Anton Bruckner

Sinfonie n. 8 & 9 – Te Deum

Anton Bruckner è stato un autore frequentato per una vita da Herbert von Karajan. Questi due video documentano due concerti, entrambi alla testa dei Wiener Philharmoniker, degli anni d’oro di Karajan. Alla fine degli anni Settanta il direttore salisburghese aveva una maestria insuperabile e una capacità di plasmare le grandi masse orchestrali (necessaria per Bruckner) che ha dello sbalorditivo. E’ perfino superfluo soffermarsi sulla perfezione e sull’espressività dei dettagli.
L’Ottava Sinfonia è stata eseguita nella chiesa del Monastero di Sankt Florian, una sorta di “tempio” laico consacrato a Bruckner. Karajan vi aveva già diretto da giovane. Qui è documentato un ritorno ai piedi della tomba di Bruckner, per la più spirituale (il che è tutto dire) delle sinfonie del compositore austriaco. La Nona Sinfonia e il Te Deum sono invece stati eseguiti nella grande Sala d’Oro di Vienna, nel corso di uno strepitoso concerto. Il magnetismo di Karajan e la bellezza suprema delle esecuzioni creano un’atmosfera magica in tutte le esecuzioni. Video e audio eccezionali. Imperdibile!

Sinfonia n. 8 in do minore

L’Ottava Sinfonia, la più vasta ed ambiziosa opera concepita da Bruckner, gli richiese l’impegno creativo più strenuo: sei anni, dal 1884 alle revisioni del 1887 e del 1890 (significativa l’annotazione apposta sullo schizzo del Finale: “Alleluja!”). Era forse la concomitanza di Brahms nell’ambiente artistico viennese a sollecitargli cimenti più meditati, ma lo spingeva altresì l’ambizione nei confronti di un’opera che voleva e sentiva grande (anche dal punto di vista tecnico: bisognerà arrivare a certo Mahler per sorpassare questo gigantesco organico strumentale).
La caratteristica essenziale dell’Ottava consiste proprio in questa dilatazione e quindi nello smantellamento di una concezione sinfonica esperita nelle opere precedenti. Da cui questa Sinfonia non si allontana quanto ad impostazione formale: ma ne esaspera anzi tutto la suddivisione dei tre temi, che qui prendono a configurarsi in gruppi, in coordinazioni motiviche atte a cementare maggiormente il discorso musicale, ad accrescerne anche l’intensità espressiva, nonché, innegabilmente, a debilitarne la logica costruttiva. Ma questo frazionamento minuto del materiale tematico, questa sorta di mosaico che accerta le vecchie simmetrie strutturali, tende a superare nettamente l’impiego del Leitmotiv wagneriano: i recuperi incessanti del materiale musicale si fanno cifre quasi gestuali, condotte su continue “varianti”, come poi avverrà nel sinfonismo di Mahler. Le innovazioni tematiche avvengono così all’interno di battute costantemente uguali, ove la simmetria è simbolo di libertà, anche se spesso attentata da infiltrazioni fin onomatopeiche, come nel passo regolare del “Michele tedesco” (nello Scherzo) o nel fastidioso ansito dell’Adagio.
Proprio in questa costanza, in questo ordinato inserimento nella tradizione, Bruckner attua una prassi liberatoria dei temi e quindi della forma: ove è chiaro che l’ampiezza non deriva da un eccesso esasperato di retorica narrativa né da inceppi ed arresti inventivi: anzi, tutto pare svolgersi in un campo più vasto, in un disteso clima creativo, elementare e logico. Ancor più che nella Nona Sinfonia, qui notiamo il trapasso da una sensibilità prettamente romantica (presente nella Settima) ad un’espressione liberamente primigenia, impietrita o lacerata, ma sempre generosamente aperta, come conscia di un tramonto: avvertibile nell’incantato favoleggiare (nei primi due movimenti) o meglio in certe estenuazioni (nell’Adagio e nel Finale) che rispecchiano l’entropia cosmica, ma anche in certi minuti ritmi naturali, quali il battito cardiaco che chiude il primo tempo: insomma, tutti distacchi verso il “negativo”, salvo che la musica crea sempre distanze, dischiude sempre attese, oltre le conclusioni pacificate o vittoriose, ma provvisorie. Proprio perché Bruckner non risolve l’aporia formale della Sinfonia, non la compromette: l’aggrava semmai di pesi dottrinali (scientia inflat, si sa), ma la sua incorruttibile sincerità non gli consente intonazioni uniformi, così egli articola il fatale fondo “tragico” (uno degli appellativi correnti di quest’Ottava) con cadenze ottimistiche, discrete od effusive. Quindi rappresenta integralmente il suo temperamento come non mai: secondo coscienza e proprietà di giudizio veramente nuovi, quasi inattesi. Una dimensione spirituale, questa, ben colta da Hugo Wolf dopo la prima esecuzione viennese di Hans Richter nel dicembre 1892, impressionato da questa “creazione di un gigante”.
Il primo Allegro moderato enuncia un tema fosco e minaccioso, proposto sommessamente dai bassi sotto un tremolo di violini, ove il vuoto delle pause accentua questo avvio contrastato e tormentoso, tosto ripreso dal violento peso drammatico di tutta l’orchestra. Qui l’atmosfera tesa ed irrequieta scopre, proprio nei silenzi, una lotta sotterranea elementare, una vibrazione ancestralmente immaginosa. La componente lirica del secondo tema non acquieta la precedente tensione, anzi intensifica, nella linea ascendente della melodia, un clima d’ansia implacata. Che porta al cupo e concitato terzo tema, ove l’aspro e contrastato impasto timbrico è coadiuvato da una tessitura di ardite dissonanze. Proprio nell’acme di questo episodio, la fanfara apparentemente liberatrice vale l’annuncio preciso di morte, come ha spiegato l’autore scrivendone al grande direttore Weingartner nel gennaio 1891. Questo è il movente ineluttabile di tutto il pezzo, come già la continua scansione ritmica all’inizio della Sesta Sinfonia: esso ritorna nell’elaborato sviluppo, forse il più magistrale passo sinfonico di Bruckner, e riappare perentorio nella conclusione, fatale marcia sul rullar di timpani. Ma il dramma ha il suo epilogo nella dissolvenza e nel silenzio, per la prima ed unica volta nell’intero sinfonismo bruckneriano: scandito da spezzati respiri sul ritmo del “Totenhur” (notava lo stesso musicista), si spegne nella desolazione, quasi notturno espressionista spopolato di romantici astri.

