Cajkovskij Ilic Petr

Composizioni varie

Grande direttore d’orchestra, così come compositore; l’orchestra eccezionale e tre delle migliori opere del compositore russo. Il suo concerto di violino è uno dei più grandi nella storia della musica. Altamente consigliato!

Sinfonia n. 4 in fa minore, op. 36

Lo spazio di tempo che abbraccia la genesi della Quarta Sinfonia (dicembre 1876 – gennaio 1878; prima esecuzione a Mosca il 10 febbraio 1878, direttore Nikolaj Rubinštejn) coincise per Čajkovskij con un periodo di acuta crisi esistenziale. Temendo che la propria omosessualità divenisse causa di emarginazione sociale, Čajkovskij decise di accogliere le insistenti richieste di matrimonio di un’ex-allieva, Antonina Ivanovna Miljukova, e la sposò nel luglio del 1877. L’esito dell’unione fu catastrofico: dopo sole tre settimane Čajkovskij, sconvolto, abbandonò la moglie a Mosca per rifugiarsi nella tenuta di Kamenka, residenza dell’amata sorella Saga. Impegni autunnali presso il conservatorio di Mosca lo costrinsero a tornare in città, con il risultato di provocare in lui un tracollo psichico che sfociò in un tentativo di suicidio compiuto scendendo nelle gelide acque della Moskova. Sfuggito alla morte e ottenuto il congedo di un anno dal conservatorio, Čajkovskij intraprese un lungo viaggio nell’Europa occidentale che lo portò a soggiornare anche in varie città d’Italia, mentre in patria il fratello si occupava delle pratiche per la separazione.
Unico raggio di luce in quei mesi di tenebra fu l’avvio del carteggio con una fervente ammiratrice, la baronessa Nadezda von Meck, ricca vedova e mecenate che per ben quattordici anni – senza mai conoscerlo di persona – corrisponderà in forma epistolare con il compositore. Costei gli elargí un non indifferente appannaggio per il periodo del viaggio, poco dopo trasformato in una pensione annua affinché potesse dedicarsi esclusivamente alla composizione; fornendogli in quel frangente anche un sostegno spirituale che consenti a Čajkovskij, nella sua fuga di città in città, di riprendere il lavoro a due composizioni iniziate prima del matrimonio: l’opera Evgenij Onegin e appunto la Quarta Sinfonia in fa minore.
Le lettere alla von Meck, alla quale quella che vi viene definita «la nostra Sinfonia» fu dedicata con vivissima riconoscenza ancorché non con esplicita menzione (sul frontespizio del lavoro si legge, per volontà espressa dalla dedicataria, senza cenno alcuno al nome, «Al mio migliore amico»), sono ricche di riferimenti alla partitura della Quarta. Una in particolare merita attenzione: scritta il 17 febbraio 1875 (cioè una settimana dopo la prima esecuzione, a cui la signora von Meck era stata presente, mentre l’autore si trovava a Sanremo), questa lettera contiene su richiesta dell’amica epistolare stessa una interpretazione programmatica della sinfonia che dovette far molto colpo sulla generosa mecenate e che costituisce per noi un documento utile (non decisivo) per la sua comprensione.
«Nella nostra Sinfonia il programma c’è, esiste cioè la possibilità di tradurre in parole ciò che essa tenta di comunicare, e a Voi, solamente a Voi, posso e voglio mostrare il significato sia dell’insieme sia dei singoli movimenti.

