Cajkovskij Ilic Petr
Serenata per archi
Eccellente esecuzione di due famose partiture eseguite dal carismatico Herbert von Karajan sul podio della sezione archi dei mitici Berliner Philharmoniker. Audio in DDD eccezionale. Registrazione effettuata nel 1981.
Cajkovskij . Dvorák: Serenate per archi
Ambedue queste Serenate furono scritte come atto di ricreazione, in un momento in cui i rispettivi compositori erano soddisfatti e tranquilli, contenti di rivolgersi a una musica che veniva scritta – per quanto scrupolosamente e con grande attenzione ai dettagli del mestiere – semplicemente per la gioia intrinseca all’atto del comporre. Per Dvorák, che era in un periodo di grande ricchezza inventiva, undici giorni fra il 3 e il 14 maggio 1875 furono sufficienti per scrivere uno dei suoi pezzi più freschi e più gradevoli. Furono fatti preparativi per un’esecuzione a Vienna sotto Hans Richter quell’autunno, ma quando, a causa di un malinteso, questo progetto non si realizzò, l’opera fu eseguita a Praga nel 1876 sotto la direzione di Adolf Cech. In spirito, la Serenata richiama
il Divertimento settecentesco, per la leggerezza degli stati d’animo, l’equilibrio delle proporzioni, la semplicità delle forme. Che ciò non deva necessariamente escludere l’originalità o la finezza è dimostrato, fra molte altre cose, dall’abile uso del canone e da un tocco di forma ciclica. Il primo dei cinque movimenti, Moderato, contiene accenni alla musica folcloristica, ma è caratteristico di Dvorák nel suo uso dei mezzi più semplici (anche note dell’accordo semplice) per raggiungere effetti melodiosi. Il Minuetto (che di fatto è piuttosto un valzer in spirito) comprende un Trio che è trattato in modo canonico e sviluppa una certa veemenza prima di tornare alla melanconia dell’apertura; e le trovate canoniche ritornano nel delizioso Scherzo (che ha anch’esso un Trio) e persino nel Larghetto, il centro emozionale dell’opera. C’è un legame tematico qui con il tema del Trio del Minuetto; ma questi rimandi non sono tanto necessità formali quanto piuttosto – come i canoni – sintomi del gusto di Dvorák di manipolare le sue idee in modi diversi. Il Finale è un pezzo in forma di Sonata- rondò con riferimenti a musica precedentemente esposta, compreso il tema principale del primo movimento; e il Presto che lo conclude è uno scoppio di esuberanza.
Cinque anni dopo la composizione della Serenata di Dvorák Cajkovskij scrisse la sua opera – “inaspettatamente”, come riferì al suo editore Jurgenson, aggiungendo “che sia perché essa è la mia ultima nata o perché davvero non è male, sono molto innamorato di questa serenata”. Altrove confessò che la trovava un gran sollievo rispetto alla rumorosa Ouverture 1812, un lavoro che gli era antipatico tanto quanto amava questo. La Serenata ebbe effettivamente un gran successo quando fu eseguita per la prima volta sotto la direzione di Eduard Napravnik nel 1881, e Cajkovskij fu orgoglioso di ricevere le congratulazioni del mentore che gli incuteva gran soggezione, Anton Rubinstein. Come Dvorák, Cajkovskij era contento di rinnovare i legami con lo spirito del Settecento, del quale ebbe nostalgia per tutta la vita. E, ancora come Dvorák, amava creare musica di grande freschezza e fascino da materiali semplici, nel suo caso anche semplici scale. Il Pezzo in forma di Sonatina che apre il lavoro adopera di nuovo la vigorosa figura d’apertura – caratterizzata da una scala discendente – alla fine, e il Valzer – giustamente uno dei suoi più celebri – e l’Elegia basano entrambi la loro melodia, di effetto così diverso, su una scala ascendente. Il Finale si serve di due temi russi: il secondo di essi è di nuovo costruito su una scala discendente, e Cajkovskij lo sottopone a un trattamento deliziosamente variato a ognuna delle sue ripetizioni, in modo non dissimile da quello del Finale della sua Seconda Sinfonia, usando una tecnica derivata da quella della Kamarinskaja di Glinka, che ammirava profondamente. Alla fine, fa riapparire il tema con la scala discendente che aveva aperto il pezzo, prima di soffiarlo via con un’ultima affermazione del secondo, impetuoso tema russo.
