Anton Bruckner
Messe – Mottetti – Salmo 150 – Te Deum
Registrazioni eseguite dal 1963 al 1972. Audio buono. CD di difficile reperibilità. Altamente raccomandato.
Anton Bruckner: composizioni sacre per coro – di Wolfgang Domling
Delle composizioni di Bruckner sono note al grande pubblico solamente i capolavori sanciti dalla critica ufficiale: le nove Sinfonie e, assai più difficili da sentirsi in concerto, le grandi composizioni sacre (tre Messe, Te Deum, Salmo 150). La prima di queste opere fu scritta nel 1864, quando Bruckner aveva già varcato la soglia dei quarant’anni. Pressoché sconosciute sono invece tutte quelle composizioni “giovanili” scritte prima di questa data critica (fra cui: due Sinfonie, tre Messe, un Magnificat ed un Requiem); altrettanto ignorate dal pubblico, fatta forse eccezione per alcuni Mottetti e la cantata Helgoland, sono tutta una serie ponderosa di opere corali sacre e profane (vale a dire circa trenta Mottetti ed all’incirca una sessantina di composizioni per coro maschile) e tutta la sua musica da camera.
Gli anni 1863/64 segnano dunque una svolta decisiva nella attività compositiva di Bruckner. Egli aveva iniziato la sua carriera nel 1841 come maestro di scuola, in una piccola cittadina di provincia; qui compose musica secondo le necessità del coro della chiesa, non perché sentisse in sé una vocazione artistica, ma semplicemente perché scrivere musica per la Messa era una delle tante mansioni del maestro di scuola.
L’arte di Bruckner trae dunque origine da questa tradizione musicale contadina – che d’altronde annovera dei precedenti illustri quale Michael Haydn, Mozart e Schubert – a cui venne in soccorso lo studio zelante dei trattati di contrappunto e di armonia.
Negli anni successivi, ormai organista del Duomo di Linz (1855/68), Bruckner continuò sempre a studiare la teoria musicale; dapprima a Vienna per sette anni sotto la guida di Simon Sechter, uno dei più conclamati autori di trattati di teoria musicale, poi a Linz con il giovane violoncellista Otto Kitzler.
Ma seguitò pure a sostenere esami di musica ed a sottoporre le proprie opere alla critica di “maestri” famosi, in una ricerca pressoché affannosa di attestati e patenti d’abilitazione, senza che tuttavia nelle sue composizioni trasparisse ancora nulla più che mera dottrina e sentore di banchi di scuola. “Nessuno dei grandi Maestri è stato più scettico e timoroso nell’intraprendere la propria carriera di Anton Bruckner”, dice giustamente Friedrich Blume a tal riguardo. Dopo ripetuti e vigorosi incoraggiamenti Bruckner sentì finalmente di poter camminare con le proprie gambe. Nel 1863 infine ottenne da Kitzler una “solenne assoluzione” e poté sospendere definitivamente le lezioni; per il musicista titubante fu anche di grande sostegno morale l’amicizia di Moritz von Mayfeld, un ufficiale governativo di Linz dotato di buona cultura generale e di una solida preparazione musicale, il quale gli aprì nuovi e più ampi orizzonti facendogli conoscere tra l’altro la musica di Wagner. Tuttavia l’intimo dissidio tra una volontà artistica autonoma e l’autoimposizione di un quasi religioso rispetto delle regole delle “auctoritates” scolastiche non abbandonerà mai più Bruckner per tutto il resto della sua vita.
E probabilmente proprio a questo dissidio interiore si deve far risalire quella profonda crisi spirituale che lo colse subito dopo la sua “liberazione”.
La prima composizione in cui Bruckner dà atto di essersi fatto un suo stile personale è la Messa in re minore. Essa fu composta nel 1864 nel giro di pochi mesi, subito dopo la Sinfonia in re minore (la “numero 0”, come poi la chiamerà il compositore).
Inizialmente la Messa doveva essere eseguita il 18 agosto – genetliaco dell’imperatore Francesco Giuseppe – ad Ischl, ma Bruckner non fece in tempo a finirla per quella data, cosicché la prima esecuzione si tenne per la festa di Santa Cecilia nel vecchio Duomo di Linz. A dirigere fu Bruckner stesso, il quale aveva curato personalmente anche tutte le prove d’orchestra.