Francesco Giuseppe I

Il carattere fantasioso dello Scherzo (anteposto all’Adagio, come nella Nona) ha anch’esso, nel suo caparbio moto quadrato ed elementare, una destinazione naturalistica: ma più chiaramente allusiva, se le linee discendenti dei violini sul motivo disteso delle viole, poi i richiami lamentosi e sperduti dei corni e più avanti gli umori bandistici degli ottoni qualificano un paesaggio silvestre e fin alpestre, nel gioco misterioso di echi rarefatti e spezzati. Il tema, inoltre, trasfigura affettuosamente la cifra dell’individuo tedesco, onesto e corrivo, saggio e fantasticante, il “Deutsche Michel”. Da questi tratti di acuta ironia (o forse autoironia), la musica trae una qualità maliziosa ma anche sanguigna, placata nel Trio da un’ispirazione sognante e mistica, come favola pastorale del simbolico personaggio: ove cadenze liederistiche commentano un movente immaginario (forse, il doppio ritratto del musicista e della critica).
Il grande Adagio, nella sua quasi assillante necessità di confidenza, si costituisce ad ampio diario di solitudine e di passione, di rassegnazione e di speranza: ove l’inquietudine deriva dalla tonalità tormentata ed instabile, dall’emotività repressa e spesso evasa dalle frasi principali, dal respiro faticato e gigantesco di ogni proposizione importante. La timbrica incupita dagli ottoni, accresciuti dalle tube, intensifica il discorso di riflessi passionali, di espressioni liricamente violente e drammatiche. Già presentite dalle lunghe volute melodiche degli archi nel primo tema meditativo ed immobile, quindi nel moto di lenta e continua ascesa del secondo soggetto che conduce il discorso, sempre più lussureggiante, verso scansioni anche prepotenti, anche ad apostrofi imperiose. Ma di più contano, in un contesto cromatico di chiara reminiscenza wagneriana, le continue suggestive divagazioni che attuano un nuovo e tutto personale respiro sinfonico; più contano, dei mostruosi orgasmi o delle fin terroristiche apoteosi, certe dilaniate cupezze di temi dilatati su solenni accenti di corale, come poi solo negli ultimi Adagi di Mahler. Tutto un itinerario spirituale è evidente: ma nell’autobiografia circostanziata vedi l’anamnesi di un idealismo incrinato, di un eroismo offeso, di un’umanità debilitata. Ove i vertici sonori chiariscono il diagramma fisso d’una fuga dalla solitudine, dalla clausura, per ricadere poi in altro spazio chiuso. Ove l’alto splendore è dolorosa testimonianza dell’esistenza, affacciata al lento corrompersi del tempo che brucia e disgrega la materia sonora, quasi a specchio del cosmo. La vera grandezza di questo pezzo sta in questo fitto gioco di interni ed esterni, chiarito dal ricchissimo avvicendamento spirituale, dall’incedere accidentato, faticato, sentimentalmente accaldato ma virilmente dolente.
L’enorme Finale è ampio poema a sfondo eroico, che ambisce ad inquadrare il dramma personale dell’artista in una dimensione universale: meno convincente quanto più si affida a gagliarde e pittoresche fanfare (come quella iniziale) o a ritmati episodi marziali (come nel terzo tema). Invece, sono proprio i momenti
più raccolti di questo imponente movimento, come il riflessivo episodio tematico centrale, ad aprire, oltre le monumentali ed artificiose decorazioni, preziose scheggiature arcaizzanti, capaci di ripristinare l’ordine naturale della forma sinfonica. Proprio questo secondo tema, infatti, ricupera quello conclusivo della Jupiter di Mozart: e questo rispetto normativo dei maestri maggiori fa del materiale musicale un dato perenne, una sorta di cifra cosmica. Circoscritte certe note aneddotiche (il galoppo iniziale vorrebbe illustrare, con fin barbarica enfasi, l’incontro fra lo Zar e il Kaiser), nell’ampiezza anche dispersiva di questo Finale si scopre così l’assunto sincero ed innocente di una convergenza storica: anche se in questa vasta e complicata struttura Bruckner anticipa terribilmente la musica futura con i mezzi passati e logorati. A sanzionare quest’impegno, spirituale prima che strutturale, interviene, dopo la ricapitolazione tematica, il gruppo dei principali motivi dell’intera opera nella “coda” conclusiva: ma in disposizione non giustapposta (come nella Nona di Beethoven) ma sovrapposta, verticale. Secondo un esito ciclico, dunque, dopo la laboriosa “conquista del campo sonoro” che gli riconobbe Webern.

Sinfonia n. 9 in re minore

Dopo averne steso le prime bozze nell’estate del 1887, Anton Bruckner diede forma compiuta alla sua Nona Sinfonia solo diversi anni dopo, attraverso una gestazione piuttosto frammentata, spesso interrotta da modifiche e revisioni che egli volle apportate ad alcune sue sinfonie precedenti. Nove anni non furono tuttavia sufficienti a Bruckner per completare il suo testamento sinfonico: le cattive condizioni di salute che precedettero la sua morte (1896) non gli permisero infatti di concludere il quarto movimento su cui stava già lavorando, tanto che Bruckner stesso accettò il suggerimento di utilizzare come finale il Te Deum da lui composto precedentemente. Per la «prima» dovettero tuttavia passare ben sette anni dalla scomparsa dell’autore (Vienna 1903), sotto la direzione di quel Ferdinand Löwe che ne volle anche revisionare in maniera considerevole la partitura. Fu così che dopo quasi trent’anni, nel 1932, quando Sigmund von Hausegger propose il confronto tra la versione di Löwe e la stesura originale, per molti fu quasi una rivelazione: si scoprì il Bruckner autentico, tanto che molti giudizi sull’opera, che due anni dopo venne peraltro ripubblicata nella sua versione integrale, mutarono profondamente.
Anche nella sua incompiutezza, la Nona Sinfonia è comunque emblematica della scrittura orchestrale di Bruckner, il quale, pur appartenendo a un periodo ricchissimo di innovazioni, sembra vivere in una propria dimensione, quasi fuori dal tempo. Nonostante i tributi resi alla grandiosità del sinfonismo beethoveniano e all’influenza dell’armonia cromatica di Wagner, egli sviluppa infatti una propria tecnica compositiva fatta di blocchi giustapposti, di grandi sezioni complesse ma ben delimitate, spesso divise da episodi interlocutori di

