Brahms Johannes

Concerti per pianoforte

I monumentali Concerti per pianoforte di Brahms, sono dopo quelli di Beethoven i miei preferiti. Questa registrazione con Gilels e Jochum è fantastica. Per molti anni l’ho ascoltata una volta al mese. Emil Gilels e Eugene Jochum sanno catturare perfettamente la ferocia e allo stesso tempo la tenerezza di Brahms. A dire la verità, preferisco leggermente il primo Concerto, ma so che sto compiendo un sacrilegio musicale. Emil Gilels durante il primo movimento del Concerto n.1 mi fa venire i brividi alla schiena ogni volta che l’ascolto. Eccellente anche la direzione di Eugen Jochum con i Berliner Philharmoniker. Avevo già l’edizione in vinile e la DGG ha svolto un ottimo lavoro nel riversamento in CD. Ritengo che l’audio sia notevolmente migliorato donando a questa incisione maggiore profondità e limpidezza. Se volete ascoltare una registrazione leggendaria e sublime di queste due partiture, acquistate questi due CD. Buon ascolto Altamente raccomandato.

In memoria di Emil Gilels – di Joachim Kaiser

Emil Gilels è stato uno dei pianisti veramente grandi del nostro secolo. Chiedeva sempre il massimo a se stesso, e per questo divenne l’emblema dell’artista che sa soddisfare parametri ed esigenze assolute. La creatività fu caratteristica di ogni periodo della sua vita: sconvolgente virtuoso da giovane, interprete magistrale e vigoroso negli anni della maturità, profondo e sensibile maestro in età anziana. Ci si può spingere oltre e rischiare un’ipotesi: se non ci fosse stato Gilels, nel nostro mondo pianistico si sarebbe probabilmente suonato peggio, in modo più superficiale e con minore senso di responsabilità.
Nel tocco di Gilels traspariva tutta la sua anima: in quella sua sonorità meravigliosamente plastica, come la sanno creare i russi, che mai mirava all’effetto vistoso, ma nemmeno era opaca, priva di controllo o d’ispirazione. Gilels impersonava la tradizione, e al tempo stesso esigenze artistiche somme e il loro adempimento. Non bisogna così stupirsi se non fu soltanto il pubblico ad amarlo, ma anche i suoi più severi colleghi.
Sul livello, come anche sulla fama naturalmente acquistata di questo artista nato a Odessa nel 1916, non c’è mai stata ombra di dubbio, da quando Gilels cominciò ad attirare su di sé l’attenzione del mondo musicale.
Fu “solo, all’inizio degli anni Cinquanta che il nome di Gilels venne a porsi come un emblema della maestria e cultura musicale e pianistica. Così l’artista dovette giungere quasi all’età di quarant’anni per risplendere come una stella fissa nel firmamento pianistico. Questa circostanza non dipese da fattori legati alla sua individualità, da uno sviluppo artistico ritardato, ma unicamente dagli eventi turbolenti di quell’epoca, politici e bellici, all’ombra dei quali Gilels crebbe e si formò.
Durante la seconda guerra mondiale era di fatto impossibile che la carriera d’un pianista potesse raggiungere l’Occidente partendo dalla Russia. Solo dopo che furono sanate le più gravi ferite inferte dalla guerra, il nome di Gilels divenne famoso non solo nell’Unione Sovietica, ma in tutto il mondo – e c’è da aggiungere che quegli anni videro anche l’affermazione del disco microsolco. Se le circostanze esterne fossero state più favorevoli, Gilels sarebbe pervenuto senz’altro a grande notorietà già all’inizio della sua carriera pianistica.
Dietro le interpretazioni chopiniane e lisztiane di Gilels ventenne, dietro il meraviglioso respiro delle esecuzioni di Mozart e Ciaikovskij da lui offerte sui quarant’anni, dietro le interpretazioni beethoveniane e brahmsiane – di una classicità meravigliosa le prime, sovranamente profonde le altre – si celava sempre la medesima maestria pura, la stessa serietà fervida, lo stesso rigoglio pianistico. Il pianismo di Gilels si muoveva tra due estremi, che pur non escludendosi a vicenda, erano tuttavia fortemente contrastanti. Con armoniosità trattenuta, sonorità gratificante e raffinata semplicità, Gilels sapeva ricreare sogni romantici, nobiltà classica, una calma di profondo respiro come anche la delicatezza mozartiana.

Di fronte a queste caratteristiche c’era l’altro estremo: l’energia selvaggia di Gilels, la sua fierezza, la sua maestosità grandiosa, il suo virtuosismo frenetico e sconvolgente. Questo tratto si poteva ancor sempre avvertire nell’immensa, rigorosa padronanza delle minime sfumature, nella trasparenza degli accordi, nella luminosità dei pianissimi, ricchi di tensione.
Se c’era qualcosa in Gilels che poteva congiungere in un tutt’uno questi due estremi interpretativi, questo era lo charme, l’incanto di una personalità ben equilibrata, senza isterismi, la veridicità di una volontà espressiva allo stato puro, senza convulsioni. E questo l’ha reso famoso in tutto il mondo.
In Gilels l’impulso musicale e pianistico si riversava senza alcuna frattura, né sforzo, né deformazione, direttamente nelle sue mani, nel suo tocco, nel suo piano armonioso come nel suo forte impetuoso e franco. Un pianista del genere non ha voluto né suonare sempre allo stesso modo, e neanche con la stessa regolare perfezione.
Non ha voluto essere un automa. È stato lui stesso ad offrire un’immagine particolarmente convincente di questo: “Vede, mi accosto ad una Sonata di Beethoven sempre da un lato diverso – come uno scalatore affronta una parete scoscesa una volta da un punto, un’altra volta da quell’altro”.
In lui abbiamo avuto dunque un grande artista, che senza capricci e stravaganze sapeva suonare il pianoforte in modo sommo e in assoluta fedeltà alle opere interpretate. Emil Gilels ci ha abituati a esperienze straordinarie, ad una maestria che era come un fenomeno di natura, ad una profondità e intimità fervide e incontaminate. Lo rimpiangeremo. E tanto più intensamente ci rivolgeremo alle sue registrazioni, il suo testamento sonoro.

