi elementi caratteristici firmando in modo inconfondibile i propri lavori: vi ritroviamo il suo particolare e plastico timbro pianistico, da esecutore virtuoso qual egli era – noto al pubblico viennese per la tecnica solida e granitica -, deliziose quanto improvvise venature di passaggi cangianti e impetuosi, grandi collegamenti modulanti colorati di armonie ardite e inattese, combinazioni ritmiche di icastica efficacia, lo spezzarsi della linea melodica in una serie di arcate irregolari di audace profilo. È il Beethoven che tutti conosciamo, anche se non dimentico dei suoi illustri predecessori.
Ma quali sono i riferimenti stilistici più espliciti? In particolare lo sguardo è rivolto all’eredità lasciatagli dai suoi grandi «maestri», Haydn e Mozart: il giovane Beethoven aveva infatti avuto modo di leggere e conoscere alcune delle loro pagine più significative fissandone alcuni dei tratti fondamentali, mutuandone, anzi, veri e propri «modelli» compositivi. Ad esempio, ritroviamo nei concerti di Beethoven l’abitudine – tipicamente mozartiana – di enunciare il materiale tematico in modo incompleto nell’Esposizione orchestrale, oltre alla scelta di inserire una netta cesura prima dell’entrata del solista (Riesposizione) presentando poi segmenti motivici anche del tutto nuovi; ha tratti ancora mozartiani il fatto di far emergere nella Ripresa elementi ricavati sia dall’Esposizione orchestrale che dalla Riesposizione solistica. Si trattava di vere e proprie «griglie» e regole compositive che, neila tipologia della forma-sonata adottata nel concerto solistico, erano divenute schema noto al pubblico, che quasi automaticamente si aspettava durante l’esecuzione certi passaggi, certi richiami che rendevano l’ascolto più avvincente e interessante.
Nel Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in do maggiore op. 15 ad esempio, lo si vede già nell’esposizione orchestrale del primo movimento, l’Allegro con brio con quel tema marziale e perentorio deliziosamente introdotto dalle sfumature sonore dei violini, e con il secondo motivo di carattere contrastante e dai toni un po’ umbratili, schubertiani: entrambi compariranno di nuovo, ma in modo diverso e in un certo senso «completati» nella parte del solista. Che infatti proporrà, dopo una netta chiusura della prima parte, una riesposizione con un vero e proprio primo tema principale di carattere ben diverso rispetto al motto orchestrale introduttivo: esposto dal solo pianoforte in tono un po’ leggero, sbarazzino, tutto giocato su brevi scatti, scalette, corse improvvise, esibendo un gioco virtuosistico di elegante fattura. Durante questa sezione l’orchestra scandirà di nuovo, sopra le volate del pianoforte, il motto introduttivo, ma questa volta con intento ornamentale e funzione articolatoria della forma, non certo per spezzare o frapporsi alla voce principale del pianista. Il secondo tema della riesposizione solistica rappresenta il giusto completamento del suo omologo nell’esposizione orchestrale; ma qui brilla per spirito totalmente nuovo, introdotto da una figurazione in levare, definito da un’idea di particolare grazia e freschezza esposta dall’orchestra e soprattutto rielaborato nella sua seconda arcata fraseologica dall’opera del solista. Di eredità mozartiana è anche la consuetudine al recupero testuale o trasportato del materiale precedente anche non tematico – soprattutto gli interludi orchestrali -, utilizzato in sezioni differenti, «scambiato di posto» nella sua collocazione e con diversa funzione, come ad esempio succede nell’epilogo della Riesposizione, dove riemerge il profilo scanzonato della coda dell’Esposizione orchestrale, qui o alla fine della Ripresa, dove per la terza volta ricompare lo stesso modulo di divertissement dal caratteristico arco melodico ad andamento rotatorio che quindi Beethoven usa quasi come una sorta di «riserva sonora».
Nello Sviluppo altre trovate e accorgimenti sorprendono l’ascoltatore. Il suo inizio risulta assolutamente imprevedibile, poiché, dopo essere stato aperto da un accenno al tema marziale, è subito reso intenso e palpitante da un breve, malinconico inciso dell’oboe. Basta questo per cambiare ex abrupto lo scenario dominante: il pianoforte, come ispirato, si getta in una sorta di frase plastica e preludiante di tipo improvvisativo che suscita altre nuove idee: la linea fluente si addensa ancor più in un calibrato gioco di proposte e richiami, coinvolgendo l’orchestra tutta in un complesso percorso tonale dalle tinte intense e marcate, fatto di ampie ed estese digressioni scalari, di passaggi tecnici del solista, in un clima armonico divenuto più livido e incupito.
Principessa Barbara Keglevich Odescalchi
In pochi passi siamo stati catapultati in un mondo nuovo, passando dall’ambientazione solare e brillante della doppia sezione espositiva alle tensioni e alle complessità anche architettoniche e contrappuntistiche della zona di Sviluppo che è sì tradizionalmente tensiva, ma che Beethoven restituisce qui in modo assolutamente ampliato e carico di drammatismo rispetto alla norma,
firmando quindi, in un certo senso, un’interpretazione molto personale, pregnante e carica di significati. Solo la Ripresa riporta all’atmosfera iniziale, con il ritorno del materiale tematico tratto soprattutto dalla riesposizione solistica e con la grande cadenza conclusiva del pianoforte. Si aggiunge solo una perentoria frase finale di perorazione orchestrale, ancora una volta ricavata dalla sigla introduttiva; conduce a compimento il movimento in un clima di travolgente festa corale.
Il tempo di mezzo, il Largo, apre un’oasi di quiete dopo l’agitazione precedente. La delicatezza di tinte, l’iridescenza delle armonie, i tenui e morbidi profili tematici richiamano molto le vellutate Romanze per violino e orchestra op. 40 e op. 50 dello stesso Beethoven, anche se qui solista è il pianoforte. La forma ad arco adottata, la forma Lied (ABA), permette un ricambio ordinato e ciclico dei motivi senza scontri o contrasti, preferendo invece uno stile stabile e uniforme, qui rappresentato dalla scelta di scrivere per strumento pensando alla voce. Si potrebbe dire che un unico grande canto si dipana per l’intero movimento, caratterizzandolo nella sua interezza. Il delizioso tema principale in la bemolle maggiore, espresso all’inizio dal pianoforte, risuonerà infatti più volte, differenziandosi – più che per il calco melodico o la nervatura ritmica – per le sue innumerevoli sfumature timbriche, o la scelta di registro, o il tipo di sostegno armonico.
Ad esempio, dopo l’esordio, eccolo tornare nella voce pastosa del clarinetto, adagiato sull’ondulato sostegno degli archi oppure, nella Ripresa, interpretato dal pianoforte come un’ornata aria «col da capo», cesellato da meravigliose figurazioni in abbellimento che lo rendono un autentico, piccolo gioiello; o ancora, sempre nella Ripresa, ribadito dal piano in forma più estesa, allargato a una seconda arcata fraseologica – non ancora comparsa – che ne svela e completa il «senso», costruito sul raffinato accompagnamento armonico dello stesso solista e sull’elegante pizzicato degli archi; poco dopo eccolo di nuovo nel suo «nuovo» secondo segmento riproposto dal clarinetto, infine riemerge nella coda, dove è ancora il clarinetto a riportarne per primo il profilo come squisito ricordo in graduale dissolvenza, iniziando un lento, sfumato intercalare che lo divide in brevi incisi con la voce suadente del pianoforte. Altre idee e motivi si inanellano placidamente nel Largo, ma senza troppo distanziarsi dalla tipologia del tema principale; come la melodia cantabile del pianoforte nella parte centrale, contraddistinta da uno stile abbondantemente fiorito, o la partecipata frase di collegamento della stessa sezione di mezzo, appena venata da corrucciate armonie minori, come si conviene a una sezione sviluppativa, presto cautamente ricondotta alla tonalità di base di la bemolle maggiore.