demarcazione, se non addirittura da brevi momenti di silenzio. Più volte in polemica con Brahms, per il quale la costruzione dei gruppi tematici resta ancora legata all’evoluzione melodico-armonica e allo sviluppo motivico della grande tradizione classica, Bruckner tende spesso a costruire i suoi temi come tessuti, con piccoli disegni più volte ripetuti in lenta metamorfosi, con i quali egli compone delle grandi arcate, spesso tendenti a un punto culminante. Ecco dunque che il crescendo e la reiterazione ostinata divengono gli strumenti principali con cui dare forma plastica alla materia musicale. In questo assemblaggio di parti manca tuttavia la contrapposizione tra diverse aree tonali tipica del sonatismo classico: manca, insomma, una vera e propria drammaticità, una dialettica di tipo teatrale. Non a caso per le opere di Bruckner si è spesso usata la metafora delle cattedrali, non solo in relazione al profondo senso religioso che animava il loro autore, ma anche per analogia tra l’ascolto della sua musica e la contemplazione delle strutture portanti di una grande costruzione architettonica.
Pur essendo profondamente distante dalla concezione classica di sinfonia, Bruckner utilizza ugualmente lo schema di forma-sonata come intelaiatura su cui svolgere il primo movimento, Misterioso. Il primo dei tre ampi gruppi tematici che compongono l’Esposizione si sviluppa in orizzontale, come una lenta e graduale ascesa verso un punto culminante. La sinfonia si apre dunque con un sommesso e vibrante pedale di re, una sorta dì introduzione «misteriosa» che sembra nascere dal nulla, nella quale il materiale tematico è ancora indistinto, solo echi lontani di frammenti melodici che prendono forma quando si giunge sul rotondo disegno cadenzale degli ottoni. Inizia ora la lenta salita dell’orchestra, formata da brevi cellule tematiche che, con ostinate reiterazioni e una serie di crescendo, porta al perentorio fortissimo con cui viene declamata all’unisono la frase conclusiva del primo tema. Un breve frammento di due note, che riecheggia tra i legni sopra un tappeto di archi pizzicati, porta invece a un gruppo tematico più lirico ed espressivo. Ecco dunque il motivo dei violini primi intrecciato a un controcanto dalla trama più fitta dei violini secondi, seguito da un secondo soggetto tematico e da un ritorno variato al tema iniziale. Anche il secondo gruppo tematico giunge a un punto culminante, che non ha la forza drammatica espressa nel fortissimo del primo tema, bensì l’intensità emotiva di un canto commovente e appassionato dei violini, con i violoncelli che fanno da robusta controparte e gli ottoni che danno spazialità al tessuto sonoro. A conclusione del secondo blocco tematico torna il motivo iniziale che si dilata, progredendo verso un forte, per poi dissolvere rapidamente la propria intensità espressiva.