John Warrack
(Traduzione: Silvia Gaddini)
Serenata in do maggiore per archi op. 48
La Serenata op. 48 è una delle composizioni del catalogo cajkovskiano che corrispondono ad un periodo di crisi personale e stasi creativa che il musicista russo affrontò tra gli anni 1877 e 1885, crisi nata da un improbabile matrimonio tra Cajkovskij ed una sua ex allieva di Conservatorio e fanatica ammiratrice, Antonina Miljukova, e che lo aveva fatto sprofondare nel baratro di una disperazione tale da incidere profondamente sulla sua vis creativa. Sono anni quindi poco produttivi per Cajkovskij e segnano uno spartiacque fra un primo periodo, che in pratica si conclude con le Variazioni su un tema rococò del dicembre 1876, ed un altro che si apre nel 1885 con la sinfonia Manfred e l’opera Cerevicki (Gli stivaletti), e che sfocerà nelle grandi composizioni degli ultimi anni della tormentata esistenza del maestro russo.
Suggestionato da una serie di coincidenze tra la sua vicenda con Antonina e la trama dell’Evienij Onegin puskiniano, opera che in quel mentre andava componendo, Cajkovskij aveva creduto possibile la sua unione con una donna, cedendo alle lusinghe amorose della spasimante nel disperato tentativo di acquisire una normalità, foss’anche di facciata, che gli allontanasse lo spettro di un’inquieta omosessualità, ma, invece, segnando con le sue stesse mani l’inizio di un lungo periodo di sofferenze. Separatosi dalla moglie dopo poche settimane, e caduto in uno stato di profonda prostrazione fisica e psicologica, Cajkovskij cercò nella fuga da Mosca il lenimento ai suoi mali, grazie anche all’appoggio economico che la sua mecenate, la ricca vedova Nadezda von Meck, gli offriva senza vincolo alcuno. La Svizzera, l’Italia e la Francia furono di volta in volta gli asili del viandante Cajkovskij, che però conduceva sempre con sé la pena della sua esistenza tormentata. Gli impegni con il Conservatorio gli parvero lontani, e le sue dimissioni nel 1878 dalla docenza di armonia furono una necessaria conseguenza del suo stato contingente.
Anche la campagna russa fu lungamente dimora dell’inquieto Cajkovskij degli anni di crisi, e la generosità della von Meck gli venne ancora una volta incontro in quanto questa gli mise a disposizione alcune sue tenute, come quella di Kamenka, o quella principesca di Brailov, od ancora quella più raccolta di Simaki. Alla ricerca forse di una nuova identità, il quasi quarantenne Cajkovskij faceva lunghe passeggiate in carrozza e tranquilli bagni mattutini al fiume, ricomponendo nel suo animo i frammenti della sua giovinezza e prima maturità così intimamente legati ad un habitus del comporre che, posata la penna dopo la fatica dell’Onegin, gli cominciavano ad apparire come evanescenti ricordi del passato.
Petr Ilic Cajkovskij
Ed infatti sempre più difficile era trovare lo stato d’animo per scrivere musica, trovare in sé le motivazioni dell’agire e quella intima connessione fra sentimenti e suoni che aveva così spontaneamente caratterizzato la sua prima stagione creativa, ed il timore di un drammatico inaridimento lo aveva spinto durante il soggiorno europeo a gettarsi con giovanile slancio nell’agone del concertismo virtuosistico, facendogli scrivere per Adolf Brodskij nella primavera del 1878 il Concerto per violino e orchestra. Fu però un felice unicum non ripetibile in quegli anni. Ecco quindi aprirsi per Cajkovskij la scelta di un comporre accademico, in cui quella parte di sé così dolente venisse aggirata, nell’attesa di una cauterizzazione di quelle ferite che gl’impedivano di proseguire nel mettere a nudo la sua anima di artista. L’Album pour enfants (alla maniera di Schumann) e la Grande Sonate, entrambi del 1878, per pianoforte, la Suite in re ed il Capriccio italiano per orchestra, rispettivamente del 1879 e 1880, od ancora l’opera La pulzella d’Orleans (1878-1879), da Die Jungfrau von Orleans di Schiller e Mazeppa (1881-1883) da Poltava di Puskin, e, per finire, Ouverture 1812 del 1880, sono i più significativi esempi di uno spicchio del catalogo caikovskiano in cui tra le righe si legge il desiderio di non esporsi intimamente e di mascherare dietro la ricerca di un’oggettività musicale il dolore di un’anima che deve ricostruire la sua identità.