(Ottobre 1985)
(Traduzione: Gabriele Cervone)

Genesi e introduzione tecnica – di Ludwig Finscher

I due Concerti per pianoforte e orchestra di Brahms hanno un’importanza particolare nella storia di questo genere, e ciò non solo per la loro qualità intrinseca, ma, in misura non certo minore, anche per l’altissimo rango che hanno assunto nella letteratura concertistica e per il loro significato nell’evoluzione artistica del compositore.
Il Concerto in re minore fu terminato da Brahms nel 1857, e la sua composizione si rivelò per lui a volte come il problema fondamentale della sua esistenza artistica. Scrivendo questo Concerto, Brahms si liberò da quei conflitti che lo avevano tormentato da tempo, fin da quando si era concluso il periodo amburghese della sua giovinezza e formazione.

Dopo aver preso la decisione di dedicarsi all’attività di compositore e non a quella di interprete, Brahms credette di poter trovare la soluzione di quei conflitti solo nella creazione musicale, anche se, o forse proprio perché in essi si congiungevano in maniera insolubile problemi personali ed artistici.

Johannes Brahms

La genesi del Concerto in re minore riflette più che chiaramente quella situazione tormentosa in cui questa soluzione dei conflitti venne a compiersi. Ne risultò una composizione che, sebbene non si possa definire integralmente riuscita, pur tuttavia già per il suo carattere di immediatezza non poteva lasciar indifferente nessuno che l’avesse ascoltata.
Era una composizione intesa seriamente ad elevare il concerto al livello della sinfonia, e che in tal modo introduceva un nuovo accento nella letteratura concertistica della metà del secolo 19o, anche se tali intendimenti si potevano considerare realizzati più sul piano emotivo, e non tanto su quello tecnico- formale.
Le opinioni dei critici su questo Concerto furono assai divergenti, come lo fu anche il giudizio del pubblico. Fino ad allora, Brahms aveva riscosso favorevoli consensi sia come pianista che come compositore, sebbene non fosse stato riconosciuto in lui il genio avvenire che Schumann aveva annunciato nel suo profetico articolo del 1853 “Nuove vie”. Ora, con questo Concerto Brahms rimase coinvolto per la prima volta nella controversia delle diverse correnti estetiche, e per la prima volta divenne chiaro come qui si stesse effettivamente plasmando un compositore di importanza decisiva per i futuri sviluppi della storia della musica.
Il Concerto in si bemolle maggiore, scritto quasi trenta anni dopo, consolidò definitivamente questo decisivo orientamento nel genere del concerto pianistico.
Scritto senza tutti i tormentosi dubbi del primo Concerto, senza tradire i segni d’uno sforzo, ma apparentemente con quella naturalezza che è segno d’una notevole maestria tecnica e d’una felice trasfigurazione di principi estetici, il Concerto in si bemolle risolveva superbamente quei problemi formali che il concerto solistico aveva posto da sempre, ed innalzò questo genere al livello della sinfonia, senza peraltro rinunciare in minima parte alle istanze del concerto virtuosistico.
Al tempo stesso però il Concerto in si bemolle mostrava anche il rovescio di quell'”aspetto definitivo” che era un momento essenziale della sua configurazione e funzione estetica: la definitiva equiparazione del concerto solistico alla sinfonia veniva a significare nelle sue istanze ideali quasi la fine del concerto pianistico.
Dopo il Concerto in si bemolle sarebbe divenuto praticamente impossibile scrivere con la coscienza tranquilla concerti virtuosistici, ma sarebbe divenuto quasi altrettanto difficile comporre concerti “sinfonici” che potessero resistere al confronto del Concerto di Brahms. Pochissimi sono i compositori – nel nostro secolo soprattutto Reger e Schoenberg – che hanno manifestato ambizioni siffatte. L’originalità del Concerto in re minore può essere difficilmente
compresa se non lo si considera sullo sfondo delle composizioni brahmsiane immediatamente precedenti e sul suo sfondo biografico.
Nel 1852 e all’inizio del 1853, con la Sonata per pianoforte in fa diesis minore n. 2 e quella in do maggiore n. 1 Brahms aveva cominciato a far propria la forma ciclica della sonata, e proprio in quell’ambito timbrico che per la sua esperienza pianistica gli era più vicino. Un’aspirazione espressiva spinta all’estremo, non ancora sicura dei propri mezzi, lo sviluppo di una scrittura pianistica piena, tipicamente brahmsiana, che rivela l’influsso di Liszt e soprattutto di Henry Litolff, e il confronto con Beethoven avevano qui sospinto Brahms, alla ricerca impaziente di un proprio stile, già ai limiti dello strumento e del genere sonatistico.
La rigorosa unificazione tematica del ciclo sonatistico, la rigorosa elaborazione dei temi e la sovraccarica densità contrappuntistica della composizione, e al tempo stesso il tentativo di render concreto attraverso citazioni e associazioni (soprattutto nei confronti dei Lieder popolari) il carattere individuale dell’espressione, erano non tanto soluzioni dell’impegno compositivo assunto, quanto piuttosto il segno sintomatico di una crisi, di una accentuazione eccessiva dei problemi che si erano aperti soprattutto a partire dalla Sonata in si minore di Liszt, pubblicata nel 1852.
La situazione di crisi di Brahms si fece particolarmente acuta nel 1853, a causa di due esperienze che incisero su di lui. In primo luogo l’incontro con Lizst a Weimar: è vero che qui Brahms rimase disgustato alla vista della “corte” che si era formata attorno al grande maestro, ormai giunto all’apice della sua fama, ma ciononostante il compositore Liszt rimaneva per lui una fonte di inquietudini. Quindi, l’entusiastica accoglienza nella casa di Schumann a Dusseldorf, per cui Brahms fu introdotto nell’ambito dell’estetica e della pratica compositiva schumanniana. Pur nella loro opposizione diametrale, Liszt e Schumann furono però nella loro vastissima cultura letteraria e musicale degli esempi sommi e quasi irraggiungibili per il giovane Brahms, che si stava sollevando faticosamente da una condizione culturalmente e economicamente “proletaria”. E tale opposizione Liszt – Schumann lo costrinse a prendere una decisione. L’autorità spirituale dei due dovette chiarire più che mai a Brahms quanto fosse alta la meta che si era prefissa. Le prime composizioni di Brahms dopo il suo arrivo a Dusseldorf mostrano questo conflitto in tutta la sua asprezza. Nel suo profetico articolo “Nuove vie” Schumann aveva rilevato che le Sonate del giovane genio erano sinfonie velate; ora la colossale Sonata in fa minore op. 5 del 1853 mostrava con tutta chiarezza come Brahms, in un’estrema concentrazione delle sue capacità musicali e architettoniche, si orientasse verso la sinfonia.
Ma la prima versione del Trio con pianoforte in si maggiore op. 8 (gennaio 1854) indicava anche che l’influsso lisztiano non era affatto superato, ed inoltre un’esecuzione della Nona Sinfonia di Beethoven nel marzo 1854 fece sorgere in Brahms forti dubbi: sarebbe stato in grado di comporre sinfonie dopo l’esempio beethoveniano? Ne sarebbe stato all’altezza?
In tale situazione Brahms concepì nell’aprile del 1854 una Sonata per due pianoforti – evidentemente un iter indiretto verso la sinfonia, che passava attraverso l’impiego raddoppiato dello strumento più familiare al giovane Brahms.