Naturalmente posso farlo solo nelle linee generali. L’introduzione è il germe di tutta la Sinfonia, indubbiamente l’idea principale [segue nella lettera l’esempio musicale delle prime sei misure dell’«Andante sostenuto», con il motto della fanfara degli ottoni]: questo è il Fato, forza nefasta che impedisce al nostro slancio verso la felicità di raggiungere il suo scopo, che veglia gelosamente affinché il benessere e la tranquillità non siano mai totali e scevri da impedimenti, che, come una spada di Damocle, pende sulla testa e avvelena l’animo in modo infallibile e perenne.
E’ invincibile, non lo domini mai. Non resta che rassegnarsi e soffrire inutilmente [primo tema del «Moderato con anima», violini primi e violoncelli in ottava]. Il sentimento di disperazione e di sconforto si fa più forte e più cocente. Non sarebbe meglio voltare le spalle alle realtà e immergersi nei sogni? [secondo tema, «Moderato assai, quasi Andante»: clarinetto solo con arabeschi dei flauti, poi fagotto]. Oh, gioia! Almeno il sogno si è rivelato dolce e tenero! Una forma umana luminosa e benefica, balenando, sospinge chissà dove [melodia dei violoncelli, successivamente dei flauti, esposta come controsoggetto al secondo tema, poi sviluppata come terzo tema]. Che bello! Come suona remoto e importuno adesso il primo tema dell’Allegro [evidentemente Cajkovskij intende il tema-motto dell’introduzione, allorché si ripresenta per collegare la fine dell’esposizione con l’inizio dello sviluppo]. Ma i sogni a poco a poco avvolgono interamente l’anima.Tutto ciò che è cupo e mesto viene dimenticato [sezione dello sviluppo, che combina i due temi principali del primo movimento].
Eccola, eccola la felicità! No! Erano sogni e il destino ci riscuote [riapparizione della fanfara al culmine dello sviluppo e poi, dopo la ripresa, all’inizio della coda che conduce alla stretta finale]. Cosi tutta la vita è un’alternanza ininterrotta di pesante realtà, sogni fugaci e fantasie di felicità… Non c’è approdo. Vaga per questo mare, finché esso non ti avvolge e ti inghiotte nelle sue profondità. Ecco, all’incirca, il programma del primo movimento. Il secondo esprime un’altra fase della sofferenza: il sentimento di malinconia che si presenta la sera, quando siedi solo, stanco del lavoro, prendi un libro, ma ti cade dalle mani. I ricordi si affastellano. E’ triste che tante cose siano già state e siano passate; è piacevole ricordare la giovinezza. Ti duole che il tempo sia trascorso e non desideri ricominciare una nuova vita. La vita ti ha stancato. E’ piacevole riposarsi e guardarsi intorno. Quanti ricordi! Ci sono stati momenti di gioia, quando il sangue pulsava giovane e la vita appagava. Ci sono stati momenti difficili, perdite insostituibili. Ma tutto questo svanisce lontano.

