Brahms Johannes
Le Sinfonie
Questo cofanetto edito dalla Deutsche Grammophon e composto da 3 CD, contiene il secondo ciclo delle registrazioni integrali delle Sinfonie di Brahms eseguito da Herbert von Karajan negli anni 1977-’78, dopo una prima integrale registrata negli anni ’60 ed una successiva edizione che verrà realizzata a fine anni ’80, sempre alla guida dei prestigiosi Berliner Philarmoniker, di cui Karajan era direttore principale nominato a vita.
Karajan si sentiva il nume tutelare della tradizione tedesca e intendeva scalzare in questo ruolo la palma precedentemente assegnata senza ombra di dubbio a Wilhelm Furtwangler. Si rivolse ripetutamente alle opere di Brahms, approfondendo nel corso degli anni lo studio delle Sinfonie (soprattutto la prima e la quarta) e determinando infine, anche grazie alle numerose esecuzioni, un paradigma ideale che ha retto negli anni e mantiene ancora oggi tutta la sua freschezza.
Per quanto mi riguarda questa registrazione rappresenta la migliore oggi esistente nel mercato, sia in confronto alle altre due integrali realizzate dallo stesso Karajan, che rispetto a quelle di altri direttori che si sono cimentati nel medesimo repertorio.
Ciò che colpisce in questo ciclo brahmsiano è il perfetto equilibrio esistente tra intensità e forza del suono da un lato, velocità e dinamica dall’altro, il tutto immerso in una tavolozza di colori che solo i Berliner diretti da Karajan sapevano rendere.
Nell’ambito dell’esecuzione delle singole Sinfonie, privilegerei la Prima, caratterizzata da grande energia e passione, la Seconda, più intensa e pastosa, e la Quarta, lirica e drammatica al contempo; ma anche la Terza è un esempio di scorrevolezza ritmica e di freschezza interpretativa. Registrazioni eseguite dal 1977 al 1978 e rimasterizzazione effettuata nel 1980. Audio ottimo. Altamente raccomandato.
Karajan interprete di Brahms – di Giorgio Pestelli
Questa registrazione delle Quattro Sinfonie di Brahms è stata realizzata da Herbert von Karajan e dai Berliner Philharmoniker nel 1977/78. Karajan era allora in piena attività su un repertorio quanto mai vario (solo nell’estate 1978, al Festival di Salisburgo, Salomè di Strauss, Don Carlos e Messa da Requiem di Verdi, Ottava Sinfonia di Bruckner, Le Sacre du printemps di Stravinski), in uno degli ultimi anni prima dell’acutizzarsi della malattia alla schiena: circostanza che peraltro non diminuì il ritmo del suo lavoro, ma certo segnò di sofferenza l’ultima fase della sua carriera.
Non si può affermare che il suo Brahms 1977/78 fosse sostanzialmente diverso da quello frequentato in altre registrazioni: le idee interpretative di Karajan restano le stesse, le differenze riconoscibili all’interno della sua attività sono naturali trasformazioni fisiologiche, non certo brusche curve del gusto; si tratterà semmai di linee di tendenza che vengono accentuate, sottolineate, soppesate con una esperienza giunta al culmine della maturazione.
Queste linee riguarderanno, in genere, un senso dello sfumato, una smaterializzazione dei composti sonori sempre più raffinata; ma tale tendenza, in Brahms, non scavalcherà mai gli argini della più salda tradizione formale per costeggiare un estetismo fine a se stesso; servirà tutt’al più ad esplorare meglio quell’imponente monumento sinfonico, illuminandolo di luci e ombre che vanno al cuore della natura creativa brahmsiana.
La compostezza della forma è la base su cui Karajan costruisce la sua rappresentazione del mondo brahmsiano. Si senta, nel primo movimento della Prima Sinfonia, come al lavoro tematico partecipino anche quei materiali, quali i salti di ottava, tradizionalmente sentiti come elementi armonici di rinforzo; nell’introduzione lenta del Finale, l’episodio in “pizzicato” ha una carica misteriosa altissima, un senso di attesa calcolato sulla vastità architettonica della conclusione. Ma anche in pagine dove l’atteggiamento costruttivo e meno perentorio che nella Prima Sinfonia, la plasticità del fraseggio è seguita fino alla precisione della singola arcata, della pausa, del minimo respiro: la testa del primo tema della Seconda Sinfonia, quella nota di volta re-do diesis-re mormorata nei bassi che sarà la chiave di volta della costruzione, l’esattezza delle piccole frasi nel primo movimento della Terza, fino alla grazia neoarcadica di fioriture e mordenti.