Quando poi la Messa fu rieseguita in concerto il mese successivo, l’accoglienza
da parte del pubblico fu entusiastica; grazie soprattutto alle numerose critiche positive della stampa Bruckner riuscì per la prima volta nella sua carriera di musicista a farsi conoscere al di là delle ristrette mura cittadine.
(Persino un quotidiano viennese pubblicò un breve commento del concerto; era firmato da Eduard Hanslick, proprio colui che più tardi sarebbe divenuto uno dei più accaniti detrattori del compositore).
Eugen Jochum
La Messa in mi minore fu composta subito dopo, nell’autunno del 1866; nel lasso di tempo che intercorre tra queste due opere si colloca invece la Prima Sinfonia. La Messa era stata pensata fin dall’inizio per la consacrazione della cappella votiva del Duomo di Linz, i cui lavori erano stati iniziati nel 1862 dal Vescovo della città, Rudigier; poiché i lavori si protrassero ben oltre il previsto (la cappella fu consacrata solamente nell’autunno del 1869) la Messa fu eseguita all’aperto.
Ciò deve essere servito a Bruckner soltanto come pretesto; in realtà il fatto che l’orchestra sia costituita da soli strumenti a fiato non implica assolutamente che alla base della composizione vi fosse un’idea di “musica all’aperto”. Nel manoscritto della versione definitiva (1882) si leggono all’altezza del Kyrie e del Sanctus delle precise indicazioni dell’autore da cui si comprende come in realtà nelle sue intenzioni il tempo debba essere il più lento possibile.
Albert Schreyer, che nel 1885 diresse la prima esecuzione di questa nuova versione della Messa, ebbe a dire al proposito: “Il Sanctus, che ha un inizio puramente vocale pur restando rigidamente polifonico, alla maniera di Palestrina, doveva essere nelle intenzioni del Maestro ancora più lento. Egli stesso si rese però conto del fatto che io non avrei potuto rallentare ulteriormente il tempo dell’esecuzione senza incorrere nel rischio che la tonalità risultasse piuttosto incerta e vacillante”.
Ed in effetti nelle lunghe sezioni “a cappella” l’intonazione pone ai cantanti non pochi problemi; il che forse è anche il motivo per cui la Messa in mi minore non fu più eseguita durante la vita di Bruckner.
Nell’autunno del 1867, subito dopo aver ultimato la composizione della Messa in mi minore, Bruckner iniziò a scrivere la sua ultima Messa, quella in fa minore. Era appena uscito da una grave crisi nervosa, dovuta al troppo lavoro e ad uno stato di depressione perenne; dopo una lunga permanenza in una casa di cura a Bad Kreuzen era comunque riuscito a guarire dalla crisi. Nonostante i medici gli avessero ordinato tassativamente di non rimettersi a lavorare immediatamente, Bruckner volle iniziare subito la composizione della Messa, non appena fu dimesso dalla casa di cura; in parte come forma di ringraziamento al Signore (“non poteva fare altrimenti!”), ma soprattutto per non venire meno all’impegno assai prestigioso che aveva assunto con la Cappella Imperiale nel Hofburg di Vienna.
Nell’autunno del 1868, poche settimane prima del suo trasferimento nella capitale austriaca, la Messa era pronta. La prima esecuzione ebbe luogo a Vienna nel giugno 1872 sotto la direzione del compositore – ma non nella Cappella di Corte, bensì, per far fronte ad un maggior concorso di pubblico, nella Chiesa degli Agostiniani.
Bruckner ottenne lodi e riconoscimenti da ogni parte; ancora in età avanzata amava raccontare pieno d’orgoglio che subito dopo la prova generale Joseph Hellmesberger, l’allora maestro di cappella di corte, si era precipitato da lui ed aveva gridato: “Per me esistono solamente due Messe: questa è la Missa solemnis di Beethoven!”.
Le tre Messe furono riprese da Bruckner nell’estate del 1876 e sottoposte ad una “revisione ritmica”, come egli ebbe a dire; Bruckner fece cioè un vero e proprio lavoro di verifica e di rettifica allo stesso tempo dei singoli periodi musicali, conteggiando accuratamente il numero delle battute – la struttura a periodi musicali distinti è un procedimento compositivo tipico di Bruckner – in modo tale da ottenere la “giusta” lunghezza delle singole frasi (vale a dire ciascuna di
otto battute) ed inserendo all’occorrenza delle battute o delle pause aggiuntive (persino all’inizio del movimento!) o al contrario accorciando i periodi “sovrabbondanti”.