Nadezda Filaretovna von Meck

Ed è triste, ed è dolce sprofondarsi nel passato. Il terzo movimento non esprime sentimenti definiti. Sono arabeschi capricciosi, visioni sfuggenti che attraversano l’immaginazione, come quando hai bevuto un po’ di vino e senti l’effetto della prima fase dell’ubriachezza. Lo spirito non è allegro, ma neanche triste. Non pensi a niente: dai spazio all’immaginazione, che si mette a disegnare strani ghirigori… Tra questi, improvvisamente, ti ricordi un’immagine di contadini che gozzovigliano e una canzonetta di strada… Poi, in lontananza, una parata militare che passa. Sono quelle immagini incoerenti che ti vengono in niente quando prendi sonno. Non hanno alcun rapporto con la realtà: sono strane, assurde e sconnesse… Quarto movimento. Se non trovi in te stesso motivi di gioia, guardati intorno. Cammina tra la gente.
Guarda come questa riesce a rallegrarsi, abbandonandosi completamente alle sensazioni di gioia. Quadro di una celebrazione popolare in un giorno di festa. Non appena sei arrivato a dimenticarti di te stesso e ti sei entusiasmato per lo spettacolo di tanta allegria, ecco che il destino instancabile torna di nuovo a ricordarti che esiste [motivo del Fato]. Ma gli altri non si occupano di te. Non si sono nemmeno voltati, non hanno gettato neanche uno sguardo su di te e non si sono accorti che sei solo e triste. Oh, come sono allegri! Come sono fortunati a possedere soltanto sentimenti semplici e diretti! Rimprovera te stesso e non dire che tutto al mondo è triste. Esistono gioie semplici, ma potenti. Rallegrati dell’allegria altrui. Malgrado tutto, si può vivere. Ecco, mia cara amica, tutto ciò che posso spiegarVi della Sinfonia».
Queste parole, anche pensando alla data in cui furono scritte, hanno tutta l’aria di essere una traduzione in immagini verbali di un fatto musicale già compiuto e autosufficiente (non per nulla l’autore aggiungeva in calce alla lettera: «Naturalmente le mie parole sono, sotto certi aspetti, oscure e non esaurienti. La caratteristica propria della musica strumentale è quella di non poter essere facilmente spiegata a parole. Dove queste vengono meno, bisogna lasciar parlare la musica»). Non si può però non rilevare nella tessitura della Quarta Sinfonia la presenza di un contenuto tragico e appassionato di chiara origine autobiografica. Appare evidente che il motto iniziale della fanfara, che ritorna a intervalli regolari nel primo movimento e poi ancora nell’epilogo dell’ultimo, sia il sigillo dell’intero lavoro: un vero e proprio segnale di morte. Attorno a questo si dispongono, con caratteri contrastanti, le tre figure tematiche dell’esposizione del primo movimento, che danno vita tonalmente a tre sezioni distinte. Ciò comporta un percorso tonale del tutto inconsueto, insieme innovativo e simmetrico. Ogni tema viene esposto una terza minore sopra al precedente, vale a dire: fa per il primo, la bemolle per il secondo, do bemolle per il terzo.
Ma do bemolle enarmonicamente equivale a si, e quindi la catena delle terze prosegue fatalmente passando da si a re nello sviluppo, per tornare in perfetta circolarità da re a fa nella ripresa. Il fatto che l’esposizione sia riassunta in forma abbreviata nella ripresa comporta una nuova funzione alla coda, di cui Čajkovskij rovescia completamente il senso facendone un episodio che, anziché suggellare un’arcata formale già completamente definita, ne rappresenta invece un nodo nuovo e cruciale. L’irrompere del tema del Fato al termine della ripresa è il brusco avviso che il movimento non sta giungendo a una conclusione rapida.
Dopo un primo tempo di tale audacia formale e di così forte intensità emotiva, i movimenti centrali alleggeriscono la tensione e costituiscono una fase di respiro. Entrambi hanno struttura ternaria. L’«Andantino in modo di canzona» è un intermezzo lirico: aperto da una cantilena dell’oboe ripresa dai violoncelli, ha una parte centrale basata su brevi iterazioni di incisi elementari di due misure continuamente riarmonizzati e si conclude con la ricapitolazione (questa volta ai violini, poi al fagotto) della sezione principale. Lo Scherzo è un saggio virtuosistico di colore orchestrale, del cui «nuovo effetto strumentale» Čajkovskij andava particolarmente fiero.
La prima parte è suonata dai soli archi, sempre pizzicato; nel Trio entrano prima i legni da soli, poi gli ottoni sempre da soli: dopo la ripresa del pizzicato ostinato, una coda fonde i due principi tematici e strumentali, di modo che i tre gruppi si rispondono l’un l’altro con brevi frasi coronate dalle evoluzioni dell’ottavino. La raffigurazione di un’allegra festa popolare del finale («Allegro con fuoco») propone di nuovo una pagina formalmente impegnata, dove la distribuzione dei temi, che si ispira alla forma del rondò, è in evidente contrasto con la complessità della strategia tonale. Čajkovskij impiega qui, come sorta di secondo tema, un famoso canto popolare russo, Stava una betulla in un campo, sottoponendolo a una serie di variazioni che si intersecano con la vivace compattezza spettacolare del tema d’esordio. Prima dell’ultima apparizione di questo si ripresenta, con tutta la sua forza fatale («ecco che il destino instancabile torna di nuovo a ricordarti che esiste»), il motto della fanfara, che conduce al tumultuoso epilogo in fa maggiore. Esso annuncia ora un altro mondo, come un’eco del destino di morte che ridiventi vita.

