Chopin Fryderyk
Concerto n°2 ed altri concerti vari
Casualmente su Sky Classical ho visto un splendido concerto di Arthur Rubinstein . La reazione di mia moglie è stata euforica. Alcuni forse considerano le sue interpretazione datate, di vecchia scuola, ma mi viene da sorridere pensando all’agitazione frenetica ed alquanto ridicola di molti interpreti solisti del pianoforte. La compostezza del grande Maestro si esprime con un suono cristallino, nitido e pulito, fin troppo perfetto. Forse, la direzione di Andre Previn, peraltro anche lui eccellente pianista, non è all’altezza, ma ha il merito di aver promosso queste ultime incisioni del grande interprete, per di più con una ripresa tecnicamente adeguata. Dvd assolutamente da non perdere!
Concerto n. 2 in fa minore per pianoforte e orchestra, Op. 21, BI 43, CI 48
Chopin ha scritto due Concerti per pianoforte e orchestra: n. 1, in mi minore, op. 11, e n. 2, in fa minore, op. 21. Il secondo fu, in effetti, composto prima, ma pubblicato solamente nel 1836, essendo state smarrite da Chopin, in un viaggio da Parigi a Vienna, le parti d’orchestra.
Son noti gli sforzi di molti musicisti (Tausig, Messagger, Fitelberg, Klindworth, Granados) di riorchestrare i due Concerti, perché convinti dell’acerba e puerile struttura orchestrale data loro dal grande artista polacco (li scrisse nel suo diciannovesimo e ventesimo anno di età). Malgrado questi tentativi di sapiente e tecnico irrobustimento, i critici più avveduti e sensibili sono d’accordo nel ritenere che la malia più sottile i due Concerti la esercitano proprio nella loro originaria veste. Non è da chiedersi a Chopin, nell’impiego dell’orchestra come compartecipe dello strumento solista, dinamici e drammatici colloqui o fitti intrecci di proposte e repliche; la funzione della orchestra chopiniana consiste piuttosto nell’agganciare e sostenere il canto e le tramutanti fantasie del pianoforte o nell’agire da tela di fondo al fascinoso gioco degli arabeschi.
Il concerto in fa minore è dedicato a una grande ammiratrice di Chopin, la contessa Delfina Potocka, colei che canterà la romanza belliniana sul letto di morte del musicista. Esso è diviso in tre tempi: il primo tempo — Maestoso — inizia con una intonazione piuttosto languida nei primi violini che si spezza subito in accenti alteri e drammatici, e dà origine a una abbastanza diffuso sviluppo orchestrale.
Il tema principale, sussunto dallo strumento solista sarà oggetto di una complessa tessitura, contesta di rudi cadenze, di languide distensioni, d’improvvise riprese e di labili intrecci, sullo sfondo di discreti interventi della orchestra, che conclude il tempo con una enfatica conclamazione del tema dominante. Il secondo tempo — Larghetto — il più felice della composizione per la freschezza dell’ispirazione, l’alta qualità musicale delle fioriture, l’originalità delle armonie, porta, indelebile, il sigillo del genio.
L’incanto, il mistero, la vaghezza fluttuante d’un amore giovanile (un primo amore di Chopin per Costanza Gladkowska) non hanno mai trovato, sulla tastiera, una cosi immediata traduzione. In esso si avvertono premonizioni ed atmosfere dei futuri «Notturni». Il Larghetto si mantiene, generalmente, in un clima sospeso di sogno e di fantasticheria amorosa, ma, nella parte mediana, l’estasi rapita, per una improvvisa impennata dello strumento solista sul tremolo inquieto degli archi, si converte in dolorosa agitazione, concludendosi, però, in suono pacato o rassegnato che, lentamente, smuore.
Mme Delphine Potocka
Gli echi delle danze del paese di Chopin risuonano, invece nel terzo tempo — Allegro vivace — che scatta subitaneo, leggero, rapido e mussante, su ritmo di mazurca, concludendo il Concerto all’insegna del moto più incontenibile.