Il terzo e ultimo tempo è un Rondò, segnato come Allegro scherzando. Lo definisce e lo caratterizza lo spirito libero della danza popolare, dominato dalla verve ritmica e dal vitalismo melodico, soprattutto nel suo tema principale, il refrain di riferimento del rondò. Quest’ultimo è un esuberante motivo rustico di ballo, che con il suo scalpitante ritmo anapestico sconvolge la calma meditazione precedente e introduce nel clima sfrenato ed eccitante di una festa e di giochi all’aperto. Il tema comparirà più volte, inframmezzato all’inserzione di altri motivi corali del gruppo orchestrale, o a episodi solistici secondo il modulo tipico della forma-rondò che alterna il refrain ad altre idee ed episodi. Così è per l’agile episodio del solista, introdotto dal rimbrotto dei fiati in ottava e irrobustito nella conduzione di passaggi eminentemente tecnici, o per il motivo folclorico dell’orchestra, presto ripreso dal pianoforte e poi più avanti riproposto sotto altre vesti tonali, e ancora per il motivo «tzigano», in cui la scrittura pianistica e orchestrale si richiama scopertamente alla gestualità violinistica, ricca di acciaccature e di figurazioni derivanti dalla mobilità dell’arcata. Un altro episodio solistico si prolunga particolarmente esteso a una frase polifonica accordale che funziona da pacato commento all’esibizione tecnica del solista.
Tutto scorre velocemente senza interruzioni, solamente «disciplinato» nei punti di snodo formali da brevi frasette dell’orchestra pronunciate in modo incisivo all’unisono o in ottava, quasi a «riprendere» in modo controllato e severo il solista nelle sue scorribande a perdifiato. Nella Ripresa appare nuovamente il materiale tematico espositivo ma, secondo la prassi, è mantenuto nell’area tonale del tono d’impianto, qui in do maggiore, e con l’aggiunta di una grande, solenne frase finale che conduce pomposamente alla cadenza del solista. Dopo questa fà per un attimo capolino il motivo refrain, che sembrerebbe chiudere sbrigativamente tutto. Invece Beethoven, proprio sugli ultimi accordi conclusivi, riapre inaspettatamente il discorso in una nuova sezione di Epilogo. L’inciso in levare del motivo-ritornello viene sottoposto a una serie di delicate elaborazioni, scambiato da uno strumento all’altro, da un gruppo all’altro, con il solista che ordisce una fitta e brillante trama di dialogo con l’orchestra; infine il tessuto orchestrale si riduce di consistenza, la traccia timbrica si attenua dipanando un filo sottile che si spegne lentamente in un cristallino suono di carillon. Un breve, delicato Adagio prepara infine la secca e travolgente chiusura finale (Tempo I).
Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra in si bemolle maggiore, op. 19
Il Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 in si bemolle maggiore op. 19 si apre con un vivace e scoppiettante Allegro con brio. Beethoven dimostra tutta la freschezza dei suoi anni giovanili in questo lavoro non troppo dominato dalla personalità delle linee tematiche, ma assolutamente originale e spesso imprevedibile nelle soluzioni che egli imprime alla partitura. Si notano nella scrittura soprattutto una notevole ricchezza inventiva e una duttile articolazione
dei profili motivici, con un fitto lavoro di intaglio e di recupero del materiale che trapassa da una parte all’altra, da una sezione all’altra del Concerto, un po’ secondo lo stile di Haydn o di Mozart. Alcuni elementi sono ancora di retaggio palesemente «galante», così come colpisce il taglio del Concerto, pensato prettamente per il pubblico, con soluzioni brillanti e di sicuro effetto affidate all’orchestra e largo spazio per il virtuosismo dell’esecutore, mai comunque fine a se stesso. D’altronde il compositore, nel momento in cui scriveva queste pagine, era ancora e soprattutto un grande pianista desideroso di mostrarsi davanti alla sua platea e di mettere alla prova proprio lì la sua «fatica». Dal punto di vista delle architetture compositive è già evidente la sicurezza di Beethoven nel dominio della forma. A partire dal citato primo movimento, l’Allegro con brio, appare interessante la cornice di riferimento scelta: i due gruppi tematici principali sono ben distribuiti tra Esposizione orchestrale (primo gruppo) e Riesposizione solistica (secondo gruppo), tanto che nella Ripresa proprio questi ultimi sono scelti per essere riesposti, «saltando» le altre parti ritenute da Beethoven meno pregnanti. All’interno della struttura compare anche uno Sviluppo molto complesso, che recupera idee e spunti un po’ da tutte le sezioni precedenti sottoponendole a profonde mutazioni e varianti.
Ma per giungere a queste soluzioni risulta interessante il percorso seguito dal compositore. Il primo gruppo dell’Esposizione orchestrale del movimento iniziale, ad esempio, spicca per la sua segmentata composizione, costruito com’è su più parti indipendenti eppure perfettamente collegate: lo definiscono, in alternanza, uno scalpitante motto su ritmo puntato pronunciato dall’orchestra e un tranquillo inciso di risposta in levare dei violini; il tema prosegue poi in un motivo acefalo non privo di gestualità galanti, basato su note ribattute. Dalla combinazione di questi elementi, dalla loro variazione e permutazione dipenderanno molti dei passi successivi dell’Allegro, come appare evidente ad esempio per il motivo acefalo, che ritorna nell’Epilogo dell’Esposizione, o nel delizioso interludio orchestrale, in cui letteralmente ispira una nuova frase opportunamente rivista in diminuzione e imitazione, o alla fine della Riesposizione, dove torna più vicino al profilo ritmico-melodico originario. Ma è soprattutto il motto introduttivo a dominare la scena fungendo da elemento base, da matrice sonora di molti passaggi: dopo l’esposizione orchestrale ricompare infatti subito nella frase di transizione alla dominante resa più instabile e nervosa proprio dal ritorno del motto puntato e dal raddoppio ritmico dell’accompagnamento, vivacizzato dal sostegno di gruppi di crome reiterate; anche nell’Epilogo dell’esposizione orchestrale ricompare, contribuendo ad aprire un episodio carico di contrasti e di strappi impetuosi, mentre nella riesposizione solistica il pianoforte mostra il suo volto più combattivo proprio quando prende in mano con personalità la situazione esponendo l’inciso iniziale nel ponte modulante. Come si vede, è specie nelle situazioni di contrasto, di movimento e di carattere che Beethoven fa riemergere il tratto incisivo del suo motto, utilizzato dunque per spingere in avanti il discorso e nelle parti strutturalmente più complesse ed elaborative; ancora lo ritroviamo infatti nei bassi per ispessire e innervare ritmicamente il registro grave, o nella grande frase di commiato che segue, o anche alla fine della Riesposizione, in un’anticipazione gravida di significati nella voce dei violini primi e secondi, presto confermata a piena voce con l’inizio della Ripresa.
