Debussy Claude
Pelléas et Mélisande
Debussy avrebbe voluto affidare la prima esecuzione a Georgette Leblanc, che era stata per più di dieci anni la compagna di Maeterlinck, ma il direttore dell’Opéra-Comique scelse come interprete la scozzese Mary Garden e nonostante Debussy stimasse Georgette fu d’accordo con il direttore nello scegliere la scozzese. Questo fece infuriare a tal punto Maeterlinck, che lo
indusse a scrivere a Le Figaro: “Sono costretto a sperare che sarà un fallimento clamoroso e rapido”; il giorno della prima rappresentazione fece poi distribuire all’ingresso del teatro dei volantini contenenti critiche ingiuriose, e fece accomodare in sala una claque di disturbatori.
Forse per questa ragione la critica non capì l’opera, e C. Bellaigue che era stato compagno del compositore al Conservatorio scrisse: «Debussy fa poco rumore ma è un piccolo rumore brutto». Tuttavia, la seconda rappresentazione fu un trionfo. «Come in tanti combattimenti estetici, gli snob hanno anche concorso al successo; saranno presto chiamati i Pelleastri» spiegò il musicologo François Lesure.
La migliore combinazione di direttore d’orchestra, esibizione dell’orchestra, qualità di canto e di audio che abbia mai sentito di questo grande capolavoro. La scenografia è allettante.
Boulez smentisce la sua reputazione da direttore d’orchestra “freddo”, conducendo con calore e coinvolgimento. L’orchestra, pur non essendo tanto conosciuta, è molto buona.
La voce dei ruoli principali di Pelléas, Mélisande, Golaud e Arkel è di prima qualità in termini sia di bellezza del suono, senso dello stile e percezione del personaggio.
Sia Nel Archer che Alison Hagley, (Pelléas e Mélisande), sono giovani e di bell’aspetto, valore aggiunto alla rappresentazione.
DVD raccomandato.
Pelléas et Mélisande
L’unico dramma musicale portato a compimento da Debussy segna l’apertura del nuovo secolo e inaugura, con un profondo mutamento di stile e di linguaggio, il teatro lirico del Novecento. Per poter pervenire a un modello d’opera così nuovo e rivoluzionario, l’autore dovette lavorarvi per ben dieci anni, a partire dal suo primo incontro col dramma in prosa di Maurice Maeterlinck, alfiere del simbolismo letterario.
Debussy acquistò il testo casualmente nell’estate del 1892, quando il dramma era ancor fresco di stampa; la lettura lo lasciò profondamente impressionato, ma fu la visione di Pelléas sulle scene dei Bouffes-Parisiens l’anno successivo che lo convinse a metterlo in musica. In effetti, quel testo corrispondeva esattamente a ciò che Debussy da tempo stava cercando: un dramma che si allontanasse dai modelli correnti di teatro borghese (ad esempio le pièces di successo d’un Sardou) e tanto di più dagli argomenti letterari e fantastici cari ai musicisti suoi contemporanei, più o meno influenzati dal teatro wagneriano.
Già in una dichiarazione del 1889, raccolta da Maurice Emmanuel, Debussy sosteneva che il poeta dei suoi sogni avrebbe dovuto essere quello che «disant le choses à demi, me permettra de greffer mon rêve sur le sien», quel poeta che concepirà dei personaggi la cui storia e il cui ambiente non apparterranno ad alcun tempo e ad alcun luogo. Dunque con Pelléasle sue aspirazioni si trovavano improvvisamente realizzate, grazie a un testo che fa della reticenza, del mistero, della lontananza dalla storia la radice principale della sua poetica. Il musicista chiese a Maeterlinck l’autorizzazione a mettere in musica il suo dramma, e la ottenne senza problemi.
Le difficoltà sorsero più tardi, quando Maeterlinck cercò
d’imporre a Debussy, come interprete principale, sua moglie Georgette Leblanc. Debussy si rifiutò, e lo scrittore dichiarò allora pubblicamente di essere del tutto estraneo al progetto musicale di Pelléas et Mélisande, e di augurarsi il suo fiasco totale. Al tempo di questi contrasti, comunque, l’opera era ormi terminata, ma solo dopo un lavoro lento e certosino, che fece meditare a Debussy, nell’arco di un intero decennio, parola su parola e battuta su battuta.
