Debussy Claude

Composizioni varie

Karajan, con i Berliner, ha inciso due volte i “Quadri”e “La Mer: nel 1966 e nel 1986. Sul CD in questione (ADD) ci sono tutti i brani che a suo tempo vennero pubblicati su due LP separati: da una parte i “Quadri” ed il “Bolero”, dall’altra “Debussy e Ravel”. E’ un disco che ascolto sempre volentieri per la qualità interpretativa/esecutiva e la bellezza della registrazione.
L’incisione rimasterizzata con tecnologia 24-bit, appartiene alla categorie delle ottime registrazioni della etichetta tedesca. Qui Karajan si produce in una lettura superba per attenzione ai particolari e per capacità introspettiva. L’orchestra della Filarmonica di Berlino dimostra le sue inaudite capacità tecniche ed esecutive. Registrazioni eseguite dal 1965 al 1966 e rimasterizzazione effettuata nel 1995. Altamente raccomandato.

Con l’eccezione di Ravel “Pavane”, Karajan ha registrato lo stesso programma per la DGR nel 1964 contenuto in un bellissimo box con altri 79 CD pubblicato in occasione de venticinquesimo anniversario della morte dell’illustre direttore austriaco. Le interpretazioni sono simili, ma Karajan qui dilata i tempi. Un esempio: verso la fine del primo movimento di “La Mer”, il controllo più saldo di Karajan nel 1964 produce un climax profondamente suggestivo. Nella registrazione del 1985, lo stesso climax risulta meno d’impatto. Anche Il “Prélude à l’Après-midi d’un faune è più suggestivo nella registrazione antecedente. Per quanto riguarda le altre composizioni di Ravel le due incisioni si equivalgono. La registrazione in DDD del 1986 ha un suono più chiaro, i bassi più forti e meno congestione nei passaggi più alti.

Debussy. Ravel: opere per orchestra

L’ etichetta “impressionista” applicata alla musica di Debussy e Ravel pone dei problemi, poiché potrebbe significare che il loro intento fosse quello di dipingere dei quadri tramite i suoni.
Debussy, tuttavia, fu risoluto nell’affermare che le cose non stavano così. Egli rivendicava alla musica, come scrisse, “una libertà che essa può raggiungere forse più di ogni altra arte, poiché non è limitata a una riproduzione più o meno esatta della Natura, ma è intesa a cogliere le misteriose corrispondenze tra Natura e immaginazione”.
La mer, quindi, non è musica che descrive il mare, quanto piuttosto una registrazione di pensieri e sensazioni destati dal mare; la sua fiducia esuberante, il suo “giuoco” e i suoi conflitti elementari non sono che proiezioni di entità ideali.
Un senso di fiducia, almeno, è qualcosa che Debussy aveva buona ragione di provare nel periodo in cui lavorò alla composizione di La mer, tra il 1903 e il 1905. Nel 1902 era stata finalmente portata sulle scene l’opera Pelléas et Mélisande, inoltre aveva lasciato la moglie per Emma Bardac, la donna facoltosa e ricca di talento che gli avrebbe dato una figlia.
Così non può sorprendere che La mer sia il più accessibile dei suoi lavori orchestrali: l’unico importante a finire con degli enfatici accordi in do maggiore, l’unico a conservare quei legami con la forma tradizionale che giustificano il sottotitolo “Tre schizzi sinfonici”, anche se poi non sono sufficienti a fare di questo pezzo una sinfonia in re bemolle maggiore.
Le sue strutture sono infatti troppo poco ortodosse.

Herbert von Karajan

Il primo movimento comincia come se non volesse compromettersi con un qualsiasi motivo, e solo gradualmente i temi acquistano vigore, con dei passaggi di una complessità di tessitura senza precedenti dove la distribuzione degli archi arriva fino alle quindici parti. I corni, prediletti da Debussy, le arpe e i legni solisti spiccano anche qui, benché ci sia poco da preparare per il costante cambiamento di colore e di idee nel movimento centrale, che nella sua aerea libertà richiama il Prélude à “L’après-midi d’un faune” e anticipa Jeux.
Poi il finale presenta di nuovo una musica di energia sempre più intensa, ottenuta questa volta per mezzo di una struttura a dialogo. In modo caratteristico però, il dialogo non si sviluppa tanto tra temi (due di essi sono presi dal primo movimento), ma tra approcci completamente differenti alla musica: è un dialogo tra ispirazione spontanea e disegno ben delineato tra strutture instabili e altre più compatte.

Ed era proprio l’instabilità, la qualità che sembra essere la più fortemente debussiana, a sconcertare i suoi contemporanei. Saint-Saens, per esempio, ammetteva che il Prélude à “L’apres-midi d’un faune” avesse una “bella sonorità”, ma riteneva che non contenesse “la benché minima idea musicale nel senso proprio del termine”.
E c’è un po’ di verità nel suo rilievo, poiché il tema del flauto che apre il pezzo non è un’idea musicale nel senso che essa si presti a degli sviluppi: piuttosto è un rinnovato punto di partenza per ulteriori slanci, per variazioni che si spingono lontano dal tema anziché svilupparsi su di esso.
La risultante mescolanza di momenti fantastici e statici fa del pezzo non un semplice preludio al languido, evasivo e screziato poema di Mallarmé, ma una sua trascrizione musicale totale, come Mallarmé stesso fu il primo a riconoscere.

Composta nel 1892-94, l’opera è dunque un preludio alle altre composizioni per orchestra di Debussy, come pure in parte a quelle di Ravel. Certamente aprì la strada al balletto di Ravel Daphnis et Chloé (1909 -11), ambientato nella stessa Arcadia dove la Natura è proprio come la vorrebbe l’Immaginazione. La seconda Suite è tratta dalla scena finale del Balletto, che comincia al levar del giorno, continua nella scena in cui i due giovani amanti Dafni e Cloe mimano Pan e Sirinx e si conclude con un baccanale inscenato per le nozze dei protagonisti.

La Pavana fu orchestrata nel 1910, mentre Ravel lavorava a Daphnis et Chloé, ma la sua prima composizione risale al 1899, quando la scrisse come pezzo per pianoforte, e ancor prima, al 1887, quando Fauré fece rivivere questa danza del Rinascimento. Il suo primo impulso risale però ancora più addietro, alla visione che egli ebbe dell’infanta Velasquez, che nella sua immaginazione si mescolò con l’influenza di Debussy.