Sinfonia n. 5 in mi minore, op. 64

Nella storia della musica russa la figura di Ciaikovski ha corso il rischio di cadere vittima di gravi contrapposizioni ideologiche quando, a fronte della conclamata purezza dei difensori di una lingua nazionale radicalmente autoctona, lo si è spesso superficialmente etichettato come lo strenuo paladino di una vena occidentalizzante, peccaminosa quant’altra mai. E cosi aggettivi quali sdolcinato, zuccheroso, languido e liquoroso, se non addirittura di nemico della patria, cominciarono a piovere sull’onda anche di un’abbondante letteratura, circolante fino a qualche anno fa, simile più al romanzo d’appendice che a una puntuale e seria messa a fuoco della sua personalità d’artista, tutt’altro che comodamente seduto a godersi gli agi di una posizione ufficialmente riconosciuta mentre gli altri soffrivano gli stenti della persecuzione zarista. Niente di più falso. Del resto, passate queste trite romanticherie (ma non meno

fuorvianti furono successivi interventi sul ruolo «politico» della sua musica), studi recenti (D’Amico, Bortolotto), hanno dato una collocazione più precisa e adeguata ai meriti della vasta produzione di Ciaikovski. Se è vero che le sue scelte estetiche giungevano più gradite negli ambienti del governo e dell’aristocrazia di corte (sulla quale peraltro il popolo cominciava a premere sotto la spinta di una vigile borghesia in ascesa) dì quelle, ad esempio, di un Mussorgski, è altrettanto vero che la sua ricerca non fu né una copia di quanto si andava facendo oltre i confini della Russia, né tanto meno un netto rifiuto delle istanze popolari emergenti.
Basterebbe aver presente la cruda drammaticità e il senso di desolata solitudine di certe frasi dell’«Onieghin» o, più ancora, la cornice di disperata angoscia in cui vivono i personaggi della «Dama di Picche», dostoievskianamente tratteggiati, il sottile e penetrante uso del coro (non in funzione protagonistica come in Mussorgski ma innegabilmente russo), l’andamento tematico dei numerosi «Lieder», elaborati utilizzando testi di autori quasi sempre del proprio paese (molti portano la firma di Tolstoi), e, infine, il complessivo senso di sofferenza dell’uomo, scaturito non tanto dai suoi impossibili amori (vedi il caso clamoroso della baronessa Von Meck, inesauribile fonte per la letteratura di cui sopra), ma da una crisi esistenziale di ben più vaste dimensioni storiche, per riflettere come tali indicazioni costituiscono un insieme di probanti elementi atti a ridimensionare alquanto il ritratto distorto di Ciaikovski. Ritratto, questo sì, condito abbondantemente di ingredienti desunti dal decadentismo europeo, dal quale ricavò, fra l’altro, la cifra del banale e quell’atteggiamento di estenuante tensione di fronte allo scorrere degli eventi che Mahler svilupperà poco dopo in vibrante protesta umana e civile, piantando una lancia acuminata nel cuore del secolo al tramonto.
Ed è tipicamente decadente, oltre all’affascinante ricchezza melodica, orientata verso l’autocompiacimento narcisistico, la vaporosa e duttile ricerca timbrica, nonché lo straordinario vitalismo orchestrale oscillante fra il colorismo di Borodin e il gusto, denso e raffinato a un tempo, di Rimski. Sullo sfondo di tale variegata tavolozza inventiva, agiscono l’eterno tributo pagato sia alla lezione beethoveniana, percepibile persino nell’«Andante» della «Quinta Sinfonia» vagamente riconducibile allo stesso movimento della «Nona», sia al poderoso impianto brahmsiano, al quale Ciaikovski è legato anche per l’incedere dolcemente affettuoso, tipico della «Stimmung» melanconica del romanticismo europeo. Mentre i livelli conflittuali e autobiografici, che ispessiscono e complicano con improvvise e rabbiose impennate il lento procedere descrittivo, paiono germogliare dal tessuto sinfonico di certo Schumann, ereditandone inoltre tic maniacali e la circolarità del materiale tematico.