Herbert von Karajan
Nel primo movimento della Quarta, il contrasto tematico della vecchia forma- sonata è trasfigurato nell’opposizione di carattere fra l’infinita nostalgia delle frasi tenere (primo tema) e l’impetuoso scatto delle idee in stile zingaresco.
I templi impostati da Karajan, assai più che in Beethoven, sono quelli della tradizione tedesca, per intenderci quella che arriva a Furtwangler: campate solide, a larga apertura alare, dove ogni parte contribuisce al tutto; di cui quel tono di classica nobiltà (il Finale della Seconda Sinfonia, quasi un inno al sinfonismo classico), di severa, leale arte oratoria (nella Ciaccona finale della Quarta Sinfonia, il corale di tromboni e fagotti, e in genere tutta la scansione del tema bachiano).
Una volta stabilito questo quadro austero, Karajan può raccogliere a piene mani nell’intimismo brahmsiano, nella sua metafisica nostalgia, con una sensibilità fra le più penetranti della moderna arte interpretativa: il terreno d’elezione di questa dimensione sentimentale sono gli Andanti e gli Allegretti intermedi, ma forse ancora di più le code dei primi movimenti; dove la maestosità dell’edificio appena costruito è resa relativa da una saggezza umana che sembra dissuggellare le forme e congedarsi con rimpianto dai suoi personaggi. L’intimismo, la freschezza liederistica del secondo movimento nella Prima Sinfonia e nella Terza, la delicatezza con cui nell’Adagio della Seconda sono seguiti nota per nota i cromatismi, sono altrettanti momenti che precisano il volto del classicismo brahmsiano: tuttavia, anche sotto l’indugio più affettuoso, Karajan mantiene un fondo serio, quasi dotto, che ritrae Brahms al naturale in quella compresenza di ambivalenze sentimentali così tipica del suo animo. Anche la bellezza del suono, nella quale Karajan era maestro tanto consumato, secondo alcuni, da dimenticarci dentro ogni altro valore, in queste Sinfonie di Brahms si pone al servizio di un punto di vista più alto; si sente quasi lo scrupolo di amministrare tanti tesori: il radioso indugio del clarinetto solo alla fine dell’Andante nella Quarta Sinfonia, le tante sortite del corno solo, la calda voce dei violoncelli, la morbidezza davvero ciaikovskiana di tante flessuosità degli archi: ebbene sono tutti attimi che per quanto struggenti troveranno prima o poi l’elemento equilibratore, il corrispettivo formale che li riporta a casa.
Con tutta la vitalità che formicola fra quelle sponde classiche, Karajan, proseguendo la direzione di Furtwangler, ha tuttavia superato definitivamente la dicotomia fra il Brahms sinfonico, considerato classico e formalista, e quello cameristico, ritenuto in via pregiudiziale più sincero; oggi sappiamo, anche per merito di questa registrazione, che sono la stessa cosa, che la stessa voce di autenticità nei quattro capolavori sinfonici, come nelle grandi pagine corali, come nelle miniature cameristiche: cambia la cornice, non la sostanza poetica.
Questo è il primo ciclo completo di Brahms in CD di Wilhem Furtwangler e ricordo di essermi emozionato quando lo trovai, ma purtroppo deluso dall’audio confuso. Queste registrazioni sono state effettuate tra il 1947 e il 1954. La seconda e la quarta Sinfonia, sono le interpretazioni più dinamiche di questo cofanetto. Hanno anche un audio relativamente migliore rispetto alla Prima e soprattutto alla Terza.
Se si potesse applicare la rimasterizzazione con le nuove sofisticate tecnologie odierne la collezione sarebbe ben più accattivante. EMI ha compiuto pochi progressi finora, ma nei recenti rifacimenti di Furtwangler le cose sono migliorate (i due dischi dedicati ad alcune partiture Wagneriane e il live di Mozart a Vienna con la Sinfonia n. 40). Comunque sia queste preziose incisioni rappresentano un importante documento del passato, ma ancora degno di nota.