Concerto in la minore per pianoforte e orchestra, op. 16
Grieg contribuì notevolmente alla conoscenza e alla diffusione in Europa della musica popolare norvegese, di cui riuscì ad esprimere i sentimenti più intimi e crepuscolari con freschezza di immagini e naturalezza di linguaggio armonico,
quasi preannunciando a volte certe soluzioni e tendenze musicali moderne, specialmente impressionistiche. È vero che nella sua produzione pianistica e liederistica si risentono evidenti richiami schumanniani e mendelssohniani (Grieg perfezionò per quattro anni gli studi di composizione al Conservatorio di Lipsia), ma ciò non toglie che il canto elegiaco e delicato di questo fantasioso miniaturista nordico rimanga profondamente legato ai temi della sua terra. Volendo rimanere nell’ambito di una classificazione pittorica, si può dire che Grieg sia un acquarellista, capace di fissare con pochi tratti essenziali il colore di un paesaggio o lo stato d’animo di un personaggio. I suoi momenti artistici migliori non vanno perciò ricercati nelle opere più ambiziose, quelle modellate sulla forma obbligata della Sonata e del Quartetto, bensì nella pagina breve e concentrata, di pronta immediatezza descrittiva ed evocativa di atmosfere intrise di un lirismo suggestivo e perfino struggente. Tanti pezzi simili eppure diversi, puntualizzati in un’accurata scelta di soggetti, annotati rapidamente e armonicamente variati: proprio secondo la poetica del bozzetto e del quadretto naturalistico.
Conoscitore attento e scrupoloso della letteratura romantica europea e studioso delle raffinatezze strumentali di Wagner e di Liszt, Grieg non può classificarsi come un imitatore di stili altrui e seguace di mode estranee allo spirito del folclore norvegese. Egli fu un melodista eccellente e di inesauribile gusto inventivo: lo dimostrano alcuni dei sessantasei Pezzi lirici per pianoforte, numerosi Lieder per voce e pianoforte e soprattutto il rapsodico Concerto in la minore per pianoforte e orchestra e le due incantevoli, anche se disuguali, suites del Peer Gynt ibseniano, dove sono racchiuse gemme musicali di alto valore strumentale e di penetrante effetto timbrico, come “La morte di Ase”, la “Danza di Anitra” e la stupenda “Canzone di Solveig”, di penetrante e pungente effetto psicologico.
Il popolarissimo Concerto per pianoforte e orchestra fu composto nel 1868, durante una vacanza nel villaggio danese di Sölleröd, a nord di Copenhagen. In questa città il concerto venne eseguito per la prima volta il 3 aprile 1869 dal pianista Edmund Neupert, a cui la partitura è dedicata. Il Concerto si distingue per la freschezza delle idee musicali e per l’eleganza della orchestrazione, articolata secondo il personalissimo stile di Grieg. Ascoltando questa composizione non si può fare a meno di pensare al grande pianismo di Chopin, Schumann e Liszt, ma ciò non toglie nulla alla personalità creatrice di Grieg che sa benissimo come esprimere il proprio mondo intcriore.
Edvar Grieg
Una dolce serenità melodica caratterizza il primo movimento, ma è soprattutto il tema dell’Adagio, affidato all’orchestra e ripreso con sognante delicatezza chopiniana dal pianoforte, a coinvolgere emotivamente l’ascoltatore con quelle tenerezze timbriche tipiche del lirismo nordico.
Il terzo tempo ha una dinamica particolarmente varia ed è concepito con spigliata brillantezza sonora e su ritmi di danza norvegese, di tipo binario e ternario. Liszt, ammiratore di questo Concerto, aveva proposto alcune modifiche nella parte orchestrale, ma successivamente è prevalsa l’edizione originale scritta da Grieg, più equilibrata nel rapporto tra solista e orchestra.
