Cajkovskij Ilic Petr
Le Sinfonie e altre composizioni
Sinfonie 1 – 6 – Serenata per archi – Ouverture solennelle 1812 – Marcia slava – Capriccio italiano – Francesca da Rimini – Variazioni Rococo – Symphony Manfred – Piano concerto 1&2 – Piano concerto 3 – Concerto per violino – Swan Lake (estratti) – The Sleeping Beauty (estratti) – The Nutcracher (estratti) – Romeo and Juliet
Una delle collane più meritevoli dell’odierno panorama discografico è sicuramente la serie “Masters” della Sony, che propone attraverso sillogi ragionate le “punte di diamante” del ricchissimo catalogo della major giapponese, in cui sono confluiti quelli della RCA e della CBS. L’unico veniale difetto che le si può imputare (e che si auspica possa venire prima o poi emendato) è, almeno sinora, la mancanza dei libretti illustrativi; quanto al resto, le confezioni sono eleganti, solide e maneggevoli, i prezzi più che accessibili, e – quel che veramente conta – la levatura dei contenuti è tale da non potersi descrivere.
Per citare solo alcuni esempi che si commentano da sé, si pensi che la collana comprende il ciclo beethoveniano di Bernstein con la New York Philharmonic, tutte le incisioni beethoveniane di Serkin, Stern e Heifetz, tutte le sonate (da Scarlatti a Prokof’ev) incise da Horowitz in oltre mezzo secolo per le due etichette americane. E ancora: i quartetti di Beethoven col Budapest e il Tokyo, i concerti di Mozart con Perahia, le freschissime incisioni mozartiane della prima fase berlinese di Abbado, quelle di Walter con la Columbia, e nutritissimi assaggi del Bach “eterodosso” di Gould come del sublime rigore di quello di Leonhardt. Ma l’elenco potrebbe seguitare per un pezzo, perché nella collezione non c’è praticamente nessun album che possa definirsi mediocre o di scarso interesse.
Delle sinfonie di Ciaikovski, la collana aveva già in cartellone l’integrale incisa da Abbado nei primi anni novanta con la Chicago Symphony, e vi affianca ora quella anni sessanta di Ormandy con la Philadelphia Orchestra. Ognuno sarà ovviamente libero di fare le proprie scelte: le due raccolte sono comunque complementari e possono dar luogo a stimolanti spunti di raffronto, perché rispecchiano le ottiche di due diverse generazioni, di due diverse scuole, di due sensibilità interpretative pressoché antitetiche. Abbado, per cui Ciaikovski ha rappresentato un interesse costante ma non proprio essenziale, lo affronta con spirito analitico; Ormandy, che ne ha fatto il cardine del proprio repertorio, lo legge in chiave coloristica; eppure, per queste vie così diverse, entrambi riescono a cogliere l’anima profonda del musicista russo e a dominarne le problematiche (e talora precarie) strutture compositive.
Senza che ciò voglia essere un giudizio limitativo – stiamo parlando di un interprete che, perlomeno quando ha a che fare con musiche in cui si identifica, è davvero fra i più geniali della sua generazione – il Ciaikovski di Ormandy pare fatto su misura per i gusti del pubblico americano del secondo dopoguerra. Lontano dalle angolosità barbariche di Mravinskij e di Gergiev come dalle raffinatezze introspettive e dalle alchimie timbriche di Karajan, finisce per presentarcisi soprattutto nel segno dell’intimità affettuosa e delle atmosfere incantate, come se il mondo fatato dei balletti si proiettasse anche sulle sinfonie. La discografia ciaikovskiana del maestro ungherese è forse la più estesa lasciataci da un interprete di prima grandezza (si noti tra l’altro che di varie pagine esistono versioni alternative: della quarta sinfonia, ad esempio, se ne conoscono non meno di quattro). La raccolta, oltre alle sei sinfonie della numerazione canonica, comprende il Manfred, sinfonia a programma di stampo berlioziano (ma fondata su una materia prima russa sin nel midollo); quasi inevitabile però che la curiosità finisca per concentrarsi soprattutto sulla sinfonia postuma in mi bemolle maggiore.
Quest’ultima, che nei progetti dell’autore pare fosse destinata a costituire una sorta di autobiografia in musica, è stata ricostruita negli anni cinquanta da Semën Semënovic Bogatyrëv sulla base degli abbozzi, che si intersecano in maniera un po’ misteriosa con quelli del terzo concerto per pianoforte (oggetto, a sua volta, di operazioni post mortem con la ricostruzione di un secondo e di un terzo movimento). La composizione, ovviamente, va apprezzata per quello che è: appunto una pregevole curiosità, geniale fin che si vuole, ma pur sempre da non confondersi con le autentiche composizioni ciaikovskiane. Dalle altre sinfonie, in effetti, essa si distingue nettamente già per la quadratura dei temi, che sono in prevalenza bruschi, assertivi e sintetici, con ben poche tracce dell’abituale flessuosità. Al Ciaikovski tipico appartengono soprattutto gli squarci di lirismo dell’adagio o le atmosfere ballettistiche del secondo tema del primo tempo, mentre lo scherzo, con le sue fantasmatiche terzine di semicrome, è parente stretto di quelli della quarta sinfonia o della terza suite: ma proprio lì la scrittura orchestrale interviene a ricordarci che la ricostruzione è stata operata da un coetaneo di Prokof’ev.
Eugene Ormandy
Di notevole brillantezza il settore dei concerti: quelli per pianoforte sono divisi tra Tedd Johnson e Gary Graffman, quello per violino è affidato a Stern (e se si considera che Ormandy ne ha all’attivo anche versioni con Oistrakh e Perlman, bisogna riconoscere che gli compete veramente la parte del leone nell’hit parade di questo inflazionato capolavoro), mentre le variazioni rococò, che fungono da concerto per violoncello, vanno al partner cameristico di Stern, Leonard Rose. Dei balletti, in luogo delle abituali suites, abbiamo qui selezioni più ampie, estese a circa metà dei contenuti di ciascun balletto. Nutrito, poi, il panorama dei “vari ed eventuali”, con la solita Ouverture 1812, il solito Capriccio Italiano, la solita ouverture Romeo e Giulietta, i soliti valzer e polonaise da Evgenij Onegin, la Francesca da Rimini, la Marcia Slava, la Serenata per archi (con alcuni evitabili tagli e ritocchi) ed alcuni arrangiamenti, tra cui l’Andante cantabile del quartetto op. 11, che faceva piangere Tolstoj, e la Barcarola dalle Stagioni (mese di giugno).
Fra tanta abbondanza e sovrabbondanza, finisce per risaltare l’assenza di ulteriori poemi sinfonici e affini come il Voivoda e la Tempesta (presenti in compenso nell’album di Abbado) e soprattutto Amleto (un autentico capolavoro, del quale per chi volesse conoscerlo esistono pregevoli interpretazioni di Bernstein e Boult).
Registrazioni seguite dal 1961 al 1979 e rimasterizzazione effettuata nel 2013. Audio eccezionale a 24bit. Imperdibile.
Adesso che siamo tutti “orfani” di uno dei direttori più grandi di sempre, sono sicuro che inizieranno cori di lodi e peana anche da parte di chi in vita lo ha duramente criticato o addirittura disprezzato.
Mi ricordo che, ancora ragazzino, negli anni ’90 lessi un articolo nelle colonne di un grande quotidiano nazionale, su un concerto tenuto da Abbado con i Berliner Philarmoniker a New York e che aveva in programma proprio la sesta sinfonia di Tchaikovsky. L’articolo concludeva: “Abbado deve lasciar perdere Tchaikovsky perché proprio non ne capisce nulla della sua musica”.
Ebbene dopo aver ascoltato e riascoltato questa splendida ed economicissima raccolta della Sony, sono sicuro di poter affermare che era quel critico che non capiva nulla, sia del modo di dirigere di Abbado sia della musica di Tchaikovsky!
Perché in queste incisioni di fine anni ’80 e inizio anni ’90, con la bellissima orchestra di Chicago, Abbado dimostra di saper penetrare a fondo negli spartiti del grande compositore russo.
E qui mi basta analizzare, delle 6 sinfonie, proprio l’ultima, la Patetica, incisa da Abbado per prima.
Ebbene la Patetica é, al pari delle grandi sinfonie di pochi altri autori, un vero
banco di prova per ogni direttore.
E con esiti supremi si sono cimentati con questa sinfonia i più grandi nomi del podio, ad iniziare da Toscanini, Reiner, Szell, Ormandy. Fino ad oggi le mie tre versioni di riferimento per la sinfonia Patetica erano: Mravinsky con l’orchestra di Leningrado (DG anni ’60), Karajan con i Wiener Philarmoniker (DG anni ’80) e.Bernstein con la NY Philarmonic (DG anni ’90). Ognuno di questi grandissimi direttori ha lasciato una interpretazione bellissima e personale di questa sinfonia. Ebbene, da oggi Abbado entra di prepotenza nel mio terzetto ideale, e lo fa con una visione di questa sinfonia che si distacca di molto da quella di ciascuno delle tre bacchette prima citate.
La visione di Abbado é, al solito, lucida e razionale, e riesce nell’impresa di “depurare” dall’eccesso di sentimentalismo la scrittura di Tchaikovsky, senza togliere un grammo dal sentimento di dolore e quasi di “addio” alla vita che pervade tutta l’opera ma che esplode solo nel quarto movimento.