Nel gennaio del 1894, il musicista scriveva all’amico e collega Ernest Chausson: «Ho passato intere giornate a inseguire quel «niente» di cui è fatta Mélisande, e talvolta mi mancava persino il coraggio di raccontarvelo. Non se se vi siete mai addormentato, come me, con una vaga voglia di piangere, come se non si fosse potuto vedere durante la giornata una persona amatissima. Adesso è Arkël a tormentarmi: questi è un personaggio d’oltretomba e ha quella tenerezza disinteressata e profetica propria di chi sparirà tra breve. E tutto questo va detto con do, re, mi, fa, sol, la, si, do!!! Che mestiere!». La scelta più significativa di Debussy rispetto al testo letterario fu quella di non adattarlo a libretto ma di mantenere l’originale scrittura in prosa, limitandosi a tagliare alcune scene, sia per motivi di carattere
estetico sia per ovvie ragioni di durata dell’opera.
I tagli costituiscono, nella loro acuta intelligenza, un sensibile miglioramento al dramma di Maeterlinck, che rimane tuttavia pressoché integro nella lettera. Pertanto, Debussy fu il primo compositore a mettere in musica un testo teatrale preesistente così com’era stato scritto, scelta che si rivelò ancora una volta rivoluzionaria e che aprì la strada a un nuovo modo d’intendere il rapporto fra teatro di prosa e teatro musicale. I primi frutti di quella scelta si potranno già osservare nella Salome di Richard Strauss, rappresentata nel 1905 (soltanto tre anni dopo Pelléas), dove anche il musicista bavarese si attenne fedelmente alla tragedia di Oscar Wilde, limitandosi a farla tradurre in tedesco da Hedwig Lachmann.
La fedeltà alla prosa francese di Maeterlinck obbligò Debussy a inventare un modello originale di declamato lirico, capace in tutto di rispettare la prosodia del testo, con il risultato di dar vita a un’intonazione estremamente scorrevole e ‘parlante’, ma ricca d’incredibili sfumature espressive. Nel tracciare questo nuovissimo stile vocale, il musicista fece tesoro delle suemélodiesper voce e pianoforte, che negli anni immediatamente precedenti la gestazione di Pelléas, in particolare nel 1893, si aprono a uno sperimentalismo determinante per il linguaggio dell’opera futura: è il caso delle Proses lyriques, titolo già di per sé significativo (i testi sono dello stesso musicista), e delle Chansons de Bilitis(1897-98) su testi dell’amico Pierre Louÿs, nelle quali già par d’intendere la voce di Mélisande (non è certo un caso se la seconda di quelle Chansons, porta il titolo La Chevelure). Si giunse finalmente, tra mille problemi e contrattempi, alla prova generale, fissata all’Opéra-Comique per il 28 aprile 1902, in un clima surriscaldato dall’attesa e dai pregiudizi che erano dilagati nella Parigi dei frequentatori dei teatri e degli artisti, grazie anche alle polemiche scatenate all’ultimo momento da Maeterlinck, che si era spinto fino al punto di sfidare a duello il compositore.
All’ingresso del teatro venne distribuito un falso programma di sala, pieno di ironie sulla vicenda e di grevi doppi sensi (fu allora che nacque il calembour– tuttora popolarissimo –
«Pédéraste et Médisante»). Alle prime sortite di Mélisande la gente già rideva di gusto, riso che si trasformò in sghignazzo quando la protagonista dice a bassa voce «Non sono felice», al che immediatamente il loggione replicò: «Neppure noi!». Solo pochi restarono fino al termine dello spettacolo per applaudire Debussy, e fra questi Valéry, Mirbeau e Régnier. Alla premièr e vera e propria si formarono invece due partiti contrapposti, e i difensori di Pelléas, incarnati dal gruppo degli «Apaches» che comprendeva anche il giovane Ravel, riuscirono a zittire i molti spettatori di fede wagneriana intenzionati a far cadere l’opera. Invece, a partire dalle prime repliche,Pelléa riuscì a imporsi, fino a diventare un testo alla moda, con schiere di accaniti e sacerdotali difensori.