Emil Gilels

Ma già due mesi dopo il compositore scrisse all’amico Joseph Joachim che intendeva “lasciarla così a mezzo per lungo tempo”, poiché “di fatto non mi bastano neanche due pianoforti”.
Nel luglio 1854 Brahms cercò di rielaborare sinfonicamente il primo movimento, ma si rese conto ben presto che le sue cognizioni tecniche della scrittura orchestrale non erano sufficienti per la realizzazione di tale intento.
La composizione si arenò a questo punto, e solo sei mesi dopo Brahms trovò la soluzione apparente del dualismo tra sonata pianistica e sinfonia, tra esigenze sinfoniche e carente dimestichezza con la tecnica orchestrale.
Ma la soluzione gli apparì solo in sogno: “Pensi un po’, che cosa ho sognato la notte! Avevo fatto della mia fallita sinfonia un Concerto per pianoforte……” (a Clara Schumann). Era da prevedere che in questo progetto i problemi si sarebbero accumulati. Per oltre un anno Brahms non fece più menzione del Concerto per pianoforte; ma poi, nel disperato tentativo di venire finalmente
a capo di tale problema, questo divenne il momento centrale ed esclusivo del suo impegno compositivo.
Nell’ottobre del 1856 Brahms inviò a Joachim il primo movimento (la rielaborazione del “fallito” movimento di sinfonia), nel dicembre il Finale, nel gennaio 1857 l’Adagio: intendeva infatti conoscere il giudizio del violinista suo amico a tale riguardo. Nell’aprile del 1857 seguì la seconda (ma non ancora ultima) versione del Finale.
Alla fine del 1857 si verificò l’ultima crisi: “Questo” – Brahms intendeva il primo movimento – “è proprio del tutto raffazzonato, porta il marchio del dilettantismo. Chi potrà uscirne mai fuori? Lo voglio ora scuotere come si deve e quello che non va lo tolgo via; sarebbe proprio ora di arrivare al punto finale” (a Clara Schumann).
A Joachim scrisse poi: “Non ho più alcuna opinione e neanche un qualche potere sul pezzo”. Alla fine di dicembre del 1857 la composizione era giunta al suo “punto finale”, ma ancora dopo le prime esecuzioni del Concerto Brahms apportò dei miglioramenti al primo movimento. La prima esecuzione assoluta del Concerto in re minore si ebbe il 22 gennaio 1859 a Hannover con un’accoglienza favorevole. Ma la prima esecuzione a Lipsia, la roccaforte del conservatorismo, avvenuta cinque giorni dopo, si risolse in un completo insuccesso.
Un critico anonimo ne fece una stroncatura implacabile sull’influente giornale “Signale fuor die musikalische Welt”, definendolo un’eruzione di caotico modernismo musicale. Le critiche successive, più comprensive, ebbero espressioni d’apprezzamento per questo Concerto definito una “sinfonia con pianoforte obbligato”, ma il giudizio della corrente conservatrice si modificò ben poco: Brahms era bollato come “progressista”, e solo quando si distanziò con tutta chiarezza da Lizst e da Wagner, e la componente classicistica della sua poetica divenne più manifesta, solo allora si sarebbero modificati anche le posizioni del fronte musicale.
Non c’è dunque da stupirsi che il Concerto in re minore non nasconda la sua genesi travagliata: la sonorità orchestrale spesso sovraccarica e i problemi formali del primo movimento ne sono chiara testimonianza, e le tendenze