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A tutti è senz’altro nota l’impronta accademica che caratterizza la formazione musicale di Pé’tr Il’ic Cajkovskij. Quando questi all’età di vent’anni decise di dedicarsi in maniera completa alla musica, abbandonando nel 1859 la Scuola di Giurisprudenza di Pietroburgo alla quale era stato iscritto dalla madre nel 1850, scelse per i suoi studi il neonato Conservatorio pietroburghese, un organismo nato dalla volontà di Anton Rubinstejn di far nascere in terra russa una scuola la cui didattica fosse ispirata ai metodi d’insegnamento propri dell’accademismo austro-tedesco di derivazione classica. Nel 1865 giunse il diploma in pianoforte, e alla formazione del gemello Conservatorio di Mosca (realizzato da Nikolaj Rubinstejn, fratello di Anton) Cajkovskij fu chiamato per insegnarvi composizione, cattedra che tenne fino al fatidico prima citato 1878. I contrasti poi creatisi con il Gruppo dei Cinque (Balakirev, Musorgskij, Borodin, Cui e Rimskij-Korsakov) riguardo alla necessità o meno di ricercare “romanticamente” uno stile musicale peculiarmente slavo invece di uniformarsi al linguaggio tipico della cultura dell’Europa occidentale, posero infine Cajkovskij, a giudizio comune, nell’orbita dell’accademismo per stile e gusto. Ed è un giudizio che ancora oggi spesso si formula nei confronti della sua musica. Mille sono stati invece gli scardinamenti che dall’interno del sistema egli creò al modello accademico, spinto dalla necessità di dar voce e forma alla forza espressiva della sua singolare emotività che continuamente emerge nelle
sue opere. È questa spinta interiore che diede la forza a Cajkovskij d’immaginare un mondo musicale diverso da quello tratteggiato dall’accademismo classicheggiante in cui forme e lessico non potevano rispecchiare l’originalità del singolo bensì fornire modelli universalmente riconosciuti e riconoscibili. In fondo altro non è se non l’irruento entrare dello spirito del Romanticismo nei quieti spazi di un Classicismo divenuto Manierismo. L’esperienza di Cajkovskij fu comunque solitaria, e non di “scuola” come quella di Balakirev e compagni, e deve fare comunque tornare i conti, anche se dolorosamente, con la tradizione da cui il musicista russo proveniva.
Non è quindi forse del tutto infondato immaginare che Cajkovskij, negli anni della profonda crisi che, come abbiamo prima detto, aveva minato nel profondo la capacità del musicista di riuscire a mantenére quel delicato equilibrio psicologico che gli permetteva di lavorare con proficuità e soddisfazione, abbia deciso di reimmergersi nelle uniche certezze che la vita in quel momento gli prospettava, e cioè le formule tecnico espressive del Classicismo. Quietare la propria anima e non metterla in gioco in ogni battuta, in ogni movimento, in ogni composizione: ecco la regola cajkovskiana che possiamo intuire tra i righi di quelle opere inizialmente citate e che sono lo specchio degli anni della sua crisi. E forse questa presa di coscienza dell’agire quasi anestetizzato del musicista ci può aiutare ad ascoltare la Serenata per archi.