Sinfonia n. 1 do minore op 68
Nell’autunno del 1876 grandissima era l’attesa nel mondo musicale tedesco per la Sinfonia (la sua prima Sinfonia!) che Brahms aveva appena finito di comporre; il musicista era già famoso ovunque, ma aveva superato la quarantina senza essersi ancora cimentato nel genere strumentale più illustre,
quello che laureava definitivamente un compositore, seguito dal pubblico delle grandi città tedesche con lo stesso interesse riservato in Italia a una “prima” operistica. La strada che portava alla Prima Sinfonia era stata lunga e percorsa da Brahms con grande circospezione: dal Concerto per pianoforte op. 15 alle due Serenate del 1857-59 e, dopo una lunga pausa, alle Variazioni su un tema di Haydn del 1873; in realtà, la Sinfonia era già stata abbozzata nel 1855 e nel 1862 il primo movimento era già quasi concluso; ma il lavoro riprese lena solo dopo il tirocinio delle Haydn-Variationen, nell’estate del 1874, e arrivò in porto nel settembre 1876; ma ancora pochi giorni avanti la prima esecuzione, il 4 novembre 1876 a Karlsruhe sotto la direzione di Felix Otto Dessoff, Brahms interviene ancora sul manoscritto, ritoccando e tagliando qualcosa dai due movimenti centrali.
Chi si avventurava a scrivere una Sinfonia nella seconda metà dell’Ottocento sapeva bene che la riuscita si giocava sull’originalità con cui i movimenti erano predisposti e collegati fra loro; per colpire un pubblico smaliziato dalla fortuna del poema sinfonico e del dramma musicale wagneriano, una certa dose di “progressismo” e intellettualismo ci voleva anche per uno come Brahms, che poco si curava di quegli spauracchi e in apparenza era tutto fedeltà ai canoni classici della musica pura. Le due introduzioni della Prima Sinfonia, al primo movimento e al finale, la strategia con cui i vari elementi dello stesso finale sono disposti, erano le risposte più evidenti al problema di una grande Sinfonia tradizionale ma tuttavia al passo con i tempi. Eduard Hanslick nella trionfale recensione alla prima esecuzione a Vienna (dicembre 1876) aveva parlato di inaudite complessità e richiamato più volte il tardo stile di Beethoven, di cui la neonata composizione testimoniava la diretta continuità.
Oggi siamo in posizione prospettica un po’ più favorevole per giudicare il rapporto con Beethoven. Il do minore della Prima di Brahms, in realtà, ha poco di beethoveniano; certo ricorrono qua e là i martellamenti della Quinta e del Coriolano, ma più come episodi secondari, elementi di chiaroscuro, che come matrice vincolante; già la scelta del ritmo di sei ottavi è indicativa, il ritmo fluente della ballata romantica e delle fosche saghe nordiche; anche il riemergere dell’introduzione lenta alla fine del primo movimento è contro i principii beethoveniani del progresso attraverso il conflitto: Brahms non si libera di quel gesto introduttivo così pieno d’interrogativi (e, a suo dire, impregnato della selvaggia natura di Wissow, nella rocciosa isola di Rügen dove l’opera prese forma nel 1876), ma lo ripropone alla fine nella sua umorale indistruttibilità.
Ancora più lontano è il Beethoven del così detto terzo stile; certo, come avvertito da Hanslick e da tanti altri, il finale è impostato come il finale della Nona Sinfonia, con una drammatica introduzione che prepara l’epifania del tema principale; ma nulla è più lontano dal carattere convergente, dalla significazione multipla del vero terzo stile di Beethoven, quello dei Quartetti e Sonate, dell’esplicitezza con cui il corno rompe i vapori umidi e spessi dell’introduzione al finale, spianando la strada al tema di corale: il quale a sua volta è più addottrinato in storia della musica tedesca di quanto non sembri la melodia dell’Inno alla Gioia. Inoltre, un confronto interno con la Rapsodia op. 53 dello stesso Brahms, nella transizione alla consolatoria entrata del coro in do maggiore dopo un episodio di tormento interrogativo, suggerisce che Brahms anche per il finale della Prima lavorava su sentimenti e pagine del proprio diario interiore.
Lontanissimi infine da Beethoven i due movimenti centrali, un Andante che spinge il suo intimismo fino a mettere in campo la tenera voce di un violino solo, e un Allegretto che non è scherzo, né minuetto, né Ländler ma tutto ciò insieme, sotto il segno dell’indecisione sentimentale più privata di Brahms. Vale quindi la pena riconsiderare la famosa battuta di Hans von Bülow, sulla Prima Sinfonia di Brahms quale “Decima Sinfonia” di Beethoven, nel suo vero significato: non tanto di imitazione, derivazione, eredità e simili, come subito fu intesa, facendo torto in realtà all’intelligenza e alla finezza di un Bülow; ma di una Sinfonia che per la prima volta, liberatasi da un timore reverenziale durato mezzo secolo, non suona epigonica di quelle di Beethoven; di una Sinfonia che poteva continuare Beethoven proprio in ragione della sua maturata diversità.