strutturali dell’insieme – spesso contraddittorie e non completamente chiarite – ricevono una veste unitaria quasi esclusivamente dalla grandiosa energia del disegno compositivo, dalla ricchezza imponente, esorbitante degli eventi musicali.
Il carattere “sinfonico” del Concerto è dato soprattutto dalla sublimità dei suoi intendimenti, dalle sue grandi ambizioni quanto a dimensioni esterne e ad assunto ideale, e anche dal fatto che il virtuosismo pianistico è completamente subordinato all’elaborazione sinfonica. D’altra parte, per la sua articolazione tradizionale in tre movimenti, il Concerto in re minore si distacca dalla forma del concerto “sinfonico” in quattro movimenti (con Scherzo) quale era stata definita da Litolff e Lizst.
Il primo movimento è da un punto di vista formale un grandioso tentativo di risolvere in modo nuovo il problema fondamentale del concerto: la fusione del principio tradizionalmente vincolante della forma-sonata e di quello concertante.
E qui Brahms non opera come Mendelssohn o Schumann, che disciolgono la “doppia esposizione” (esposizione dell’orchestra con due temi – ripetizione dell’esposizione con entrata del solista) in un ininterrotto dialogo tra il solista e il “tutti”, ma amplia invece l’esposizione mediante una ridondanza di temi, unisce alla ripetizione dell’esposizione da parte del pianoforte l’elaborazione e la progressiva variazione dei temi, e il principio di un ampio dialogo tra solista e orchestra che si protende sulla forma globale.
L’ipertrofia di questa concezione formale è evidente, mentre la logica musicale dello svolgimento formale può essere a malapena riconosciuta a causa della sovrabbondanza dei temi e dell’espansa dimensione del movimento. Il significato di tale movimento divenne subito chiaro, se ci si accosta adesso partendo dal carattere dei suoi temi: la grandiosa gestualità dell’inizio (derivata in via diretta dal Concerto per violino e orchestra di Schumann, e indirettamente dalla Nona di Beethoven) domina sia la concezione formale che il carattere dell’intero movimento.
Tutto ciò che segue non è altro che confronto tematico con questo motivo, il cui impeto fatidico (simboleggiato dal rimbombo delle lunghe note tenute) riesce alla fine vittorioso. La forma musicale appare – in concordanza con la concezione beethoveniana e con le esigenze vive alla metà del secolo 19o, che ad essa s’erano informate – come una “rappresentazione” drammatica i cui protagonisti sono i temi musicali.
Vi fa riscontro l’Adagio che, legato tematicamente in più punti al primo movimento (come lo sarà anche il Finale), fa seguire al dramma cupo un momento di rapimento lirico, intriso di rassegnazione nella sezione mediana in si minore. Nell’autografo, Brahms ha scritto sotto le prime cinque battute degli archi le parole “Benedictus qui venit in nomine Domini”, una chiara allusione sia all’affinità di questo tema col “Benedictus” della Missa solemnis di Beethoven, sia agli intendimenti espressivi del movimento. Ciò rappresenta al tempo stesso, in quel ricorso alla parola e all’allusione tematica ai fini di una migliore chiarificazione dell’assunto espressivo, uno sguardo retrospettivo del periodo amburghese.
Il Finale di dimensioni gigantesche, nella sovrapposizione estremamente complessa di forma-sonata, rondò, elaborazione tematica e principio della variazione, conclude questo dramma musicale. Qui, nel trapasso dall’atmosfera fatidica e cupa (re minore) del primo movimento a un ardore eroico e a una distensione bucolica, si risolvono i conflitti che si erano addensati.
Anche qui si avverte l’ascendente beethoveniano, e non è un caso che la Coda in re maggiore – quasi la celebrazione della vittoria finalmente conseguita – venga introdotta da una cadenza solistica, alla cui conclusione risuona una chiara reminiscenza del passaggio “wo dein sanfter Flugel weilt” dalla Nona Sinfonia beethoveniana.