Prendiamo giusto la «Quinta Sinfonia», composta nel 1888, ben undici anni più tardi della precedente, da lui particolarmente amata. La «Quinta», invece, come vedremo, non lo sarà affatto se dobbiamo dar credito a una sua dichiarazione al riguardo. Ebbene, struttura portante dell’intero lavoro, è un unico tema, quello che compare all’inizio, espresso dal clarinetto in la e ripreso subito dopo insieme col fagotto: «idée fixe» che lo perseguita, ossessionandolo, lungo l’arco di tutto il lavoro, escluso naturalmente la «Valse», formula d’alleggerimento (ma tutt’altro che svagata o gioiosa) usata assai spesso con azzeccata originalità da Ciaikovski. Se poi, in tale chiodo fisso tematico, si debba scorgere, come è stato più volte azzardato, il recondito significato d’una parola ammonitrice del padre a un figliolo in procinto di intraprendere un lungo viaggio; parola rimasta nel cuore di costui nei momenti più difficili del suo avventuroso vagabondare, oggi appare del tutto indifferente. Cosi come risulta letterariamente efficace, ma musicalmente non so quanto attendibile, l’immagine di una agghiacciante condanna, kafkianamente intesa come colpa da scontare nei confronti di un nemico invisibile, che Io insegue col suo tragico sospetto fino alla morte. La musica può suggerire questo e altro.
La stesura della «Quinta» durò appena tre mesi, lo spazio di un’estate trascorsa nel piccolo villaggio di Frolovskoje. Voleva dimostrare a sé e altri altri — come scriverà alla baronessa Von Meck — che la vena non si era esaurita. Anzi la partitura, dopo qualche attimo di esitante trepidazione, filò via senza interruzioni, frutto di una vera e propria illuminazione. Il 17 novembre dello stesso 1888, sotto la direzione personale dell’autore, veniva portata a battesimo a Pietroburgo fra la quasi indifferenza degli astanti. L’autorevole Rimski sedeva in prima fila e giustificò la sua perplessità col fatto che un solo ascolto non bastava per emettere un giudizio definitivo. È lecito perciò pensare che tale prudente atteggiamento denotasse per lo meno qualcosa che doveva averlo positivamente turbato. Anche Brahms, quando ascoltò la partitura della «Quinta» ad Amburgo nell”89, si dimostrò non del tutto soddisfatto, disapprovando specialmente il finale. Ne segui una breve polemica in cui Ciaikovski, di rimando, accusò Brahms di aver messo in caricatura Beethoven nelle sue sinfonie.

Leonard Bernstein

Schermaglie di poco conto che coloriscono anche la storia di questo controverso lavoro. Ora non si sa se sotto l’influsso di tale cocente delusione (è noto, infatti, che Ciaikovski cadeva spesso vittima di drammatici stati depressivi), oppure se, in fondo, anche lui ne fosse poco convinto, il musicista vergò il 2 dicembre queste sconsolate righe alla von Meck: «Dopo aver diretto
la mia nuova Sinfonia, due volte a Pietroburgo e una volta a Praga, mi sono convinto che essa è mal riuscita.
V’è in quest’opera qualcosa di sgradevole, una certa diversità di colori, una certa insincerità, un certo artificio. Pur senza rendersene conto il pubblico lo sente. Avvertii chiaramente che le manifestazioni di plauso andavano alle mie composizioni precedenti, ma che questa Sinfonia non riusciva a piacere: constatazione fatta apposta per procurarmi un cocente dolore e una profonda insoddisfazione di me stesso».
Il cammino incerto della «Quinta» (ma la parentesi di Praga fu assai più gratificante anche perché accompagnava le fortunate repliche dell’«Onieghin»), proseguirà fin dopo la morte dell’autore quando il grande Arthur Nikisch la liberò definitivamente da ogni dubbio circa la sua validità estetica e musicale, collocandola fra le pagine più note e universalmente accettate del grande compositore russo.