Sinfonia n 2 in re maggiore op 73
IL 30 dicembre 1877, a poco più di un anno dalla presentazione al pubblico della Prima Sinfonia di Brahms, Hans Richter diresse con i Filarmonici di Vienna la prima esecuzione della Sinfonia n. 2 in re maggiore op. 73 accolta, a differenza della precedente, da un immediato e sincero successo.
Mentre la composizione dei suoi precedenti lavori sinfonici su vasta scala era stata tormentata e piena di esitazioni e di ripensamenti e aveva richiesto periodi lunghissimi (dieci anni per il Primo Concerto per pianoforte, quasi vent’anni per la Prima Sinfonia), Brahms scrisse la sua Seconda Sinfonia quasi di getto, nell’estate del 1877, durante i sempre proficui periodi di vacanze trascorsi a Pörtschach, in Carinzia. La parola fine vi fu apposta però verso la fine di settembre a Lichtental, nei pressi di Baden-Baden, dove Brahms si era recato per il compleanno di Clara Schumann, che in una lettera al celebre direttore d’orchestra Levi descrisse il suo amico compositore «in ottima forma ed entusiasta del suo soggiorno estivo».
Questa situazione spirituale (per quanto si debba essere assai cauti nello stabilire dei rapporti fra la biografia di Brahms e la sua opera) e la spontaneità e rapidità della composizione sembrano riflettersi nel carattere della Sinfonia. Il pubblico e la critica contemporanei tentarono di definire in vari modi questo carattere, così evidente ma allo stesso tempo inafferrabile: alcuni, per il suo spirito eminentemente melodico e “cantante” la definirono “l’ultima sinfonia di Schubert”, aggiornando così la denominazione di “decima sinfonia” (di Beethoven) creata da Bülow per la Prima Sinfonia di Brahms; altri la giudicarono “mozartiana” per la trasparenza della sua orchestrazione; i viennesi vollero credere che fosse ispirata alla grazia e al fascino della loro città e la soprannominarono “sinfonia viennese”; altri ancora la chiamarono “pastorale”. L’autore stesso una volta la definì «una suite di valzer», in quanto due movimenti sono nel ritmo di 3/4 (e ricordiamo che la felice nonchalance di Johann Strauss jr fu sempre il segreto rovello del meticoloso amburghese); un’altra volta Brahms ne parlò come di «una piccola sinfonia gaia e innocente». Ma forse lo spirito di questa sinfonia viene rivelato, più che da tutte queste definizioni, da un consiglio dell’autore agli orchestrali viennesi: «Per un mese prima non suonate altro che Berlioz, Liszt e Wagner: soltanto così capirete la sua tenera gaiezza».
Queste definizioni sembrano però contraddette da quanto, durante la composizione, Brahms stesso aveva detto a proposito del primo movimento a Clara Schumann e a Elizabeth von Herzogenberg: alla prima scrisse che aveva un tono «del tutto elegiaco», alla seconda che mai aveva composto un brano così triste e che «la partitura deve risultare a lutto». Questo primo movimento, cui Brahms si riferisce, è un Allegro non troppo. Inizia con un tema apparentemente semplice in cui predomina il caldo timbro dei corni: in realtà, pur nella sua semplicità, è composto da tre sezioni, ognuna delle quali avrà un proprio sviluppo. La prima è costituita dalle tre note con cui violoncelli
e contrabbassi aprono la Sinfonia, un “motto” che avrà un ruolo fondamentale anche nell’ultimo movimento; seguono una frase dei corni e dei fagotti (che poi si scinderà a sua volta in due motivi separati) e quindi il terzo elemento, affidato a flauti, clarinetti e fagotti. Solenni accordi dei tromboni introducono poco dopo un tema di transizione, dolce e gradevole, derivato dal “motto” e presentato dai violini. Il vero e proprio secondo temalo si incontra più tardi: si tratta di una melodia di grande fascino, simile a un valzer, esposta da viole e violoncelli, seguita da due motivi più marcati e vigorosi. Un accordo fortissimo dell’orchestra segna il passaggio a un episodio in cui violini, violoncelli, contrabbassi e fagotti dialogano a canone su un accompagnamento sincopato di viole, clarinetti e corni; quindi l’esposizione viene conclusa da un richiamo al motivo di valzer del secondo tema, questa volta accompagnato da un controcanto del flauto. Sebbene il movimento segua solo molto liberamente i canoni della forma-sonata, Brahms prevede a questo punto la ripetizione integrale dell’esposizione, secondo le regole classiche. Fa quindi seguito lo sviluppo, ampio e complesso ma chiaro, basato principalmente sul tema iniziale
(in particolare sul “motto”), sul tema di transizione e sull’episodio a canone; la serenità dell’esposizione viene ora sostituita da un tono espressivo più acceso, culminante in un episodio corrusco, caratterizzato da ritmi sincopati e da minacciosi interventi degli ottoni. Nella ripresa la parte iniziale viene riproposta con numerose modifiche, che riguardano soprattutto l’orchestrazione e l’accompagnamento dei temi dell’esposizione. Infine un “solo” del corno avvia la coda, in tempo tranquillo.