Herbert von Karajan

Uno statico episodio interlocutorio con echi dei fiati sopra i tremoli degli archi è invece il sottile elemento di raccordo che porta al terzo gruppo tematico, nella tonalità principale, il cui austero motivo principale nasce dall’insistente reiterazione di una singola cellula ritmico-melodica; privo del carattere itinerante, «in divenire», dei due temi precedenti, il terzo tema ha contorni più
squadrati in un chiaro schema A B A, nel quale B è una melodia più espressiva e cantabile che ammorbidisce il ruvido carattere del motivo iniziale, prima del suo ritorno nella solenne declamazione conclusiva. L’atmosfera ora si acquieta con echi delicati del secondo motivo.
Termina così l’Esposizione e inizia lo Sviluppo nel quale si susseguono rielaborazioni e riproposizioni trasportate dei vari soggetti dei primi due gruppi tematici. Dopo una rilettura degli episodi iniziali del movimento ecco dunque le rielaborazioni del primo episodio di collegamento e del soggetto principale del secondo tema, alle quali si aggiunge un nuovo motivo. Inaspettatamente Bruckner ripropone la parte conclusiva del primo tema (ultima progressione e successivo fortissimo) nella tonalità originale, innestando così la Ripresa nello Sviluppo senza soluzione di continuità. La perentoria declamazione della frase sul climax del primo tema viene però dilatata, generando da un suo frammento melodico (cellula terzinata) due ulteriori nuovi episodi: una marcia potente e risoluta di tutta l’orchestra e una breve parentesi isolata all’interno del movimento, formata da un cullante e delicato gioco imitativo degli archi basato sulla suddetta cellula terzinata. Si torna così al secondo gruppo tematico che, con alcune varianti, viene trasportato una quarta sopra secondo i canoni tradizionali. Il terzo gruppo tematico, che non era stato utilizzato nello Sviluppo, viene invece rielaborato ora, in sede di Ripresa, fino a quando uno stacco dei corni porta a un breve corale di legni e ottoni e all’ampia sezione conclusiva.
Lo Scherzo, utilizzato come secondo movimento, stempera la densità e l’imponenza dei due movimenti esterni con toni più leggeri e spensierati. Anche in questo caso Bruckner non entra di getto sul tema, ma vi si accosta gradualmente con un delizioso preambolo iniziale; il motivo principale viene così suggerito dai violini pizzicati, che si muovono con circospezione sopra un tappeto armonico di legni e violini secondi, mentre un ostinato crescendo porta al tema dello Scherzo nella sua forma compiuta, ovvero scandito con forza da violini e legni, sopra un martellante accompagnamento degli ottoni. La trama musicale viene improvvisamente alleggerita da una nuova cellula tematica dal fraseggio legato, che contrasta con gli staccati di tutta l’orchestra, mentre un ostinato crescendo culmina su un pesante incedere accordale seguito da una sferzante coda cadenzale. Nella zona centrale dello Scherzo troviamo un piccolo intermezzo, una breve oasi spensierata, nella quale si susseguono un grazioso motivo dei legni e un’ondulata alternanza tra violini e violoncelli. Torna quindi a pulsare il tema iniziale dello Scherzo, con alcune modifiche e l’ampliamento della coda conclusiva. Il primo dei due temi che concorrono a formare il Trio nasce invece da un agile profilo dei violini che, con un tempo sensibilmente più veloce rispetto allo Scherzo, scorre sopra il tambureggiante accompagnamento degli archi. Si arresta quindi la precedente pulsione ritmica e i violini si abbandonano al languido disegno melodico del secondo tema. Dopo una sommessa rievocazione del tema iniziale torna il secondo tema in un registro più grave e pastoso (violini e violoncelli), seguito da un’ulteriore citazione del primo tema che conclude il Trio. La ripresa dello Scherzo da capo completa infine il secondo movimento.