Invece il terzo componente del primo gruppo tematico, il tranquillo inciso di risposta al motto introduttivo, compare in altri momenti musicali, di carattere e profilo diverso. Beethoven vi ricorre in particolare per le situazioni inattese, o per creare diversivi sviluppando nuovi episodi, oppure in funzione di chiusura di discorso, in questo caso associato al motivo acefalo per formare una nuova unità tematica. L’orchestra si ferma di colpo su tre note orchestrali all’unisono, poi ripetute un semitono sopra a re bemolle: è un vero e proprio coup de thèàtre, poiché l’ascoltatore, dopo un incedere del movimento così filante, tutto si aspetterebbe tranne che questo. Da tale interruzione compare, inaspettato, proprio il profilo dell’inciso di risposta, con quel suo caratteristico incedere morbido e avvolgente proposto dai violini e subito rilevato dai fiati in un meraviglioso dialogo sonoro; una simile situazione si ripropone durante lo Sviluppo, quando però questa volta è anche il pianoforte che, sollecitato dall’orchestra, ne disegna e ne sviluppa leggiadre elaborazioni. In altri casi ancora, l’inciso di risposta si collega al motivo acefalo; dalla combinazione nasce un’idea di congedo di particolare delicatezza; così è sfruttata alla fine dell’esposizione orchestrale poco prima dell’entrata del pianista, nella frase di commiato che conclude la riesposizione solistica e precede lo Sviluppo, alla fine dell’intero Allegro con brio, esposta dai violini primi in una brevissima coda di grazia e delicatezza mozartiane. Dal punto di vista del ruolo del solista la figura del pianoforte non è mai preponderante rispetto all’orchestra: non esiste un vero e proprio primo tema pianistico, poiché l’entrata del solista è affidata a una plastica presentazione su una frase preludiante che ce lo dipinge quasi in punta di piedi, come un protagonista atteso, brillante ma non ingombrante; e anche il secondo gruppo tematico è affidato prima all’orchestra e solo in seconda battuta alla voce del solista, che quindi guadagna terreno poco per volta e senza anticipare troppo i tempi, rispettoso di precisi equilibri prestabiliti. Inoltre, secondo una strategia ben congegnata, prende possesso della scena quasi replicando a specchio le esperienze dell’orchestra; dopo l’esposizione del secondo gruppo, riproponendo ad esempio un nuovo episodio imprevisto sullo stesso re bemolle, piano tonale che aveva già prediletto in precedenza l’orchestra; solo dopo questi passaggi gerarchici eccolo impegnato in una grande sezione virtuosistica interamente dedicatagli, estesa e «complessa» e con proprio nuovo materiale il pianoforte aveva affrontato un passo tecnico, ma piuttosto breve e con elementi «recuperati» da precedenti passi orchestrali. La cura di Beethoven nel disciplinare la forma è dunque impressionante, in questo senso degno erede della tradizione viennese. Ritroviamo dunque già in questo vivido e brillante primo tempo, una straordinaria opera di assemblaggio della forma che si riversa con risultati sorprendenti nell’ascolto.
Il secondo movimento è un Adagio di delicata fattura. I toni sfumati evocano un’atmosfera incantata da notturno mentre la parte tematica è di consistenza prettamente vocale. Si respira una certa misura e gradualità nello svolgersi delle idee, tutto procede pacatamente e con calma, quasi non si volesse smuovere troppo la superficie sonora, in un clima di quiete bucolica. Il tema principale dell’Adagio, in mi bemolle maggiore, ne è un caso esemplare: la sua fisionomia è svelata solo poco per volta ed esso prende forma progressivamente. All’inizio, intonato sottovoce da archi e fagotti, non viene infatti esposto nella sua interezza, perché i corni intervengono con un inciso ripetuto su ritmo puntato che ne smorza l’eloquio, sino a comprimerlo, spegnendolo in un accordo irrisolto e procrastinato. Il denso flusso sonoro si spezza in un fortissimo da cui si sprigiona una nuova frase che poco dopo tornerà ad assumere caratteristiche sospensive, sul ritorno del ritmo puntato. Beethoven aspetta invece il pianoforte per riavviare il tema e questa volta esporlo in tutta la sua interezza, ma sempre con il caratteristico respiro lento, modellandolo poi finemente in una successiva e più ampia riesposizione elaborativa che ne completa il carattere lirico. La sezione centrale dell’Adagio (B) presenta una seconda idea nella dominante si bemolle maggiore. Scambiata in eco tra pianoforte e orchestra, è conclusa in una frase sospirosa di grande trasporto del solista. A questo punto l’orchestra commenta questo intervento con una sorta di piccolo sviluppo in nuce; l’ambiente armonico si increspa e sono introdotti chiari elementi tensivi: è una scossa che muove il solista a reintrodursi nel discorso con una frase di cerniera melodica verso la tonica che riporta progressivamente allo stato di quiete. La Ripresa è doppia, poiché contempla il ritorno sia di A che di B. Prima torna il tema principale dell’Adagio rivisitato in veste fiorita dal pianoforte.
Carl Nicklas Edler von Nickelsberg
Poi è lo stesso pianoforte che procede con un fluente movimento di terzine simile a un dolce mormorio sul quale l’oboe, sostenuto dai fiati, intona con respiro struggente la melodia principale, melodia che infine si conclude con la frase declinante del piano. È un momento magico di questo movimento, che restituisce all’ascoltatore sensazioni di grazia impagabile.
Anche la ripresa di B dipinge, attraverso squisite sfumature, il secondo tema, scambiato tra pianoforte e orchestra, ma ora nel tono d’impianto di mi bemolle maggiore; questa volta però il pianoforte prosegue in un nuovo, luminoso episodio in cui con il suo tocco vellutato diventa il protagonista assoluto della vicenda sonora. Dopo il corrucciato commento dell’orchestra c’è spazio anche per una piccola cadenza in stile recitativo del pianoforte, con gli archi che rispondono in pianissimo con brevi respiri ricavati ancora una volta dal tema principale. Infine una frase di coda pronunciata da tutta l’orchestra conclude l’Adagio con echi bucolici e pastorali.
L’ultimo movimento è un Rondò in tempo Allegro molto. Lo domina un tema- refrain sbarazzino nella tonica si bemolle maggiore. Il pianoforte si trova a suo agio nell’esporlo sfruttando le proprie doti tecniche di strumento virtuoso e brillante, ma anche l’orchestra esibisce un’agilità inconsueta fatta di scalette, rimbalzi, volate, scatti vibranti, e anche giochi dinamici, nouances e chiaroscuri timbrici. Come nel primo movimento, passaggi e sorprese inattese sono dietro l’angolo (come le scalette interrotte che frammentano sorprendentemente il flusso sonoro), così come c’è una ricerca per il senso del bello, dell’ornamento, del movimento corale, quasi a replicare in musica le sensazioni di un elegante evento di festa, la categoria mentale di un sentimento di gaiezza viva e spigliata. Per questo non mancano espliciti richiami a temi di ballo e di danza, motivi e melodie di sapore tzigano, folclorico, come il compositore ama talvolta fare nelle sue composizioni.