Eugen Jochum

Il Concerto in si bemolle maggiore, abbozzato nel 1878 e terminato nell’estate 1881, appare “classicistico” nella stessa misura in cui quello in re minore era “romantico”: i problemi formali sono risolti magistralmente e senza sforzo, il trattamento dell’orchestra è splendido, e una grande maestria si rivela nella densità dell’elaborazione e della variazione dei temi, i quali sono senz’altro all’altezza della Seconda Sinfonia, cronologicamente vicina e spiritualmente affine.
Il Concerto in si bemolle maggiore è altresì velato, ambiguo, complesso e poliedrico nella sua qualità espressiva, come il linguaggio di quello in re minore si sforzava di essere univoco e immediato.
Indubbiamente, il Concerto in si bemolle, un’opera d’arte, anzi un capolavoro autentico, contraddistinto da grande compiutezza e ricchezza interiore, e inteso ad offrire all’ascoltatore tutta una serie di correlazioni musicali, si pone ad un livello ben più alto che non quello in re minore. Ma è pur vero che quest’opera giovanile, nella sua spontaneità, impulsività e travolgente immediatezza, è superiore al Concerto in si bemolle. A quest’ultimo manca quell’accanimento, e al tempo stesso anche quel piglio irruente che costituisce uno dei motivi del fascino sempre vivo del Concerto in re minore, e che gli consente di trasfigurare in dramma automaticamente vissuto una concezione del “dramma” sinfonico che peraltro era già quasi divenuta convenzionale.
Nel Concerto in si bemolle non regnano più un senso di fatalità e gli sforzi intesi a superarlo, non più la lotta seguita dalla vittoria, ma un atteggiamento riflessivo, introverso e una calma grandiosa che impronta di sé le parti ricche di conflitti musicali come anche l’energia e l’ampiezza sinfonica dell’insieme.
È un atteggiamento riflessivo e contenuto, e al tempo stesso profondo, come fu rilevato da Ernest Bloch. Il Concerto in si bemolle è sinfonico anche in un altro senso, più profondo che nel Concerto in re minore: nell’articolazione in quattro movimenti (con lo Scherzo quale secondo movimento) e nella totale compenetrazione di elaborazione e variazione tematica, e di forme svolte dialogicamente tra pianoforte e orchestra. Il solista e l’orchestra non “competono” più l’uno con l’altra, ma sviluppano unitamente un colloquio caratterizzato da una piena “parità di diritti” – un colloquio che nonostante le dimensioni formali e sonore del Concerto tradisce una finezza quasi cameristica.
Al tempo stesso, quell’elemento che nel Concerto in re minore era stato intenzionalmente contenuto, e cioè il virtuosismo pianistico, viene qui spinto addirittura alle estreme vette della difficoltà tecnica, impedendo così il dissolvimento della componente concertante. Inoltre, il virtuosismo pianistico nel Concerto in si bemolle è così organicamente inserito nell’economia e
intenzionalità dell’insieme, al fine di realizzare una totalità sinfonica, da non cadere mai in un autocompiacimento ostentato.
Nel primo movimento, l’esposizione abbraccia solo 68 battute (di 376 complessivamente) e presenta due gruppi tematici già divisi tra pianoforte e orchestra secondo un principio integralmente dialogico.
Il resto del movimento, dove manca la tradizionale ripetizione dell’esposizione, è un tessuto fitto e estremamente raffinato di elaborazioni e trasformazioni tematiche, che creano ininterrottamente anche nuove situazioni espressive e che allargano la ripresa fin quasi a renderla irriconoscibile. In diametrale contrasto con il Concerto in re minore, la forma musicale di quello in si bemolle non è né dettata dalla tradizione, né condizionata dall’idea extramusicale del movimento, ma è una funzione dei temi e della loro elaborazione; la disposizione formale trae così la sua forza di persuasione dalla logica degli sviluppi musicali. Lo stesso vale per il secondo movimento, che dei caratteri dello Scherzo tradizionale mantiene solo vitalistici accenti e movenze di danza, e una reminiscenza dell’elemento di contrasto rappresentato dal Trio. Questo Scherzo, analogamente al movimento iniziale, è infatti nella sua sostanza un movimento in forma-sonata “processualizzato”, che per il suo carattere impetuoso, come per la raffinatezza dei timbri pianistici e della tecnica esecutiva ivi richiesta, esercitò un fascino particolare sui contemporanei.
L’Andante (tematicamente un presentimento del Lied “Immer leiser wird mein Schlummer”) trasfonde il colorito timbrico dello Scherzo su uno sfondo cupamente infocato, sul quale si staglia una fusione originalissima di forma- Lied tripartita e forma di variazione. Il Finale, infine, con il chiaro colorito ungherese originato dalla frequente indeterminatezza ed “estraneità” tonale dei suoi temi, congiunge ancora una volta forme tradizionali e tecniche tipicamente brahmsiane, forma-sonata e rondò, elaborazione tematica e variazione progressiva, per creare una struttura dispiegata “processualmente” e di carattere esuberante, che volge completamente la spiritualità meditativa della composizione in una visione brillante di serena distensione, proprio come si addice a un Finale. Registrazioni eseguite dal 1972 al 1976. Audio ottimo. Altamente consigliato per non dire imperdibile!!
(Traduzione: Gabriel Cervone)

Concerto n. 1 in re minore per pianoforte e orchestra, op. 15

È noto che la nascita del Primo Concerto per pianoforte e orchestra di Brahms fu lunga e tormentata, e avvenne per fasi successive. Il lavoro, abbozzato negli anni 1852-53, avrebbe dovuto portare alla creazione di una Sinfonia, come Brahms desiderava e come anche il suo mentore Robert Schumann si era entusiasticamente augurato (“Se egli abbasserà la sua bacchetta magica là dove