In seguito Bruckner apportò delle ulteriori varianti alle Messe, in alcuni casi riprendendo in mano le stesse opere più di una volta. La presente incisione si basa sulla cosiddetta “versione definitiva” dell’edizione integrale dell’opus bruchneriano, vale a dire la versione cronologicamente più avanzata tra le differenti varianti lasciate dall’autore.
Symphonieorchester e Choir des Bayerischen Rundfunks
Dopo la Messa in fa minore Bruckner si dedicò quasi esclusivamente alla composizione di Sinfonie, scrivendo ancora solamente uno sparuto gruppo di opere sacre.
Il Te Deum, iniziato nel 1881 mentre ancora lavorava alla Sesta Sinfonia e terminato tre anni più tardi in una versione differente da quella originaria, fu definito da Bruckner stesso il suo “massimo orgoglio”. Pare che egli volesse dedicarlo al Signore, in segno di gratitudine, “dato che”, come ebbe a dire in un misto di sarcasmo e di devozione, “ai miei precursori non è ancora riuscito di uccidermi”. (Bruckner alludeva qui all’astio che nei suoi confronti dimostravano le frange più estremiste dei fanatici brahmsiani, i quali a Vienna gli dettero del vero e proprio filo da torcere).
L’opera fu eseguita per la prima volta nel maggio 1885 sotto la direzione dell’autore. Nonostante l’orchestra fosse sostituita da due pianoforti il pubblico andò in visibilio; quando poi fu eseguito per la prima volta con l’orchestra (gennaio 1886, con la direzione di Hans Richter), il Te Deum ebbe un’accoglienza a dir poco trionfale. Nei dieci anni che il compositore rimase ancora in vita, esso fu eseguito ben trenta volte, buona parte delle quali all’estero, divenendo pertanto con la Settima Sinfonia una delle opere di Bruckner più eseguite.
Il Salmo 150, al contrario, non nacque da un’esigenza interiore: verso la fine del 1891, dopo che Brahms aveva rifiutato l’incarico, Richard Heuberger si rivolse a Bruckner per la composizione di “un inno oppure una cantata” per il concerto d’apertura di una “Esposizione di Teatro e di Musica, da lui ideata. Bruckner scelse il Salmo 150 “per via della sua particolare solennità” e terminò la composizione nel giugno 1892. Essa fu eseguita per la prima volta solamente nel novembre dello stesso anno, in un concerto della Società degli Amici della Musica.
Il pubblico si dimostrò piuttosto tiepido nei confronti del lavoro, ma la colpa fu da ascriversi in buona parte allo scarso numero di prove e al programma del concerto assai eterogeneo: a causa dell’uso delle voci al limite delle capacità umane, la critica parlò di “opera ineseguibile” e di “composizione corale di pura utopia”.
I dieci Mottetti presenti in questa edizione sono tra i più famosi e rappresentano forse quanto di meglio Bruckner abbia scritto nel campo della musica sacra. Al periodo di Linz risalgono l’Ave Maria, opera assai singolare da un punto di vista stilistico e che prelude già allo stile della maturità, e l’Offertorio Afferentur regi, scritto per il coro di San Floriano (entrambe le composizioni sono del 1861). Il Graduale Locus iste – che fa parte della liturgia di consacrazione della chiesa – fu eseguito per la prima volta nel 1869 insieme alla Messa in fa minore in occasione della consacrazione della cappella del nuovo Duomo di Linz; probabilmente sempre in questa occasione fu eseguito anche il Pange, lingua (1868), lavoro che sfrutta l’antico modo frigio del Gregoriano.
In seguito a Bruckner fu chiesto ancora di scrivere per il Duomo di Linz: nacquero così il Mottetto mariano Tota pulchra es, Maria (1878), per il venticinquesimo anniversario dell’insediamento di Rudigier alla cattedra episcopale della città danubiana – come si ricorderà era stato proprio Rudigier a dare l’avvio nel 1862 alla costruzione del nuovo Mariendom – o ancora l’Ecce sacerdos magnus, per il solenne corteo vescovile in occasione del centenario della istituzione della diocesi (1885).
Ma anche San Floriano, l’abbazia agostiniana in cui aveva svolto la sua prima attività di compositore, rimase sempre strettamente legata alla vita di Bruckner. Per il locale Coro maschile del Convento degli Agostiniani compose tra l’altro il Graduale Os justi (1879, per la ricorrenza del fondatore dell’ordine, Agostino) e l’inno Vexilla regis, per la liturgia del Venerdì Santo; questo fu anche il suo
ultimo Mottetto, scritto mentre stava lavorando al Salmo 150.