Già all’inizio il tema principale, esposto immediatamente dal pianoforte e curiosamente accentato sul tempo debole, rivela la sua natura imprevedibile e un po’ umoristica: funziona da avvolgente invito alla danza, al coinvolgimento di gruppo; l’orchestra risponde subito con lo stesso spirito. Anche durante la transizione alla dominante tutto scorre veloce, senza respiro, comprese le brucianti figurazioni in ottave spezzate del pianoforte che aprono la strada a una sua prima «uscita» virtuosistica. Il primo dei due episodi solistici consiste in un breve motivo rimbalzante e ritmico che trascina anche l’orchestra in uno scambio dialogico serrato. Poco dopo quest’ultimo diventa irresistibile richiamo anche per il ritorno del refrain di base, ma questa volta Beethoven lo propone fortemente variato: ne mantiene infatti solo l’intervallo-quadro (una terza discendente), correggendone il percorso e l’andamento melodico e soprattutto ne «normalizza» l’accentuazione trasferendola in battere sull’accento forte, secondo il ritmo indotto proprio dal primo episodio: un esempio della cura assoluta anche del particolare all’interno di questo sgargiante quadro sonoro. Dopo il ciclico ritorno del tema principale del rondò, il secondo episodio solistico ancora una volta porta una ventata di estro e freschezza: ambientato in modo minore, appare come un misterioso canto tzigano che attrae e conquista; l’orchestra si contrappone all’inquietudine del solista con lunghe e più stabili stringhe melodiche di commento. Questa volta l’accento è spostato in avanti, esattamente come nel refrain di base. A questo punto Beethoven affronta la sezione di Ripresa del materiale tematico con il ritorno del refrain, della transizione – qui non più modulante per mantenersi nel tono d’impianto -, del primo episodio e infine delle scalette interrotte che precedevano il ritorno del refrain; ma ora di esso se ne sente solo l’incipit, e sorprendentemente in sol maggiore, visibilmente rallentato e con l’accento spostato «regolarmente» sul tempo forte. È un effetto inatteso, che cambia fisionomia al rondò e prepara la grande sezione conclusiva.
Una frase di collegamento consistente in una vivace e precipitosa elaborazione di un segmento del refrain e poi in una Ripresa testuale ma scorciata – in si bemolle maggiore – ancora del refrain di base conduce rapidamente alla fase finale del Concerto. Come in un veloce tourbillon, temi ed episodi si sono accavallati sempre più velocemente man mano che il rondò procedeva. Dopo tanto succedersi di motivi conduttori, dopo che il materiale è stato più volte presentato, esposto e ripreso, nell’Epilogo nulla rimane se non la necessità di concludere il discorso con i toni che l’hanno definito, ovvero quelli della festa galante. Si apre un quadro dalle tinte cariche di colori costituto da nuovi elementi. Un’autentica pioggia, una vera cascata sonora invade la scena, con vaporose volate in arpeggio e doppie scale cromatiche per terze discendenti del solista; l’orchestra commenta scambiandosi col piano spezzoni del refrain in forma di tranquilla e un po’ vanitosa gestualità attraverso una annuente codetta. Infine intervengono le ferme asserzioni di fiati e archi nel risoluto accordo finale sulla tonica si bemolle maggiore.
Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra in do minore, op. 37
Il 15 dicembre 1800, scrivendo all’editore Hoffmeister di Lipsia, che gli faceva richiesta di alcune composizioni da pubblicare, Beethoven, accanto al Settimino op. 20, alla Sinfonia n. 1, alla Sonata per pianoforte op. 22, al Quintetto per archi op. 29, faceva menzione dei Concerti pianistici scritti fino allora, in termini non proprio lusinghieri: «Un Concerto per pianoforte che però non spaccio per uno dei miei migliori, come è il caso di un altro [il Concerto in do maggiore] che sarà pubblicato qui da Mollo (per informazione dei critici di Lipsia): infatti i migliori [il Concerto in do minore] me li tengo ancora per me, per il prossimo viaggio che farò, ma non dovrebbe lo stesso vergognarsi di pubblicarlo».
È evidente che riferendosi ai “migliori” Concerti il compositore alludeva indirettamente al futuro Concerto in do minore, che avrebbe avuto la prima esecuzione solamente il 5 aprile 1803 con lo stesso autore al pianoforte. Non deve stupire il distacco nei confronti delle due prime partiture, che pure avevano garantito a Beethoven, nella doppia veste di pianista-compositore, l’affermazione a Vienna negli ultimi anni del secolo precedente. I primi due Concerti per pianoforte avevano conquistato gli uditori delle “accademie” viennesi per l’approccio fortemente anticonvenzionale allo strumento a tastiera, che una scrittura brillante e virtuosistica trasformava in una individualità fortemente contrapposta alla compagine orchestrale.
Un nuovo Concerto per pianoforte era dunque un traguardo estremamente ambizioso; non a caso la gestazione fu particolarmente lunga e complessa. I primi abbozzi sono anteriori di qualche anno al 1800; in questa data Beethoven avrebbe voluto già suonare la partitura, ma non riuscì a terminarla; non a caso il manoscritto reca l’indicazione Concerto 1800. Certamente anche dopo la prima esecuzione l’autore continuò a perfezionare la parte solistica, che, secondo l’uso, non venne stesa per iscritto prima della pubblicazione, avvenuta per i tipi del Bureau d’arts et d’industrie nell’estate 1804. Seyfried, che collaborò alla prima esecuzione, ebbe modo di scrivere: «Per l’esecuzione del suo Concerto egli mi invitò a voltargli le pagine, ma la cosa era più facile a dirsi che a farsi: non vedevo avanti a me quasi altro che fogli vuoti; tutt’al più qualche spunto da servire come promemoria, incomprensibile per me come un geroglifico egiziano; poiché egli suonava la parte principale quasi tutta a memoria non avendo avuto, come quasi sempre accadeva, il tempo di fissarla completamente sulla carta; e mi faceva soltanto un impercettibile cenno quando era alla fine di tali passaggi».
Simile la testimonianza di Ferdinand Ries, che eseguì il Concerto all’Augarten nel luglio 1804: «La parte del pianoforte non e mai stata posta compiutamente in partitura; Beethoven l’aveva soltanto scritta per me in alcuni fogli».
Nessun dubbio che la mancata stesura su carta della parte solistica debba essere interpretata come volontà di non fissare e quindi di non rendere immediatamente accessibili a tutti i “segreti” della scrittura pianistica; e occorre pensare anche a una forte componente improvvisativa del pianista Beethoven, che variava verosimilmente le sue esecuzioni da una sera all’altra, avvalendosi del suo stile aggressivo ed anticonformista. Non a caso intenzione dell’autore era quella di stupire il suo pubblico, varcando i limiti di garbato intrattenimento entro i quali ancora si manteneva il genere del Concerto.
Principe Louis Ferdinand di Prussia
Di qui anche la scelta di una tonalità minore, impiegata da Mozart in sole due occasioni (K. 466 e K. 491), e da sola emblematica di grandi tensioni. Il Concerto in do minore non deluse le attese, e risultò certamente qualcosa di “nuovo”. Tuttavia – con la consapevolezza dei posteri – esso non arriva a proporre, come gli ultimi due Concerti, un radicale ripensamento del genere del Concerto pianistico, tale da investire non solo i rapporti sonori ma anche quelli formali. Piuttosto esso spinge agli estremi limiti le potenzialità proprie del Concerto classico, così come era stato forgiato da Christian Bach e da Mozart, sulle basi dell’eleganza, dell’equilibrio, del virtuosismo.
Queste tre caratteristiche si pongono ugualmente alla base della partitura; sempre dialettico rimane il rapporto fra solista e orchestra, e nessuna sostanziale innovazione formale viene introdotta. Tuttavia, fra gli elementi più apertamente “progressisti” possiamo individuare la peculiarità della scrittura pianistica, che fa sfoggio, nei passaggi in ottava, negli arpeggi, nell’uso del pedale, di una sonorità più possente e protagonistica.