Concerto in re maggiore per violino e orchestra, op. 35

Il Concerto per violino e orchestra op. 35 nacque alla fine di uno dei periodi più fecondi della creatività di Čajkovskij, quello che aveva visto il compositore non ancora quarantenne concludere, nell’arco di un triennio, il Concerto per pianoforte in si bemolle minore, il balletto Il lago dei cigni, la Quarta Sinfonia e l’opera Evgenij Onegin. La prima stesura avvenne a Clarens sul lago di Ginevra nel marzo 1878, a stretto contatto con il giovane violinista Josif I. Kotek, amico e allievo di Čajkovskij, che oltre a fornire qualche consiglio di ordine tecnico (a parte un paio di trascrizioni e un brano d’occasione, l’esperienza di Čajkovskij col violino era limitata alla composizione del Valse-Scherzo op. 34) ne fu il primo interprete in una esecuzione privata col compositore al pianoforte. Non soddisfatto del movimento centrale Čajkovskij decise di sostituirlo con un nuovo pezzo: la Canzonetta fu composta tra la fine di marzo e l’inizio di aprile, insieme con gli ultimi ritocchi alla strumentazione.
L’idea era di dedicare il Concerto al violinista Leopold Auer affinché lo tenesse a battesimo a Pietroburgo; costui non si mostrò però affatto convinto del lavoro e tergiversò, chiedendo qualche revisione. Nelle more si fece avanti un giovane violinista già devoto a Čajkovskij, Adolf Brodskij, il quale si assunse l’impegno di studiarlo e di eseguirlo per la prima volta in pubblico: la scelta cadde alla fine su Vienna, dove il Concerto fu presentato il 4 dicembre 1881 con la Filarmonica diretta da Hans Richter. Non fu una decisione saggia. Se il pubblico viennese, che appena due anni prima aveva accolto con entusiasmo il Concerto per violino di Brahms, reagì freddamente, la critica si mostrò unanimemente ostile, a rimorchio di una stroncatura al vetriolo del brahmsiano Eduard Hanslick, che parlò apertamente di brutale rozzezza e antimusicalità,

sentendo nel Finale addirittura «il puzzo di acquavite scadente di un’orgia russa».
Questa accoglienza non poteva sorprendere più di tanto, data la disinvoltura mostrata dal compositore nei confronti della tradizione classica: nonostante l’impianto nella tonalità di re maggiore, comune non solo al capolavoro di Brahms ma anche al capostipite di tutti i Concerti moderni, quello di Beethoven, Čajkovskij si era allontanato dai canonici schemi formali, innervando una accesa fantasia melodica (quella stessa che tanto piacerà a Stravinsky, estranea ai tedeschi) di un marcato accento slavo. Non per caso le cose andarono assai meglio quando il Concerto approdò finalmente in Russia, nell’agosto 1882 a Mosca, auspice ancora Brodskij che così si conquistò meritatamente sul campo anche il diritto a sostituire nella dedica il sempre riluttante Auer: per strana ironia della sorte, divenuto in seguito uno degli interpreti più famosi e congeniali del Concerto op. 35.
Tutto ciò appare assai lontano alle nostre orecchie, se rapportato alla universale celebrità, seconda forse soltanto al Primo Concerto per pianoforte, di cui gode il Concerto per violino di Čajkovskij. Dire che non esiste violinista di qualunque specie e rango che non abbia in repertorio questo monumento della letteratura concertistica significa constatare l’ovvio: e non c’è pubblico al mondo che non ne riconosca di colpo commosso le melodie.
Ciò non toglie che, accanto a tratti tipici dello stile languido e magniloquente che siamo soliti abbinare a Čajkovskij (anche a torto minimizzandolo), il Concerto presenti una struttura insolitamente libera e tuttavia sicura di sé, forse più profondamente sperimentale di quanto non appaia. Per accorgersene basta riflettere, subito dopo essere stati immediatamente conquistati dall’inizio (omaggio assai più serio di quanto non si creda al gigante Beethoven), sulla strada intrapresa nel primo movimento Allegro moderato dalle evoluzioni del violino, che entrando con una breve cadenza propone un tema dall’intrepida, entusiasmante freschezza; per poi esporre con naturalezza un nuovo soggetto breve, ardente, quasi operistico, ritmicamente concitato, adattissimo a fornire la base per l’elaborazione.