La Messa in re minore e quella in fa minore, a prescindere per il momento dalle loro profonde differenze di stile, si collocano interamente nel filone del Classicismo e del Romanticismo viennese, da Haydn a Schubert per intenderci.
Anton Bruckner
Esse non solo riprendono dai classici la disposizione per Sezioni staccate assegnate rispettivamente ai solisti o al coro, dando inoltre “a priori” un carattere ben preciso ad alcune parti dell’ordinarium missae (il Benedictus ad esempio) – per limitarci a questi due soli punti – ma allo stesso tempo esse desumono dai loro modelli anche un certo numero di soluzioni stilistiche, quali ad esempio la forma tripartita del Credo (con l'” Et in Spiritum Sanctum” in funzione di ripresa variata del “Patrem omnipotentem”), i fugati a volte piuttosto lunghi alla fine del Gloria e del Credo (che particolarmente nella Messa in fa minore ricordano in modo sorprendente quelli della Missa Solemnis di Beethoven), infine la riesposizione nell’ultima ripetizione dell’Agnus Dei del materiale musicale del Kyrie (il “dona nobis pacem” della Messa in re minore combina il finale del Kyrie con quello del Credo, “Et vitam venturi saeculi”, sortendo un effetto di profonda commozione religiosa).
Ma nelle Messe non meno spiccati sono anche quei tratti stilistici riconducibili direttamente al mondo delle ultime Sinfonie bruckneriane: ad esempio, nel Gloria della Messa in re minore, quelle figurazioni di accompagnamento per scale (diatoniche o cromatiche) e per accordi spezzati, per lo più in ottavi o in quarti; quelle violente “macchie sonore”, statiche e solenni allo stesso tempo, che fanno irruzione ad esempio nell'” Et resurrexit” della Messa in fa minore o ancora nelle ultime battute del Gloria e del Credo, dove l’elemento “trainante” è costituito dall’aggiunta di fanfare di ottoni – procedimento tipico dell’ultimo movimento delle Sinfonie bruckneriane.
L’assai sobria polifonia “a cappella” della Messa in mi minore e dei Mottetti si pone solo apparentemente in clamoroso contrasto con questo stile sinfonico. Anche se nel Kyrie o nel Sanctus della Messa in mi minore a volte può venire in mente Palestrina, bisogna riconoscere tuttavia che Bruckner non fa affatto una fotocopia identica dello stile palestriniano, come al contrario ambivano i cosiddetti “ceciliani” (F. X. Witt, F. X. Haberl ed altri).
Questi compositori si fecero promotori di una riforma della musica sacra cattolica che ha finito per dare alla luce fino al nostro secolo ad un’infinità di Mottetti assolutamente simili fra loro e tutti piuttosto mediocri da un punto di vista musicale. In Bruckner mancano del tutto gli elementi basilari dello stile del Palestrina, quali ad esempio l’imitazione come colonna portante del discorso musicale ed il trattamento assai rigido della dissonanza.
Ciò che in questa musica ricorda Palestrina (questa almeno era l’impressione dei contemporanei di Bruckner) è piuttosto un effetto complessivo assai simile: un movimento delle voci in una sorta di spazio irreale, un flusso ininterrotto senza increspature, il fitto intreccio polifonico in un pacato alternarsi di movimenti ascendenti e discendenti.
Ma Bruckner, pur riallacciandosi intenzionalmente ai maestri romani e veneziani del primo Seicento, non esclude affatto dal suo orizzonte l’armonia moderna: il risultato di ciò è che egli, al contrario dei cultori del Cecilianesimo, non cercò strenuamente ed angosciosamente di fare la copia perfetta e fedele
della musica palestriniana, bensì fu in grado di renderne lo spirito in una felice fusione di arcaismi e di mezzi compositivi del 19o secolo. Non ci deve stupire allora il fatto che il Cecilianesimo poco si conciliasse in realtà con la musica di Bruckner.
Quando negli anni Ottanta F. X. Witt pregò il compositore, ormai troppo importante per non essere consultato, di voler dare un proprio contributo all’allegato musicale di “Musica sacra” (così si chiamava la rivista del movimento ceciliano) si sentì poi in dovere di “correggere” secondo la propria ottica il Pange, lingua del 1868 che Bruckner gli aveva dato da pubblicare; Witt cioè attenuò tutte le durezze armoniche, facendo così andare su tutte le furie il compositore.