André Messager fu il primo direttore d’orchestra dell’opera, mentre Albert Carré (direttore artistico dell’Opéra-Comique) curò la regia e Lucien Jusseaume le scene e i costumi; questo allestimento fu utilizzato fino al 1927 e poi ripreso anche a partire dagli anni Cinquanta, grazie alla ricostruzione di Deshays. La prima Mélisande fu il celebre soprano Mary Garden, una scozzese destinata a divenire uno dei miti vocali d’inizio secolo («Non posso concepire timbro più dolcemente insinuante», dichiarava Debussy a proposito della sua avvenente prima protagonista). Pelléas fu Jean Périer e Hector Dufrane vestì per primo i panni di Golaud. Da allora, l’opera ha avuto in tutto il mondo allestimenti importantissimi, ed è stata affrontata dai più grandi direttori d’orchestra del secolo: in Francia, gli eredi più autorevoli di Messager furono Désiré-Emile Inghelbrecht, Albert Wolff, Roger Desormière (autore nel 1942 d’una fondamentale registrazione in disco dell’opera, con i suoi più celebrati interpreti vocali, Jacques Jansen e Irène Joachim), Ernest Ansermet, André Cluytens, Jean Fournet e Manuel Rosenthal.
La prima italiana fu data alla Scala il 2 aprile 1908, per merito di Arturo Toscanini che ne fu anche il direttore (un’altra celebre rappresentazione, sempre sotto la sua bacchetta, e con regia di Giovacchino Forzano, fu realizzata alla Scala nel 1925). Tra gli altri grandi interpreti di Pelléas nel tempio lirico milanese si ricordano Victor de Sabata (1949 e 1953), Georges Prêtre (1973) con la fascinosa messa in scena di Gian Carlo Menotti e Rouben Ter-Arutunian, e soprattutto Claudio Abbado, la cui incandescente lettura è da considerare uno dei vertici assoluti nella recente storia esecutiva dell’opera di Debussy: il meraviglioso allestimento di Antoine Vitez, con scene e costumi di Yannis Kokkos, fu presentato nel 1986, e poi riproposto alla Staatsoper di Vienna.
Tra le altre produzioni di Pelléassi distinguono quella affidata a Pierre Boulez dal Covent Garden di Londra nel 1969: si trattò di una rilettura radicale, che cancellava i toni floue il monotono simbolismo della tradizione francese, per consegnare l’opera a un «teatro della paura e della crudeltà» di matrice strindberghiana. Boulez ha affrontato di nuovo Pelléas nel 1992 alla Welsh National Opera di Cardiff, in occasione di una messa in scena stilizzatissima firmata da Peter Stein; a distanza di quasi un quarto di secolo, la lettura del grande compositore-direttore francese è tornata parzialmente nel solco della tradizione, con un evidente smussamento delle asperità e del taglio drammatico assai più consono alla poesia del mistero debussyano. Infine, fra gli altri grandi interpreti diPelléassi deve menzionare Herbert von Karajan, che ha spostato interamente l’attenzione sull’orchestra, ottenendo sonorità impalpabili e una collocazione fiabesca del dramma di marca squisitamente estetizzante.
Atto primo.
Quadro primo. Golaud si è smarrito nella foresta inseguendo un cinghiale (“Je ne pourrai plus sortir de cette forêt”). Scorge una fanciulla sola, che piange al bordo di una fontana. La interroga e ne riceve solo risposte vaghe e impaurite: qualcuno le ha fatto del male, si chiama Mélisande e ha perduto nell’acqua della fontana una corona. Golaud le offre di portarla con sé e la fanciulla acconsente (Interludio sinfonico).Quadro secondo. In un appartamento del castello, Geneviève legge al vecchio Arkël, re d’Allemonde, una lettera di Golaud al suo fratellastro Pelléas (“Voici ce qu’il écrit a son frère”), nella quale gli comunica d’aver sposato da sei mesi una bellissima fanciulla, di cui però ignora tutto. Vuole tornare al castello ma teme l’ira di Arkël: se vedrà una torcia accesa sulla torre, sarà segno che la sua nuova sposa è bene accetta. Entra Pelléas, che manifesta l’intenzione di partire per recar visita a un amico moribondo. Arkël lo trattiene, ricordandogli che anche suo padre è in fin di vita. Geneviève invita Pelléas ad accendere la torcia sulla torre (Interludio sinfonico).Quadro terzo. Mélisande, accompagnata da Geneviève che cerca di rincuorarla, è all’ingresso del castello. Giunge Pelléas e annuncia un’imminente tempesta di mare. Geneviève lo prega di tener compagnia a Mélisande mentre lei s’occuperà del piccolo Yniold. Pelléas annuncia alla cognata che forse partirà l’indomani.
Atto secondo.