Non fosse altro che per questa interpretazione della Patetica il box andrebbe acquistato ad occhi chiusi.
Claudio Abbado
Ma a questo prezzo bassissimo sono incluse anche tutte le altre 5 sinfonie di Tchaikovsky, ognuna interpretata ai massimi livelli, e molte delle overtures scritte da Tchaikovsky, oltre alla suite dal balletto Lo Schiaccianoci. L’orchestra è sempre quella splendida macchina del suono che è la Chicago Symphony, a quel tempo ancora nelle mani d’oro di Sir Georg Solti che era subentrato al grande Reiner come direttore principale. Un’orchestra che al tempo vantava i migliori ottoni e i migliori legni del mondo!
E veniamo alla qualità tecnica di incisione: al tempo le incisioni vennero fatte per la casa discografica americana CBS, acquistata solo anni dopo dalla Sony. Le registrazioni sono tutte in digitale, DDD, quindi con poco fruscio e molta dinamica. É anche vero, come scrive, forse con eccessiva severità, un altro recensore, che purtroppo su impianti Hi-Fi di livello medio basso nessuno di questi CD brilla per resa sonora. Ma il “miracolo” avviene quando si ascolta uno di questi CD su impianti di qualità elevata, dove viene fuori tutta la macro e la micro dinamica delle incisioni, e dove il suono che esce dagli altoparlanti è davvero bello e fedele. Il perché di questo “gap tecnico” non lo saprei spiegare in parole semplici, ma vi assicuro che é così.
Quindi anche la qualità tecnica di incisione regge il passo della sublime qualità artistica delle interpretazioni.
Un box imperdibile, sopratutto adesso che Abbado ci ha lasciati e siamo tutti un po’ più poveri e più tristi senza la sua meravigliosa gioventù interiore nel fare musica….
Buon ascolto a tutte e tutti voi….
Registrazioni eseguite dal 1984 al 1992 e rimasterizzazione effettuata nel 2011. Audio buono ma non eccellente. Più che raccomandato.
Tra magia, modernità e decadentismo Karajan interpreta le Sinfonie di Cajkovskij
Lo smalto brillante della tavolozza timbrica, la suggestiva preziosità del colore strumentale, la marcata versatilità dell’arte interpretativa, l’eclettismo del repertorio e non soltanto la peculiare originalità delle scelte esecutive hanno costituito i caratteri più sostanziali della personalità di Herbert von Karajan nell’affrontare e nel restituire la letteratura musicale del tardo Ottocento e del primo Novecento nelle varie sedi ove il maestro salisburghese ha operato in tutto il mondo, in teatro, in concerto o in uno studio d’incisione. L’elenco smisurato delle sue presenze sul podio delle più importanti istituzioni sinfoniche internazionali, nonché il vastissimo catalogo delle registrazioni da lui effettuate nell’arco di un cinquantennio, dai dischi elettrici ai microsolco ai compact ai video, offrono al riguardo la documentazione più probante ed autentica. In tale contesto un rilievo marcatissimo ha assunto la frequentazione delle partiture sinfoniche di Cajkovskij sin dai primissimi anni della prestigiosa carriera direttoriale di Karajan.
A monte, anche dei primi approdi interpretativi, vi è stato un punto di riferimento costante, un modello quasi paradigmatico di una concezione del tutto moderna dell’arte del dirigere.
Una concezione che, con il suo esempio, Karajan ha imposto a tutti e che deriva dal precisarsi dello specifico suo retroterra culturale, ove una spiccata evidenza assunse l’influsso del retaggio della tradizione viennese. Proprio a Vienna, ancora studente Karajan ebbe le occasioni più frequenti di seguire la concertazione dei più celebri maestri durante la preparazione di opere sinfoniche e liriche già negli anni Venti, mentre seguiva il corso di direzione d’orchestra di Alexander Wunderer alla Hochschule fur Musik e frequentava Franz Schalk. E tra le partiture più amate figuravano già allora quelle delle Sinfonie di Cajkovskij. Un mese dopo il saggio del 17 dicembre 1928, le sue precocissime qualità Karajan le ribadiva dirigendo al Mozarteum di Salisburgo la Quinta di Cajkovskij e Don Juan di Richard Strauss: tra gli elogi immediati, quello incondizionato di Paumgartner.
Tale successo valse a Karajan la scrittura al Teatro di Ulma, dove sarebbe rimasto sino al marzo 1934. In questa sede, tipica dello standard medio della provincia tedesca tra le due guerre, il giovane maestro ebbe l’opportunità di farsi le ossa nello studio e nella preparazione dei capisaldi della letteratura musicale tra ‘ 700 e’ 800.
Soprattutto, non gli mancò l’occasione di far comprendere quanto importante per lui era stata, a Vienna come a Salisburgo, la lezione artistica di un Richard Strauss o di un Clemens Krauss. Due personalità che nella tradizione viennese degli anni Venti avevano inciso in maniera determinante. E da quell’epoca Karajan ebbe a far suo, di Strauss l’equilibrio della misura espressiva, e, di Krauss, la predilezione per le iridescenti trasparenze del gioco strumentale. Nei confronti però di Strauss da una parte e di Krauss dall’altra parte, nonché della tradizione musicale viennese, Karajan cominciò ben presto a far valere l’autentica, peculiare originalità delle sue concezioni artistiche che non potevano prescindere da una rigorosa disciplina esecutiva. Rispetto a queste due personalità, Karajan affermò, con decisione sempre più intransigente, la necessità di una esecuzione musicale programmata in ogni particolare. Una concezione nettamente moderna che costituisce il fondamento del ruolo creativo, non meno che centralizzante e tecnocratico, del direttore d’orchestra. Di conseguenza, è soprattutto in tale prospettiva che Karajan poté essere considerato, per alcuni aspetti, l’erede di Arturo Toscanini, specialmente nella gamma vastissima della tecnica di comunicativa orchestrale da lui esperita in tutta la carriera artistica. Lo stesso Karajan ebbe a rilasciare in proposito una dichiarazione d’estremo interesse: “Vi fu un periodo in cui Toscanini esercitò su di me una influenza particolare. […] Quando per la prima volta entrai in contatto con lui, eravamo in un tempo in cui l’opera, specialmente, era poco curata e veniva trattata con indifferenza. A Bayreuth – ove da Ulma mi recai in bicicletta – non appena arrivò Toscanini, ebbi modo di rendermi conto di quel che significava per lui il concetto di “precisione”. Una precisione inverosimile.
Intendiamoci, non una precisione meccanica, ma semplicemente una forza spirituale che emanava dal rigore della musica presa alla lettera e che ad esso rigore subordinava tutto. Fu quasi una rivelazione. […] Dopo questa esperienza, tornai alla mia attività quotidiana con intenti ben chiari, perché avevo acquisito una misura che, improvvisamente, era diventata per me importantissima. Rientrato in sede, alla testa della piccola orchestra del Teatro di Ulma, già dalla prima prova, organizzata con quell’intendimento, sentii che tutto funzionava meglio, poiché avevo preteso e messo in atto questa nuova misura. L’arte esecutiva di Toscanini – avvertii allora – era stata determinante: aveva avuto per me il senso di una profonda lezione”.
Se sul piano dell’inflessibile rigore analitico della adesione alla partitura l’influenza dell’insegnamento toscaniniano è da ritenersi fondamentale sugli inizi della carriera direttoriale di Karajan, col passare del tempo e l’affermarsi della propria personalità, nel fraseggiare con ariosa fluidità e con sciolta duttilità espressiva il maestro salisburghese fece ben presto intendere quanto egli fosse insofferente di qualsiasi condizionamento metronomico. E quanto su di lui marcata fosse l’influenza della tradizione viennese.
L’originalità della sua concezione interpretativa in qualsiasi ambito musicale, Karajan la affermò principalmente nell’individuazione e nello staglio della dimensione timbrica. E, sin dall’inizio degli anni Cinquanta sul podio della Philharmonia Orchestra di Londra o di altri importanti complessi orchestrali, Karajan non esitò ad alleggerire la densità dello spessore sonoro dell’insieme strumentale, per raggiungere, anche all’interno di una complessa struttura compositiva, le trasparenze foniche e le sfumature di un organico cameristico.
E questa concezione fu applicata, naturalmente, alla Philharmonica di Berlino dopo l’insediamento di Karajan come direttore musicale stabile, succedendo a Furtwangler. Il legame dei Berliner Philharmoniker con il sinfonismo ciaikovskiano era stato marcato sin dalla fine dell’Ottocento. Lo stesso Cajkovskij, sovente ospite della Filarmonica, aveva una volta dichiarato, commentando positivamente le esecuzioni delle sue partiture: “Tale complesso possiede una spiccata, autonoma qualità, per la quale non trovo un termine più efficace di quello di “elasticità di espressione”. L’orchestra berlinese è in grado di conformarsi subito sia alle esigenze grandiose di un testo di Berlioz o di Lizst sia alle caratteristiche di una pagina di Haydn”.