le potenze delle masse corali e orchestrali gli potranno concedere le proprie forze, noi potremo attenderci di scoprire paesaggi ancor più meravigliosi nei segreti del mondo degli spiriti”: è un passo del celebre articolo Vie nuove, 28 ottobre 1853). All’inizio del 1854 il progetto originario si trasformò in una Sonata per due pianoforti, scelta evidentemente ritenuta utile da Brahms, pianista eccelso, per avvicinarsi all’idea di Sinfonia attraverso un cartone preparatorio che si basasse sullo strumento che conosceva meglio e che gli era più congeniale. Nell’estate del 1854 Brahms lo orchestrò per farne un primo tempo di Sinfonia; ma nel corso dell’anno abbandonò l’idea della Sonata, informandone l’amico violinista Joseph Joachim: «Ritengo che lascerò da parte la mia Sonata in re minore. Ho suonato spesso i primi movimenti con la signora Schumann, e sono sempre più convinto che nemmeno due pianoforti siano sufficienti». Proprio a Clara Schumann, sempre nel 1854, Brahms comunicava di aver “trasformato la mia Sinfonia abortita in un Concerto per pianoforte”. Da quel momento il processo compositivo, pur non mutando più l’obbiettivo, passò attraverso una serie innumerevole di ripensamenti e di riscritture: il primo movimento fu rimesso in discussione più volte e rielaborato ancora nel 1856- 57; quello centrale, in origine una sarabanda in tempo Lento funebre, respinto e sostituito da un Adagio (verrà riutilizzato, anni dopo, nel secondo coro del Requiem tedesco); il terzo integralmente riscritto nel 1857. Tutto questo fervore compositivo si protrasse fino al 1858, senza che Brahms fosse interamente soddisfatto del suo lavoro. Nel marzo 1858 fu organizzata una prova segreta del Concerto con l’autore al pianoforte e solamente pochi amici presenti: tra questi Joachim, divenuto ormai, dopo la morte di Schumann, il consigliere ufficiale di Brahms. Nuovi dubbi e nuove modifiche. Per quanto Brahms si rendesse conto di non poter più incidere a fondo su un ordito sonoro ormai troppo fitto, era pur necessario alla fine giungere a una conclusione. A Joachim confessò: «Su questo Concerto non riesco più ad avere un giudizio obbiettivo, come non riesco più ad avere, su di esso, alcun potere».
La prima esecuzione del Concerto avvenne il 22 gennaio 1859 ad Hannover, solista lo stesso Brahms, direttore Joachim, con accoglienza tiepida. Si trattava in realtà di un’anteprima in vista della presentazione al Gewandhaus di Lipsia del 27 gennaio (direttore Julius Rietz, solista ancora Brahms), dove il Concerto fu subissato dai fischi. Il giorno dopo Brahms, scrivendo a Joachim, osservò: «Penso, comunque, che questo risultato sia il meglio che potesse capitarmi: mi induce a lottare, mi dà coraggio. Dopo tutto sono ancora in una fase di sperimentazione e sto orientandomi a tentoni. Però, a ben pensarci… i fischi erano davvero troppi». Una successiva esecuzione ad Amburgo, il 24 marzo, venne nuovamente diretta da Joachim e si risolse in un successo formale, di stima. Brahms decise allora di ritirare il Concerto, e vi apportò ancora qualche miglioramento in vista della pubblicazione, uscita nel 1861. Come interprete lo

riprese solo nel 1865, sotto la direzione di Hermann Levi, non ancora passato al partito wagneriano. Ma per vederne la definitiva consacrazione si dovranno attendere gli anni Ottanta, quando i trionfi del secondo Concerto si rifletteranno anche sul primo.
L’op. 15 è il frutto cli un’ossessione (scrivere una Sinfonia, sogno che avrebbe dovuto attendere fino al 1876 per realizzarsi) e di una ricerca accompagnata da uno strenuo spirito di autocritica. La conseguenza fu una contraddizione risolta con un compromesso, adottando uno schema tradizionale per un modello alternativo. Non stupisce quindi che il destino del Concerto fosse contrastato e difficile. Molti dei rilievi che gli vennero mossi dai primi ascoltatori (e non bisogna dimenticare che Brahms ebbe fin dall’inizio ascoltatori attenti e non prevenuti) sono in parte comprensibili. In effetti il Concerto in re minore è lontano dalle convenzioni del concerto per strumento solista, in quanto il pianoforte e l’orchestra vi sono trattati su un piano di assoluta parità: il che lo fece sembrare una Sinfonia con pianoforte obbligato. La stessa evidente ambizione di rifarsi al Beethoven drammatico ed eroico (soprattutto a quello del Terzo Concerto in do minore) collide con la profusione di passaggi divaganti e sospesi (nel senso del phantasieren romantico alla Schumann) e con il contenuto eterogeneo, appassionato, malinconico, giocoso, dei temi. Insomma esso ci appare come un lavoro di sperimentazione che solo a posteriori avrebbe trovato la sua giustificazione e la sua esatta collocazione nella storia del Concerto per pianoforte: costituendo, di essa, una sorta di ultimo anello. E ciò che ce lo fa apprezzare nel suo pregio e nella sua novità, poteva apparire all’epoca di composizione un difetto. L’accusa ricorrente, che a noi appare infondata, di non offrire al solista alcuna occasione di protagonismo, va anch’essa intesa secondo un’ottica che aveva a punto di riferimento la letteratura brillante, o quella salottiera, del tempo: assorbite entrambe da Brahms, ma finalizzate ad altri scopi. Pur privo di vere e proprie cadenze (del tutto abolita quella fondamentale del primo movimento), la parte pianistica presenta notevoli difficoltà tecniche (arpeggi rapidissimi, doppie terze e seste, tripli trilli, doppie ottave, decime spezzate nella mano sinistra, eccetera: senza contare la densità massiccia degli accordi, mossi da una stratificata polifonia interna), ma non nel senso della esibizione virtuosistica. Giacché la sua sostanza rimane quella di un pensiero sinfonico integrato e ampliato al pianoforte.
L’impegno costruttivo e architettonico si manifesta soprattutto nel tempo d’apertura, che da solo occupa quasi la metà del Concerto. Ma non si tratta tanto di questioni di durata quanto di intenzioni. Nell’indicazione Maestoso e nella stessa tematica è impossibile non ravvisare l’ombra incombente della Nona Sinfonia di Beethoven (che Brahms, fra l’altro, aveva ascoltato per la prima volta a Colonia nel marzo 1854, proprio durante la gestazione del Concerto).