Concerto per pianoforte n. 2 in sol minore, op. 22
Il secondo e più popolare concerto per pianoforte di Saint-Saëns risale al 1868 e deve la sua paternità, in un certo senso, al pianista Anton Rubinstein, che chiese all’amico compositore di preparare un lavoro per la Salle Pleyel di Parigi. Là i due si sarebbero scambiati i ruoli abituali, con Saint-Saëns esecutore al piano e Rubinstein direttore. Saint-Saëns accolse la proposta e in soli diciassette giorni mise mano alla partitura del Concerto, che pure aveva già in mente da tempo. La critica e il pubblico furono freddi di fronte all’esecuzione (solo il secondo tempo fu applaudito), anche perché, a ragione e per stessa ammissione di Saint- Saëns, troppo ridotto era stato il tempo per studiarlo. Ciò nonostante Franz Liszt, che era presente alla «prima», gli testimoniò la più sincera ammirazione. È comunque probabile che il pubblico sia rimasto sconcertato dei bruschi cambiamenti d’umore del lavoro, che passa con impagabile nonchalance dal Barocco al Classicismo, sino al più ispirato spirito Romantico. Se d’altronde qualcuno scrisse che «il Concerto inizia con Bach e finisce con Offenbach», è vero che l’eterogeneità dello stile è una cifra compositiva del Concerto n. 2 in sol minore op. 22.
Il primo tempo, Andante sostenuto, è in un’insolita Lied-form, tripartita e con un’ampia quanto intensa introduzione, una cadenza à la manière di Johann Sebastian Bach, che richiama alcune delle sue enigmatiche fantasie per tastiera. In ogni caso, indipendentemente dai riferimenti ad altri autori del tempo come Franck e d’Indy, le retour à Bach era un topos della produzione di Saint-Saëns, che si era rifatto allo stile fugato per la Seconda Sinfonia op. 55; si concludeva con un fugato il Secondo Trio del 1892 e citiamo solo, per organo, i numerosi preludi e fughe scritti tra il 1894 e il 1895; tra il 1877 e il 1920 compose, inoltre, undici fughe per piano di cui quattro con preludio. Oltre a ciò vi sono, però, nel Concerto altri e «più» riferimenti stilistici, espliciti o meno: quando, dopo l’introduzione, entra il primo gruppo tematico si scorgono accenti eroici d’impeto beethoveniano nella verve e nella profondità delle asserzioni iniziali scolpite in stile di recitativo, prima che il nucleo del primo tema lentamente si configuri nella sua complessa integrità dai toni austeri. Ancora di altro colore invece il tema della sezione centrale, una melodia «romantica» che ridesta fuggevoli impressioni chopiniane in quell’incedere ispirato e un po’ sognante, sostenuto dall’ondeggiante appoggio in sincope del basso. Nella sezione successiva sono ancor più evidenti le concessioni e rimembranze rispetto a stili «altri»: ricorda molto Liszt, ad esempio, la ricerca scoperta ed evidente della tecnica formidabile del pianoforte, ma anche e soprattutto l’espansione e la libertà strutturale del passo, elemento che poi, di fatto, va a caratterizzare l’intera architettura.
Arthur Rubinstein
Qui il pianoforte, prima avvia una serie di passi via via più virtuosistici, coinvolgendo in una turbinosa enfasi anche l’orchestra, poi crea una tensione esplosiva che coincide con lo slancio della Ripresa. Torna il primo tema principale, ma enunciato con una forza travolgente e ripetuto nelle vaporose volate del «solo», sino a sfociare senza soluzione di continuità in una grande cadenza che riprende con suprema sintesi – tecnica e di toccante spiritualità lisztiana – i tratti tematici precedenti più esemplari (che appaiono trasfigurati, come le scalette digradanti, ora tenui risonanze di inusitata tenerezza o il primo tema, addolcito in un soave canto solitario col rientro del tempo I). La trasfigurazione prosegue nell’epilogo, in cui il ritorno dell’orchestra permette ancora la replica del primo tema e lo collega con l’inatteso ritorno dell’introduzione-cadenza d’apertura del pianoforte, ora distribuita sotto una luce diversa rispetto all’inizio, fatta di nebulose rifrazioni orchestrali che, pedali
armonici in sospensione, ne restituiscono un’immagine al tramonto, come sfocata; la conclusione nel Moin lent finale ricorda il preambolo al primo tema, con quelle sue violente asserzioni orchestrali.