Adolf Brodskij

Avviata dall’orchestra, essa ha un andamento volutamente tortuoso e quasi rapsodico, di fatto senza sviluppo; sicché la ripresa dei temi principali suona come un ritorno all’origine, insieme lieto e nostalgico. Come bene ha scritto Giorgio Pestelli, «il fatto è che Čajkovskij ha portato il salotto, il femmineo fantasticare dell’Onegin nell’augusta cornice del Concerto, lasciando ai
capricciosi disegni ritmici, alle incalzanti terzine, alle virtuosistiche scale, il compito di sostituire lo sviluppo sonatistico e il chiaroscuro di una base contrastante».
La mediana Canzonetta ha un inizio assorto, del più puro e concentrato intimismo, nel quale il solista si inserisce con un tema “molto espressivo”, di inflessione quasi belliniana, un po’ malinconico, un po’ lucente, soprattutto quando più avanti viene recuperato dal flauto: e basta una nota ribattuta del corno per evocare un rintocco di campane in lontananza. Il secondo tema è invece drammatico ed energico, un fermo lamento sull’accompagnamento sincopato degli archi: divagare sembra il suo destino. Alla ricapitolazione della prima parte segue simmetricamente la conclusione con elementi ripresi dall’introduzione.
Senza interruzione attacca subito il Finale, Allegro vivacissimo. Esso segue la forma circolare del rondò, alternando all’affermazione della prima idea due temi di aggressivo stampo popolare: il primo su robuste quinte dei violoncelli e straripante circolazione fra tutti gli strumenti, il secondo affidato all’acre malinconia dell’oboe. Ma è il solista ora a prendere in mano il gioco da incontrastato protagonista: suo è l’esordio con una cadenza di straordinario virtuosismo, suo lo slancio della danza vitale e travolgente, sua l’appassionata risposta alle girandole più infuocate dell’orchestra. Niente gli viene negato affinché si riconosca: dalle profonde cavate sulla quarta corda alle funamboliche ascese sulle vette dell’ebbrezza non si compie solo un tragitto, si materializza un’anima.

Andante cantabile per violoncello e orchestra d’archi

L’Andante cantabile è la trascrizione per violoncello e orchestra d’archi, effettuata dallo stesso compositore, del movimento centrale del suo Primo Quartetto op. 11. Un movimento estremamente fortunato per l’allora trentenne autore russo che in questo periodo era ancora poco conosciuto all’estero: l’Andante del Quartetto fu infatti tra i primi brani a varcare i confini nazionali e a trovare un successo che portava, nel 1875 – a quattro anni di distanza dalla composizione e pubblicazione dell’opera – l’editore Jurgenson a rilevare che di tutte le copie dell’opera, solo 11 erano state vendute in Russia mentre le altre erano state richieste dall’estero. Tale fortuna non si esaurì rapidamente, tanto che l’autore stesso dieci anni più tardi sembrava quasi rammaricarsi di un lavoro che rischiava di non permettere la conoscenza più ampia della sua produzione, nel frattempo enormemente aumentata. Nel luglio del 1884, scrivendo da Monaco, comunicava infatti di aver «ascoltato l’Andante del Quartetto», dopodiché si chiedeva, non senza una punta di amarezza: «perché sempre l’Andante? Sembra non vogliano nient’altro», per chiudere, quasi arrendendosi ad un fato implacabile: «lo suoneranno di nuovo in un prossimo concerto».

 

Petr II’ic Cajkovskij

Fatto sta che proprio il gran fascino della composizione aveva spinto a soli due anni dalla sua composizione il violinista ungherese Leopold Auer a trascriverla per violino e pianoforte, un esempio seguito successivamente da altri musicisti e da Ciaikovskij 15 anni più tardi.
La composizione nasce dall’annotazione di una melodia popolare che l’autore aveva rilevato alla fine degli anni Sessanta nel distretto di Kamenka in un periodo in cui Ciaikovskij, in questo non troppo difformemente dal gruppo nazionalista dei Cinque, era estremamente attratto dalla musica popolare. Il brano è in forma ternaria, con un trio centrale il cui tema riappare nella coda dopo la ripresa del tema principale e ha il suo punto di forza nel grande fascino della melodia che Ciaikovski tratta con una raffinata semplicità e una maestria impareggiabili.