Paul Griffiths (Traduzione dall’inglese)

La Mer, tre schizzi sinfonici per orchestra, L 111

«Forse non sapete che avrei dovuto intraprendere la bella carriera del marinaio – recita una lettera di Debussy – e che solo per caso ho cambiato strada. Ciononostante, ho mantenuto una passione sincera per il mare». L’amore per il mare risaliva ai tempi dell’infanzia, quando Debussy si recava a Cannes per le vacanze estive, in casa del padrino Achille-Antoine Arosa. Evocando quei tempi felici, il musicista ricordava «la ferrovia che passava davanti a casa con il mare sullo sfondo: in certi momenti pareva che il treno uscisse dal mare, o che dovesse tuffarvisi (a vostra scelta)».
Memorie che a distanza di tanto tempo rivelano la profonda emozione che il mare ha sempre suscitato nell’animo di Debussy. Non è sorprendente dunque se Debussy, aldilà delle numerose pagine legate alla misteriosa simbologia
dell’acqua sparse nella sua produzione, abbia pensato al mare per affrontare il lavoro sinfonico più impegnativo della sua carriera. Debussy cominciò a comporre la musica nel luglio del 1903, durante il soggiorno estivo a Bichain. La partitura venne terminata nell’estate del 1905 a Eastbourne, sulla costa inglese, dove il musicista si era rifugiato per trovare un po’ di tranquillità nel periodo più tempestoso della sua vita sentimentale. L’abbandono della moglie Rosalie Texier, compagna degli anni faticosi di Pelléas et Mélisande, e la fuga con Emma Bardac, signora della buona società parigina e moglie di un facoltoso uomo d’affari, avevano suscitato una valanga di pettegolezzi, diventati un vero e proprio scandalo dopo il tentato suicidio di Lilly con un colpo di pistola. A seguito di queste vicende, che avevano coinvolto un po’ tutto l’ambiente artistico di Parigi, Debussy ruppe i rapporti con la maggior parte degli amici d’un tempo, a cominciare da quello più caro, Pierre Louys.
Dopo l’entusiasmante successo dei Nocturnes (1900-1901), l’accoglienza della prima esecuzione della Mer, il 15 ottobre 1905 ai Concerts Lamoureux diretti da Camille Chevillard, fu deludente. Gli ammiratori di Debussy speravano forse di ritrovare nella nuova composizione il clima notturno, i sussurri pieni di allusioni, i vapori misteriosi che li avevano incantati in Pelléas et Mélisande. Debussy invece aveva composto una musica che sembrava animata dal desiderio di un ritorno all’ordine. La Mer metteva in primo piano il problema della forma musicale. Le atmosfere velate e fiabesche dei Nocturnes lasciavano il posto a una scrittura luminosa, nitida e diurna. La Mer sembrava una forma arci-raffinata di classicismo settecentesco, ispirato dall’antica abitudine dei compositori francesi di conferire ai propri lavori un titolo di fantasia. Dietro la maschera di una descrizione bozzettistica (De l’aube a midi sur la mer, Jeux de vagues, Dialogue du vent et de la mer), si scorge la struttura di una sinfonia in tre movimenti, intrecciata di riferimenti strutturali e concepita su un grande arco formale.
Il tema del mare assume nei tre pannelli sinfonici un significato diverso dal naturalismo ottocentesco. «Mi ribatterete che l’Oceano non bagna esattamente le colline della Borgogna…! – scriveva l’autore – E che tutto sembrerà probabilmente un paesaggio costruito a tavolino! In effetti ho del mare infiniti ricordi; e questo, a mio avviso, vale più della realtà, il cui fascino in genere soffoca troppo il nostro pensiero». Debussy non intende raffigurare la natura nella sua realtà oggettiva, con l’occhio dell’artista ansioso di descrivere il fenomeno che l’ha impressionato. La sua musica cerca piuttosto di esprimere il processo intimo della percezione, cogliendo le infinite vibrazioni dell’essere di fronte a un’esperienza. «Cerco di fare “altro” – diciamo delle realtà – che gli imbecilli chiamano “impressionismo”, un termine che viene usato del tutto a sproposito, soprattutto dai critici d’arte, i quali non esitano ad affibbiarlo a Turner, il più grande pittore di “mistero” che l’arte abbia mai avuto!».
Baudelaire in Correspondances, una delle poesie più importanti per l’estetica simbolista, aveva fissato i nuovi limiti espressivi del rapporto tra uomo e natura:

La Nature est un temple où de vivants piliers
Laissent parfois sortir de confuses paroles;
L’homme y passe a travers desforèts de symboles
Qui l’observent avec des regards familiers.

È un tempio la Natura, dove a volte parole
escono confuse da viventi pilastri
e che l’uomo attraversa tra foreste di simboli
che gli lanciano occhiate familiari.
(tr. Giovanni Raboni)

Ecco che nella musica di Debussy le “occhiate familiari” di Baudelaire si trasformano in echi misteriosi, che risuonano continuamente all’interno del discorso articolando il percorso temporale in una forma. Il mare di Debussy diventa un fenomeno quasi junghiano, come se quell’immagine rispecchiasse l’archetipo di una forza oscura e irrazionale che muove la coscienza.