Quadro primo. Davanti a una fontana nel parco, Pelléas e Mélisande stanno conversando. La fanciulla vorrebbe toccare l’acqua della fontana, ma è troppo profonda; vi immerge i suoi lunghissimi capelli, poi gioca con l’anello che le ha regalato Golaud, finché l’anello le sfugge di mano e si perde nell’acqua: non sarà più possibile recuperarlo. Mélisande si chiede allora cosa potrà raccontare a Golaud: «la verità, la verità», le risponde Pelléas (Interludio sinfonico).Quadro secondo. Golaud è costretto a letto per una caduta da cavallo; racconta che l’animale s’è imbizzarrito proprio mentre suonava mezzogiorno (cioè nel momento esatto in cui Mélisande perdeva il suo anello). Mélisande, al suo capezzale, scoppia in lacrime; Golaud le chiede se qualcuno le abbia fatto del male, ma Mélisande risponde che neppure lei sa la causa della sua infelicità, forse la colpa è del lugubre aspetto del castello, dal quale vorrebbe andar via. Golaud la consola e nel prenderle le mani si accorge che non ha più il suo anello al dito. Mélisande dice d’averlo perduto in riva al mare, davanti alla grotta, e Golaud le impone d’andarlo a cercare, facendosi accompagnare da Pelléas (Interludio sinfonico).Quadro terzo. Di notte, i due cognati si sono recati alla grotta, perché Mélisande sia in grado di descriverla in caso Golaud glielo chieda. Un raggio di luna spezza l’oscurità e nel fondo della grotta appaiono le sagome di tre vecchi mendicanti addormentati. Mélisande si spaventa e chiede a Pelléas di ricondurla subito al castello.
Atto terzo.
Quadro primo. Di notte, affacciata alla finestra della torre, Mélisande si pettina (“Mes longs cheveux descendent jusqu’au seuil de la tour”). Pelléas si avvicina ai piedi della torre: chiama Mélisande e le annuncia che l’indomani partirà. Quindi chiede di poterle baciare la mano: Mélisande si sporge e i suoi lunghi capelli cadono a cascata su Pelléas, che li bacia inebriandosi. All’improvviso, entra in scena Golaud che rimprovera i due cognati per le loro ragazzate (Interludio sinfonico).Quadro secondo. Golaud porta Pelléas nei sotterranei del castello, e gli fa contemplare le acque stagnanti di quel luogo (“Eh bien, voici l’eau stagnante dont je vou parlais”).
Le mani di Golaud tremano, e Pelléas se ne accorge dal movimento della lanterna. Egli chiede di uscire, perché si sente soffocare dai miasmi provenienti dall’acqua putrida (Interludio sinfonico).Quadro terzo. Uscito dai sotterranei, Pelléas respira (“Ah, je respire enfin”). Vede poi Mélisande alla finestra con Geneviève, e Golaud lo mette in guardia: scene come quella cui ha assistito ai piedi della torre non si devono ripetere, giacché Mélisande ora è ancor più fragile, e aspetta un bimbo (Interludio sinfonico).Quadro quarto. Golaud cerca di sapere da Yniold cosa fanno Pelléas e Mélisande quando sono soli. Il piccolo risponde che discutono della porta, che non può restare aperta, che sono tristi e non vogliono che lui li lasci soli, e una volta si sono baciati sulle labbra. Golaud prende allora sulle spalle il piccolo Yniold perché osservi dalla finestra cosa fanno i due cognati: sono soli, tacciono, non fanno niente. Poi Yniold si spaventa per l’irruenza del padre nel chiedergli la descrizione della scena e lo prega di farlo scendere.
Atto quarto.
Quadro primo. Pelléas incontra Mélisande e le annuncia che sta per partire, giacché suo padre sta meglio. Prima di partire però le chiede di incontrasi con lei ancora una volta, a sera,
presso la fontana. Entra Arkël, che si rallegra per il miglioramento del figlio. Colma Mélisande di tenerezza, e si compiace che la sua vita al castello sia meno triste. In quel mentre, entra Golaud, agitatissimo. respinge Mélisande, prende la spada, e getta a terra la moglie prendendola per i capelli (“Une grande innocence”). Interviene Arkël e Golaud finge d’essersi calmato, ma Mélisande comprende che il marito non l’ama più ed esprime tutta la sua infelicità (Interludio sinfonico).Quadro secondo. Davanti alla fontana nel parco, il piccolo Yniold cerca di sollevare una grossa pietra per recuperare la sua pallina d’oro. Giunge da lontano il rumore di un gregge di pecore. Yniold le osserva passare, spinte dal pastore, e chiede a quest’ultimo perché le pecore improvvisamente tacciano.