Lo stesso ingresso del pianoforte nell’Allegro con brio iniziale, qualifica le attribuzioni dello strumento: una tripla scala in doppia ottava, lunghe scale cromatiche, arpeggi, trilli: la qualità del suono, insomma, diviene elemento altrettanto suggestivo delle idee melodiche. Di per sé il movimento si ispira, nella tensione della tonalità di do minore, al Concerto K. 491 di Mozart, e, nel ritmo di marcia, ai concerti “militari” di Viotti. Elemento tipicamente beethoveniano è la dialettica tematica, fra il vigore del tema iniziale e il carattere malinconico del secondo; fra tutti i “silenzi” e i contrasti timbrici che attribuiscono al tempo il suo aspetto “drammatico”, il più suggestivo è l’intervento del timpano alla fine della cadenza del solista.
Inaugurato da un a solo del pianoforte, il tempo centrale è un tenero Largo, tripartito come di consueto; il compositore propone qui una intima solidarietà fra solista ed orchestra; il pianoforte si abbandona a lunghe “cantilene” belcantistiche in doppie terze, e nella sezione centrale, funge da soffice supporto agli interventi solistici di flauto e fagotto; prima della chiusa, una cadenza solistica.
Il Finale è il movimento nel quale il solista converte la propria pienezza di suono in brillantezza tecnica; si tratta di un Rondò affidato a un refrain di carattere capriccioso (per l’immediato intervallo di settima diminuita e i ribattuti staccati) che si alterna con episodi di ambientazione differente; ritroviamo insomma la logica di contrasti del tempo iniziale, ma convertita verso fini più giocosi. Ultimo contrasto, dopo la succinta cadenza solistica, l’improvvisa ripresa del tema con movimento accelerato e nel modo maggiore, congedo umoristico della partitura.
Concerto n. 4 per pianoforte e orchestra in sol maggiore, op. 58
Se il Terzo concerto, nonostante le novità della scrittura pianistica, si muove ancora con tutta la sua drammatica veemenza nel solco mozartiano tracciato segnatamente dai Concerti in re minore K 466 e in do minore K 491, il Quarto
si addentra in una regione solo in parte esplorata dal Salisburghese con i Concerti K 450, 488 e 595. Composto nel 1805-06 (nel periodo in cui Beethoven lavorava anche alla Quinta sinfonia, al compimento della prima versione del Fidelio, al Concerto per violino), il Concerto in sol maggiore realizza il prodigio di una sonorità pianistica di tipo intimistico, dolcemente luminosa e non brillante, con una frequente valorizzazione del registro acuto dello strumento in funzione cantabile, mentre la natura del rapporto fra solista e orchestra riesce di tono affettuosamente colloquiale, anziché di contrapposizione dialettica. Ma è anche la variegata veste armonica del Quarto concerto, l’abbondanza delle modulazioni, l’ampiezza della gamma espressiva all’interno di una sostanziale unità di tono e la trasparenza dell’orchestrazione che fanno del Concerto in sol maggiore – si legge in un articolo della Allgemeine Musikalische Zeitung del maggio 1809 – «il più ammirevole, il più singolare, il più artistico e difficile di tutti quelli che Beethoven ha scritto».
La breve entrata del solista, che nell’Allegro moderato iniziale precede l’esposizione orchestrale introducendo dolcemente l’antecedente del tema principale col suo caratteristico inciso a note ribattute, è di per se stessa sorprendente. È come il levarsi d’un sipario su un paesaggio sonoro di impronta squisitamente pianistica che, gli archi, ripetendo e completando il tema, prendono a imitare, avviando il discorso musicale all’insegna dell’integrazione fra solo e orchestra. Il ponte modulante estende il tema, così esposto, agli strumenti a fiato e lo innalza con un crescendo, fino ad approdare a un accordo generale di tutta l’orchestra, toccando così un punto di sensibile distensione che segna la fine della zona del primo tema e l’inizio del secondo: un soggetto dalle linee slanciate e un ritmo quasi di marcia che, passando in varie tonalità e non toccando mai quella che si converrebbe a un secondo tema, si direbbe fare ancora parte del ponte modulante. Dal ritorno del caratteristico inciso del tema principale (che ancora una volta porta a un crescendo in direzione di un nuovo punto culminante), un terzo tema ad ampi intervalli fiorisce nei violini in un luminoso modo maggiore. Un episodio conclusivo e un rasserenante ritorno dell’inciso a note ribattute del primo tema chiudono la prima esposizione «chiamando» l’ingresso del solista, il quale, a sipario ormai levato, prende a elaborare virtuoslsticamente la sua stessa introduzione iniziale. Privata del primo tema nella sua interezza, la seconda esposizione risulta più ampia della prima e, rispetto a quella, più ricca d’ornamenti. Un virtuosistico episodio di transizione, anziché condurre diritto al secondo tema, approda infatti a una melodia molto lirica e trasognata in si bemolle maggiore, eseguita dal pianoforte alla mano destra nel registro acuto e accompagnata dalla sinistra nel registro grave, mentre dopo un rapido passaggio del solista, i violini introducono, piano, nel tono della dominante (!), un nuovo tema caratterizzato da una frase legata su un ritmo puntato, rinforzata al centro da un duplice sforzando. Chiusa così l’imprevista parentesi, l’episodio di transizione può quindi riprendere il suo corso e finalmente condurre al secondo tema alla cui esposizione contribuisce ora il pianoforte. Più ampio è anche l’episodio di transizione al terzo tema, in cui l’inciso a note ribattute suona alternativamente in violini e legni, mentre, a slanciare in avanti il discorso musicale in direzione dello sviluppo, il terzo tema suona dapprima limitato alla sola prima frase (enunciata dai legni, quindi prolungata e infine ripetuta dal solista), per poi completarsi nella seconda.
Codetta e inciso a note ribattute chiudono la seconda esposizione. Lo sviluppo prende le mosse dal solito inciso che il solista solleva fino a un punto culminante da cui ridiscendere con un disegno in terze e seste discendenti, come per attrazione gravitazionale. Una, due volte su un pedale di fa minore; poi altre due volte, ma da un tono e mezzo più in basso e su un pedale di re minore. E mentre il pianoforte si lancia in ampie e generose volute d’arpeggi, violini e violoncelli ripetono il disegno discendente del solista. Una lunga coda di questo episodio, formata da passaggi brillanti e incisivi del pianoforte nel tono di do diesis minore, approda, dopo un trillo di dominante, a un pianissimo in cui la precedente concitazione si placa in un disegno melodico etereo (sempre in do diesis minore) in cui il solista ripete una semiscala discendente, prima a note semplici, poi con terze della destra, mentre violoncelli e contrabbassi eseguono in pizzicato l’inciso del primo tema. La sezione conclusiva dello sviluppo, intessuta sul medesimo inciso, prepara la ripresa del primo tema, riaffermato dal solista in tono grandioso e continuato delicatamente dall’orchestra. Una cesura lascia sospesi gli episodi collegati al tema principale dando luogo a un nuovo episodio modulante, molto simile alla parentesi lirica già ascoltata in seno alla transizione fra primo e secondo tema nella seconda esposizione. Segue quindi il quarto tema, mentre il resto dell’esposizione si ripete in modo regolare, fino alla cadenza, conseguente alla ripetizione del terzo tema e non di codetta e ritorno dell’inciso a note ribattute che avevano preparato lo sviluppo. La coda riprende il filo del discorso «interrotto» dalla cadenza, ripartendo dal terzo tema per approdare alla ripetizione dell’inciso a note ribattute e su questo chiudere il primo movimento.