Herbert von Karajan

L’atmosfera serena che domina le tre vedute marine viene turbata all’improvviso da un brivido, ogni volta che la musica si avvicina all’ignoto regno delle passioni. La velocità del tempo muta in continuazione e altera il disegno del fraseggio, segno di un’inquietudine profonda che agita sotterraneamente la scrittura musicale. Tuttavia mai come in questo lavoro Debussy ha cercato di conferire al magma delle pulsioni emotive una struttura architettonica di grande respiro. L’unità della forma è affidata al percorso armonico, che traccia una lunga campata dal re bemolle del Modéré, som lenteur in De l’aube a midi sur la mer fino al poderoso accordo finale di re bemolle degli ottoni nel Dialogue du vent et de la mer. All’interno di quest’ampia arcata si svolge un’animata sequenza d’impasti sonori e ritmici di stupefacente bellezza e inventiva.
Secondo il critico Edgell Rickwood, Rimbaud «è un maestro della frase, non del periodo, che difatti non ha quasi mai costruito». Questa osservazione potrebbe essere vera in linea di massima anche per Debussy. I processi costruttivi della scrittura di Debussy tendono a isolare il singolo frammento, anziché elaborare uno sviluppo tematico. Le immagini sonore sono rapide e brucianti, ardono per così dire in una singola fiammata sonora, come certi versi abbaglianti di Mallarmé:
Le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui.
In De l’aube a midi sur la mer Debussy si sforza di conferire a certi motivi di carattere contrastante un rilievo tematico, come per abbozzare la dialettica di un movimento di sonata. L’articolazione della forma resta tuttavia legata principalmente al timbro armonico, con accordi raffinati sparsi sulla partitura come macchie di colore, e alla plasticità dei gesti musicali di cui è ricca la musica di Debussy. La musica s’illumina all’improvviso con effetti di sconvolgente bellezza, come l’abbagliante accordo suonato dai violoncelli divisi a quattro, al centro del quadro.
Jeux de vagues riprende l’idea dello Scherzo classico come di un movimento di danza. La forma originalissima di Debussy mescola assieme, vorticosamente, una serie di frammenti che suggeriscono diversi tipi di ballo: valzer, giga, bolero. La strumentazione ha una trasparenza fantastica e la capacità di rinnovare continuamente l’immagine del paesaggio.
Il Dialogue du vent et de la mer si apre con un lungo rullo dei timpani, in maniera analoga al primo pannello. Tutta la parte iniziale esprime l’inquietante contrasto tra il mare e il vento, finché un colpo secco del timpano scarica la tensione accumulata in orchestra. Il tema principale del finale, esposto dai fiati, spunta con fatica da un’appoggiatura espressiva e si gonfia d’emozione man mano che cresce. La tonalità di re bemolle viene così a configurare una sorta di emblema musicale del mare, che riappare ora come archetipo, ora come sogno.

Prélude a l’après-midi d’un faune, L 87

Il Prélude a l’après-midi d’un faune, brano ormai famosissimo e popolare, ispirato ad una poesia di Stephane Mallarmé immersa «dans la nostalgie e dans la lumière, avec finesse, avec malaise, avec richesse», fu composto da Debussy tra il 1892 e il 1894 e doveva formare il primo pezzo di un trittico (Preludio- Interludio-Parafrasi finale). Rimase solo il Prélude che venne presentato in prima esecuzione il 22 dicembre 1894 alla “Sociétè Nationale” di Parigi sotto la direzione di Gustave Doret: ottenne un successo immediato, tanto da essere replicato come bis. Non mancarono delle critiche a livello di professori di Conservatorio e uno di essi ebbe a pronunciare un giudizio rimasto storico. «C’est une sauce sans lièvre» (è una salsa senza lepre), disse, perché nel preludio debussiano non ci sarebbe un tema e uno sviluppo tematico, ma soltanto una indefinibile modulazione della frase melodica.

Stephane Mallarmé

Lo stesso Mallarmé, dopo un primo istante di sorpresa, apprezzò la pagina di Debussy, al quale inviò un esemplare del suo poema, corredato dal seguente commento: «Questa musica prolunga l’emozione del mio poema e ne fissa lo scenario più appassionatamente del colore».
Formalmente la composizione è semplice e lineare e si basa su due temi: il primo pungentemente sensuale, enunciato dal flauto solo, in base ad una idea straordinariamente originale del musicista, il secondo cantato dai legni e tonalmente più definito. Man mano si distende una voce più viva e infuocata che avvolge “les sommeils touffus” del fauno tra le dissolvenze danzanti delle procaci ninfe, Si allarga il respiro dell’orchestra sino a quando ritorna il tema del flauto, ancora più penetrante e incantevole, e alla fine due corni con sordina raccolgono i frammenti del primo motivo sul dolce accompagnamento delle arpe.
È un pezzo che ancora oggi conserva intatto il suo fascino e non occorrono molte parole per spiegare il suo profondo valore musicale. Boulez ne ha fatta un’analisi sintetica e precisa, che vale la pena di rileggere: «Il flauto del Faune instaura una respirazione nuova dell’arte musicale; l’arte dello sviluppo viene sconvolta ma non quanto il concetto stesso della forma, che liberato dalle costrizioni impersonali dello schema, dà libero corso ad una espressività sciolta e mobile, ed esige una tecnica di adeguamento perfetta e istantanea. L’impiego dei timbri appare essenzialmente nuovo, di una delicatezza e sicurezza di tocco eccezionali; l’impiego di certi strumenti, flauto, corno o arpa, riveste le caratteristiche principali della maniera che Debussy userà poi nelle sue opere ulteriori; la scrittura dei legni e degli ottoni di una leggerezza incomparabile, realizza un miracolo di dosaggio, di equilibrio e di trasparenza.
Questa partitura possiede un potenziale di giovinezza che sfida l’esaurimento o la caducità; e come la poesia moderna ha sicuramente le sue radici in certi poemi di Baudelaire, si può dire con fondatezza che la musica moderna si sveglia nell’Après-midi d’un faune»

È un disco favoloso in tutti i sensi! Musica meravigliosa, grande conduzione e grande registrazione. L’audio è veramente realistico e spettacolare. Mi sono piaciute molto le selezioni di Debussy e Ravel. Skrjabin mi ha lasciato indifferente. Non mi è mai interessata più di tanto questa composizione. Acquistate questo CD prima che qualcuno decida di toglierlo dal catalogo. Registrazioni eseguite dal 1970 al 1971 e rimasterizzazione effettuata nel 1986. Altamente raccomandato.