Il pastore gli risponde che quello non è il percorso che conduce all’ovile. Agitato, Yniold cerca allora di sapere dove vanno le pecore, poi parte perché sta calando la sera. Entra Pelléas, per incontrarsi alla fontana con Mélisande per l’ultima volta (“C’est le dernier soir”). Le dirà tutto ciò che finora le aveva taciuto. Mélisande giunge e Pelléas le dichiara finalmente il suo amore: per tutta la vita ha cercato la bellezza e finalmente in lei l’ha trovata (“On dirait que ta voix a passé sur la mer au printemps”). Anche Mélisande gli confessa di averlo amato fin dal primo momento. Si sentono dei rumori. È Golaud, che sopraggiunge armato; i due si baciano appassionatamente, e in quell’amplesso Golaud colpisce a morte Pelléas. Mélisande fugge nel bosco, inseguita da Golaud.
Atto quinto.
Intorno al capezzale di Mélisande, morente benché ferita da Golaud solo leggermente, stanno Arkël, Golaud e un medico. Mélisande si desta dal suo torpore, vuole che si apra la finestra e chiede chi sia nella stanza. Golaud vuole poi restar solo con Mélisande, le chiede perdono e domanda se il suo amore per Pelléas è stata una passione colpevole. Mélisande nega, e Golaud insiste, chiedendole se è la verità. Mélisande non risponde, e lo lascia nella tortura del dubbio. Frattanto il medico e Arkël rientrano: Mélisande ha freddo, ma non vuole che si chiuda la finestra. Le viene portate la sua bimba, nata da poco, ed ella non ha la forza di prenderla in braccio. Entrano le ancelle, mentre Golaud implora Mélisande piangendo. Quando le ancelle s’inginocchiano, Arkël impone a Golaud di uscire: Mélisande è morta, ora c’è bisogno solo di silenzio, e di prendersi cura della piccola neonata, che continuerà a vivere per lei.
La lunga gestazione di Pelléas ha tra le sue cause molteplici un rovello particolare e costante per Debussy: evitare il più possibile di cadere nella tentazione wagneriana e, peggio, di far assomigliare la sua opera a un Tristano e Isotta francese. Il rapporto di Debussy con Wagner è infatti un tipico esempio di rapporto di amore-odio. Se da un lato le prese di posizione del musicista sono più o meno tutte di natura polemica (se non sarcastica) nei confronti del Gesamtkunstwerk wagneriano, nondimeno la sua formazione e la sua squisita sensibilità estetica non potevano non ammirare, e profondamente, il genio di Bayreuth. Così, se Pelléassi allontana dal dramma musicale wagneriano per la
scelta di un testo in prosa e per la conseguente rigenerazione del canto sulla prosodia e sul tono di conversazione («Au théâtre de musique on chante trop», sosteneva Debussy già nel 1889), d’altra parte Debussy fece suo il sistema dei motivi conduttori, spostando però il loro luogo deputato di raccordo psicologico e architettonico alla sola orchestra. A differenza di ciò che accade in Wagner, le voci di Pelléas non fanno mai proprio uno dei tanti temi coi quali è intessuta la partitura. Quanto grande poi sia il debito – criticamente rivissuto – di Debussy nei confronti di Wagner è straordinariamente evidente fin dalla prima apparizione del tema di Golaud, modellato fin quasi al calco sulla Verwandlungsmusik del primo atto di Parsifal, che nel canone wagneriano fu certo il testo più amato e studiato dal musicista francese.