Il secondo movimento è un Adagio non troppo chiaramente diviso in tre parti, di dimensioni quasi identiche. Si apre con uno dei temi più belli usciti dalla penna di Brahms: un canto «tenero, malinconico, sottilmente doloroso» (Rostand), che può essere suddiviso in una prima parte introduttiva dal disegno discendente, accompagnata da un controcanto ascendente dei fagotti, e in una seconda parte più melodica, che introduce un tono più fiducioso e sereno dopo la discesa lamentosa delle prime due battute. Questo tema passa ai violini, mentre i corni introducono il secondo tema, un richiamo evocante atmosfere alpestri. La seconda parte del movimento (L’istesso tempo, ma grazioso, ma con un cambio di ritmo da 4/4 a 12/8) è anch’essa basata su due temi: il primo, affidato ai fiati, è sereno e tranquillo; il secondo, affidato ai violini, è più lirico ed espressivo. E questo tema porta a sviluppi più increspati e drammatici, con modulazioni a tonalità minori ed espressivi effetti di crescendo: al culmine, i violini ripropongono (variato) il malinconico tema iniziale, che è anche alla base della coda, con cui il movimento si conclude nello stesso tono sobrio e pacato con cui era iniziato.
L’Allegretto grazioso, quasi andantino è uno scherzo con due trii (entrambi Presto ma non assai) e si sviluppa da un’unica idea tematica, il pastorale motivo esposto ad apertura del movimento dagli oboi sull’accompagnamento degli accordi di clarinetti e fagotti e il pizzicato dei violoncelli. Nel primo trio il ritmo cambia da 3/4 a 2/4, ma il danzante tema “staccato” di violini e viole, coi suoi vivaci spostamenti d’accento, è chiaramente derivato dal tema d’apertura: inizia tranquillo e leggero, assume poi un andamento più impetuoso ma ritorna presto al carattere iniziale. Dopo una breve ripresa dello scherzo, il secondo trio (in 3/8) si richiama anch’esso al tema d’apertura, con una melodia alternantesi tra archi e fiati, cui le frequenti sincopi conferiscono un sapore vagamente ungherese. Ritorna, leggermente alterato, lo scherzo e infine il movimento si conclude con un’espressiva cadenza, indicata da Brahms come «molto dolce».
Johannes Brahms
L’Allegro con spirito, in forma-sonata, si riallaccia all’inizio della Sinfonia: si apre infatti con il “motto”, seppure ritmicamente alterato. Un inatteso e guizzante intervento del clarinetto e uno statico passaggio dei fiati sul “pizzicato” degli archi introducono l’ampio e nobile secondo tema, esposto dai violini primi e dalle viole. Conclusasi l’esposizione con la presentazione di alcuni motivi secondari e con il ritorno del primo tema, inizia uno sviluppo relativamente breve ma eccezionalmente elaborato, in cui Brahms utilizza le tecniche più sofisticate, quali l’inversione, l’aumentazione, la sovrapposizione polifonica, la contrapposizione ritmica, in cui si rivela l’amore e l’attento studio dei maestri rinascimentali fiamminghi e di Bach: questo trattamento severo e rigoroso d’un materiale tematico non particolarmente ricco si trasforma però in una manifestazione di gioia vigorosa e tumultuosa. Dopo aver ripreso simmetricamente, con numerose ma non determinanti varianti, l’esposizione dei temi, Brahms avvia la coda reintroducendo trionfalmente il secondo tema, sostenuto dai tromboni, e conclude con l’irruzione esplosiva del primo tema.