Debussy . Ravel . Skrjabin

L’etichetta di “Impressionismo”, che si connette immancabilmente soprattutto con la musica di Debussy, fa facilmente dimenticare – essendo oggi associata com un raffinato senso di benessere – che agli inizi del Novecento questo compositore ha impresso alla storia della musica una svolta decisiva e rivoluzionaria; l’Impressionismo è una tappa importante nella costituzione di un linguaggio musicale moderno. I Nocturnes, un Trittico sinfonico in tre movimenti, che non si rifà però a forme tradizionali, sono una delle prime opere per orchestra di Debussy (1897 – 99).
L’idea di Nuages gli era venuta, come lo stesso compositore riferì ad un amico, a Parigi, in un giorno di bufera, un ponte sulla Senna; le nuvole spazzavano il cielo, una chiatta passando faceva sentire la sua sirena. Tuttavia ogni reminiscenza diretta di avvenimenti esterni, ogni intenzione programmatica è cancellata nella composizione.
Per la prima esecuzione (Nuages, Fetes, 1900) Debussy scrisse il seguente commento: “Il titolo Nocturnes va inteso qui in un senso generale e decorativo. Non si tratta pertanto della consueta forma del notturno, bensì di tutto ciò che questo concetto è in grado di destare quanto a impressioni e giochi di luce. Nuages è lo spettacolo del cielo immoto in cui passano lente e malinconiche le nuvole, per svanire poi in un grigio in cui si mescolano delicate tonalità di bianco. Fetes è il ritmo danzante dell’atmosfera, rischiarato per alcuni istanti da vividi fasci luminosi. Un corteo di figure fantastiche si avvicina alla festa e in essa si perde. Lo sfondo resta sempre lo stesso: la festa con il suo scompiglio di musica e luci che danzano in un ritmo cosmico. Sirènes è il mare e il suo movimento inesauribile; sulle onde, su cui scintilla la luce della luna, il misterioso canto delle sirene risuona come un riso e si perde nell’infinità”.

Claudio Abbado

Dafni e Cloe di Maurice Ravel è uno dei capolavori dell’Impressionismo francese. È la musica per un Balletto che Serge Diaghilev, impresario dei “Ballets Russes”, aveva commissionato a Ravel nel 1909 – La prima esecuzione si ebbe a Parigi nel 1912. Il libretto di Michail Fokine, allora coreografo di Diaghilev, si basa sul famoso romanzo pastorale della tarda classicità. Dafni e Cloe di Longo è ambientato in una Grecia bucolica: la vita idilliaca è spezzata dall’incursione dei pirati che rapiscono le fanciulle dal santuario del dio Pan, tra le quali è Cloe, l’amata di Dafni.
I rapitori festeggiano la vittoria, ma a questo punto Pan li scaccia con l’aiuto di un incantesimo e di esseri favolosi; Cloe è salvata e ritorna da Dafni. La cosiddetta Seconda Suite, qui registrata, costituisce il terzo e ultimo quadro del Balletto: dopo la notte tumultuosa in cui Pan ha messo in fuga i rapitori spunta un meraviglioso mattino, si sente il canto degli uccelli, arrivano i pastori, Dafni e Cloe si ritrovano e tutto finisce in un estatico baccanale di gioia.
La Pavana per una infanta morta di Ravel – la versione per pianoforte del 1899 fu orchestrata nel 1910 – mostra un altro aspetto dell’Impressionismo. Manifestamente sotto l’influsso della musica di Erik Satie, il pezzo gioca con una melanconica arcaicità (così come il titolo originale, per diretta ammissione di Ravel, presenta un gioco di parole e di suoni vocalici “infante – défunte”), ma anche con la tradizione musicale: il ritmo della “pavana”, una danza di andamento lento, era diventato nell’Ottocento un tratto caratteristico delle marce funebri.

Alexander Skrjabin, nato un decennio dopo Debussy, è una delle figure artistiche più singolari del suo tempo. Associando influenze delle idee wagneriane (l’idea dell’opera d’arte totale, in cui sono inclusi anche effetti di luce e profumi), della teosofia e del misticismo orientale, Skrjabin si costruì una religione personale.
Nel corso degli anni essa caratterizzò in modo sempre più rilevante il suo pensiero e la sua attività compositiva fino a culminare nel disegno di un gigantesco “Mistero” che, unendo la religione e le arti tutte, doveva essere celebrato un giorno in India sotto la guida del “profeta”, Skrjabin stesso. (Tuttavia questo progetto non è andato oltre la stesura di singole parti del testo e di schizzi musicali per un “atto preparatorio”).
Se tutto non è un inganno, la monomania dell’idea di Skrjabin trova il suo pedant anche nella musica: nelle ripetizioni ostinate di timbri e figurazioni uguali o simili, che sembrano ruotare tutti attorno allo stesso centro.
Il Poema dell’estasi fu chiaramente parte di questo ambito di idee. Negli anni dal 1904 al 1906 Skrjabin scrisse un poema con questo titolo, lungo parecchie centinaia di versi, che descrive degli eventi ideali: la perpetua lotta di forze oscure contro lo spirito, che però alla fine in un’estasi straordinaria riesce ad imporsi vittorioso sul mondo intero.
Contemporaneamente nacque la composizione Il poema dell’estasi (1905 – 08). Il poema non rappresenta un programma esplicito per la musica, pur tuttavia per ampie sezioni dell’opera si possono instaurare delle correlazioni plausibili.
Wolfgang Domling
(Traduzione: Adriano Cremonese)

Nocturnes

Sui Nocturnes Debussy scrisse questo testo di presentazione: «Il titolo Nocturnes vuole assumere qui un significato più generale e soprattutto più decorativo. Non si tratta dunque della forma abituale del Notturno, ma di tutto ciò che la parola contiene di impressioni e di luci particolari. Nuages: è l’aspetto immutabile del cielo con la lenta e malinconica processione delle nuvole, che termina in una grigia agonia dolcemente tinta di bianco. Fétes: è il movimento, il ritmo danzante dell’atmosfera con bagliori di luce improvvisa, è anche l’episodio di un corteo (visione abbagliante e chimerica) che passa attraverso la festa e vi si confonde; ma il fondo rimane, ostinato, ed è sempre la festa con la sua mescolanza di musica, di polvere luminosa, che partecipa a un ritmo totale. Sirènes: è il mare e il suo ritmo innumerevole, poi, tra le onde argentate di luna, si ode, ride e passa il canto misterioso delle sirene». Il titolo dunque ha un significato non tradizionale, e vuoi evocare «impressioni e luci particolari»: non si allude più ad alcuna «azione», nemmeno a quella incerta, sospesa fra sogno e realtà, delle voluttuose fantasie del fauno. All’ascoltatore non viene proposto né un «programma» né un riferimento formale noto: si suggerisce una dimensione senza luogo e senza tempo, in una luce incerta come quella del crepuscolo. Si può capire l’irritazione di Vincent D’Indy quando lamentava l’impossibilità di inserire i Nocturnes in una categoria tradizionale: «Sonata. Niente affatto… Suite. Neppure. Poema sinfonico. Nonostante i titoli…, nomi assai vaghi, nessun programma letterario, nessuna spiegazione di ordine drammatico può autorizzare i mutamenti improvvisi di tonalità e le escursioni tematiche piacevoli, ma non coordinate di questi tre pezzi…».
In Nuages non c’è davvero più traccia di percorsi che conducano da un punto a un altro secondo una logica discorsiva, che «tendano» a un punto d’arrivo o a un culmine. In un tempo musicale che si definisce con un significato nuovo la forma appare costruita, per così dire, con il movimento di superfici sonore dai colori cangianti, dalle mutevoli sfumature timbrico-armoniche. La tripartizione che si coglie anche a un semplice primo ascolto non ha nulla a che vedere né con uno schema esposizione-sviluppo-ripresa né con altri tipi di forme legate alla successione ABA’. Nuages inizia con un andamento quieto e uniforme (singolarmente affine a quello delle prime battute di una lirica di Mussorgskij, la terza del ciclo Senza sole): sonorità grigie e vuote sono evocate da clarinetti e fagotti con un andamento ostinato che si interrompe quando per la prima volta il corno inglese intona il tema principale, che non conoscerà mai sviluppo, e
riapparirà ogni volta quasi identico a se stesso, oggetto solo di piccole, ma raffinatissime varianti.