L’introduzione orchestrale, di eccezionale ampiezza (90 misure), è di altrettanto eccezionale complessità: al primo tema, appassionato, cupo, tempestoso, sostenuto da un lungo pedale cromaticamente discendente, quasi basso dilatato di passacaglia, segue una dolce parentesi lirica, di trepida emozione, da cui si originano, prima e dopo il riapparire del primo tema, singoli spunti che verranno ripresi ed elaborati dal solista nel corso del movimento. L’entrata del pianoforte, punteggiata da trombe e timpani soli, è pensosa e severa, quasi velata, e può ricordare un corale. La progressiva integrazione tra solista e orchestra avviene nella gigantesca riesposizione e prosegue, alternando slanci e ripiegamenti, monologhi e dialoghi (tra i quali spicca quello poeticissimo con il corno), nell’intenso e tuttavia stringato sviluppo: per trovare infine nella ripresa, avviata questa volta dal pianoforte, la piena estrinsecazione di sostanza e decorazione, di forza drammatica e concentrazione espressiva.
L’Adagio in re maggiore si apre con un tema introverso degli archi con sordina, accompagnati in terze dai fagotti, poi ripreso dal corno. Molto dolce ed espressiva è l’entrata del pianoforte, che elabora liberamente, come in un intermezzo fantastico, frammenti del tema. La parte centrale, affidata ai legni, ha un profilo più vivo e marcato, mentre il ritorno del primo tema, tra accordi ed arpeggi del pianoforte, sospingerà l’Adagio verso sonorità celestiali, di astratta purezza trascendente. L’epigrafe che accompagnava questo movimento nel manoscritto posseduto da Joachim (“Benedictus qui venit in nomine Domini”) ha fatto per anni la delizia dei commentatori, già portati a riconoscere nel Concerto un’impronta programmatica (il primo biografo di Brahms, Max Kalbeck, aveva visto nel primo tempo l’evocazione del dramma della follia di Schumann). L’intestazione (cancellata in seguito) è stata interpretata in vari modi: come traccia di una Messa non completata o come un ritratto musicale di Robert e Clara Schumann. A noi pare che possa essere considerata semplicemente un devoto omaggio a Beethoven (Missa solemnis).
L’Allegro non troppo finale è nella forma del Rondò. Un tema vigoroso, un po’ rude e scontroso nei suoi nuovi tratti di danza popolare, viene esposto dal pianoforte, solo, passa all’orchestra, ritorna al pianoforte e poi invade baroccamente il Tutti. Una sua variante, di tono più leggero e lirico, introduce la parte più melodica del movimento, che culmina non inaspettatamente in un fugato a quattro voci degli archi in si bemolle minore. Seguono il ritorno del tema iniziale in re minore, una breve cadenza del pianoforte e la ripresa dell’elemento fugato da parte degli strumentini, in re maggiore. Nonostante la maestria dell’elaborazione e delle variazioni, e qualche nota asprigna di ironia mozartiana, questo finale denuncia un’intenzione dimostrativa, forse residuo della sua prolungata genesi, e la volontà di chiudere ad ogni costo con un’affermazione positiva.

Concerto n. 2 in si bemolle maggiore per pianoforte e orchestra, op. 83

Nel periodo in cui videro la luce le quattro Sinfonie, apparse a coppie nel 1877- 78 e nel 1884-86, e piú precisamente negli anni che separano le prime due dalle altre, Brahms compose alcune opere per orchestra destinate ad occupare, nella sua produzione, un posto di grande rilievo: le Ouvertures «Accademica» e «Tragica» (1880), il Concerto per violino e il Secondo Concerto per pianoforte e orchestra. Non è certo un caso che queste due opere somme della letteratura concertistica siano state scritte a pochi anni di distanza (l’una è del 1878, l’altra del 1881), in un ambito di sostanziale unità di intenzioni nel pur ricco fervore di interessi della estrema fase creativa brahmsiana; e forse non è un caso che la presente stagione sinfonica del Teatro Comunale le abbia volute presentare entrambe nei programmi di due concerti contigui, quasi a voler ribadire l’importanza di tappe decisive che esse rappresentano per la conoscenza sia di Brahms sia della sua posizione nel contesto della musica del suo secolo.
Se sul versante del Lied si trova la fonte che avrebbe fatto scaturire la grandezza matura di Brahms nel campo vocale (corale) e anche, almeno in parte, strumentale da camera, è attraverso il pianoforte che egli giunse alla composizione strumentale di grandi dimensioni, secondo un processo che può essere ben esemplificato dal duro e lungo travaglio necessario per portare a compimento il (Primo) Concerto in re minore per pianoforte e orchestra (1854- 58), dapprima abbozzato come sinfonia e poi come sonata per due pianoforti. Attraverso il pianoforte, con il mutarsi di quella familiarità con lo strumento cosí spontanea e naturalmente posseduta fin dalla giovinezza in conquista razionale e solidamente radicata nel passato, Brahms aveva imparato di volta in volta a risolvere i problemi pratici della tecnica strumentale e quelli di gran lunga piú complessi della forma di ampio respiro, fino al raggiungimento della completa padronanza di tutti i mezzi espressivi, al di là degli ostacoli e delle preoccupazioni, cosí sentite per tutta la vita, di ordine tecnico: il mondo della sinfonia, affrontato soltanto nella piena maturità, si identificava appunto con il traguardo della consapevolezza di essere non piú alle spalle, ma accanto ai grandi classici del sinfonismo tedesco.
Due opere cosí prossime fra loro come il Concerto per violino e il Secondo Concerto per pianoforte rendono perfettamente conto del significato, per Brahms, dell’accesso al mondo delle grandi forme. Un significato che può essere riassunto emblematicamente in un solo nome: Beethoven. Beethoven, infatti, era stato su questo terreno la sua guida, non soltanto dal punto di vista dell’apparato tecnico e formale: come osserva Hans Gal, «il suo stesso modo di concepire la musica strumentale è beethoveniano: si pensi alla distinzione fondamentale fra lo spazio intimo, limitato, del materiale della musica da camera e i fini epici, monumentali della sinfonia». Nel Concerto per violino