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Scritta tra il settembre ed il novembre del 1880, ed eseguita per la prima volta a Pietroburgo il 30 ottobre del 1881, la Serenata op. 48 è dedicata a Kostantin Karlovic Albrecht, violoncellista e compositore , fondatore con N. Rubinstejn del Conservatorio di Mosca, e amico intimo di Cajkovskij. Una figura quindi di accademico in onore del quale Pétr Il’ic pensò bene di scrivere qualcosa che “accademicamente” potesse entrare in sintonia con i gusti e le aspettative di quello, cosa che, come prima detto, coincideva senza bisogno di compromessi con quelli che all’epoca erano i bisogni e le possibilità di Cajkovskij.
Suddivisa in quattro movimenti: Andante non troppo – Allegro moderato (pezzo in forma di sonatina); Moderato (Tempo di valzer); Larghetto elegiaco (Elegia); Andante – Allegro con spirito (Finale tema russo), la Serenata propone strutture linguistiche proprie del XVIII secolo, come per esempio nel tema introduttivo al primo movimento (tema che si ripropone nell’ultimo tempo a sancire l’omogeneità quasi sonatistica della composizione), nella regolare struttura delle frasi melodiche, nell’ordinato cadenzare del discorso armonico, nel ricorrere ai piccoli fugati molto di maniera. La voglia di oggettività espressiva scevra da coinvolgimenti emotivi pare dunque essere la parola d’ordine dell’intera composizione, se non fosse per quel continuo apparire e sparire di brevi incisi melodici che portano con sé il profondo ed amaro sapore del melanconico mondo caikovskiano. Mondo che appare edulcorato nel grande valzer del secondo movimento. Il gusto per la danza, proprio dello stile del maestro russo, pervade questo delicato valzer in cui lo sfavillìo dei colori, tante volte ascoltato nei celeberrimi balletti, appare velato da un senso di austero rigore. Non è il ballo visto dagli occhi della giovane Natasha tolstoiana, specchio di una vita piena di eccitanti lusinghe, ma forse corrisponde al momento mondanamente “grazioso” della dama in cui gli ardori giovanili hanno lasciato il posto all’equilibrio di una maturità venata da una leggera malinconia (non possiamo qui non pensare al Valse triste di Sibelius).
Il breve intervallo dell’elaborata Elegia ci porta al movimento conclusivo della Serenata: il Finale à la russe. Il vivace tema ritmico proprio della tradizione slava si fa strada nelle ultime battute dell’Elegia e si raccorda con la ripresa del tema d’apertura del primo movimento. Anche qui però tutto è contenuto. Il brio, l’esultanza è quasi un dagherrotipo, una fotografia che mette tutti in posa. Non possiamo non pensare alle coeve composizioni in cui vi sia un simile soggetto, per esempio alla Fiera di Sorocintsy del 1880 di Musorgskij, ed in cui gli autori con altri esiti esploravano temi e sonorità della sterminata madre Russia. Ma il riferimento per Cajkovskij in questo caso è l’immagine che l’accademismo musicale europeo si è fatta del gusto à la russe, e, in ossequio ad un volontario oggettivismo accademico, il musicista dà corpo a ciò che tutti si aspettavano di ascoltare, dando vita ad un brano in cui, sotto un’aura di elegante semplicità, si nascondono le vicissitudini dolorose di una crisi profonda.
Dvoraàk: Serenata per archi in mi maggiore op. 22
Una costante dell’esistenza di Dvoràk fu l’attenzione da lui dedicata alla musica da camera, non solamente sotto il profilo inventivo ma anche nella prospettiva nazionalistica ed ideologica. A differenza però di Smetana, che non tralasciava occasione per proclamarsi “avversario intemerato” delle consuetudini sociali dell’impero asburgico, Dvoràk soleva considerare il proprio ruolo nella comunità civile dell’epoca in una dimensione del tutto autonoma, a sé stante, conferendo il maggior risalto ad una specifica concezione dello stile, fìnanco del linguaggio. Nel senso cioè di privilegiare una graduale emancipazione degli schemi formali della tradizione classica, che allora nei paesi dell’Europa centrale coincidevano con il retaggio estetico e lessicale tedesco, oltre a coltivare l’ambizione di dar la precedenza a stilemi e nessi ritmici riferibili al mondo slavo e al suo folclore.