Claude Debussy

Lo svolgimento della prima parte di Nuages dovrebbe essere descritto seguendo momento per momento il succedersi delle intuizioni timbriche, delle combinazioni strumentali, delle armonie, il trascolorare delle superfici sonore, il mutare della luce. Solo con molta approssimazione si potrebbe paragonare a uno sviluppo la sezione che inizia alla battuta 32. Dopo 63 battute il flauto e l’arpa all’unisono introducono un nuovo tema. Il tempo diviene «un peu animé», ma l’andamento fondamentale resta lo stesso e l’effetto non è quello del contrasto segnato dalla sezione centrale di un pezzo tripartito: ci troviamo di fronte semplicemente a un nuovo episodio, a nuovi colori, ad altre luci. E così quando riascoltiamo il tema del corno inglese, questo ritorno non produce l’effetto di una ripresa (che sarebbe comunque troppo breve e frammentata). Il frammentario ritorno di diversi elementi, quasi disfatti in un lento trascolorare, evoca il riapparire dell’ombra, il dissolversi in un tempo sospeso, così che il movimento circolare del pezzo sembra aprirsi a suggerire una prosecuzione infinita.
Fétes presenta una tripartizione nettamente riconoscibile, fondata su una molteplicità di elementi, su una mobilità e una varietà lontane dalla sospesa stupefazione di Nuages. In un flusso continuo, in un ritmo incalzante, in un discorso mobilmente frammentato si collegano elementi tematici diversi, suggerendo uno spazio musicale segnato quasi da continui mutamenti di direzione, uno svolgimento non lineare. Tutto appare irreale e la visione suscita l’impressione di essere ora vicinissima, ora lontana, in un arcano gioco di subitanei mutamenti (di tempo, di dinamica, di situazioni timbriche). Ne potremo indicare soltanto alcuni aspetti.
Su un nervoso ostinato ritmico corno inglese e clarinetti presentano il tema principale della prima parte, con carattere di farandola; ma subito le trombe anticipano per un istante, in ritmo diverso, la fanfara della sezione centrale. Poco oltre un appello degli ottoni segna una prima cesura.
Si profila un nuovo ostinato ritmico «un poco più animato» (con l’alternanza di 15/8 e 9/8); ritorna il tema di farandola; poi si profila un secondo tema all’oboe e la sua prosecuzione sopra un intenso controcanto degli archi dà vita a una complessa sovrapposizione di ritmi e metri. Questa sezione si conclude bruscamente al culmine di un crescendo. Nella parte centrale la «visione abbagliante e chimerica» del corteo è introdotta da una fanfara che man mano sembra avvicinarsi (mentre cresce anche la densità, con la sovrapposizione del tema di fanfara a quello di farandola) per giungere al culmine e dissolversi d’un tratto nella «ripresa», profondamente trasformata, che inizia con il tema di farandola. Una coda dai colori più tenui si immerge nel silenzio tra brevi, frammentati echi, sempre più lontani.
In Sirènes è di nuovo presente una forma tripartita, ma tanto modificata da riuscire più difficilmente riconoscibile. C’è un coro femminile, che evoca, senza testo, la seduzione del canto delle sirene, la seduzione stessa del mare.
Fin dalla prima battuta dell’introduzione i corni propongono una brevissima cellula in ritmo giambico, che funge da elemento unificatore. Il primo tema appare al corno inglese, genera un ostinato mentre le voci cantano una delle loro idee più intense (una seducente melopea, legata al primo tema da rapporti di affinità) e in seguito si trasforma in chiave danzante. Nella sezione centrale, «un poco più lento» le voci intonano una languida trasformazione rallentata del primo tema (mentre la melopea vocale che già conosciamo passa agli strumenti): il clima espressivo diviene quindi più caldo e appassionato, e si placa sul ritorno della melopea vocale.
Gradualmente si ritorna al tempo iniziale e senza cesure nette inizia la terza sezione, una sorta di ripresa. Le voci proseguono il loro seducente «canto di sirene», poi ritorna il languido disegno della sezione centrale e solo dopo una ventina di battute riappare il primo tema, per avviare lo spegnersi del pezzo in echi lontani.

Daphnis et Chloé, suite per orchestra n. 2

Nel 1904 il grande coreografo russo Michel Fokine, allora giovane artista colto e curioso, aveva proposto alla Direzione dei teatri di Pietroburgo un balletto tratto dagli Amori pastorali di Dafni e Cloe, il breve romanzo dello scrittore greco Longo Sofista (abbiamo la sua delicata e raffinatissima narrazione, ma di lui sappiamo solo il nome: si pensa che sia vissuto alla fine del II secolo d.C.). L’idea di Fokine, sorta per un gusto estetistico e classicheggiante, era forse un po’ in anticipo per i tempi e i luoghi, e, infatti, i funzionari di Pietroburgo la respinsero. Ma non l’abbandonò Fokine, che pochi anni dopo, forse nel 1908, e in differenti condizioni culturali (si era infatti trasferito a Parigi), ne parlò con Djagilev; e il genialissimo impresario la accettò senza esitare e affidò la musica a Ravel (ma sulle date del progetto e delle decisioni c’è confusione nei ricordi degli interessati).
Ravel era giovane (nel 1908 aveva trentatré anni), ma era già molto noto (aveva scritto il Quartetto, i Miroirs per pianoforte, la Rhapsodie espagnole, per citare solo alcuni capolavori). La grazia poetica dell’argomento, la sua novità, le proporzioni spettacolari del proposito scenico, la collaborazione di tre intelligenze superiori (anzi quattro, che Djagilev, naturalmente, scelse subito per protagonista Nijinskij) lasciavano prevedere un lavoro sereno e un’agevole conclusione. Non fu così.