Nondimeno a Berlino ebbe ad affermarsi con maestri come Bulow, Nikisch, Richter, Levi, Mottl, Weingartner, Schuch e, in tempi più recenti, con Furtwangler, con Erich Kleiber, con Klemperer o Knappertsbusch, una tradizione esecutiva che privilegiava nell’interpretazione delle partiture ciaikovskiane, e, segnatamente, della Quinta e della Sesta Sinfonia, la monumentalità del volume sonoro ed un incedere accentuatamente drammatico. Nei confronti di tale tradizione esecutiva germanica della Filarmonica di Berlino, Herbert von Karajan assunse una posizione di netta antitesi, anche nelle più vistose perorazioni orchestrali. E giocò con lo stile del grande interprete varie carte, le principali delle quali furono la brillantezza dello smalto strumentale, l’adozione di tempi molto sostenuti, la tendenza sempre più esibita alla chiarificazione lirica dell’eloquio sinfonico. Alle spalle di tali scelte esecutive Karajan aveva le esperienze maturate, proprio nella maggiore letteratura ciaikovskiana, ad Aquisgrana negli anni Trenta, a Berlino nel periodo bellico, a Vienna e a Londra nell’immediato dopoguerra.
Herbert von Karajan
A differenza di quanto s’era verificato ad Ulma, ad Aquisgrana Karajan, tra il 1934 e il 1941, ebbe a disposizione un complesso orchestrale di prim’ordine, onusto di gloria, efficientissimo ed in grado di recepire rapidamente gli intendimenti del giovane Generalmusikdirektor, sia la ferrea disciplina e il “perfezionismo” sia la ariosa duttilità del suo fraseggio. La locandina del primo concerto sinfonico di Karajan ad Aquisgrana contemplò, nel dicembre 1934, accanto alla Ouverture dell’Euryanthe di Weber ed alla Prima Sinfonia di
Brahms, il Concerto per violino e orchestra di Cajkovskij.
Nella programmazione dell’anno seguente figurarono anche tutte e tre le ultime Sinfonie di Cajkovskij.
È noto che le travolgenti affermazione di Karajan ad Aquisgrana gli valsero, nel 1937, le scritture nei più importanti teatri europei, da Amsterdam a Vienna. E il perentorio successo ottenuto alla sua prima esecuzione sul podio dei Berliner philharmoniker l’8 aprile 1938 nella sede ufficiale alla Bernburger Strasse ribadì il riconoscimento di esser “un direttore moderno nel vero senso del termine, rispettoso della forma ma estremamente libero nel fraseggio: l’interprete ideale per rendere l’autentico spirito delle musiche che stanno sul leggìo degli orchestrali”.
Nell’autunno di quello stesso anno il trionfo alla Staatsoper di Berlino alla guida di Fidelio, Tristan und Isolde e Die Zauberflote gli sarebbe valso l’appellativo di “Wunder Karajan” nella recensione di Edmund van der Null sulla “Berliner Zeitung am Mittag”. Nell’aprile del 1939, di nuovo sul podio dei Berliner Philharmoniker, nello studio di registrazione della Deutsche Grammophon alla Alte Jakobstrasse, Herbert von Karajan firmò la sua prima registrazione della “Patetica”. Da allora, ad approfondire sempre di più il suo scavo interpretativo della Quarta, Quinta e Sesta Sinfonia, Karajan ne avrebbe realizzato altre incisioni. Nel raffronto tra le sue varie edizioni discografiche di queste tre Sinfonie, sembra opportuno soffermare l’attenzione sulle registrazioni concretatasi negli anni Settanta e che si ritrovano riversate nel presente box. Dall’ascolto di tali dischi discendono alcune considerazioni che permettono di enucleare le coordinate estetiche della concezione interpretativa di Karajan nell’ambito del sinfonismo ciaikovskiano. Coordinate di una poetica che il maestro salisburghese ha affermato in tutto il mondo, specialmente negli anni della sua maturità.
Oltre a caratterizzarsi per la brillantezza dello smalto dell’esecuzione orchestrale e per la chiarificazione dell’eloquio sinfonico, la concezione interpretativa di Karajan sembra porsi nell’alveo dell’estetismo contemporaneo e sotto il segno di un certo gusto neo-decadente affermatosi nella cultura moderna. In tale prospettiva, la poetica di Karajan più che al retaggio toscaniniano appare prossima, nelle affinità elettive, a quella di Victor De Sabata, il maestro che sovente diresse in Austria e in Germania, a Vienna e a Berlino principalmente, negli anni Trenta e Quaranta e che Karajan ebbe modo di ascoltare e frequentare, anche alla Scala, nelle stagioni del dopoguerra. Nella preziosa raffinatezza del particolare strumentale e nell’edonismo orchestrale, “in tutti i sortilegi delle mezzetinte, dei colori pastello”, si può individuare il punto di arrivo di una analoga disposizione spirituale, la cui origine discende, verosimilmente, da una comune matrice culturale mitteleuropea, se non dalla assidua frequentazione del variegato caleidoscopio orchestrale delle partiture di
Richard Strauss, di Claude Debussy e di Giacomo Puccini.
Nella resa sfolgorante della Quarta, della Quinta e della Sesta Sinfonia di Cajkovskij, Karajan pose in primo piano la realtà sonora della grande orchestra tardo-romantica, quale la Filarmonica di Berlino poteva esprimere al meglio. Naturalmente una Filarmonica plasmata da Karajan con tutti i poteri, tutte le magie di un “sire nibelungico”, secondo l’osservazione di Stuckenschmidt.
Una Filarmonica che dal 1960, all’incirca, Karajan considerava come “il naturale prolungamento delle proprie braccia”, tale era l’intesa strepitosa che si era precisata tra il direttore musicale e artistico a vita e gli orchestrali, associati da una strettissima ed ininterrotta esperienza di lavoro in comune.
Nell’impatto con le peculiari connotazioni stilistiche della scuola russa dell’Ottocento, Karajan sembra deliberatamente ricusare certe provocazioni del melos popolare, nelle movenze ritmiche come nell’influenza del retaggio bizantino, per dare, al contrario, la massima evidenza alla pittura oleografica, al gusto del colore, ad una vocazione illustrativa che, non di rado, assume una dimensione fastosa. Di conseguenza, nella cosmogonia del sinfonismo ciaikovskiano più che l’incidenza del lessico autoctono russo, viene posta in risalto da Karajan l’anima occidentaleggiante del musicista. È sul cosmopolitismo compositivo di Cajkovskij che Karajan punta le sue carte migliori, non disdegnando di soffermarsi con una eleganza il fraseggio sovente sublime sugli influssi dell’autobiografismo del musicista, sugli ansiosi languori non meno che sulle ossessioni nevrotiche della componente femminea della sensibilità ciaikovskiana. Su tali scelte ha buon gioco la tradizione viennese che sta alla base del retroterra culturale di Karajan. Il raffronto con il disegno interpretativo di certi direttori d’estrazione russa e sovietica, esemplare al riguardo Evgenij Mravinskij sul podio della Filarmonica di Leningrado, appare decisivo in merito.
Nella concezione di Karajan infatti non vi è quella tesissima urgenza, non di rado selvaggia, di Mravinskij, specialmente nella Quarta, quanto invece il risalto alla ambiguità sostanziale in cui sembra dibattersi Cajkovskij tra gli echi classicistici, le influenze fin de siècle ed un esotismo un po’ di maniera. La chiarificazione dello spessore sonoro della grande orchestra tardo-romantica, operata da Karajan, risulta dunque nettamente determinante. Derivano da questa continua propensione a sottolineare le rarefazioni cameristiche della scrittura del musicista russo certi esiti di stampo squisitamente mendelssohniano nella tersa luminosità della trama strumentale, ove si stagliano con felicissima freschezza taluni interventi e sortite solistiche. E qui il virtuosismo delle prime parti della Filarmonica di Berlino ha ampio modo di sfolgorare con nettissima incisività.
In altri momenti della Quarta, della Quinta e della Sesta Sinfonia Karajan ha egualmente buon gioco a dar risalto alla complessità costruttiva dell’orchestrazione ciaikovskiana, ove i mobilissimi impasti coloristici si intrecciano con le volute maestose e il tessuto serrato dell’insieme, secondo un magistero creativo indubbiamente spettacolare.
In altre pagine delle ultime tre Sinfonie la tendenza di Karajan a lumeggiare il coté occidentaleggiante del musicista russo può dar a tratti l’impressione di inclinare all’arbitrio, come nella resa dell’Andante della Quinta, ove l’allargamento e l’ampiezza dell’incidere dell’eloquio sinfonico assumono un’impronta quasi brahmsiana. Anche qui, però, è il gusto neo-decadente del maestro salisburghese a emergere nel segno di una estenuazione dei mezzi espressivi in cui Cajkovskij non può non riconoscersi per la affascinante rifinitura della discorsività orchestrale tardo-romantica. Ma è nello scavo interpretativo della Sesta, non per nulla continuamente approfondito nelle reiterate riproposte nell’arco di un trentennio, che Karajan ha attinto il vertice della sua concezione esecutiva con un esito che, ad ogni ascolto, ha del miracoloso per una impareggiabile valenza stilistica con la quale sono state illuminate tutte le sollecitazioni dell’ultimo retaggio ciaikovskiano, dalla precipitosa urgenza visionaria del terzo movimento alla consunta elegia del tempo conclusivo, Adagio lamentoso, ove le dissolvenze si fanno sempre più struggenti, livide e desolate in una disperazione che si fa tragedia senza scampo. Meno prossime alla sua sensibilità, per contro, la Prima, la Seconda e la Terza Sinfonia beneficiano nondimeno di tutte le intuizioni e di tutte le sfumature coloristiche ed espressive della tarda stagione interpretativa di Karajan che mai rinuncia all’armonioso equilibrio sonoro dell’eloquio strumentale, ai suoi filtri estetizzanti e a una certa sontuosità decorativa che non si risolve però mai in un perfezionismo di maniera. In una parola, anche queste esecuzioni attestano la qualità della lezione artistica di Herbert von Karajan, un prodigioso mago della concezione moderna della direzione d’orchestra.