Sinfonia n 3 in fa maggiore op 90
Nel 1883, l’anno in cui compone la Terza Sinfonia, Brahms è all’apice della fama e della maturità creativa: scomparso Wagner nel febbraio di quello stesso anno, egli è considerato unanimemente il maggior musicista tedesco vivente. Dalla sua parte sono schierati non soltanto gli estimatori di vecchia data, come l’ampia cerchia di Clara Schumann e quella di Hans Richter, Joseph Joachim e quant’altri, ma anche neofiti insospettabili come Hans von Bülow, il quale nel 1879 scriveva a un’amica, la contessa von Char, che «dopo Bach e Beethoven egli è il più eminente, il più grande dei compositori». Perfino la sciocca contesa con Anton Bruckner, il suo dirimpettaio viennese, fomentata da partiti avversi più che dalla volontà dei compositori, si è placata: il mondo sembra finalmente sorridere a Brahms, sí da addolcire la proverbiale ombrosità del suo carattere. La prima esecuzione della Terza Sinfonia, avvenuta a Vienna il 2 dicembre 1883 con i Filarmonici diretti da Hans Richter, fu un trionfo, una consacrazione che stupì lo stesso autore, da sempre diffidente verso i cori di osanna profumati d’incenso. Per lui la Terza aveva un solo difetto: quello di essere diventata, subito, «sfortunatamente troppo celebre». Frase tipica della sua ironia; questa volta però non scontrosa bensì permeata di un’intima, consapevole soddisfazione.
Frutto di un Brahms talmente contento di sé da canticchiare per strada, nel corso delle passeggiate quotidiane a Wiesbaden, dove la Sinfonia nacque tra l’estate e l’autunno dell’83, i temi del lavoro – fra i quali quel motivo di tre note, fa-la bemolle-fa, che l’apre ripetendo secondo la nomenclatura alfabetica tedesca (F-a-F) le iniziali del motto giovanile “Frei aber Froh”, libero ma felice – la Terza apparve più matura e organica rispetto alle prove precedenti.
Scavalcando un momento preziosamente anomalo com’era stata la Seconda, Brahms con essa sembrò esser tornato agli intenti che avevano determinato la fisionomia della Prima, salutata da Hans von Bülow come la «decima di Beethoven»; rifondendo però quanto in quella poteva esservi stato di sperimentale e di costruttivamente dimostrativo in una superiore, più personale sintesi formale e stilistica. Al rispetto anche esteriore per gli schemi classici si univano una disinvoltura, una sicurezza assoluta nella manipolazione sinfonica dei materiali tematici in tutte le loro potenzialità. Ciò dava piena logicità alla compresenza nelle strutture tradizionali di elementi eterogenei derivati dal patrimonio liederistico come dal corale protestante: attestati coerentemente in uno sviluppo che non era meno teso e consequenziale per essere frequentemente oscillante fra impennate e ristagni, sí da conferire organicità e reciproca corrispondenza a tutte le sottili vibrazioni affettive via via proposte da un itinerario espressivo che qui, più forse che in qualunque altra delle quattro Sinfonie di Brahms, si fa sismografo sensibilissimo della percezione musicale, diario intimo di mille esperienze impalpabilmente sfumate.
Per quanto sia difficile ricondurre a un’unica istanza espressiva un’opera tanto composita dal punto di vista delle cifre stilistiche ed emotive in essa armoniosamente e organicamente conviventi, la Terza Sinfonia si configura come una creazione musicale intrisa di tragico fatalismo, di pathos e di eroismo sublimati nelle categorie della musica assoluta: crogiolo dove si fondono, in continuo ed equilibrato ma inquieto divenire, le esigenze espressive più diverse, ciascuna simboleggiata via via da diverse proposte tematiche, e soprattutto dalle diverse connotazioni ritmiche, armoniche, timbriche conferite nel corso della composizione a quelle proposte tematiche. Le imponenti, drammatiche misure iniziali del primo movimento, Allegro con brio, avviano esplosivamente l’esposizione di un materiale motivico come sempre in Brahms straordinariamente denso e nutrito, strutturato in modo da influenzare profondamente ma non univocamente tutto il decorso del movimento. Se ne differenzia nettamente il secondo tema principale, tenero e cullante quanto il primo è appassionato nel suo poderoso ondeggiare: ma la relazione fra i due motivi è mantenuta più nei termini dell’analogia che del contrasto grazie alla presenza di numerose proposte secondarie, tutte collegate ad ambedue i temi da intime relazioni di struttura, e che tendono a evidenziare più i lati comuni che non gli elementi di diversità. E in questa maniera procede tutto l’intenso tessuto compositivo del primo tempo, serrato e compatto fino alla ricomparsa, dopo molti ritorni sospesi, dell’inciso iniziale nella chiusa, con accenti placati che assumono carattere e ruolo rasserenanti.