Antonin Dvoràk
Soltanto nella produzione giovanile fu avvertito senza mezzi termini da Dvoràk l’influsso del classicismo viennese, perché ben presto egli sentì il crescente fascino del melos popolare boemo, spiccatamente nell’effusione melodica delle canzoni paesane e nella loro peculiare scansione ritmica, seppur in una misura sovente stilizzata. E quei caratteri che agevolmente contraddistinguono partiture
orchestrali come le Danze slave, alcune Ouvertures, certe Sinfonie, i Poemi Sinfonici, gran parte delle pagine corali, vocali e strumentali ecc., per non parlare di numerosi episodi rinvenibili all’interno dell’opera teatrale, risultano altrettanto percepibili nella produzione da camera – in cui si annoverano, in ordine crescente delle parti nell’organico strumentale, due Sonate per violino e pianoforte, quattro Trii per pianoforte e archi, due Trii per archi, due Quartetti per pianoforte e archi oltre alle Bagatelle, dieci Quartetti per archi oltre a Cipressi, due Quintetti per pianoforte e archi, tre Quintetti per archi, un Sestetto per archi. Complessivamente ventisette composizioni, regolarmente pubblicate, a cui si aggiungono alcune versioni alternative o varianti di movimenti isolati.
Secondo il più scrupoloso biografo di Dvoràk, Otakar Sourek, alla musica da camera propriamente detta, sono chiaramente assimilabili le due Serenate, in mi maggiore per archi e in re minore per fiati, rispettivamente op. 22 e op. 44, “per varie ragioni, non soltanto d’ordine tecnico: il musicista era consapevole della tradizione d’origine settecentesca della ‘serenata’, d’una composizione cioè pluripartita nell’articolazione, formalmente contraddistinta da elementi derivati dalla Suite e dalla Sonata, di carattere più leggero e libero della Sinfonia. Ed era egualmente al corrente del fatto che la fioritura di questo genere creativo era dipesa dalla disponibilità di strumentisti boemi, sia tra gli archi sia tra i fiati, arruolatisi nelle orchestre arcivescovili o principesche mitteleuropee” (1956).
La Serenata in mi maggiore per orchestra d’archi ebbe una genesi molto veloce, con stesura tracciata tra il 3 e il 14 maggio 1875, all’avvio d’un anno assai felice per Dvoràk: da poco gli era nato il primo figlio, Otakar; nel febbraio, in aggiunta alle limitate entrate finanziarie d’insegnante privato e di organista a Sant’Adalberto, l’arrivo di 400 gulden, come premio per alcune musiche vincitrici d’un concorso di composizione a Praga, sembrò cambiargli la vita. All’inizio dell’autunno presero l’avvio i preparativi per la première della Serenata a Vienna sotto la direzione di Hans Richter, ma quel progetto non ebbe un esito positivo. E questa composizione fu conosciuta la prima volta a Praga il 10 dicembre 1876 sotto la guida di Adolf Ciech. La prima viennese si realizzò soltanto il 24 febbraio 1884 con Hermann Kretschmann sul podio. Nel frattempo l’editore praghese Stary aveva dato alle stampe la versione d’autore per due pianoforti nel 1877 mentre la stesura originaria per archi vide la luce nel 1879 a Berlino da Bote & Bock.
Tra i caratteri più peculiari di questa Serenata si coglie l’intento di Dvoràk di tornare agli ideali classici che l’avevano tanto coinvolto nella prima giovinezza, inducendolo quindi a prender le distanze da certi influssi wagneriani che avevano informato le opere Alfred (1870) e Re e carbonaio (1871), causandone probabilmente l’infausto destino. Già la revisione di questo secondo titolo teatrale, realizzata nell’autunno 1874, aveva praticamente preannunciato la sua
svolta creativa, orientandola a stilemi popolareggianti, ove cominciano a salire in cattedra una calda naturalezza della vena melodica, una mutevole vaghezza della tavolozza armonica e, specialmente, l’armoniosa eleganza della scrittura nonché il prevalere dell’ispirazione lirica d’ascendenza folclorica. Tra i primi a manifestare a Dvoràk la loro simpatia furono Brahms e l’influente critico Hanslick, ai quali piacquero, sin dal primo ascolto, la sobria misura del disegno architettonico e la spontanea esuberanza dell’inventiva di questo lavoro.