(Luigi Bellingardi)
Registrazioni effettuate dal 1975 al 1979. Audio ottimo. Altamente raccomandato.
Sinfonia n. 1 in sol minore op. 13 “Sogni d’inverno”
La prima esperienza del massimo sinfonista russo nacque con molta fatica e subì diverse trasformazioni. Appena diplomatosi al Conservatorio di Pietroburgo nel 1866 a soli 25 anni Cajkovskij si trasferì presso il nuovo Conservatorio di Mosca, dove aveva ottenuto la cattedra di Armonia su invito del direttore Nikolaj Rubinstein, fratello di Anton. Nello stesso anno iniziò la composizione di una sinfonia per la cui realizzazione decise di trasferirsi presso gli amici Mjatlev a Peterhof, dove passò tutta l’estate e per la prima (e ultima) volta nella sua vita compose di notte, cosa che gli provocò una malattia nervosa. “Ho rovinato i miei nervi nella dacia di Mjatlev, affaticandomi sulla sinfonia, che stentava a venire”. Al fratello Modest raccontava di “allucinazioni”, di “congelamento delle estremità”. Di questa brutta esperienza Cajkovskij si ricordava ancora nel 1875.
Nikolaj Zaremba
Poco prima che la sinfonia fosse del tutto finita, la mostrò ai suoi maestri di composizione e di teoria musicale del Conservatorio di Pietroburgo, Anton Rubinstein e Nikolaj Zaremba. Da parte loro ricevette soltanto severissime critiche e il rifiuto categorico di eseguirla a Pietroburgo. In una delle lettere Cajkovskij parla con molto risentimento “dei furfanti Zaremba e Anton Rubinstein”. E anche dopo che l’autore ebbe sottoposto la partitura ad una profonda rielaborazione, i suoi professori non ritennero degna di esecuzione
l’intera sinfonia, ma soltanto e a malapena l’Adagio e lo Scherzo, dei quali approvarono invece l’esecuzione. Nel frattempo lo Scherzo fu eseguito a Mosca il 10 dicembre 1866 sotto la direzione di Nikolai Rubinstein, senza successo. Nella capitale l’11 febbraio 1867 furono finalmente proposti l’Adagio e lo Scherzo sotto la direzione di Anton Rubinstein.
Infine l’intera Sinfonia ebbe la sua “prima” a Mosca sotto la bacchetta di Nikolaj Rubinstein, il 3 febbraio 1868, con esito assai felice. Il compositore scrisse al fratello Anatolij in data 12 febbraio 1868: “La mia sinfonia ha avuto grande successo ed è piaciuto soprattutto l’Adagio”.
Anni dopo Pëtr ll’ic, in una lettera scritta al suo amico ed editore Jurgenson per ringraziarlo della stampa a sorpresa fatta in occasione del suo compleanno nel 1875 (nella quale non mancava però di rimarcare i numerosi errori di stampa), così riassumeva il faticoso percorso della Prima Sinfonia: “La Prima Sinfonia è stata scritta nel 1866. Su consiglio di Nikolaj Grigor’evic” [Rubinstein], ho fatto alcuni cambiamenti prima dell’esecuzione e in questa versione è stata eseguita nel 1868. Ma in seguito ho deciso di sottoporla a una revisione radicale. Ad ogni modo, non l’ho fatto prima del 1874″. L’autore è molto affezionato al suo “peccato di giovinezza” e si dispiace che “abbia avuto una così diffìcile nascita”.
Finalmente il 19 novembre del 1883 la Prima Sinfonia di Cajkovskij verrà eseguita a Mosca sotto la direzione di Max Erdmannsdòrfer nella sua versione definitiva. “Ero presente al concerto della Società Musicale in cui è stata suonata la mia sinfonia, che non veniva eseguita da sedici anni. Mi hanno chiamato in scena con molto entusiasmo e ciò è stato per me piacevole, e lusinghiero, ma allo stesso tempo estremamente penoso…”.
Passiamo ora al sottotitolo della sinfonia: “Sogni d’inverno”. Si tratta di musica a programma? A tal proposito citiamo l’opinione che Cajkovskij esprime in una lettera a Sergej Taneev: “Certo, la mia sinfonia ha un programma, ma è tale che è impossibile formularlo a parole. Sarebbe ridicolo e avrebbe un effetto comico. Ma la sinfonia non dovrebbe essere la più lirica di tutte le forme musicali? Non dovrebbe esprimere tutto ciò per cui non ci sono parole, ma che sgorga dall’anima e che vuole essere espresso?” Quest’opinione non si riferisce per la verità alla Prima Sinfonia, ma è comunque assai indicativa.
Ancora una testimonianza: dopo aver visitato la casa della sua amica e mecenate Nadezda von Meck, Pëtr ll’ic le scrisse nel settembre 1878 di aver notato un quadro, che, secondo lui, era “quasi come un’illustrazione del primo movimento della mia Prima Sinfonia. Il quadro rappresenta una larga strada d’inverno. È bello!” Inoltre è noto che la sinfonia fu scritta sotto l’impressione del viaggio del compositore sul lago Ladoga e sull’isola di Valaam.
Il primo movimento è intitolato “Visioni di un viaggio d’inverno”. L’iniziale Allegro tranquillo crea subito quel clima fiabesco che Cajkovskij saprà felicemente ricostruire anche nei suoi balletti. Il tremolo misurato dei violini sullo sfondo suggerisce il morbido movimento della slitta. Il tema principale, una semplice canzone russa, viene esposto dai flauti e dai fagotti all’unisono a distanza di due ottave, creando una sensazione di freddo e di vuoto. In aggiunta appare un motivo cromatico discendente che in prima esposizione con i legni assomiglia ad un tintinnio, mentre scendendo verso il basso con gli archi diventa più inquieto. Questo tema viene ripreso per intero da altri strumenti e la sua evoluzione raggiunge sonorità piene, quasi trionfali. Anche il secondo tema, affidato al clarinetto, è una tipica canzone russa di ampio respiro. I tre elementi menzionati vengono riproposti da vari gruppi di strumenti, che si alternano come in una conversazione, con richiami a distanza, prima del climax finale. Nella coda il tema principale viene riproposto con la stessa strumentazione dell’esposizione.
Il secondo movimento, Adagio cantabile ma non tanto è intitolato “Terra desolata, terra di brume”. Si apre e si chiude con una sorta di quartetto d’archi. Il tema viene esposto la prima volta dall’oboe col sostegno del flauto e del fagotto. Un leggero cambiamento di tempo coinvolge i violoncelli, e il tema assume così un carattere più malinconico. Dopo il ritorno al Tempo I e altre variazioni si arriva ad un improvviso accordo dei soli archi, seguito dall’ingresso di due corni che eseguono il tema fortissimo, marcando la melodia con molta espressione. La sonorità cresce ancora e giunge all’apice quando improvvisamente tutto s’interrompe e ritorna il quartetto d’archi iniziale con il sostegno del contrabbasso. L’inizio e la fine di questo movimento ben si prestano all’immagine delle brume e della cupezza del paesaggio russo dipinto da Isaak Levitan o descritto da Anton Cechov, due contemporanei del compositore a lui assai cari.
Il terzo movimento, lo Scherzo – Allegro scherzando giocoso, non ha più alcuna indicazione programmatica. Il viaggio invernale qui s’interrompe. Il materiale della prima e della terza parte dello Scherzo proviene dalla Sonata in do diesis minore per pianoforte composta nel 1865 ma annotata come op. 80. La figurazione ritmica estesa in due battute, con uno spostamento di accento sul tempo debole in realtà è binaria, mentre il tempo dello Scherzo è ternario. Il tema principale è costituito da una serie di accordi eseguiti prima dagli archi e poi dai legni, con una strumentazione chiara e trasparente. Dopo una pausa generale inizia un elegante valzer, la danza preferita del compositore e da lui usata più e più volte. Nella coda ci sorprende una bella trovata: l’assolo dei timpani al quale viene affidato in pianissimo lo schema ritmico della mazurka.
L’eventuale “programma” del finale Andante lugubre – Allegro moderato – Allegro maestoso – Andante lugubre – Allegro vìvo potrebbe essere una grande festa popolare. Questo spiegherebbe l’apparizione della canzone (come nel finale della Quarta) “Sbocciavano i fiori”, che si sviluppa gradatamente da un nucleo in sol minore per trasformarsi in blocchi di accordi in sol maggiore. L’organico è aumentato notevolmente con l’uso massiccio degli ottoni – trombe, tromboni e tuba – e ancora piatti, grancassa… Il netto contrasto tra “lugubre” e “maestoso” costituisce l’architettura di questo movimento in cui il compositore dimostra abilità nelle elaborazioni polifoniche unitamente alla capacità di raggiungere sonorità grandiose.