Maurice Ravel

Nel suo Dafni e Cloe Longo Sofista altera non poco e semplifica lo schema consueto dei romanzi greci (innamoramento di due giovani, promessa di nozze, impedimenti e peripezie con inganni, rapimenti, viaggi, delusioni, nuovo incontro e felice soluzione: è, come si sa, anche lo schema dei Promessi sposi di Manzoni) perché la vicenda si svolge tra i pastori, in un’Arcadia ideale e
stilizzata, e perché Longo descrive il sorgere dell’amore tra i due pastorelli poco più che bambini. In questa prosa levigata e sottile più che le solite avventure e disavventure dei protagonisti (però, c’è anche qui il rapimento), più che la tecnica narrativa, dunque, contano il lirismo panico o languido delle descrizioni bucoliche, e un’accortezza psicologica teneramente attenta ai caratteri di una virginea, infantile sensualità. Noi italiani abbiamo, o avremmo, la fortuna di poter leggere il romanzo di Longo Sofista nella splendida traduzione rinascimentale di Annibal Caro, incomparabilmente superiore alla traduzione francese di Amyot (quella che lesse Ravel) e perfino superiore, forse, all’originale greco per eleganza e chiarezza (ma non credo che la meravigliosa prosa di Caro interessi oggi qualcuno).
Mondo della fanciullezza e delle sue fantasie, trasfigurazione letteraria di paesaggi, sogno di un’umanità serena, primitiva, perfetta, naturalmente bella e cortese noi non stupiamo che Ravel abbia dato il meglio di sé in questa grande partitura, a concepire la quale egli fu ispirato e guidato da emozioni fondamentali nella sua visione dell’arte. «È stata mia intenzione comporre un vasto affresco musicale, meno attento all’arcaismo che alla fedeltà verso una Grecia dei miei sogni, che volentieri si congiunge alla Grecia che hanno immaginato e dipinto gli artisti francesi della fine del XVIII secolo» (Ravel, nell’Esquisse biographique, dettata a Roland-Manuel). E scrisse un capolavoro che gli costò non poche amarezze e che per qualche anno ebbe scarso favore (il manoscritto fu terminato il 5 aprile 1912).
Le sfortunate vicende finali della creazione del balletto sono complicate e per qualche aspetto confuse. Improvvisamente Djagilev perse interesse per il lavoro, già molto avanzato: o perché tra Ravel e Fokine c’erano state divergenze, o perché qualche anticipo di ascolto della musica lo aveva deluso (chissà perché: quella musica!), o perché stava tramontando la moda dei grandi balletti tradizionali a intreccio (i ballets d’action), con danza, mimica e sostanzioso sostegno orchestrale (con le loro idee estetiche, snobistiche e digiune, Satie e il Cocteau di allora credevano di poter giudicare dall’alto in basso perfino il Daphnis di Ravel e impressionavano Djagilev. Infine, a completamento, durante le prove ci furono furiosi contrasti tra Djagilev e Nijinskij da una parte e Fokine dall’altra (anche Ravel era insoddisfatto delle scene di Leon Bakst, per altro magnifiche in sé e per sé). Si mise in mezzo perfino il corpo di ballo, che trovava serie difficoltà a tenere il tempo di 5/4 rapidissimo nella Danse generale dell’ultima scena (si arrangiarono poi, scandendo ognuno tra sé le cinque sillabe: Djà-gi-lev-Sèrgiei). Sì che un lavoro così limpido, colorito, gioioso nacque tra rancori e scontenti, che guastarono la prima serata (Théàtre du Chàtelet, 8 giugno 1912, con Nijinskij e la Karsavina, direttore Pierre Monteux): quella sera il vero successo toccò a Nijinski, ma per la replica del suo sensualissimo, lascivo Après-midi d’un faune; e alla ripresa dell’anno successivo, il 1913, al Daphnis non andò meglio perché il 29 maggio esplose lo scandalo del Sacre di Stravinskij, che spinse nell’ombra ogni altro balletto. Però Stravinskij affermava che il Daphnis et Chloé è «una delle opere più belle della musica francese».
Ma se sulla scena il Daphnis non ha avuto, né allora né poi, un successo paragonabile a quello dei grandi balletti romantici o di altri pochi novecenteschi, le due Suites che Ravel ne ha tratto, sono giustamente un brano tra i più eseguiti del repertorio sinfonico e prediletto dai grandi direttori per il colorismo della prodigiosa strumentazione. La musica della II Suite è quella del terzo dei tre quadri del balletto.
I pirati hanno rapito Cloè e Dafni accusa le ninfe e, sfinito, si assopisce nella loro grotta. Ma esse lo compatiscono e chiamano a soccorso Pan. E il dio con una sua prodigiosa apparizione salva Cloè dalle mani dei pirati e la riporta ai suoi pastori. Qui s’inizia il terzo Quadro (e la II Suite). All’alba, in un quieto paesaggio arcadico, lo spazio è colmo di voci, di echi, dei ruscelli, delle brezze mattutine, degli uccelli. Negli estatici accordi del coro muto, che morbidamente si fonde con l’orchestra, sentiamo il canto delle creature naturali, delle ninfe, dei satiri, dei sileni. In lontananza passa un pastore col suo gregge, poi un altro (ascoltiamo gli acuti arabeschi del loro flauto campestre). Entrano altri pastori, destano Dafni e gli gettano tra le braccia la fanciulla salvata. La luce del mattino rifulge, la musica si espande in una grande melodia di felicità («È solo un accordo di re maggiore con la sesta aggiunta», diceva con compiaciuta modestia Ravel!). Dafni comprende che la salvezza di Cloè e la loro felicità sono un dono di Pan. Istruiti e sollecitati dal vecchio Lammon (impersonato la sera della prima dal glorioso ballerino e coreografo Enrico Cecchetti, ormai anziano), i due ragazzi mimano la storia degli amori di Pan e della ninfa Syrinx: ella prima lo rifiuta, il malinconico dio strappa una canna, si crea un flauto, e, su un ritmo molle, suona un’acuta, languida serenata. Syrinx-Cloe balla sulla musica di Pan, prima lentamente poi con animazione sempre più viva. I due ragazzi terminano la loro recita graziosa, cadendo l’una nelle braccia dell’altro: l’orchestra ripete con pathos crescente il tema di Dafni. Irrompono in scena alcune fanciulle vestite da baccanti, poi giovani pastori esultanti. Nella musica si scatena un ritmo frenetico (la Danse generale, il famoso 5/4) da cui tutti sono inebriati e travolti.