Arciduca Rodolfo d’Austria
All’affettuoso colloquio fra solo e orchestra dell’Allegro moderato, segue il contrasto più violento del secondo movimento, un Andante con moto, nel quale wiederstrebende Prinzip e bittende Prinzip, principio d’opposizione e principio implorante, assumono la più tesa evidenza. Cosi al tema in mi minore pronunciato forte e sempre staccato dall’orchestra, il pianoforte contrappone un’idea cantabile di implorante dolcezza. I due opposti elementi tematici si alternano dapprima con largo respiro, poi a piccoli frammenti, l’uno digradando progressivamente fino a estinguersi, l’altro rafforzando la propria voce con uguale gradualità, per culminare in un canto intensissimo e in una ardita cadenza tonalmente ambivalente. Nella coda l’orchestra torna a far sentire nei bassi, in una dinamica ridottissima, il suo inciso ritmico, mentre il pianoforte rientra con un breve accenno melodico e un delicatissimo arpeggio di chiusa.
L’opposizione fra solo e tutti, così evidente nell’Andante, persiste nel finale dove però il tono generale è quello d’un divertito rondò a una sola strofa. Attaccato pianissimo dagli archi dell’orchestra, il tema di refrain viene subito ripreso dal pianoforte, mentre un violoncello si stacca dal gruppo con una linea melodica indipendente. Identico procedimento subisce la seconda idea cantabile, poi l’orchestra riafferma con energia il tema iniziale. Un brillante episodio di transizione costruito sull’opposizione fra solo e tutti conduce al couplet un tema di serena cantabilità presentato dal pianoforte e subito dopo dall’orchestra in una scrittura di limpida trasparenza polifonica. Collegati fra loro episodi di transizione, refrain e couplet si alternano quindi regolarmente con gli sviluppi e le varianti del caso, fino alla cadenza. La coda con un brusco cambiamento di tempo può quindi portare il concerto a una conclusione sfolgorante sul motivo di testa del tema principale.
Concerto n. 5 per pianoforte e orchestra in mi bemolle maggiore, op. 73 “Imperatore”
Il Concerto in mi bemolle maggiore op. 73, quinto di quelli per pianoforte e orchestra scritti da Beethoven, e ultimo suo Concerto in assoluto, venne composto nella primavera del 1809. Beethoven condusse a termine la partitura mentre le armate di Napoleone marciavano su Vienna. In maggio la capitale dell’Impero veniva cinta d’assedio e bombardata: Beethoven, rimasto nella città abbandonata dalla corte e dall’aristocrazia, si riparò dalle cannonate francesi nella cantina dell’abitazione del fratello Karl; occupata dal nemico Vienna, organizzò e diresse personalmente un’esecuzione dell’Eroica in onore del suo antico idolo, senza naturalmente che Napoleone sapesse niente della vicenda della dedica della Sinfonia rabbiosamente rinnegata da Beethoven il giorno della sua incoronazione. Ristabilita la normalità, il 4 febbraio dell’anno successivo Beethoven spediva il Concerto agli editori Breitkopf & Härtel di Lipsia, così indicando il titolo della composizione: Grand Concerto pour le Pianoforte avec Accompagnement de l’Orchestra compose et dédié à son Allesse Imperiale Roudolphe Archi-Due d’Autriche. Il concerto fu pubblicato solo nel 1811, lasciando insoddisfattissimo Beethoven, che coprì l’editore di epistolari contumelie: «Errori… errori… è tutto un errore!», elencando numerose inesattezze di incisione. Il 28 novembre 1811 al Gewandhaus di Lipsia il Concerto veniva tenuto a battesimo dal pianista Friedrich Schneider, sotto la direzione di Johann Philipp Christian Schulz; il 1° gennaio 1812 la «Allgemeine Musikalische Zeitung» dava conto dell’avvenimento in termini entusiastici: «Fece seguito il nuovissimo Concerto per pianoforte di Beethoven, in mi bemolle maggiore.
Senza dubbio esso è fra tutti i Concerti esistenti quello più originale, più ricco di fantasia e pieno d’effetti, ma anche il più difficile. Il Signor Schneider lo ha suonato con tale maestria che non potremmo immaginare alcunché di più perfetto […]. Poiché anche l’orchestra, con evidente deferenza e affetto per il compositore, ha accompagnato il lavoro e il solista con attenzione e impegno, non c’è da stupirsi che i numerosissimi ascoltatori siano stati trascinati a un entusiasmo di gran lunga maggiore alle consuete espressioni di approvazione o di gioia». Più importante fu la presentazione del Concerto al pubblico viennese, avvenuta il 15 febbraio 1812 al Teatro di Porta Carinzia: il solista (il Quinto concerto è l’unico che Beethoven non abbia mai eseguito personalmente) era il giovane ma già celeberrimo Karl Czerny, uno dei fedelissimi di Beethoven. Il titolo – o meglio il soprannome – di Imperatore venne appiccicato al Concerto solo più tardi, e da altri (pare che se lo sia inventato il pianista ed editore Johann Baptist Cramer): comunque, a meno che non voglia alludere alla imponente fisionomia espressiva del Concerto, davvero maestoso, esso non ha molto senso.
Dei sette Concerti di Beethoven (cinque per pianoforte, uno per violino e uno, il cosiddetto Concerto triplo, per violino, violoncello e pianoforte), nessuno probabilmente supera in popolarità l’Imperatore. Non necessariamente la valutazione critica lo pone al vertice della produzione beethoveniana per strumento solista e orchestra: ognuno riconosce la straordinaria originalità formale e l’irripetibile intensità espressiva del Quarto, certamente quello fra i Concerti di Beethoven più proteso verso il futuro e dotato di intima consapevolezza; né è facile dimenticare la eccezionale bellezza e suggestione del Concerto per violino in re maggiore, al Quarto pressoché coevo, e intriso di un lirismo disteso e generoso non meno di quanto l’Imperatore lo sia di augusta eloquenza. Giustamente Giovanni Carli Ballolà addita nell’Imperatore, dopo i traguardi raggiunti sotto il profilo della novità formale e della profondità poetica con il Quarto concerto, quasi un passo indietro verso gli stilemi del Concerto d’impronta virtuosistico-marziale già tante volte omaggiati, per esempio, da Mozart e comunque diffusi come veri e propri stereotipi un po’ in tutta la classicità viennese; e che Beethoven nei tre primi Concerti per pianoforte si era in fondo limitato a espandere e a provvedere di nuova vita. Ma se sotto il profilo «evoluzionistico», e magari anche nel computo dei valori estetici più puri, l’Imperatore resta un tantino sotto al fratello che lo precede – « più grande sì, ma non di lui più bello», verrebbe fatto di dire -, e se in esso solo in misura ridotta possiamo ritrovare i sintomi di quella problematicità costruttiva ed etica che dell’arte beethoveniana siamo avvezzi a considerare come il connotato più autentico, è indubbio che con il Quinto ci troviamo dinanzi a una pagina stupenda, in cui grandiosità e magniloquenza non appaiono certo esteriori o gratuite, e che consegue una perfezione di scrittura e un’apollinea sicurezza di linee che hanno ben pochi termini di riferimento, e non solo nella letteratura per pianoforte e orchestra.