Sinfonia n. 2 in do minore op. 17 “Piccola Russia”
La reazione del pubblico e quella della critica, a livello più musicologico che giornalistico, di fronte alla vasta e molteplice opera teatrale, sinfonica e cameristica di Cajkovskij si sono mosse in linea generale lungo due direttrici parallele se non divergenti. Il pubblico sin dal primo momento ha subito il fascino della musica di questo tormentato e infelice compositore di stampo romantico ed è stato conquistato dalla qualità della modellatura melodica, suadente e penetrante, che caratterizza l’intera produzione artistica del musicista. La critica, al contrario, ha mostrato spesso diffidenza nei confronti di questo autore, ritenuto troppo sentimentale e di gusto salottiero, e soprattutto piuttosto eclettico e poco disciplinato dal punto di vista della forma musicale, intesa secondo i criteri classici. La maggioranza dei critici ha cercato sempre di contrapporre, con forzature a volte arbitrarie, il creatore dell’Evgenij Onegin, sensibile alle squisitezze e alle fioriture vocalistiche della tradizione musicale occidentale, allo storico e compatto “Gruppo dei cinque”, considerato la punta più genuina e originale della cultura operistica russa ottocentesca, seguace dei modi melodici e ritmici del canto di estrazione popolare e religiosa. È vero che la strada percorsa dal “Gruppo dei cinque” fu diversa da quella battuta da Cajkovskij, la cui straordinaria fantasia inventiva rimase suggestionata, sin dal periodo degli studi giovanili, dagli esempi di Mozart, Schumann, Liszt e dell’opera italiana e francese, con Berlioz in testa, ma non si può negare una componente psicologica slava, se non un russismo profondo e autentico, nella musica di questo artista, riconoscibile nella natura stessa dell’idea melodica, così intimamente malinconica e meditativa, e in certi colori strumentali di tono descrittivo, riscontrabili anche in Musorgskij e Rimlkij-Korsakov. In misura maggiore che in questi ultimi due musicisti si avverte in Cajkovskij un’accentuazione più spiccata e preferenziale verso l’effusione lirica e i languorosi ripiegamenti elegiaci, dettati da un temperamento freudianamente complesso; ciò non toglie però che l’arte di questo originalissimo compositore
abbia saldi legami con la cultura del suo paese e con la tematica del pessimismo esistenziale di poeti importanti, come Lermontov e Puskin.
Il lirismo dalle inflessioni carezzevoli, il senso del folklore russo e l’estroversa piacevolezza della strumentazione sono presenti nella Sinfonia n. 2 in do minore, che ha per sottotitolo “Piccola Russia” in quanto utilizza diversi canti popolari russi, in particolare nell’ultimo movimento è citato il tema della canzone popolare ucraina La gru, carico di un brioso ritmo danzante. Il lavoro fu scritto tra giugno e ottobre 1872 (venne revisionato poi nel 1879) ed eseguito poco dopo per la prima volta a Mosca sotto la direzione di Nikolaj Rubinstein (1835-1881), nome di grande prestigio nella vita musicale russa del tempo.
Mentre nei confronti della Sinfonia n. 1 in sol minore (“Sogni d’inverno”) dello stesso Cajkovskij, composta nel 1866, Rubinstein aveva espresso diverse riserve, specialmente sul primo e l’ultimo tempo, ritenuti troppo rapsodici e poco rispettosi della forma sinfonica (ma gli era piaciuto molto l’Adagio cantabile del secondo tempo per la stupenda invenzione melodica del tema principale), la situazione cambiò completamente con la Sinfonia n. 2, accolta con parole lusinghiere non solo da Rubinstein, ma da Balakirev e dal critico e musicologo Vladimir Stasov, favorevoli all’estetica del “Gruppo dei cinque”. Anzi, Stasov consigliò a Cajkovskij di scrivere dei pezzi sinfonici sui seguenti testi: La tempesta di Shakespeare, Ivanhoe di Walter Scott e Taras Bulba di Gogol; il musicista, si sa, compose un’ouverture-fantasia solo sul primo argomento, affiancandola ad altri lavori del genere come Romeo e Giulietta (1869-1880), Francesca da Rimini (1876), Manfred (1885) e Amleto (1888).
La Sinfonia n. 2, portata al successo sin dal primo momento da Rubinstein, si apre con una evocativa e cantabile perorazione del corno che cita la canzone popolare Lungo la Madre Volga (Andante sostenuto) che sfocia poi in una brillante figurazione ritmica, ben marcata nelle lucide sonorità dei fiati (Allegro vivo), anch’essa di derivazione folcloristica.
Anton Rubinstein
Il secondo tempo (Andantino marziale, quasi moderato) è costruito sul contrasto fra un tema di marcia nuziale (Fila, o mia filatrice), ricavato da un frammento dell’opera Undine (1869) incompiuta e annunciato dai clarinetti e dai fagotti sul ritmo dei timpani, e una frizzante melodia intonata dagli archi.
L’Allegro molto vivace ha la struttura dello Scherzo con le sue punteggiature strumentali molto vivaci e colorite; non manca il Trio dagli spumeggianti effetti ritmici.
Accordi possenti e grandiosi introducono con particolare fastosità il Finale, elaborato sul motivo ritmicamente scattante della canzone ucraina già citata e su un tema melodicamente più disteso e di sapore inconfondibilmente cajkovskiano: l’orchestra acquista ampiezza e robustezza di respiro in uno slancio di travolgenti sonorità, somiglianti a quelle conclusive della Quinta Sinfonia apparsa sedici anni dopo e rivelatrici della calda e pulsante musicalità del compositore.
Sinfonia n. 3 in re maggiore op.29 “Polacca”
La sinfonia n. 3i n Re maggiore, op. 29 di Pëtr Il’ičČajkovskij fu terminata nell’agosto del 1875 e fu eseguita la prima volta a Mosca il 19 novembre dello stesso anno. È la sinfonia meno conosciuta e meno eseguita di Čajkovskij. I momenti di maggior rilievo sono rappresentati dal secondo movimento, un valzer, e dal terzo movimento, l’Andante elegiaco. Il sottotitolo dato alla sinfonia esce dall’ultimo movimento ove è accennato il tema di “danza alla polacca”. La sinfonia, della durata di 44 minuti, si compone di cinque movimenti:
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I Movimento: moderato assai – tempo di marcia funebre – allegro brillante: inizio quasi in sordina vivacizzato subito dopo dall’entrata degli ottoni a cui si accompagnano gli archi quasi a far da marcia funebre al movimento che viene ripresa dall’orchestra. Affidato il tema ai fiati ed ai legni concludendo con un crescendo orchestrale, l’allegro brillante Finale, in un ritorno degli ottoni.
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II Movimento: valzer alla tedesca – allegro moderato semplice: pezzo leggero, evasivo, conforme a quell’arte che più in là il maestro farà sua, arricchendola, nei balletti delle sue fiabe messe in opera. Tecnica mirabile e movimento scorrevole che fa di questo pezzo il migliore in assoluto della Sinfonia insieme al successivo terzo movimento.
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III Movimento:Andante elegiaco: brano dall’apertura elegiaca, un quadro prettamente bucolico a rappresentare luoghi conosciuti nei suoi viaggi dall’artista; scenari di quella Rutenia polacca da cui prende quale sottotitolo la Sinfonia. Brano molto amabile, cantabile in cui l’orchestra e gli archi ne dominano la scena. Chiusura un poco cupa del movimento. Insieme al secondo movimento è indiscutibilmente il più riuscito.
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IV Movimento: scherzo – allegro vivo: entrata dei fiati a dare l’impronta del movimento. Questo scherzo, allegro vivo, con qualche leggero pizzicato, non certo paragonabile a quello ostinato del terzo movimento della Quarta Sinfonia. Molto vivo nel Finale. Nel suo insieme può ben figurare, senza eccellere, ed essere ascoltato con piacere.
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V Movimento: Finale – allegro con fuoco – tempo di polacca: inizio quasi maestoso di tutta l’orchestra, il movimento procede privo di iniziativa, non molto scorrevole e scarno di idee come del resto è tutta la Sinfonia. Brano che assume nel Finale il tempo di “danza alla polacca” con l’Allegro con fuoco cui si fanno sentire i timpani, gli ottoni e l’orchestra. Sinfonia che comunque prelude alla stesura della Quarta Sinfonia, ove viene introdotto il tema del fato e del destino, che accompagnerà il maestro fino alla fine dei suoi giorni. Nel 1961 il coreografo George Balanchine ha utilizzato la Sinfonia n.3 per la sezione “Diamanti” del suo balletto Jewels (Gioielli), come omaggio all’Impero Russo e a Marius Petipa.