Se l’architettura musicale dell’opera risente di un wagnerismo depurato d’ogni enfasi epica e filosofica, e ricondotto a nudo sistema di costruzione motivica, la ricchezza timbrica di Pelléa se il nuovissimo modellato parlante delle linee vocali sono figli piuttosto della conoscenza dell’opera di Musorgskij. Debussy aveva fatto il suo primo incontro con la partitura di Boris Godunov nel 1889, e le sue conoscenze della scuola nazionale russa si ampliarono sensibilmente nel 1896, in occasione di alcune conferenze parigine di Pierre d’Alheim e Marie Olenin. Alla vigilia di Pelléas, nel 1901, Debussy fece uscire un articolo sulla ‘Revue blanche’ in cui esaltava senza riserve la grandezza del ciclo di liriche musorgskiano La camera dei bambini: «Personne n’a parlé à ce qu’il y a de meilleur en nous avec un accent plus tendre et plus profond». Senza l’assimilazione del canto prosodico di Musorgskij, la vocalità di Pelléa sarebbe stata certo assai diversa. Lo stesso si può dire per l’armonia, con i suoi modalismi, e per la strumentazione, che in certi casi giunge fino a citare alla lettera il capolavoro teatrale del compositore russo: si veda, per esempio, l’Interludio sinfonico tra la prima e la seconda scena del primo atto, immediatamente avanti la lettura della lettera di Pelléas da parte di Geneviève, dove Debussy ricalca genialmente l’accompagnamento orchestrale sulla prima scena di Pimen nel primo atto del Boris.
Tuttavia, se un’assimilazione critica dei linguaggi di Wagner e Musorgskij è fra le matrici innegabili di Pelléas, pure la grande portata della rivoluzione stilistica e lessicale di quest’opera è frutto principalmente del suo autore, che già nel Prélude à l’après-midi d’un faune del 1892-94 aveva perfettamente mostrato un’indipendenza assoluta, nell’armonia come nella melodia, sia rispetto al linguaggio accademico sia rispetto alle esasperazioni cromatiche di marca wagneriana tanto care a tutti i suoi contemporanei francesi, Franck in testa. Gli «accordi incompleti, fluttuanti» che la sua anarchia armonica consegnerà maturati alla scrittura diPelléassono senza dubbio alcuno la cifra più personale di questo padre della musica moderna, nume tutelare di tutto il Novecento. Su quella base armonica innovativa e sospesa, l’orchestra si fa carico del difficile compito di unire le brevi scene di un testo che rinuncia all’unità di tempo distribuendo l’azione in una regione del sogno e dell’indeterminato, assai pericolosa per l’efficacia drammatica.
La scommessa fu vinta a usura, perché l’unità di Pelléas et Mélisande è garantita anche dalla sfaccettatura espressiva, sempre appannaggio dell’orchestra, dei personaggi che vi agiscono, appena tratteggiati da Maeterlinck e resi invece vivi, commoventi, da Debussy: laddove il dramma è fatto spesso di silenzi e reticenze, di mistero fin troppo didascalicamente simbolista, il musicista riesce col solo ausilio di una preziosa e palpitante cornice sonora a rendere credibili le ilhouettes quasi fantasmatiche che mette in scena.
D’altronde, solo la superficie di Pelléas appartiene al mondo poetico di Maeterlinck: la sostanza profonda dell’opera è alimentata dalla lettura di Edgar Allan Poe, autore carissimo a Debussy, e in particolare da The Fall of the House of Usher, che qualche anno più tardi il musicista tenterà anche di trasformare in opera (?La Chute de la maison Usher). I dettami di ambiguità, di indefinitezza propri all’ambiente simbolista si caricano quindi nella partitura debussyana dei misteri dell’inconscio, del morboso, dell’incubo. In tempi recenti, una lettura del capolavoro lirico di Debussy in questa chiave ha finalmente permesso il superamento di quell’immagine monotona e vaga che la tradizione interpretativa aveva fatto vivere per quasi settant’anni dalla prima. Il merito della ‘riscoperta’ di ciò che di turbato e crudele informa la musica di Pelléas deve essere attribuito specialmente a Pierre Boulez, che è stato, oltre che direttore di due interpretazioni capitali dell’opera in teatro e in disco, anche acutissimo esegeta della scrittura e dei contenuti di Pelléas.
Come accade per tutte le più grandi opere d’arte, si può dire che anche per Pelléas sia da poco iniziata una nuova giovinezza, all’insegna di una radicale riconsiderazione dei suoi valori stilistici e poetici, che parte proprio dalla sottolineatura degli elementi legati più a Poe che a Maeterlinck e a tutta la tradizione simbolista, dalla quale – impossibile trascurarlo – Debussy comunque deriva, ma in cui tuttavia non si può circoscrivere il suo lavoro. L’indivisibile complementarità di simbolo e inconscio fa di questo testo anti-operistico, anti-realistico, anti-effettistico e anti-eroico (Nicolodi) una pietra miliare e un punto di partenza nella complessa evoluzione del teatro musicale contemporaneo.