Pur concedendo moltissimo spazio al virtuosismo nella scrittura della parte del pianoforte, l’Imperatore non rischia mai di scadere in quella dimensione di genere compositivo «minore» che l’età classica – e non solo essa – comunemente attribuiva al Concerto con strumento solista, suscettibile di contaminazioni esibizionistiche, rispetto alla nobilissima serietà della Sinfonia, dove si faceva musica e basta, nel senso più elevato e scevro di compromessi.
L’opulento sfoggio di tutte le risorse del pianismo del tempo, dalle cascate di scale e di arpeggi al vertiginoso fiorire di trilli (un espediente di illimitate possibilità anche timbriche, onde Beethoven aveva già fatto superbamente uso in purissima funzione poetica nella Sonata op. 53, la Waldstein), non determina mai nel rapporto fra il pianoforte e l’orchestra lo squilibrio caratteristico delle composizioni dove ci si preoccupi anzitutto di far fare bella figura al solista relegando quindi la massa strumentale al ruolo del dimesso accompagnatore, e tutt’al più concedendole spazio quando ci sia bisogno di far prender fiato al protagonista; anzi la dimensione sinfonica dell’Imperatore è robusta e sanguigna al punto che l’impervio impegno virtuosistico del pianoforte finisce comunque per esserne assimilato, dando vita a una partitura di solida organicità.
Le stesse proporzioni dell’opera, per l’epoca inedite e comunque sterminate (forse solo il Secondo concerto di Brahms, tanto più tardo, riesce a superarla in grandiosità e in durata), garantiscono trattarsi di una pagina composta con ben altro impegno che non un Concerto d’impianto meramente virtuoslstico. Se la categoria dell’eroismo – non per caso l’Imperatore è impiantato in mi bemolle, la stessa tonalità della Terza sinfonia – qui rinuncia ai toni agonistici e drammatici che troviamo in tante pagine di precedenti stagioni beethoveniane per tradursi in un generale ottimismo, ciò non avviene per una concessione alla superficialità, bensì in coerente sintonia con un orientamento espressivo presente in gran parte delle opere beethoveniane ascrivibili al «periodo di mezzo» ma già tendenti verso il trapasso al «terzo stile» (pur diversissimo, è chiaro, da ciò che il Quinto concerto rappresenta): più vicino, cronologicamente, alla Quinta e alla Sesta sinfonia (terminate rispettivamente nella primavera e nell’estate del 1808), in realtà il Quinto concerto annuncia prossima la stupenda perfezione classica della Settima (1811-12), di cui costituisce indubbiamente il miglior precedente nell’ambito del sinfonismo beethoveniano.
L’Imperatore nasce in un momento di relativa «felicità» creativa ed esistenziale, forse l’ultimo in tutta l’esistenza di Beethoven. Il 1809 è l’anno che vede l’arciduca Rodolfo (dedicatario di questa come di tante altre opere di Beethoven) associarsi con i principi Kinsky e Lobkowitz nell’impegno di corrispondere a Beethoven un appannaggio che gli consenta di dedicarsi alla composizione in assoluta libertà da ogni esigenza pratica, atto che non si tradusse in realtà anche per l’insorgere di circostanze esterne, sicché quell’assedio di Vienna che tanto afflisse il musicista, facendolo parlare di «una vita selvaggia e fastidiosa intorno a me, dove non c’è altro che tamburi, cannoni, uomini e ogni sorta di miserie», sembra veramente segnare nella vita di Beethoven una svolta, dopo la quale non ci sarà altro che la musica a compensare una pressoché totale mancanza di soddisfazioni esteriori; non per nulla con l’anno immediatamente successivo, il 1810, si aprirà per Beethoven un periodo di relativa aridità, anche dal punto di vista della creazione.
Ma al tempo della composizione del Quinto concerto Beethoven vedeva sancita quasi ufficialmente la sua posizione di musicista unanimemente riconosciuto grande, aveva al suo attivo una mole già imponente di straordinari capolavori, sufficienti a configurare una solare e superba maturità: più che logico che il tragico e sofferto titanismo della gioventù ora si sublimasse in opere improntate al sentimento nobilissimo della gioia. In futuro questo carattere sarebbe stato trasfigurato in creazioni musicali di estrema trascendenza, certo superiori allo stesso Imperatore; adesso poteva trovare sistemazione meravigliosamente completa e serena in un’architettura sonora olimpicamente vasta, ricchissimamente decorata e decorativa, magari servendosi anche della lussureggiante fioritura di locuzioni proprie a quello che era ormai il re degli strumenti, il pianoforte, in armoniosa fusione con le sperimentatissime risorse del colore orchestrale (mai prima dell’Imperatore si era avuta una così fascinosa integrazione fra le possibilità timbriche del pianoforte e quelle di un’orchestra divenuta, dopo la Pastorale, occasione di illimitate evocazioni poetiche).
Arciduca Rodolfo d’Austria
Ecco dunque l’ultimo Concerto di Beethoven distendersi in strutture non problematiche ma di gigantesco respiro, dove alla concentrazione estremizzata si sostituisce ancora una volta (il precedente più vistoso è la Pastorale) la solenne dilatazione, dove il materiale tematico è «bello» piuttosto che incisivo, gli sviluppi di esso ampi piuttosto che serrati, melodia e ritmo compiacendosi di se stessi anziché porsi al servizio di un disegno globale stringato ed economizzato al massimo.
Ne è chiaro segno il colossale Allegro iniziale, che rispetta a grandi linee gli schemi della forma-sonata distendendoli però in un’ariosa eloquenza che ha ben poco della tacitiana, lapidaria immediatezza di un tempo: un’introduzione indimenticabile, con una semplicissima successione di accordi cadenzati del «tutti» orchestrale allargata a contenere le preludianti espansioni virtuosistiche del pianoforte, che ricadono sull’avvio del primo tema, un motivo marziale ma cantabilissimo, in relazione di complementarità più che non di opposizione con il secondo («marcia guerresca idealizzata», dice benissimo Carli Ballola); uno sviluppo smisurato, dove pianoforte e orchestra danno vita a un continuo scaturire di episodi gloriosamente trionfanti di un «sentire» quanto mai fortissimo; una ripresa che anziché lasciare spazio alla tradizionale cadenza si prolunga in una Coda ampia ed elaborata.
Poi l’immenso colpo d’ala lirico dell’Adagio, aperto dall’orchestra gonfia di rattenuta commozione nella tonalità lontanissima di si maggiore, elevato in una trasfigurata melodia del pianoforte, proteso in una ricchissima purezza di canto che non troverà superamento se non nelle più imprevedibili e trascendenti cantilene degli ultimi Quartetti; a poco a poco rarefatta nella lenta ma irresistibile preparazione del Finale, che con semplicissimo e fantasticamente ardito trapasso armonico e ritmico prende le mosse nel pianoforte, scatenandosi presto nell’irrefrenabile tripudio del più bel tema di Rondò forse mai concepito da Beethoven. Ancora una volta si ha una possente dilatazione della forma, che rinnova il trito schema proprio delle conclusioni «brillanti».
