Brahms Johannes
Concerto per violino
Si tratta di una bella edizione del Concerto per violino di Johannes Brahms, eseguita nel 1976 da Itzhak Perlman e da Carlo Maria Giulini alla guida della Chicago Symphony Orchestra.
Accompagnato da un grande direttore che ci ha lasciato eccellenti interpretazioni nel repertorio brahmsiano, evidenziandone soprattutto l’intimità ed il profondo senso religioso il violinista affronta il concerto con grande sicurezza ed abilità.
In particolare Perlman si mostra molto composto ed equilibrato, anche nella dinamica con l’orchestra, eseguendo con apparente naturalezza e dando, soprattutto nel primo movimento, ampio respiro alla pagina brahmsiana; salvo poi esprimere con intensa partecipazione, unitamente allo splendido oboe, la liricità contenuta nell’Adagio centrale e chiudere con virtuosismo, degno di uno tzigano, l’Allegro finale.
Si tratta, a mio parere, di una delle migliori registrazioni esistenti di questo concerto. Altamente raccomandato.
Concerto in re maggiore per violino e orchestra, op. 77
La composizione del Concerto in re maggiore per violino e orchestra occupò Brahms a partire, più o meno, dalla metà del 1878. Brahms aveva allora quarantacinque anni: e stava vivendo una delle sue più tranquille e feconde stagioni creative, con la soddisfazione di essere riuscito a cimentarsi – e per ben due volte consecutive, secondo una costante del suo modo di lavorare – con la Sinfonia. Questa forma stava al vertice, nella gerarchia dei generi compositivi che poteva essere propria a un musicista imbevuto di senso della storia ed estraneo all’«attualità» come Brahms: e per decenni, si può dire da sempre, era stato per lui un ideale perseguito con fatica, non senza l’amarezza di qualche sconfitta. Solo nel 1876, già oltre la quarantina, aveva condotto a termine la prima delle sue quattro Sinfonie, facendola seguire quasi a ruota, nel ’77, da una seconda, la Sinfonia in re maggiore; adesso, avviando quel periodo breve ma fecondissimo (avrebbe visto nascere anche il Secondo concerto per pianoforte, le Ouvertures Accademica e Tragica, alcune fra le più importanti composizioni da camera), che segna quasi una pausa di riflessione prima del secondo e nuovamente duplice sforzo sinfonico, quello che avrebbe dato la Terza (1883) e la Quarta (1885), Brahms attendeva, con il Concerto in re maggiore, al primo lavoro che fosse da lui concepito fin dall’inizio nei termini di un Concerto vero e proprio. Privilegio che fra i quattro Concerti per strumenti solisti e orchestra è condiviso soltanto dal Secondo per pianoforte, giacché il Primo era nato, nel 1854-58, dal depistamento di materiale già destinato a una Sonata per due pianoforti e poi a una Sinfonia, e quello per violino e violoncello avrebbe preso forma, nel 1887, da un’ulteriore rinuncia a un tentativo sinfonico. E al pari del Secondo concerto per pianoforte, che lo segue di pochi anni (1881), il Concerto per violino dimostra quasi in ogni momento di essere il frutto di un momento di speciale felicità artistica, ripetendo una cifra espressiva già dominante nella Seconda sinfonia, che qualcuno aveva voluto chiamare «la Pastorale di Brahms», e destinata a tornare nella prossima opera di grandi proporzioni, appunto il Secondo concerto per pianoforte. Una delle garanzie prime del fascino irripetibile che è proprio del Concerto per violino è infatti il senso di tranquillità formale che in esso si respira quasi ininterrottamente: pressoché assenti essendo da questo lavoro i segni della fatica compositiva che costellano tante pagine di Brahms, anche e soprattutto fra le maggiori. E a ciò si lega direttamente anche la naturalezza con la quale il sinfonismo pur sempre vigoroso della partitura accoglie in sé, con essa equilibrandosi perfettamente, la parte dello strumento solista; senza che l’un aspetto dell’edificio sia in qualche misura compromesso dall’altro, e anzi conseguendo una completa organicità fra le esigenze protagonistiche, anche nel senso del virtuosismo spettacolare, del violino, e quelle di una dignità formale che gravemente sarebbe stata intaccata qualora si fosse ridotta l’orchestra a sottomessa accompagnatrice di esibizioni meccaniche o cantabili.