aveva già operato, certo accanto al fine affettivo di dedicare all’amico carissimo Joseph Joachim una composizione adeguata al suo virtuosismo di interprete, la volontà di cimentarsi in un lavoro che potesse porsi con autorità sulla scia del modello beethoveniano (una volontà denunciata non soltanto dalla scelta della stessa tonalità – re maggiore – in cui Beethoven aveva scritto il suo Concerto per violino, ma anche da ben piú significativi rapporti strutturali); ma è con il Concerto per pianoforte che l’anelito a toccare i vertici delle altezze a cui era giunto Beethoven si esalta nel’accettarne la lezione, rivivendola dall’interno delle ricchezze del proprio individuale mondo poetico e sentimentale. Si esalta e, dal punto di vista formale, si esaurisce in un’opera che lega alla orchestra le possibilità infinite dello strumento solista per eccellenza, in una dimensione destinata programmaticamente ad essere monumentale e in un certo senso definitiva. Proprio questa aspirazione a raggiungere qualcosa di definitivo una volta per tutte, che del resto è caratteristica dell’ultimo Brahms e non soltanto come reazione alle polemiche pro e contro Wagner che tanto lo avevano angustiato, trova nelle architetture straordinariamente ampie del Concerto forse piú lungo di tutta la storia della musica una delle sue massime espressioni: quasi la volontà di riconoscersi, nel dopo Beethoven, come l’unico erede di un immenso patrimonio non soltanto musicale, e il suggello, da parte di Brahms, della presa di possesso del proprio posto nella storia.
Scritto, come si è detto, nel 1881 e dedicato al «caro amico e maestro Eduard Marxsen», l’istruttore solerte e austero degli studi giovanili ad Amburgo, il Concerto appare fin da un primo sguardo più vicino per la sua grandiosità a una Sinfonia che al modello del Concerto classico-romantico: contrariamente alla norma, infatti, comprende quattro tempi invece di tre, e il secondo tempo adombra le funzioni dello Scherzo nella sinfonia; e se con ragione si è voluto paragonarlo a una «sinfonia concertante» vera e propria, pure occorre rilevare che il peso specifico della presenza del pianoforte, come portatore di autonome e compiute proposte espressive, costruttive o timbriche, insieme con l’alto virtuosismo e la varietà della scrittura pianistica, è tale da emergere nettamente anche su un impianto sinfonico cosí complesso e possente; mentre d’altra parte l’architettura formale dell’opera, soprattutto nel microcosmo dei singoli tempi, sembra proporre semmai una ricerca nella direzione della libertà sia stilistica, sia formale che Brahms a quel tempo sentiva innanzitutto come necessità interiore, e che avrebbe trovato i suoi massimi esiti nel turbine vorticoso dell’ultimo tempo della Quarta Sinfonia.
Il primo tempo, «Allegro non troppo», dimostra a sufficienza quanto Brahms sia giunto ad ampliare nello schema classico le categorie della forma sonata, investendole totalmente dei contenuti piú essenziali della propria poetica in instabile equilibrio fra aspirazioni classiche e incontenibili urgenze romantiche.

La sua concezione formale si realizza infatti in spazi e tempi dilatati, in cui alla tecnica dello sviluppo di ascendenza beethoveniana si sostituisce quella di una continua elaborazione, guidata da un sapiente uso dell’arte della variazione. Le arditezze linguistiche e formali sono direttamente proporzionali alle atmosfere e alle sfumature espressive: il clima incandescente dell’«Allegro appassionato», che deriva dal veemente movimento della prima idea tematica, si intensifica progressivamente fino a dilatarsi nella sezione cantabile centrale – «largamente» -, risultando, proprio per questa sospensione, ancora piú carico di tensione quando si ripresenta nella ripresa.
L’«Andante», di forma tripartita, è introdotto da un a solo del violoncello, che domina tutta la prima parte, mentre quella centrale, condotta in prima persona dal pianoforte, sembra perdersi in orizzonti sconfinati: Brahms ottiene questo senso di allontanamento attraverso una ricchezza straordinaria dal punto di vista armonico, mentre la scrittura pianistica appare qui davvero come la piú diretta erede di quella beethoveniana. Infine, l’«Allegretto grazioso» non si discosta dal tipico finale di sinfonia, con reiterati dialoghi fra pianoforte e orchestra e passaggi di grande virtuosismo del pianoforte su un vivace ritmo di danza che ricorda le movenze piú tipiche del Brahms «ungherese».