Pavane pour une infante défunte

Nell’ultimo anno del secolo scorso RaveI scrisse per il pianoforte la più celebre pavane del repertorio concertistico. Il riferimento compositivo e ideale è a una danza lenta cinquecentesca, popolare anche nel Seicento, in 4/4, dall’andamento

composto e solenne, normalmente contrapposta a una veloce gagliarda a lei accoppiata.
L’impiego di questa forma remota da parte di Ravel rientra nella tendenza arcaicizzante fin de siècle cui il catalogo del compositore si dimostra debitore (col Menuet antique, Le tombeau de Couperin e i due Epigrammes de Marot). Non a caso l’eco di questa danza giungeva a Ravel attraverso la mediazione dei virginalisti inglesi come Dowiand e Morley, ed evocava sonorità lontanissime dal pianismo romantico e prossime invece al venerando clavicembalo, importante fonte d’ispirazione per la generazione di Ravel. Il perseguimento di un «colore» storico si somma qui all’inseguimento di un «esotismo» geografico altamente suggestivo: quella Spagna che, nei decenni attorno alla svolta del secolo, ispirò tutti i maggiori autori francesi, da Saint-Saëns a Chabrier, dal Bizet di Carmen a Debussy. Una Spagna immaginaria che divenne catalizzatore delle esperienze compositive più moderne, come avrebbe dimostrato lo stesso Ravel in una serie impressionante di lavori, dalla Habanera giovanile al Boléro, dalla commedia musicale L’heure Eupagnole All’Alborada del Gracioso, dalla Rhapsodie espagnole all’estrema fatica le tre mélodies di Don Quichotte à Dulcinée.
Nella Pavane il compositore evoca l’immagine di un’Infanta rinascimentale: la figura doveva godere di una fortuna non episodica se esattamente dieci anni prima, nel 1889, Oscar Wilde le aveva dedicato una toccante fiaba, The Birthday of the Infanta (dal 1891 nella raccolta The House of Pomegranates), da cui Zemlinsky avrebbe tratto la propria «favola tragica per musica» Der Zwerg (Il nano). Queste le coordinate culturali che danno ragione del titolo di questa composizione, salutata da un’immediata popolarità (anche al di là delle volontà dell’autore, che nel corso degli anni giudicò severamente la semplicità di struttura di questa pagina – un rondò -, giungendo a riconoscere al titolo solo l’interesse di un’allitterazione!), e chiamano in causa una poetica di estraniazione dal rumore del mondo – dalla Francia all’epoca sconvolta dall’Affaire Dreyfus: l’art pour l’art insomma. La Pavane è un incantevole lavoro giovanile, nato per il salotto dei principi di Polignac ed espressamente dedicato alla principessa Edmond de Polignac (ospite di Fauré a Venezia nel ’91, avrebbe commissionato a Stravinskij Renard), all’ombra di due grandi maestri della musica francese: Chabrier – l’influsso del suo Idylle dalle Pièces pittoresques verrà indicato dallo stesso Ravel – e Fauré, insegnante di composizione della giovane promessa e a sua volta autore di una celebrata Pavane, op. 50 orchestrale, scritta a ridosso del Requiem (1887) e ridotta per pianoforte nel 1889. L’orchestrazione dell’opera di Ravel (realizzata nel 1910, ai tempi di Daphnis et Chloé, e presentata al pubblico da Alfredo Casella), lungi dall’offuscare la caratteristica limpidezza dei temi e il loro squisito lirismo, esalta quella scrittura da melodia accompagnata, che già in origine rendeva la Pavane una sorta di serenata per orchestra.
L’apertura è affidata al corno solista, che canta il caldo tema, prevalentemente per grado congiunto, sull’accompagnamento degli archi con sordina, dell’altro corno e dei fagotti, mentre i legni intervengono solo nella seconda parte, cosi come l’iridescenza passeggera dell’arpa. Il primo episodio contrastante è affidato proprio a uno dei legni, l’oboe, seguito come un’ombra dal fagotto, nel silenzio degli archi punteggiato dallo staccato dei clarinetti.
L’episodio viene replicato dagli archi, finché un ritenuto non porta alla ripresa del tema principale, trasfigurato coloristicamente con la sua assegnazione a flauti e clarinetti. Di sapore cajkovskijano,il secondo episodio divagante, in sol minore, esordisce con l’inerpicarsi del flauto nelle regioni acute, sul sostegno dei soli primi violini divisi: la chiarezza tematica delle altre sezioni viene qui frantumata nel contrappunto orchestrale. Ripreso variato anche quest’ultimo episodio tra i glissandi dell’arpa, e concluso col forte a organico completo, giunge l’ultima ripresa del rondò, non clamorosa bensì in pianissimo, eppure esaltata dall’unisono di flauti e violini sull’accompagnamento di archi, arpa, fagotti e corni. Per la seconda sezione del tema,dopo il rituale glissando dell’arpa, il canto spetta ai violini e al corno I, mentre flauti e clarinetti abbozzano un leggero staccato, imitazione forse d’un immaginario liuto o una spagnola vihuela nell’accompagnamento dell’antica pavane.