Itzhak Perlman
Tranquillità creativa e sicurezza formale, ovviamente, non erano state tali, durante la composizione del Concerto, da far recedere Brahms dai riti a lui consueti dell’autocritica, compiuti ed esternati con quasi ossessiva regolarità. Scrupoli ben spesso assurdi, che troppe volte, a complicare la vita al già ipocondriaco Brahms, trovano terreno fertile nei due abituali destinatari delle sue richieste di pareri e consigli: Clara Schumarm, vedova a lungo amata del nume tutelare della giovinezza di Brahms, e Joseph Joachim, violinista allora celeberrimo e rimasto mitico ancora oggi, vecchio compagno di studi e amico di tutta la vita. Fin troppo convinti, l’una e l’altro, di aver qualcosa da insegnare a un compositore come Brahms, anche dopo che lui fu uscito, e da un bel pezzo, fuor dei minori. In questo caso il parere di Joachim sembrava doppiamente prezioso a Brahms, convinto che lo scrivere per il violino, anche dopo la quantità notevole di musica da lui composta per questo o altri strumenti ad arco, potesse essergli impresa difficile, da non avventurarcisi senza una guida. Ancora nove anni dopo il Concerto per violino, nell’accingersi a scrivere quello per violino e violoncello, si sarebbe tormentato di scrupoli del genere in una lettera a Clara: «C’è molta differenza fra lo scrivere per strumenti della cui natura e del cui suono si ha soltanto una conoscenza casuale, o che si ascoltano solo con l’immaginazione, e lo scrivere per uno strumento che si conosce a fondo come io conosco il pianoforte». Figuriamoci quindi come doveva sentirsi quando ancora non aveva finito quello che sarebbe poi diventato uno dei più scalpitanti e vittoriosi cavalli di battaglia dei maggiori virtuosi dei cent’anni a venire, nessuno dei quali ha mai avuto occasione di lagnarsi di improprietà o inadeguatezza di scrittura. E, invece, in agosto, ecco Brahms inviare a Joachim la parte del violino del primo movimento, accompagnandola con parole che più che di modestia sanno di autoflagellazione: «Se pensi che non valga la pena di metterlo in partitura devi dirlo. Sarò lieto se mi segnalerai quei passi che siano difficili, rozzi o ineseguibili». Era cascato bene: «Ho guardato con attenzione quel che mi hai mandato», rispose Joachim: «e ho fatto poche annotazioni e cambiamenti. C’è davvero molta buona musica violinistica in esso, ma se potrà essere agevole suonarlo nel calore di una sala da concerti, resta tutto da vedere». Per fortuna Brahms non si lasciò impressionare troppo, né troppo badò alle chiose dell’amico; finì il Concerto in tempo relativamente breve. Sicché il primo gennaio 1879 potè dirigerne la prima esecuzione, avendo per solista, com’era ovvio, Joachim, evidentemente rassicurato circa l’adattabilità termica del Concerto. Prima che fosse data alla stamperia la partitura, a lui dedicata (ottobre ’79), Joachim fu ancora richiesto di pareri; a testimonianza della fiducia di Brahms per l’amico resta la cadenza del primo movimento, di mano di Joachim stesso: e dev’esser stata l’ultima volta, nella storia del Concerto per strumento solista e orchestra, che un compositore abbia lasciato la cadenza in bianco come ai tempi di Mozart, per lasciare libero l’interprete di farsela come meglio gli convenisse.
Dapprima propenso ad articolare il Concerto in quattro tempi, come una Sinfonia, Brahms si orientò poi verso i classici tre movimenti, nell’alternanza Allegro-Adagio-Allegro, rinunciando a inserirvi uno Scherzo, come invece avrebbe poi fatto nel Secondo concerto per pianoforte. Nel caso del Concerto per violino, evidentemente, la «febbre della Sinfonia» (secondo la bella espressione con la quale Brahms volle tributare omaggio al rivale Bruckner) si era per il momento placata; e Brahms potè ripetere senza rimorsi la formula minore (tre tempi appunto) della composizione strumentale: che del resto non faceva che rinsaldare il vincolo, anche in senso espressivo e stilistico, con un modello che con tutta evidenza gli era ben presente, il Concerto op. 61 di Beethoven, non per caso esso pure in re maggiore. La parte del leone, in termini costruttivi e di dimensioni, toccò al primo movimento, depositario di una straordinaria ricchezza tematica, conforme all’orientamento della forma-Sonata in Brahms: quattro temi principali sono stati contati nell’ampia introduzione orchestrale, un quinto è esposto più tardi dal violino solista; le diverse funzioni espressive affidate a questi temi, pur predominando l’intenzione lirica del primo di essi, lo sviluppo grandioso cui sono sottoposti prima della cadenza e della ripresa, danno vita a un pezzo imponente, largamente ispirato a sensi di commozione, straordinariamente saturo di canto e di suggestioni.
Joseph Joachim
Il momento di distensione rappresentato dal tempo lento centrale si apre sotto il segno della cantabilità, generosamente effusa: dove si rispecchia la tendenza e l’attiiudine, che Brahms ebbe come pochi, a costruire archi melodici eccezionalmente estesi, e dove presto il violino solista si espande in arabeschi preziosi; l’impianto formale è quello di un Lied tripartito. Nel Finale Brahms torna al vecchio schema, caro ai classici nelle occasioni meno impegnative, del Rondò, costruedolo sopra un tema «all’ungherese» secondo un gusto non insolito a lui: il violino è scatenato in escursioni virtuosistiche mirabolanti, in ininterrotti e trascinanti scambi di idee con l’orchestra; la conclusione giunge con un ulteriore stringere del tempo; accentuando un piglio zingaresco non privo di humour.