Costruito sull’assemblaggio di una imponente quantità di episodi diversi, il monumentale Adagio conclusivo può essere riassunto in tre grandi complessi tematici (A B C) con l’aggiunta di una sezione conclusiva. Asse portante di tutto il movimento, tanto da essere ripreso più volte, è il primo gruppo tematico, il quale, analogamente alla sezione iniziale del primo tempo, evolve con una lenta genesi della trama musicale che si espande gradualmente fino a un punto culminante. Abbiamo così un lento profilo melodico dei violini sostenuto da una tortuosa successione armonica che si apre a un radioso accordo di re maggiore, mentre su un cupo mormorio dei bassi si innesta un breve cellula tematica degli oboi, da cui si sviluppa il crescendo di tutta l’orchestra verso il fortissimo. Il climax così raggiunto non presenta però un tema, un motivo vero e proprio, ma è pura espansione del suono: abbiamo infatti un unico grande accordo dilatato, seguito da un ulteriore impasto accordale, questa volta in pianissimo, che prolunga per forza d’inerzia la sua ostinata scansione ritmica, anche quando corni e tromboni intonano un mesto corale seguito dalla lenta dissoluzione del tessuto musicale.
La seconda sezione (B) propone un canto melanconico dei violini, intercalato dagli interventi dei fiati, che si abbandona a una sua libera evoluzione con i violini primi intersecati dai disegni dei violini secondi. Il motivo iniziale viene quindi ripreso dai violoncelli, dai violini, e infine dai corni, che lo riportano nella tonalità iniziale sopra i pizzicati degli archi. Un brevissimo spunto del flauto sopra un accordo dei tromboni riconduce alla sezione A, riproposta con rielaborazioni del tema iniziale e nuovi episodi seguiti dal ritorno del grande accordo dilatato. La terza sezione (C) è quella che lascia maggior spazio alla cantabilità, con un tema di pertinenza quasi esclusiva degli archi, generato da un raffinato gioco contrappuntistico tra le due sezioni dei violini. Un breve stacco di oboi e corni e una sferzante cellula melodica dei violini dà quindi vita a un episodio con graduale ma insistente direzione «ascendente» che, dopo un breve collegamento dei fiati, viene controbilanciato da un breve corale degli archi con indirizzo «discendente», mentre un insistente pedale di note ribattute degli oboi conclude la terza parte. Il movimento presenta ora una rielaborazione del secondo tema (sezione B), con il tessuto orchestrale che diviene più denso, mentre emergono i solenni accordi degli ottoni articolati in un lungo e drammatico crescendo. Con una cesura improvvisa Bruckner ripropone il tema degli oboi, che si era ascoltato solo nell’esposizione iniziale della prima sezione (A), anch’esso destinato a dilatarsi in crescendo. L’episodio che completa il movimento viene costruito su un lungo pedale di tonica, il cui carattere estatico viene interrotto momentaneamente da una breve increspatura, prima del lento incedere finale verso la conclusione.