Sinfonia n. 4 “Le poème de l’extase”, op. 54

Sentire l’universo

Nei quaderni di appunti che Skrjabin tenne a partire dal 1905, il nodo teosofico dell’estasi, come stato spirituale nel quale si fonde anima ed universo, occupa un posto di assoluto primo piano. Dagli scritti si comprende come il problema fondamentale del compositore non fosse solo provare nell’intimo questo stato, ma anche renderlo a livello di scrittura fìlosofica, poetica e musicale. Non a caso la composizione del Poema dell’estasi, che prese gli anni dal 1905 al 1908, fu preceduta da un breve poemetto che Skrjabin fece pubblicare a sue spese nel 1905 e distribuì solo agli amici e ai collaboratori più stretti.

Alexander Scriabin

I versi del poema innalzano un inno alla forza invincibile dell’animo umano; vi si possono leggere frasi come «e tu sarai un’onda di gioia e di libertà dal molteplice generata. / O legioni di sentimenti / o pure sensazioni / io creerò / in complessa unità / la sensazione di beatitudine che tutte vi rapisce». Tutto è
pervaso da una cocente visionarietà, da un’estatica esaltazione. L’autore però non volle mai che il componimento poetico e quello musicale si integrassero a vicenda. Lontano da qualunque volontà di dare vita a un’opera di “musica a programma”, ebbe spesso a sottolineare che un direttore d’orchestra desideroso di eseguire il Poema dell’estasi non avrebbe dovuto conoscere lo scritto (anche se poi chiese al direttore Modest Altschuler di pubblicarne una sintesi nel programma della prima americana a New York, il 10 dicembre 1908). La pubblicazione poetica è comunque solo uno stadio verso il componimento musicale. Come tale può servire per fare luce su un percorso che ha però un’evoluzione ulteriore, che troverà solo nel mondo ‘fusionale’ dei suoni la sua realizzazione ultima.

Estasi e desiderio

Tormentato dall’esigenza di esprimere un crogiolo di sensazioni sorretto da un potente impeto espressivo, Skrjabin affidò alla speculazione teosofica il suo bisogno di inesprimibile, la sua sete di conoscere ciò che trascende la mera quotidianità. Portando a maturazione ultima la convinzione romantica della musica come fonte di conoscenza dell’infinito, egli tende a trasfondere nella creazione sonora quella parte di sé che partecipa ancora alla sintesi primigenia di ogni cosa. Detto in termini filosofici, ciò che Skrjabin cerca è l’astrazione dell’identità assoluta (il motore primo da cui deriva la realtà e lo spirito) tramite una smisurata fiducia nell”io’ creativo, e facendo dell’arte l’atto continuamente replicante la ‘creazione’.
Skrjabin amava moltissimo parlare di questi argomenti; ce lo ricorda Georgij Plechanov, primo traduttore in Russia di Marx ed Engels, padre del marxismo russo, autore assai stimato da Lenin. Nel 1905 i due, in vacanza a Bogliasco sulla riviera ligure, si incontrarono divenendo presto amici. Plechanov, che stimava enormemente Skrjabin, sceglieva spesso di rimanere in silenzio, lasciando parlare liberamente il musicista; in un suo scritto lo avrebbe poi definito “un mistico incorreggibile”.
In ogni modo, per quanto il pensiero voli alto, la musica con cui Skrjabin costruisce il suo Poema dell’estasi ha evidenti punti di contatto con la tradizione. La macrostruttura del Poema è in fondo una gigante ‘forma sonata’ in cui si susseguono un’introduzione, l’esposizione dei temi, il loro sviluppo, la ripresa variata e la coda finale. La mastodontica orchestra mette a disposizione del compositore risorse coloristiche enormi, che insieme alla fervida immaginazione ritmica e melodica costituiscono il vero elemento di interesse dell’opera. Per Skrjabin l’estasi è ‘stasi’, immobilità: l’introduzione è caratterizzata da un motivo che ruota intorno a una singola nota, enunciato dal flauto e ripreso da altri strumenti a diverse altezze. Ma è anche trasporto appassionato e sorprendente: l’inquieta armonia, striata in ampi voli ascensionali, lanciata in percorsi senza consequenzialità apparente, sostiene un’invenzione lirica assolutamente eccentrica. Skrjabin sa dipingere con sapienza, tragicità e rapimento. Il caotico rincorrersi dei temi, la saturazione del tessuto sonoro tramite il cromatismo, simboleggiano una ricerca inquieta, così come i trilli vaporosi e la diafana tessitura dei soli archi alludono, prima della coda, a un piacere celestiale.
Il Poema dell’estasi intende guidare l’ascoltatore nei meandri di un viaggio sonoro assolutamente anomalo ed eccezionale, perturbante e grandioso. Il successo espressivo della composizione, più che nell’aver dipinto lo stato dell’estasi, sta nella potenza con cui ha saputo dare suono al desiderio travolgente di raggiungerla.

La Mer – Trois Nocturnes – Prélude à l’après midi d’un faune – Jeux – Images – Printemps.

Registrazione eseguita nel 1974 e rimasterizzazione effettuata nel 1989. Audio ottimo. Altamente raccomandato

Chidren’s Corner – Petite Suite – Danse sacrée et danse profane – La Boite à joujoux – Fantaisie – La plus que lente – Premiere Rapsodie – Rapsodie – Khamma – Danse.

In queste due compilation EMI sono inserite quasi tutte le composizioni orchestrali di Debussy registrate da Jean Martinon nella metà degli anni settanta poco prima la sua morte nel 1976 (manca Le Martyre de Saint Sebastian).

Non so per quale ragione, ma queste partiture meno conosciute mi attirano di più delle maggiori composizioni orchestrali di Debussy inserite nella prima raccolta. Ho risentito tante volte i quattro CD. Fantaise per piano e Orchestra (uno dei primi lavori di Debussy) e il balletto Khamma (scritto approssimativamente allo stesso tempo di Jeux) e il bellissimo Prélude à l’après midi d’un faune mi sono rimasti in mente per tanto tempo.

Anche gli altri lavori sono belli da ascoltare. Premiere Rapsodie per clarinetto e orchestra, Danse (con l’orchestra di Ravel) e la bellissima Rapsodie. Jean Martinon è stato per anni l’interprete di riferimento per Debussy.
L’interpretazione di Martinon alla guida dell’Orchestra Nazionale della O.R.T.F. è fluida e colorata. Acquistate queste compilation prima che EMI le elimini dal catalogo. Registrazione eseguita nel 1974 e rimasterizzazione effettuata nel 1989. Audio ottimo. Altamente raccomandato

Jean Martinon