Nell’Andante che segue, Brahms sembra dapprima indirizzarsi verso toni di contenuta partecipazione psicologica, con l’elegante lirismo di un tema tutto nordico, dalle movenze malinconicamente popolareggianti. Ma questo motivo incontra successivamente sottili modificazioni espressive, di pari passo con le manipolazioni formali determinate da un attento e approfondito uso della variazione, ancora una volta ricomponendo un orizzonte emotivo particolarmente ricco e complesso. Il ruolo di epicentro espressivo e psicologico, tradizionalmente assegnato, nella grande forma, al tempo lento, viene qui prolungato nel terzo tempo che, pur rispettando l’architettura formale dello Scherzo, stabilisce una compartecipazione con l’Andante nel creare un blocco di due movimenti dedicati alla riflessione lirico-elegiaca, e addirittura in questa direzione lo scavalca. Il tema che apre il Poco allegretto, in do minore, cantato dai violoncelli a mezza voce, è una gemma ineguagliata dell’invenzione melodica brahmsiana, fecondo tuttavia di sviluppi imprevedibili. Specialmente inatteso è l’episodio centrale del “Trio”, che viene a interrompere l’incedere nostalgico e meditativo di questo terzo tempo con un andamento di danza stilizzata presago addirittura di Mahler. Il ritorno della sezione principale delimita la costruzione perfetta e armoniosa di questo movimento, tanto più generoso espressivamente quanto più la sua intensità lirica si cela dietro forme eleganti e concise, sfumate quasi pudicamente dall’impiego impercettibilmente variegato del timbro.
Aspirazioni epiche sembrano ritornare nell’avvio del Finale, Allegro: dalle nervose curve del primo tema al corale sommesso che lo segue da presso, alla cantabilità espansiva della terza idea, si propone in breve spazio un materiale motivico densissimo, che dà vita a sviluppi incessanti, nell’incalzare di spunti, variazioni, trasformazioni e intrecci. Un divenire che spesso si fa aspro, drammatico, sempre più finalizzato a un’esigenza costruttiva monumentale in grado di governare il corso degli eventi musicali in funzione di nuove elaborazioni compositive. Alla risoluzione dei contrasti che nella forma sonata classica è scopo principale della conclusione si sostituisce qui quasi un trarre le conclusioni di un lungo dialogo a più voci, per sospenderlo da ultimo in assorta contemplazione: di cui è simbolo il ritorno del tema iniziale del primo movimento, nella dissolvenza delicatissima e solenne al tempo stesso della chiusa.
Sinfonia n 4 in mi minore op. 98
Nel 1884, appena un anno dopo la composizione della Terza Sinfonia, Brahms si mise al lavoro per quella che doveva essere la sua ultima Sinfonia, la Quarta, in mi minore, composta nelle due estati del 1884 e ’85 a Mürzzuschlag in Stiria; gli stretti rapporti intrattenuti in quegli anni con la corte e l’eccellente orchestra di Meiningen dovettero influire sulla decisione di completare così il suo patrimonio sinfonico. La prima esecuzione ebbe luogo appunto a Meiningen il 25 ottobre del 1885 sotto la direzione dell’autore; malgrado lo scetticismo di Brahms, che non la considerava un’opera di facile presa sul pubblico, la Quarta sollevò immediata ammirazione, ripetutasi puntualmente ad ogni esecuzione di una tournée in Germania e Olanda dell’Orchestra di Meiningen guidata dal suo direttore stabile Hans von Bülow. Solo a Vienna, al solito guardinga verso ogni novità, la nuova composizione fu accolta con qualche perplessità nel gennaio 1886, in una esecuzione (a quanto pare non preceduta da un numero sufficiente di prove) diretta da Hans Richter: che guidò la prima esecuzione a Londra, nel maggio dello stesso 1886, con l’opera ancora manoscritta, e che dirigerà ancora la Quarta a Vienna nel marzo 1897: questa volta con enorme successo, dovuto anche alla presenza in sala di Brahms, sua ultima apparizione pubblica pochi giorni prima della morte; seminascosto in un palco del Musikverein, fu intravisto dal pubblico e dai musicisti in orchestra e salutato da una travolgente ovazione di simpatia e affetto, forse la più trionfale di tutta la sua carriera.