Il Presto scherzando è un tempo in forma di rondò-sonata, pensato nello spirito di uno scherzo dai toni gai, un po’ frivoli, con un gioco molto sottile del pianista, che spicca per l’agilità con cui intesse un dialogo con l’orchestra e per la levità con cui elabora le idee principali. Tutto scorre, fin dal tema-refrain dell’Esposizione, con ineluttabile e impalpabile volatilità, mentre solo il secondo tema, dall’incedere più pesante e dal tono un po’ burlesco, segna un episodio di moderata discontinuità con l’orizzonte sonoro dominante. Dopo uno Sviluppo che riprende, sotto diverse prospettive, primo e secondo tema, la Ripresa non è testuale, ma con alcune varianti dettate soprattutto dal virtuosismo leggero del solista e dalla fine orchestrazione a maglie diradate dell’orchestra: così i due attori sulla scena, come in un soffio, concludono correndo e con un filo di voce il loro avvincente eloquio.
Mulinanti, rabbiose terzine in crome del pianoforte introducono ora uno scalmanato tema di tarantella, ben riconoscibile con i suoi tratti dal profilo accidentato e nel suo tipico andamento saltellante, una costante di fondo del terzo movimento del Concerto op. 22, il Presto. Ma il riferimento di taglio un po’ «folclorico» a questa italica danza d’origine meridionale faceva parte a pieno titolo dell’orizzonte culturale dei musicisti di pieno Ottocento: pensiamo solo all’ultimo tempo della Sinfonia Italiana di Mendelssohn, un salterello, o ancora al Capriccio italiano di Caikovskij, o all’ultimo movimento della fantasia sinfonica Aus Italien di Richard Strauss.
Non v’è respiro nell’accapigliarsi incalzante delle idee: così, dopo la comparsa del tema principale, ancora nell’Esposizione il primo gruppo prosegue con una sezione secondaria caratterizzata dal serrato scambio scopertamente percussivo tra solista e orchestra (come un ritmico, ordinato battere di mani in danza di gruppo), un’agitata progressione discendente, un passo di brillante virtuosismo in scalpitanti terzine; il secondo gruppo tematico, in re minore rispetto al sol minore iniziale, prosegue con un’idea di salto che letteralmente si infrange su vibranti trilli di fermata, si invola in una scalare ascesa accordale del pianoforte, prosegue in accordi rabbiosamente ribattuti sino ai turbinosi arpeggi che chiudono la sezione: davvero colpisce l’efficacia e la resa quasi pittorica con cui Saint-Saëns disegna i fisici movimenti di danza esaltandone la plasticità, sfruttando la frontalità e la gestualità ritmico-melodica dei suoi temi.
Andre Previn
Nello Sviluppo i medesimi elementi tematici ricompaiono, ma questa volta c’è l’occasione per metterne in mostra alcuni particolari, come il caracollante incipit del primo gruppo o l’uso insistito del trillo del secondo, elaborato in forma di delicata fantasia dal solista mentre l’orchestra dipinge aurorali armonie; ancora tornano le scalpitanti terzine della frase secondaria e gli accordi ribattuti del secondo gruppo, sino a raggiungere una sorta dì climax che scarica la propria energia su di una travolgente scala cromatica collegata direttamente alla Ripresa.
Nell’Epilogo pesanti accordi risuonano come potenti rintocchi di campane alternati a fulminei scatti in terzine, cui segue un ultimo, ubriacante episodio ancora basato sulle caratteristiche terzine.