Te Deum per soli, coro e orchestra

Anton Bruckner cominciò a lavorare al suo Te Deum nelle prime settimane del 1881 ma l’impegno per la stesura finale della Sinfonia n. 6 lo occupò al punto da lasciare la composizione incompiuta. Solo tre anni dopo, quando si avviava alla conclusione della Sinfonia n. 7, Bruckner riprese in mano il Te Deum riuscendo a terminarlo nel marzo del 1884. Pubblicata nel 1885, l’opera fu eseguita in veste cameristica nella piccola sala del Musikverein di Vienna il 2 maggio di quello stesso anno; l’esecuzione con l’orchestra si ebbe nel gennaio del 1886.
L’antico Inno in lode di Dio era stato musicato più volte anche in passato, ma non aveva una tradizione formale vera e propria, nel senso che lasciava libertà al compositore su come suddividere e musicare il testo. Bruckner lesse in questa libertà l’occasione per creare una partitura che valorizzasse l’intensa religiosità del testo in accordo con la sensibilità dei suoi tempi. Molto critico con le passate intonazioni del Te Deum, soprattutto con quella realizzata da Hector Berlioz qualche decennio prima, il compositore volle ridonare una piena e ispirata dimensione “ecclesiastica” all’Inno e si servì di una corposa orchestra e del coro per donare maestà, solennità e denso calore al testo.
Decise di dividerlo in cinque parti: la prima, “Te Deum laudamus” è un Allegro moderato dalle fattezze grandiose e dalla fissità monumentale. L’atteggiamento musicale religioso di Bruckner è infatti quello di contemplare il divino con granitico coraggio, come se la musica dovesse costituire l’altare stesso che eleva l’uomo al sublime. Nella concezione organistica che Bruckner ha della partitura risiede l’effetto di possente elevazione spirituale che questa composizione condivide con le sue Sinfonie.

Anton Bruckner

Il seguente “Te ergo quaesumus”, un Moderato in tonalità minore, ha fattezze intensamente liriche in accordo con la natura implorante del testo, che si rivolge a Dio perché soccorra i suoi servi e salvi il suo popolo.
Nel movimento successivo, “Aeterna fac cum Sanctis” (Allegro moderato), si esprime il desiderio che il popolo dei credenti sia annoverato fra i Santi. Le scale discendenti che mimano la discesa di Dio verso il credente si spengono in un “piano” ansimante e speranzoso.
Nel “Salvum fac populum” (Moderato) l’inno di salvezza e di lode è tessuto su una trama sonora distesa, implorante e sublime, preparatoria ai toni grandiosi dell’ultimo movimento “In Te Domine speravi”.
Il compositore utilizza nell’opera il patrimonio linguistico musicale appreso dalla tradizione sacra: un modello gregoriano di vocalità, evoluzioni virtuosistiche tipiche di certi ornamenti vocali del barocco tardo, preziosa polifonia rinascimentale. Si cimenta nell’ordire una fuga intricata e vorticosa, ma si serve con sapienza di una coralità spiegata, tripudiante. La scelta degli strumenti partecipa alla festa di devozione. Bruckner dà vita nel Te Deum a una passionalità monumentale, a una religiosità travolgente che anticipa atteggiamenti creativi del primo Novecento. Non a caso Gustav Mahler apprezzava molto questa pagina e sul frontespizio della partitura in suo possesso scrisse che questo Te Deum era sì «per soli, coro, orchestra e organo [ad libitum, n.d.r.]» ma anche «per le lingue degli angeli, dei benedetti, dei puri di cuore e per le anime purificate nel fuoco».