Sinfonia n 4 in fa minore op. 36
La sera del 10 febbraio 1878 Piotr Ilic Ciaikovski, orologio alla mano, seguiva con il pensiero (ma avrà tenuto conto dei fusi orari?) da San Remo la prima esecuzione della sua Quarta sinfonia, diretta a Mosca da Nikolai Rubinstein. Dopo il concerto, Rubinstein e altri amici di Ciaikovski, riuniti a banchetto, spedirono al compositore un telegramma di felicitazioni, riferendo dell’ottima esecuzione, ma tacendo sull’esito del concerto, che era stato, si seppe poi, poco più che cordiale. Ciaikovski ci rimase male; pochi giorni dopo, rispondendo a un altro telegramma, quello della amica epistolare e mecenate Nadezda von Meck, sottolineava: «Nell’intimo, sono convinto che la Quarta sinfonia sia quanto di meglio io abbia finora composto»; e confessava la sua gioia per l’ammirazione destata in Nadezda da quella che i due avrebbero sempre definito nella loro fluviale corrispondenza «la nostra Sinfonia», a ribadire come il lavoro fosse stato un po’ il suggello del patto di amicizia (se non, e in una dimensione distorta e affatto irrealizzabile, addirittura d’amore) stipulato fra due persone destinate a incontrarsi soltanto per lettera. La creazione della Sinfonia, il cui contenuto era drammaticamente legato alle vicende dell’esistenza privata di Ciaikovski, aveva infatti accompagnato di pari passo i primi momenti della relazione fra il nevrotico musicista e la ricchissima dama: nel maggio del ’77, accompagnando una richiesta d’aiuto finanziario, Ciaikovski offriva alla signora la dedica di «una Sinfonia che ho cominciato l’anno scorso»: la sovvenzione fu prontamente concessa, inaugurando una consuetudine che sarebbe valsa a Ciaikovski, per tredici anni, il godimento di una lauta e regolare assegnazione di denaro, e la dedica accettata con gioia. Pochi giorni dopo, questa dedica offriva lo spunto a una dichiarazione in piena regola: «Mi ritiene sua amica? Se Ella si sentisse di rispondere con un chiaro ‘sì ‘, mi farebbe molto piacere se la dedica sul frontespizio della Sinfonia, senza cenno alcuno al nome, potesse suonare semplicemente così: ‘Dedicata al mio amico’». E «Al mio migliore amico» la Quarta sarebbe stata dedicata.
Baronessa Nadezda Filaretovna von Meck
Ma la Sinfonia, che Ciaikovski prevedeva di mettere in partitura alla fine dell’estate di quel 1877, dopo aver avviato la composizione di una nuova opera (sarebbe stata l’Eugenio Onieghin), andò un po’ più per le lunghe. Il 6 luglio, Ciaikovski s’imbarcava nell’avventura più assurda e disastrosa della sua vita, sposando Antonina Miliukova, una giovane ammiratrice. Bastarono meno di tre settimane perché Ciaikovski si accorgesse di ciò che avrebbe sempre dovuto sapere, ossia che l’amore non poteva offrirgli gioia alcuna, perlomeno con una donna. Sconvolto, Ciaikovski si rifugiò a Kamenka, presso la sorella, dove riprese il lavoro all’Onieghin. In settembre, ripresa a Mosca la difficile convivenza, il dramma precipitò: Ciaikovski reagì con un gesto tipico di lui, un tentativo di suicidio «naturale», compiuto scendendo nelle gelide acque della Moskova allo scopo di prendersi un’infreddatura mortale: una specie di roulette russa, come quella che forse gli sarebbe costata la vita sedici anni più tardi, se, come pare, Ciaikovski contrasse il colera bevendo consapevolmente dell’acqua sospetta. Ma per quella volta, Ciaikovski sfuggi alla morte: poco dopo, definitivamente separatosi dalla moglie, partiva per un lungo soggiorno all’estero: a Clarens, in Svizzera, e poi nelle soste in varie città d’Italia, riprese il lavoro alla Quarta e all’Onieghin. «Nessuna delle mie composizioni orchestrali mi è costata tanta fatica, ma anche a nessuna ho lavorato con tanto amore. Forse m’inganno, mia cara Nadezda Filaretovna, eppure credo che questa Sinfonia non sia un’opera mediocre. Com’è consolante per me il pensiero che questa sia proprio la nostra Sinfonia e che Ella, quando l’avrà ascoltata, potrà sapere come a ogni battuta io abbia pensato a Lei!». Finalmente, il 10 gennaio del ’78, Ciaikovski spediva a Mosca, dalla posta centrale di Milano, la partitura completa della Sinfonia, condotta a termine via via che la guarigione spirituale del musicista procedeva, favorita, secondo ci attestano le lettere di Ciaikovski, dal conforto di qualche bottiglia di cognac e da compagnie gradite, come quella di Alioscia, il giovane servitore a lui carissimo.
Nata «inter lacrymas et luctum», la Quarta rimane come uno dei più angosciosi documenti del dramma personale di Ciaikovski. Accanto a ciò, e proprio per ciò, rappresenta in modo non meno compiuto delle altre due Sinfonie che Ciaikovski avrebbe composto, undici e sedici anni dopo (la Quinta e la Patetica, in tante cose a questa superiori), una chiara testimonianza del convivere, nel suo accostarsi alle grandi forme, e in particolare alla Sinfonia, di due opposte e in un certo senso contraddittorie aspirazioni del compositore: da un lato l’adesione a una consapevolezza formale di stampo europeo, tale da dettare un impianto, a grandi linee, rispettoso della tradizione strumentale classica e da assimilare a un’armonia e a una ritmica che erano grosso modo le stesse correnti in Occidente tutti i suggerimenti del canto popolare russo, vivissimi in Ciaikovski non meno che in nazionalisti come Rimski o in «russi puri» come un Mussorgski; dall’altro, l’invincibile insinuarsi nella composizione, investendone
la stessa struttura, di un’intenzione programmatica, o comunque di un’esigenza contenutistica di scoperta origine autobiografica, in dipendenza di un preciso tema psicologico, quello della lotta con il fato. In quest’ultimo, Ciaikovski giungeva a identificare i suoi stessi dissidi privati, spingendosi fino a gravare i suoi temi di specifici riferimenti, per esempio, a quella sua condizione di «diverso» che certo gli valeva non poche difficoltà di inserimento e di adattamento al mondo esterno: ciò che più conta, i principi negativi cui tanto sfogo veniva concesso anche in composizioni esteriormente «assolute» come le Sinfonie, non trovavano nella successione degli avvenimenti musicali una risoluzione positiva, come quella idealizzata, mettiamo, nei contrasti tematici e nella successione dei movimenti delle Sinfonie beethoveniane, ma tendevano a configurare il soccombere di quella specie di antieroe in cui Ciaikovski rifletteva musicalmente se stesso di fronte alle forze avverse del destino. Concezione, questa, di cui Ciaikovski avrebbe intuito la più diretta e coerente rappresentazione solo alla vigilia di quella sua morte lasciata sopraggiungere fatalisticamente, più che non sfidata, con il quasi mahleriano sovvertimento della canonica articolazione dei movimenti della Sinfonia realizzato (ed era forse la prima volta, in tutta la storia di questa forma) concludendo la Patetica con un Adagio lamentoso anziché con un tempo veloce; e che nella Quarta viene faticosamente e non credibilmente elusa nella vivacità esasperata del Finale.
Sul problema dei «programmi», per tutto l’Ottocento e anche in tempi più vicini a noi dibattutissimo, Ciaikovski si pronunciò spesso in modo abbastanza vago e contraddittorio: pur non negando l’esistenza di assunti del genere, preferì sempre, per quanto riguarda le Sinfonie, astenersi dall’indicarne esplicitamente le linee (a differenza di quanto poteva avvenire per lavori come il Manfredo, per natura programmatici), anche quando esse gli erano del tutto chiare. Tale fu, come più tardi per la Patetica, il caso della Quarta sinfonia; della quale Ciaikovski volle offrire la chiave alla sola Nadezda, dedicataria e spiritualmente «comproprietaria» dell’opera. «La nostra Sinfonia ha un programma», le confidava un anno e mezzo dopo averne terminata la composizione: «esiste cioè la possibilità di tradurne in parole il contenuto, e a Lei, a Lei sola, voglio chiarire il significato di tutto il lavoro e dei singoli movimenti. L’introduzione è il nocciolo dell’intera Sinfonia; l’idea principale è il fato, forza nefasta che si oppone al conseguimento della nostra felicità e che perfidamente fa sì che benessere e pace non siano mai perfetti, mai scevri da nubi; quella forza che sta sospesa come la spada di Damocle sul nostro capo, e incessantemente ci amareggia l’animo». Nel corso del primo tempo «abbattimento e disperazione si fanno sempre più forti, ma ci abbandoniamo ai sogni, e questi a poco a poco si impadroniscono del nostro animo. Ci scordiamo di tutto ciò che è cupo, negato alla gioia. Ecco la felicità! Così la nostra esistenza è un continuo alternarsi di aspre realtà e di fugaci sogni. Il secondo tempo esprime un grado diverso di malinconia; quella malinconia che ci coglie di sera, quando stanchi per una giornata di duro lavoro, soli, ci sediamo finalmente con un libro in mano; quando il libro ci sfugge, e un’onda di memorie si riversa su di noi. Com’è dolce, allora, ripensare alla giovinezza, ai giorni in cui il sangue ci pulsava nelle vene, caldo, gagliardo, e la vita non aveva per noi che soddisfazioni e appagamento! Ma mancavano anche, allora, i giorni difficili? Che cosa a un tempo dolorosa e dolce è il tuffarsi nel passato! Il terzo tempo non esprime nulla di determinato. Sono arabeschi bizzarri, figure inafferrabili che attraversano la nostra mente come quando si è bevuto del vino e si è un po’ brilli. Ci si lascia trasportare dalla fantasia. Ma ecco: improvvisamente ricompare alla memoria l’immagine di un piccolo contadino ubriaco e l’eco di una canzonetta udita per strada. Da qualche parte, in lontananza, passano soldati… Quarto tempo: se non riesci a suscitare dentro di te un’atmosfera di gioia, guardati intorno. Va’ fra la gente, partecipa a una festa popolare. Preso dallo spettacolo di tanta allegria, dimentichi la tua pena, finché, inevitabile, torna a farsi sentire il Destino (motivo del fato). La gente non si occupa di te e non si accorge neppure di quanto tu sia solo e triste. Sono tutti allegri, dominati da sentimenti semplici e spontanei! Esci da te! Partecipa della felicità altrui. La vita ha pure i suoi lati belli. Questa è, amica carissima, tutta la spiegazione che Le posso dare. Naturalmente le mie parole sono, sotto certi aspetti, oscure e non esaurienti. La caratteristica propria alla musica strumentale è quella di non poter essere facilmente spiegata a parole. Dove queste vengono meno, bisogna lasciar parlare la musica ».