Nella musica di Bruckner non si trovano solamente tratti stilistici della musica del 16o secolo – animati come si è detto da un nuovo spirito vitale – quali il contrappunto e l’uso delle tonalità ecclesiastiche, ma anche echi quantomai originali della musica dei secoli ancora anteriori. Ad esempio nel Te Deum, nelle parti solennemente declamate, si trovano delle soluzioni armoniche assolutamente “sbagliate” secondo la teoria musicale del 19o secolo: mentre le voci dei cantanti procedono all’unisono in un declamato dalle cadenze grandiose (simbolo allo stesso tempo dell’unità e dell’intensità della fede, come del resto era già nel Gregoriano: “una voce dicentes”) l’orchestra esegue una serie di triadi prive di legame armonico fra di loro, o addirittura accompagna le voci con sequenze di accordi vuoti (vale a dire accordi di quinta e di ottava in cui viene omessa la terza), in modo tale che spesso, dove l’andamento si fa più melismatico, si vengono a determinare delle forti dissonanze (se non una vera e propria eterofonia).
Tutto ciò ricorda fortemente il principio della sovrapposizione dei registri nella musica organistica, ma ancor più fa pensare alla grande musica liturgica dei secoli 12o e 13o, agli organa di Notre-Dame. E forse quell’impressione di distanza e di sublime solennità che si ricava all’ascolto di questa musica (effetti consimili, ma spesso ancor più complicati, si ritrovano anche nelle Sinfonie di Bruckner) deriva in ultima analisi dalla reale distanza cronologica di tali processi compositivi.
Da dove Bruckner abbia tratto simili principi musicali rimane ancora in buona parte un enigma da risolvere.
Egli conosceva infatti la musica di Palestrina e dei suoi contemporanei, ma non conosceva affatto la musica medioevale, che a quel tempo non era ancora stata fatta oggetto di indagine scientifica.
Una spiegazione sufficientemente plausibile della straordinaria somiglianza di processi compositivi così distanti nel tempo non è stata ancora data; e parlare, come si è fatto, di “fenomeno carsico”, di correnti sotterranee che riaffiorano nella musica di Bruckner, o ancora di “componenti arcaiche” della costellazione
psichica del compositore, ci sembra implichi una serie di problemi storico- filosofici ben al di là dell’ambito musicologico. Se studi storico-musicali più dettagliati potranno in futuro gettare nuova luce sulla questione, la cosa rimane ancora da vedersi.
Eugen Jochum
Pertanto collocare l’opera di Bruckner all’interno di una storia della musica del secolo 19o può essere fatto per il momento solo a costo di rinunciare a qualsiasi prospettiva totalizzante. E sempre più questo compositore sembra, per parafrasare Dante, “colui che fece parte per sé stesso”, un genio isolato di cui è impossibile delineare una qualsivoglia genealogia.
A tutto ciò si aggiunge un’estrema difficoltà nel definire la stessa personalità di Bruckner. Egli si presenta infatti come l’antitesi puntuale dell’artista ottocentesco, quale potevano essere ad esempio Berlioz, Liszt oppure Wagner. In confronto ai suoi contemporanei ciò che ci colpisce di più in Bruckner è l’assoluta mancanza di qualsiasi legame con il mondo letterario; e ciò sia per quanto riguarda la sua musica, che esclude categoricamente ogni intento programmatico, che la sua stessa persona.
Bruckner infatti non fu un uomo di vaste letture, al contrario: fu spesso rimproverato di essere un “illetterato di campagna” ed egli stesso scrisse poco o nulla, nemmeno dei commenti o delle spiegazioni alle proprie composizioni (sono rimasti di suo pugno solo alcune brevi affermazioni dal carattere aneddotico e di un’ingenuità disarmante).
Ciò che ancora distingueva Bruckner dal tipico artista romantico sicuro di sé era l’estremo timore che le sue opere, così ardite da un punto di vista formale, potessero essere “sbagliate” e la sua incapacità a prendere le distanze dal modello non solo artistico, ma persino umano delle sue “auctoritates”, atteggiamento che solamente negli ultimi anni di vita cedette il posto ad un maggiore senso dell'”Io”. Bastava praticamente sollevare la benché minima obiezione perché Bruckner “correggesse” subito le sue opere; addirittura era solito sottoporre all’esame di musicisti più giovani di lui quei passaggi che riteneva particolarmente azzardati, chiedendo loro conferma della “giustezza” di ciò che aveva scritto.