La sequenza dei quattro movimenti tradizionali della Sinfonia nella seconda metà dell’Ottocento era stata sentita dai compositori più avvertiti come un limite da fondere in una cornice più originale; era stata la Nona Sinfonia di Beethoven a condizionare il campo; in qualche modo, le sinfonie “romantiche” di Schubert, Mendelssohn e Schumann prendono le mosse da prima di Beethoven e il confronto diventa diretto, tanti anni dopo, solo con Brahms; e anche se pochi come lui erano disposti a lasciarsi impressionare da pregiudizi innovativi, la sua Prima Sinfonia aveva mostrato qualche attenzione all’originalità di immediata percezione; e anche la Terza offriva un piccolo omaggio alla forma ciclica con la conclusione che riprende la fine del primo movimento. Ma per la Quarta Sinfonia gli stimoli verso novità di superficie tacciono del tutto: Wagner era morto nel 1883 e suoi ferventi seguaci, come Bruckner o Rugo Wolf, erano avvertiti con troppa distanza da Brahms per trame incitamenti alla modernità: nella Quarta Sinfonia conta soprattutto lo scavo interiore, la ricerca personale, condotta con tratti di “musica reservata” incuranti del mondo esteriore.
Il quale tuttavia penetra (e come!) nell’opera mirabile. All’epoca della Quarta Sinfonia Brahms aveva solo cinquant’anni (anche se tutti tendiamo a pensarlo più vecchio), e sotto il clima crepuscolare di Fontane o Storm, sotto la cappa della finis Austriae, si muove in realtà una esuberante energia inventiva; c’è dentro un cifrato virtuosismo, quello di toccare livelli linguistici plurimi e di tenere assieme le cose più disparate: incominciando dagli estremi della più disarmata semplicità (l’esordio del primo movimento) e del più complesso lavoro compositivo (le variazioni sul tema di Ciaccona nel finale). Con suprema sprezzatura la semplicità è esibita (l’opera doveva incominciare con due accordi introduttivi, poi soppressi a favore dell’immediata apparizione del tema orecchiabile), mentre la dottrina è nascosta: il tema della Ciaccona, derivato
dalla Cantata BWV 150 di Bach, compare non meno di trenta volte, ma l’attenzione dell’ascoltatore non è mai convogliata lì sopra.
Scoperta cantabilità e contrappunto bachiano sono solo due poli del plurilinguismo della Quarta; un altro è il carattere zigano-ungherese di pizzicati e ritmi sincopati (nel primo movimento), miracolosamente assorbito nell’equilibrio del sonatismo classico che, diversamente dalle altre tre Sinfonie, impone la sua struttura anche ai due movimenti centrali. Anche senza il sensuoso timbro del corno inglese, anche senza il fascino delle arpe, l’orchestra della Quarta Sinfonia in alcuni momenti sembra preannunciare Debussy per il carattere di macchia sonora ottenuto con la scrittura intrecciata, in pianissimo, di viole e violini divisi; nel meraviglioso Andante moderato, dopo l’appello del corno, quasi eco dell’età dell’oro romantica, nessun nuovo suono si fa avanti senza che l’ultimo della frase precedente sia svanito, in un trascolorare di conclusioni dilazionate, nota su nota, timbro su timbro.
Il finale è l’esempio sommo di quella tecnica brahmsiana che Schönberg chiamerà della «developing variation» (“variazione sviluppante”, oppure, parafrasando: di accumulazione e fusione fra i due principi diversi dello sviluppo e della variazione), convalidandola con il crisma della modernità più scaltrita; ma in Brahms non c’è ombra di intellettualismo combinatorio e il suo traguardo (come per altro nei finali della Sinfonia “Jupiter” di Mozart e della “Eroica” di Beethoven) sarà quello di collegare momenti poetici pregnanti e in sé conclusi con la forma ternaria generale, ribadita a un certo punto dallo scoccare di una “ripresa”. Piuttosto, molte e più profonde novità si nascondono in particolari metrici: come attestano alcune frasi, specie degli archi, che in appassionati intervalli ascendenti di settima e ottava, tendono a slanciarsi oltre la gabbia della battuta in 3/4, allacciandosi in enjambements di grande respiro. Essere “moderni” non era una preoccupazione per il Brahms della Quarta Sinfonia: stringere assieme cultura e spontaneità, passato e presente, caratteristico e universale era un campo più allettante, e la felicità stilistica di quella sintesi resta una testimonianza non più superata dall'”eroismo borghese” di Brahms.