Come la forma-sonata è ideale conclusione di una Sinfonia di intenzioni particolarmente alte, così il il Rondò si addice al Concerto solistico per la più elementare concezione formale; ma qui l’alternarsi del tema e degli episodi avviene con una ricchezza di invenzione e una solidità d’impianto forse ignote altrove: allo slancio virtuosistico del pianoforte risponde un’orchestra possente e leggera, in un’unità e in una fecondità di idee che segnano tutto l’inarrestabile fluire del brano fino ai vigorosi, vittoriosi gesti conclusivi.
Coriolano, ouverture in do minore, op. 62
L’Ouverture del Coriolano fu scritta da Beethoven nei primi mesi del 1807 come intermezzo alla tragedia omonima di gusto classicheggiante di Heinrich Joseph von Collin (1771 – 1811), poeta drammatico austriaco di un certo nome, stimato anche da Goethe. L’Ouverture, concepita come brano musicale a sé stante e non come componimento di inizio dello spettacolo teatrale, non fu eseguita per la prima rappresentazione del dramma, che ebbe luogo il 24 aprile 1807 a Vienna, ma certamente più tardi, nel dicembre del 1807, dopo essere stata presentata in una edizione privata, in casa del principe Lobkowitz nel marzo precedente, insieme al Quarto Concerto per pianoforte e orchestra e alla Quarta Sinfonia.
Il dramma del Coriolano è ispirato alla leggenda dell’eroe Gaio Marcio, soprannominato Coriolano per aver espugnato l’antichissima città dei Volsci, offrendo loro collaborazione per combattere contro i romani. A questo punto la moglie Volumnia e la madre Veturia lo supplicano di non tradire la patria ed egli, combattuto fra il sentimento dell’onore e quello della vendetta, viene assassinato dai Volsci. Questa è la versione utilizzata da Shakespeare, mentre quella di Collin vede Coriolano suicida, per l’insanabile contrasto di coscienza tra la parola data ai Volsci e l’incapacità di marciare contro Roma. Su questa tesi si basa l’analisi estetica dell’Ouverture del Coriolano tracciata da Wagner in uno studio apparso nel 1851 a Zurigo, in cui è scritto: «Dell’intera tragedia Beethoven puntò su un’unica scena, certamente la più decisiva. Egli vi concentrò la vera sostanza sentimentale, puramente umana di quel soggetto. Questa è la scena tra Coriolano, sua madre e sua moglie nel campo avanti alle porte della città. Tutta la forza d’odio che spingeva l’eroe alla distruzione della patria e le mille spade e frecce del suo risentimento, egli le afferra con mano potente e terribile, ne forma una punta sola e se ne trafigge il cuore. Sotto il colpo mortale che si e infiltro, il colosso cade e ai piedi della donna che implora la pace ed esala, morendo, l’ultimo respiro».
La pagina beethoveniana (dura complessivamente circa sette minuti) si impone per la stringata e intensa carica drammatica, sin dal Do iniziale in fortissimo, sfociante nel vigoroso accordo di tutta l’orchestra. Segue la frase ascendente degli archi, ritmicamente inquieta e spezzata in una continua alternanza fra gruppi di due crome staccate e due legate. Questo episodio caratterizzato da accenti sincopati di incisiva espressività conduce ad una melodia in Mi bemolle maggiore, affettuosamente distesa e sentimentale, a mò di implorazione della madre e della moglie sull’animo orgoglioso dell’eroe. Il discorso si sviluppa con varietà di figurazioni ritmiche e la frase melodica si affaccia nella coda, prima del ritorno al tema iniziale. L’atmosfera tesa e sanguigna si dissolve in un impercettibile pianissimo, con cui si conclude la possente Ouverture, che ha sempre incontrato il favore del pubblico e gode di una vasta letteratura interpretativa da parte di musicologi di diversa estrazione culturale.
Ouverture Leonore n. 3 in do maggiore, op. 72b
Ancor più celebre è l’ouverture Leonore, terza delle quattro che Beethoven scrisse per premetterle alla sua opera. Scartata una prima partitura a sé stante, detta poi Leonore n. 1, la Leonore n. 2 venne eseguita con la versione 1805 dell’opera; ma, in vista della revisione del 1806, l’autore sottopose a modifiche anche questa pagina, giungendo al capolavoro della Leonore n. 3, eseguita appunto con la versione 1806.
Leonard Bernstein
Senonché nel 1814 Beethoven decise di espungere questo brano, dalle dimensioni abnormi per una ouverture operistica, e di sostituirlo con una nuova ouverture più sintetica e brillante. E tuttavia una lunga tradizione direttoriale, che risale a Hans von Bülow e Gustav Mahler, reinserisce l’ouverture all’interno dell’opera, e precisamente fra il primo e il secondo quadro del secondo atto; una scelta che viene incontro alla necessità funzionale di riempire il tempo di durata del cambio di scena, ma anche e soprattutto di far ascoltare nel corso dell’opera completa quella pagina che Beethoven aveva pensato come sintesi poetica di tutto il Fidelio e che solo in riferimento all’opera trova la sua giusta luce e comprensione.
L’ouverture, in forma sonata preceduta da una introduzione lenta, si apre con un colpo di timpano, cui segue un lento diminuendo; già questo Adagio è estremamente complesso, perché presenta una delle caratteristiche più fascinose della pagina, quella di non puntare su temi fortemente scanditi e definiti, ma su temi che nascono e finiscono in dissolvenze, in un gioco di inseguimenti e dilazioni che sembra rimandare sempre una chiara e definitiva affermazione tematica. Si fa largo così, sempre nell’introduzione, un tema esposto dai legni,
che è quello dell’aria cantata da Florestano, prigioniero nel sotterraneo, all’inizio del secondo atto. Poi si inscguono flauto e violini, contrastati da un tutti orchestrale, e i legni si impegnano in una invocazione sospesa.
L’ambientazione estremamente pensosa dell’introduzione viene spezzata dal seguente Allegro, dove un tema fortemente ritmato da sincopi insistenti, esposto dagli archi in pianissimo, viene ripetuto con esaltazione da tutta l’orchestra; i corni portano a un secondo tema ascendente, lirico e contrastante, che è solo un diversivo negli intrecci ritmici provocati dal ritorno degli elementi del primo tema. Sempre le sincopi del primo tema sono sottese a tutto l’andamento dello sviluppo e alle sue peregrinazioni, che viene interrotto per due volte ravvicinate da uno squillo di tromba in lontananza; è lo squillo che, nell’opera, annuncia l’arrivo del ministro e dunque l’improvvisa soluzione della vicenda. Ma è solo una premonizione, perché il tema in sincopi riprende la sua strada (con un episodio del flauto) e giunge così ad affermarsi nuovamente e in modo più definito con l’inizio della riesposizione.
Riascoltiamo quindi la parentesi del secondo tema e gli intrecci ritmici di cui si diceva. Dovrebbe seguire a questo punto la sezione della coda; ma Beethoven preferisce dilazionarla con un nuovo diversivo, il ritorno del tema dell’aria di Florestano già udito nell’introduzione lenta, cui segue l’invocazione sospesa dei legni. È una progressiva impennata dei violini e poi di tutti gli archi a condurre alla coda, che costituisce una ultima ripresa del tema scattante in sincopi, questa volta però finalmente affermato con quella piena chiarezza e determinazione che finora era mancata. La conclusione trionfale non lascia dubbi sul significato da attribuirsi alla pagina; quello di un percorso calibratissimo, dalla prigionia verso la libertà, attraverso impulsi repressi e negati che solo nella conclusione trovano lo sfogo cui tendevano sotterraneamente fin dall’inizio.