Queste parole, anche pensando alla data in cui furono scritte, hanno tutta l’aria di essere una traduzione in immagini verbali di un fatto musicale già compiuto e autosufficiente. Possono però fornire all’ascoltatore una chiave per seguire lo scoperto patetismo della Quarta in tutte le mutazioni che esso attraversa nel corso dei quattro movimenti. Questa Sinfonia, la prima nella quale Ciaikovski avesse dispiegato una maturità tecnica e una consapevolezza artistica di piena felicità, e nella quale si riflettesse senza pudori l’evidenza dolorosa di un’esperienza esistenziale, inaugurando una prassi che sarebbe stata onorata ancor più negli altri due capolavori del sinfonismo ciaikovskiano, in termini più strettamente musicali resta come una pagina di ispirazione feconda e spontanea, costruita con mano esperta, e sicuro senso formale. Il canto popolare russo vi è sfruttato ripetutamente, nel caso del Finale addirittura con la citazione di una canzone famosa, Stava una betulla in un campo. Ma per quanto spontanea fosse in Ciaikovski questa adesione al patrimonio popolare della sua terra, tale connotato resta a conti fatti abbastanza accessorio rispetto alla vera fisionomia della Quarta, turgida di strutture sonore di autenticamente sinfonica densità ma anche timbricamente rifinita con estrema leggerezza (basterebbe pensare alle trasparenti filigrane dello Scherzo); capace di vigorose perorazioni, come nella drammaturgia intensa del primo movimento, di ripiegamenti lirici e riflessivi come nell’Andantino, di scatenate esplosioni ritmiche, appunto di segno popolaresco, come nel Finale.
Petr Ilic Cajkovskij
Tutta la «fatica» che Ciaikovski asseriva essergli costata la Quarta, trovò dunque provvisorio compenso nella realizzazione del primo capolavoro sinfonico uscito dalla sua penna: sarebbe passato molto tempo – e in tale periodo Ciaikovski avrebbe prodotto una quantità enorme di musica – prima che il compositore tornasse ad accostarsi alla Sinfonia; l’avrebbe fatto due volte, nel segno di un pessimismo ancor più spinto e di una tragicità ancor più cupa, destinata a spegnersi nel lungo lamento che conclude la Patetica.
Sinfonia n. 5 in mi minore op. 64
Nella storia della musica russa la figura di Ciaikovski ha corso il rischio di cadere vittima di gravi contrapposizioni ideologiche quando, a fronte della conclamata purezza dei difensori di una lingua nazionale radicalmente autoctona, lo si è spesso superficialmente etichettato come lo strenuo paladino di una vena occidentalizzante, peccaminosa quant’altra mai. E cosi aggettivi quali sdolcinato, zuccheroso, languido e liquoroso, se non addirittura di nemico della patria, cominciarono a piovere sull’onda anche di un’abbondante letteratura, circolante fino a qualche anno fa, simile più al romanzo d’appendice che a una puntuale e seria messa a fuoco della sua personalità d’artista, tutt’altro che comodamente seduto a godersi gli agi di una posizione ufficialmente riconosciuta mentre gli altri soffrivano gli stenti della persecuzione zarista. Niente di più falso. Del resto, passate queste trite romanticherie (ma non meno fuorvianti furono successivi interventi sul ruolo «politico» della sua musica), studi recenti (D’Amico, Bortolotto), hanno dato una collocazione più precisa e adeguata ai meriti della vasta produzione di Ciaikovski. Se è vero che le sue scelte estetiche giungevano più gradite negli ambienti del governo e dell’aristocrazia di corte (sulla quale peraltro il popolo cominciava a premere sotto la spinta di una vigile borghesia in ascesa) dì quelle, ad esempio, di un Mussorgski, è altrettanto vero che la sua ricerca non fu né una copia di quanto si andava facendo oltre i confini della Russia, né tanto meno un netto rifiuto delle istanze popolari emergenti. Basterebbe aver presente la cruda drammaticità e il senso di desolata solitudine di certe frasi dell’«Onieghin» o, più ancora, la cornice di disperata angoscia in cui vivono i personaggi della «Dama di Picche», dostoievskianamente tratteggiati, il sottile e penetrante uso del coro (non in funzione protagonistica come in Mussorgski ma innegabilmente russo), l’andamento tematico dei numerosi «Lieder», elaborati utilizzando testi di autori quasi sempre del proprio paese (molti portano la firma di Tolstoi), e, infine, il complessivo senso di sofferenza dell’uomo, scaturito non tanto dai suoi impossibili amori (vedi il caso clamoroso della baronessa Von Meck, inesauribile fonte per la letteratura di cui sopra), ma da una crisi esistenziale di ben più vaste dimensioni storiche, per riflettere come tali indicazioni costituiscono un insieme di probanti elementi atti a ridimensionare alquanto il ritratto distorto di Ciaikovski. Ritratto, questo sì, condito abbondantemente di ingredienti desunti dal decadentismo europeo, dal quale ricavò, fra l’altro, la cifra del banale e quell’atteggiamento di estenuante tensione di fronte allo scorrere degli eventi che Mahler svilupperà poco dopo in vibrante protesta umana e civile, piantando una lancia acuminata nel cuore del secolo al tramonto.
Ed è tipicamente decadente, oltre all’affascinante ricchezza melodica, orientata verso l’autocompiacimento narcisistico, la vaporosa e duttile ricerca timbrica, nonché lo straordinario vitalismo orchestrale oscillante fra il colorismo di Borodin e il gusto, denso e raffinato a un tempo, di Rimski. Sullo sfondo di tale variegata tavolozza inventiva, agiscono l’eterno tributo pagato sia alla lezione beethoveniana, percepibile persino nell’«Andante» della «Quinta Sinfonia» vagamente riconducibile allo stesso movimento della «Nona», sia al poderoso impianto brahmsiano, al quale Ciaikovski è legato anche per l’incedere dolcemente affettuoso, tipico della «Stimmung» melanconica del romanticismo europeo. Mentre i livelli conflittuali e autobiografici, che ispessiscono e complicano con improvvise e rabbiose impennate il lento procedere descrittivo, paiono germogliare dal tessuto sinfonico di certo Schumann, ereditandone inoltre tic maniacali e la circolarità del materiale tematico.
Prendiamo giusto la «Quinta Sinfonia», composta nel 1888, ben undici anni più tardi della precedente, da lui particolarmente amata. La «Quinta», invece, come vedremo, non lo sarà affatto se dobbiamo dar credito a una sua dichiarazione al riguardo. Ebbene, struttura portante dell’intero lavoro, è un unico tema, quello che compare all’inizio, espresso dal clarinetto in la e ripreso subito dopo insieme col fagotto: «idée fixe» che lo perseguita, ossessionandolo, lungo l’arco di tutto il lavoro, escluso naturalmente la «Valse», formula d’alleggerimento (ma tutt’altro che svagata o gioiosa) usata assai spesso con azzeccata originalità da Ciaikovski. Se poi, in tale chiodo fisso tematico, si debba scorgere, come è stato più volte azzardato, il recondito significato d’una parola ammonitrice del padre a un figliolo in procinto di intraprendere un lungo viaggio; parola rimasta nel cuore di costui nei momenti più difficili del suo avventuroso vagabondare, oggi appare del tutto indifferente. Cosi come risulta letterariamente efficace, ma musicalmente non so quanto attendibile, l’immagine di una agghiacciante condanna, kafkianamente intesa come colpa da scontare nei confronti di un nemico invisibile, che Io insegue col suo tragico sospetto fino alla morte. La musica può suggerire questo e altro.
La stesura della «Quinta» durò appena tre mesi, lo spazio di un’estate trascorsa nel piccolo villaggio di Frolovskoje. Voleva dimostrare a sé e altri altri — come scriverà alla baronessa Von Meck — che la vena non si era esaurita. Anzi la partitura, dopo qualche attimo di esitante trepidazione, filò via senza interruzioni, frutto di una vera e propria illuminazione. Il 17 novembre dello stesso 1888, sotto la direzione personale dell’autore, veniva portata a battesimo a Pietroburgo fra la quasi indifferenza degli astanti. L’autorevole Rimski sedeva in prima fila e giustificò la sua perplessità col fatto che un solo ascolto non bastava per emettere un giudizio definitivo. È lecito perciò pensare che tale prudente atteggiamento denotasse per lo meno qualcosa che doveva averlo positivamente turbato. Anche Brahms, quando ascoltò la partitura della «Quinta» ad Amburgo nell”89, si dimostrò non del tutto soddisfatto, disapprovando specialmente il finale. Ne segui una breve polemica in cui Ciaikovski, di rimando, accusò Brahms di aver messo in caricatura Beethoven nelle sue sinfonie. Schermaglie di poco conto che coloriscono anche la storia di questo controverso lavoro. Ora non si sa se sotto l’influsso di tale cocente delusione (è noto, infatti, che Ciaikovski cadeva spesso vittima di drammatici stati depressivi), oppure se, in fondo, anche lui ne fosse poco convinto, il musicista vergò il 2 dicembre queste sconsolate righe alla von Meck: «Dopo aver diretto la mia nuova Sinfonia, due volte a Pietroburgo e una volta a Praga, mi sono convinto che essa è mal riuscita. V’è in quest’opera qualcosa di sgradevole, una certa diversità di colori, una certa insincerità, un certo artificio. Pur senza rendersene conto il pubblico lo sente. Avvertii chiaramente che le manifestazioni di plauso andavano alle mie composizioni precedenti, ma che questa Sinfonia non riusciva a piacere: constatazione fatta apposta per procurarmi un cocente dolore e una profonda insoddisfazione di me stesso».