La Serenata per orchestra d’archi si articola in cinque movimenti ed inizia con il Moderato in mi maggiore in 4/4, ove la prima idea è subito proposta dai violini primi, venendo poi ripetuta nello stretto gioco strumentale intessuto tra i secondi violini e i violoncelli, per riapparire di lì a breve nello slancio dei violini primi, con un’effusione cantabile d’indubbia matrice popolareggiante boema. La situazione espressiva accentua la sua originalità dopo dodici battute nel ritorno in marcata evidenza del soggetto tematico principale ai secondi violini, anche perché è contrappuntata più all’acuto dalla trama strumentale dei violini primi. L’intero andamento musicale è basato sull’intreccio a imitazioni, quasi in forma canonica. Subentra una seconda sezione in sol maggiore, nettamente caratterizzata da valori puntati e segnata da un pronunciato distacco rispetto all’iniziale impronta lirica: e proprio in questo contesto si inserisce l’intensa linea espressiva dei violoncelli. Si ascolta quindi la ripresa con il ritorno dell’idea principale in un tessuto orchestrale più arricchito ove la scrittura di maggiore intensità effusiva ritrova la tonalità in mi maggiore della parte introduttiva.
Il secondo movimento, Tempo di Valse in do diesis minore in 3/4, è improntato ad un incedere assai vaporoso nella sezione iniziale, per farsi ben presto più fluido nella parte successiva, nello scorrere delle semicrome con alcune battute puntate di tensione contenuta. All’andamento tranquillo della ripresa segue il Trio ove interessante è lo spostamento enarmonico in re bemolle maggiore: una pagina di notevole estensione, di carattere meno danzante del valzer. E all’interno del Trio, in specie nella seconda parte, si avverte una tensione abbastanza drammatica che infine conduce al Tempo di Valse in modo simmetrico, per concludersi nella tonalità maggiore.
Per contrasto il terzo movimento, Scherzo – Vivace in fa maggiore, è improntato a un ritmo di danza binario. Sostanzialmente unitario è il carattere di questo tempo, pur comprendendo al suo interno tre incisi tematici differenziati nella tonalità senza però instaurare degli atteggiamenti espressivi contrapposti. La sezione finale è molto elaborata nell’incalzante suo incedere strumentale, per concludersi nel Tempo tranquillo, quasi svaporando sul materiale motivico del terzo inciso. E solamente nelle ultime sei battute si ascolta il ricupero dell’idea iniziale (stringendo).
Herbert von Karajan
Il quarto movimento, Larghetto in la maggiore in 2/4, costituisce il tempo più lirico dell’intera Serenata. S’impone perentoriamente all’attenzione l’estrema raffinatezza della scrittura orchestrale, permeata d’un afflato poetico trascinante e coinvolgente nella sensibilità con la quale Dvoràk fa risaltare tutte le risorse di duttile e fervida cantabilità degli archi. La struttura di questo tempo adotta lo schema A – B – A ove la sezione centrale (Un poco più mosso) risulta articolata senza eccessivi spessori di passaggio.
Il quinto, e ultimo, movimento, Finale – Allegro vivace in mi maggiore pone in risalto l’accentuata sua scansione ritmica. Nella parte centrale si individua agevolmente una doppia articolazione tematica. Ed appare molto interessante la riproposta della prima idea del movimento introduttivo di questa composizione, quasi Dvoràk avesse inteso, nel dar evidenza al ritorno ciclico, evocare un peculiare atteggiamento psicologico che riaffiora nella sua memoria. Alle misure finali del Moderato subentra, nel Presto, l’incalzante coda che porta la Serenata in mi maggiore alla rapida conclusione.