Bruckner mantenne fino alla vecchiaia questo suo atteggiamento di reverenza e di sottomissione nei confronti dei “Maestri” – si pensi al suo rapporto con Richard Wagner – nonché quella sua “pietas” religiosa un poco infantile ed ingenua, inquinata a tratti da una sorta di paurosa superstizione. In realtà Bruckner soffriva effettivamente di disturbi nervosi.
Nel 1867, durante una delle sue crisi depressive, fu colto da una particolare mania numerica mai del tutto superata (“si sentiva costretto in modo irresistibile a contare tutto ciò che avesse davanti agli occhi, le finestre delle case, le foglie degli alberi, il lastricato delle strade, i ciocchi delle cataste, le stelle del cielo e così via”), che probabilmente deve aver generato quella smania di precisione nel conteggio delle battute che diverrà manifesta nella revisione delle sue opere (il numero come garante dell'”ordine”).
Anche il singolare erotismo infantile di Bruckner è facilmente ascrivibile alla sua psicologia nevrotica; a venti come a settant’anni egli si innamorò sempre – e assai di frequente – di belle ragazze tra i quattordici e i sedici anni, lasciandosi andare ad una sorta di civetteria nei confronti di quel “demone interiore”, così lo chiamava, che senz’altro era frutto delle sue rigide norme morali.
Troppi tratti del suo carattere lasciano intravedere dunque delle profonde incrinature in quella integrità morale che gli derivava dalla sua origine e dall’educazione, l'” Io” inconscio di Bruckner doveva essere assai più sfaccettato, labile e caotico di quanto il compositore potesse ammettere a sé stesso.
Agli enigmi posti dalla sua opera, l’estrema difficoltà cioè di collocarla in una prospettiva storica unitaria, si sommano così quelli di una personalità lacerata da un’insanabile dicotomia, in cui un’indomita genialità creativa ed un’estrema
ingenuità ai limiti della dabbenaggine sembrano elidersi a vicenda.
Questa peculiarità del carattere di Bruckner permise ad una critica fortemente orientata ed incline alla metafisica di fagocitare facilmente la sua opera. Bruckner divenne il “giullare di Dio”, il “potente edificatore di duomi”, il “più mistico dei compositori”; ma anche il “musicista dello spirito tedesco per eccellenza”. E più di un reazionario, politico o religioso che fosse, poté fare di Bruckner il paladino delle proprie idee. Ad esempio nella monografia bruchneriana di Ernest Kurth del 1925 si leggono affermazioni del genere, a proposito della Messa in re minore: “Dalla pace infinita dell’animo redento in Dio scaturisce potente ed irrefrenabile un inno mariano di sublime dolcezza ed un misticismo profondo di chi ha accolto in sé il Salvatore. L’umiltà di Bruckner, la sua timorata pietà e le sue estasi di Gloria, il suo spirito illuminato e la sua grave pensosità, il suo furore divino ed i suoi silenzi dimentichi del mondo; tutto ciò trova espressione compiuta nella sua musica meravigliosa, pura ed impalpabile”.
Ed un musicologo austriaco scrisse nel 1939, un anno dopo l'”Anschluss” hitleriano, parlando dell’Ottava Sinfonia: “Quanto al significato più profondo di questa Sinfonia si pensi quì più brevemente al mito di “Michele tedesco”, che dal 1885 Bruckner aveva meravigliosamente fatto suo.
La sua trasfigurazione è simboleggiata dal Finale, con il contrappunto di chiusura che vede impegnati tutti i quattro temi della Sinfonia: un vero capolavoro d’arte e di misticismo. La giusta interpretazione di questo mito mi sembra consista nell’idea della Grande Germania come atteggiamento storicistico dello spirito”. Dopo il 1945 invece si preferì tornare a parlare del “sacro” nella musica di Bruckner. Non bisogna mai dimenticare dunque che tutta la letteratura bruchneriana più che del suo oggetto specifico si parla di alcuni capitoli della storia del pensiero tedesco. Una corretta comprensione di questo compositore e delle sue opere che sia fondata da un punto di vista storico rimane a tutt’oggi ancora al di là da venire.
(Traduzione: Marco Marica)