Il cammino incerto della «Quinta» (ma la parentesi di Praga fu assai più gratificante anche perché accompagnava le fortunate repliche dell’«Onieghin»), proseguirà fin dopo la morte dell’autore quando il grande Arthur Nikisch la liberò definitivamente da ogni dubbio circa la sua validità estetica e musicale, collocandola fra le pagine più note e universalmente accettate del grande compositore russo.
Sinfonia n. 6 in si minore op. 74 “Patetica”
La storia del capolavoro sinfonico di Ciaikovski è strettamente legata, e forse non solo sul piano delle pure coincidenze, con quella dell’ultima e definitiva crisi della sua esistenza interiore, culminata in una morte per molti versi inquietante. Nel 1888, l’insuccesso della Quinta sinfonia, al pari della Quarta (1877) intessuta di dolorosi riferimenti autobiografici, aveva duramente colpito Ciaikovski, che per altri quattro anni si era astenuto dall’affrontare la grande forma sinfonica, un impegno che gli era sempre costato molte perplessità e indecisioni. Le difficoltà torturanti della sua vita di disadattato, in continuo conflitto con il mondo esterno, si aggravarono sensibilmente negli ultimi anni del compositore, precocemente invecchiato anche sotto il profilo fisico. Già il periodo fra il 1883 e l’88 si era caratterizzato come una fase di decadenza, quasi come se le facoltà creative di Ciaikovski si fossero esaurite con Mazeppa, la sua sesta opera teatrale: fino alla Quinta sinfonia, la produzione di Ciaikovski era parsa non poter più ripetere la felicità di risultati della giovinezza: nel ’90, poi,
l’interruzione del rapporto con Nadezda von Meck, la ricchissima dama che gli aveva offerto protezione economica e amicizia per tredici anni, aveva accentuato ancor più le sue nevrosi e il suo senso di insicurezza, togliendogli un punto d’appoggio importantissimo, anche se per molti versi assurdo (fra Ciaikovski e Nadezda, com’è noto, non vi furono altro che contatti epistolari, cosa che impedì che fra i due, al momento della rottura voluta dalla signora stessa, pare perché finalmente edotta dell’omosessualità di Ciakovski, si potesse avere una spiegazione). Giunto ai cinquanta anni, e dimostrandone in ogni senso di più, Ciaikovski si vedeva in una situazione psicologica senza via d’uscita, forse ancor più grave di quella che aveva attraversato nel ’76 dopo la brusca conclusione del suo brevissimo, strampalato matrimonio.
In un momento così difficile, la ritrovata fertilità creativa aveva veduto nascere quello che è forse il capolavoro di Ciaikovski operista, La dama di picche (1890), salutata da un successo enorme al pari dei due grandi balletti, La bella addormentata (1888-1889) e Lo schiaccianoci (1891-92), composti in quel periodo. Il successo esteriore che finalmente arrideva a Ciaikovski, consacrato su scala mondiale, non fu tuttavia sufficiente a disperdere quel pessimismo che aveva sempre dominato il musicista, riflettendosi in modo più o meno esplicito sulla sua produzione. Nel ’92, nel tentativo di prendersi una rivincita sulla sfortunata esperienza della Quinta, Ciaikovski condusse quasi a termine la composizione di una nuova Sinfonia, ma in un accesso di autocritica il lavoro fu distrutto: per alcuni mesi Ciaikovski visse nella più cupa disperazione, lacerato da dubbi più drammatici di sempre circa le sue possibilità creative. Quando l’ispirazione sembrò tornargli, nel febbraio del ’93, Ciaikovski si rimise al lavoro quasi con frenesia: in agosto, la più grande e importante delle sue Sinfonie, la Patetica, era finalmente conclusa. Il 16 ottobre di quell’anno, a Pietroburgo, Ciaikovski dirigeva la prima esecuzione della nuova Sinfonia, accolta senza eccessivi entusiasmi dalla critica e dal pubblico. Pochi giorni dopo, la improvvisa e inspiegabile catastrofe: a cena con il fratello e altri amici, Ciaikovski bevve dell’acqua non bollita, imprudenza pazzesca, poiché in quei giorni a Pietroburgo infuriava un’epidemia di colera. Una folle scommessa, si direbbe, che la morte avrebbe inevitabilmente vinto: il 25 ottobre, dopo cinque giorni di sofferenze, Ciaikovski soccombeva al colera che forse non involontariamente aveva contratto.
Herbert von Karajan
Alla luce di questi avvenimenti, è fin troppo facile attribuire alla Patetica il carattere di un testamento, di una tragica confessione di sconfitta, di una profezia di morte. Comunque stiano le cose, è certo che Ciaikovski compose la sua Sinfonia tenendo ben presente un «programma» peraltro destinato a rimanere segreto. «Questo programma», scriveva nel febbraio del ’93 Ciaikovski al nipote, «riflette via via i miei sentimenti più intimi. In viaggio, mentre mentalmente ne andavo componendo l’abbozzo, scoppiai più di una volta a piangere come se fossi in preda alla disperazione». Il lavoro era andato avanti molto velocemente, dapprima. Ma in luglio, ecco Ciaikovski di nuovo in difficoltà: «Sono immerso fino al collo nella mia Sinfonia. Quanto più procedo, tanto più difficile mi riesce la strumentazione. Vent’anni fa era un lavoro che mi riusciva d’un fiato, semplicemente, senza che ci dovessi pensare, e tuttavia assai bene. Adesso sono diventato vile e incerto». E ancora, in una lettera al granduca Costantino, una significativa ammissione: «È sconcertante come la mia ultima Sinfonia, quella che ho appena finito, sia intrisa di un’atmosfera non diversa da quella di un Requiem, particolarmente nel tempo finale».
Questa puntualizzazione coglieva il dato più vistoso, e non solo esteriormente, della Patetica, forse la prima Sinfonia nella storia che terminasse, anziché con un movimento veloce, con un tempo lento, un lungo Adagio lamentoso. Nella dichiarata intenzione programmatica di Ciaikovski questa scelta assumeva un
significato ben preciso: nella Patetica, come nelle due Sinfonie che l’avevano preceduta, il compositore aveva inteso sviluppare e rappresentare musicalmente un tema psicologico per lui di drammatica attualità, quello della lotta contro il fato. Da questa lotta, l’io di Ciaikovski non poteva non uscire perdente; donde il carattere tragico e sofferto di tutte e tre le sue ultime Sinfonie. Ma la sconfitta aveva nei due lavori precedenti trovato una raffigurazione in certo senso ambigua, nascondendosi dietro il turbinare vivacissimo del Finale della Quarta, e assumendo le spoglie di un improbabile quanto suggestivo eroismo nelle fanfare che percorrono quello della Quinta. Adesso, in quel quasi mahleriano capovolgimento della successione tradizionale dei movimenti, che articola la Patetica in un drammatico e complesso primo movimento con introduzione lenta, due tempi con carattere di Scherzo o comunque di intermezzo, e il lungo e sconsolato Finale in tempo lento, il conflitto esistenziale chiarisce con assoluta evidenza i termini della propria risoluzione.
E indubbiamente il carattere di «canto del cigno» della Patetica trova nel «programma» occulto e nella sua realizzazione una conferma suggestiva e commovente. Ma niente sarebbe più ingiusto che ridurre il valore della Sinfonia a questi dati, di per sé artisticamente insignificanti. Il pathos che in essa domina, rendendo ampia ragione del titolo (saviamente sostituito a quello di Tragica concepito in origine) si affida a un linguaggio musicale di estrema ricchezza e intensità, dove la scoperta espressività delle linee melodiche non cede mai al facile gusto lacrimoso di tante altre pagine ciaikovskiane, e dove l’obbedienza al «programma» non la vince mai sulle esigenze puramente musicali della costruzione, mentre la strumentazione tocca un’efficacia e una comunicativa ben superiori a qualsiasi esteriore colorismo tardo Ottocento. Soprattutto, l’intensità della proposta espressiva non va mai a detrimento di quell’eleganza, intesa in senso non superficiale, che era rimasta tante volte un sogno non realizzato in Ciaikovski: troppo spesso confinati in secondo piano dalla sofferta «pateticità» dei due tempi estremi, i due movimenti centrali contribuiscono a pieno diritto a disegnare la fisionomia della Sinfonia e a determinarne il valore: tanto nell’originale concezione metrica dell’Allegro con grazia, con quel 5/4 che sembra – mahlerianamente, ancora una volta – proporre uno «zoppo» tempo di Valzer, quanto nella vivacità ritmica dello Scherzo, la capacità di controllo dimostrata da Ciaikovski nel trattare una materia psicologica così dolorosamente incendiaria è quella di un sinfonista degno di stare fra i massimi del suo tempo, come troppo spesso si è stati tentati di negare.