Dvorak Antonin

Concerto per violoncello e orchestra

Non a torto giudicato da molti il più bel Concerto per violoncello (forse assieme a quello di Schumann), questa pagina è anche una delle opere più intense di Dvorak, composta durante il soggiorno americano, ma rielaborata (specie nel terzo tempo) dopo il ritorno a Praga nel 1895. Il Concerto occupa un posto di rilievo tra le ultime composizioni del compositore ceco ed è considerato un testamento della sua attività artistica, oltre che un’importante testimonianza dell’appartenenza di Dvorak alle cosiddette “Scuole Nazionali”, un indirizzo estetico sviluppatosi nei paesi vissuti musicalmente a margine della grande Europa (dai Paesi di lingua slava alla Russia), che aveva alla base la riscoperta del sentimento popolare, ovvero lo studio e la rilettura delle proprie radici musicali. Dei due Concerti per violoncello e orchestra scritti da Dvorak solo il secondo è rimasto nel repertorio mentre il primo, del 1865, ci è pervenuto nella versione per violoncello e pianoforte ed è considerato un lavoro di stampo giovanile. La qualità audio della registrazione ERATO del Concerto per violoncello di Dvorak e delle variazioni Rocco di Tchaikovsky dirette da Seiji Ozawa con la Boston Simphony Orchestra è minore della versione rimasterizzata della Deutsche Grammophon con sempre Mstislav Rostropovich accompagnato da Herbert von Karajan e dai Berliner Philharmoniker. Sicuramente in entrambe le registrazioni, Rostropovich esegue delle esibizioni appassionate e calde. La sua interpretazione nella registrazione ERATO mi sembra meno vivace di quella della Deutsche Grammophon. Senza dubbio, la registrazione della DGR offre un Karajan e i Berliner Philharmoniker al loro meglio. Da notare il tono caldo e attraente creato dagli strumenti a corda, che sembrano quasi come le sezioni degli strumenti a arco dei Wiener Philharmoniker. Registrazione eseguita nel 1969 e rimasterizzazione effettuata nel 1995. Audio eccezionale. Altamente raccomandato.

Un grande evento artistico

Fu un evento memorabile nella storia dell’interpretazione di Dvorák come negli annali delle più prestigiose collaborazioni artistiche, dove non va peraltro dimenticato il contributo di una grande orchestra come i Berliner Philharmoniker.
Era l’annuncio dell’incontro di due interpreti illustri, un annuncio che dette adito a tanti discorsi e discussioni destando maggior curiosità di ogni altro progetto artistico e discografico di quei tempi irrequieti (era la fine degli anni Sessanta). Io ero allora un ragazzo, prossimo a finire gli studi scolastici, e ricordo ancora benissimo come anche i mass media che nel settore della musica classica non godevano di particolare autorità non mancassero di diffondere la notizia: Mstislav Rostropovich avrebbe suonato a Berlino – la Berlino divisa, travagliata e minacciata dalla “guerra fredda” – il Concerto per violoncello di Dvorák sotto la direzione di Herbert von Karajan, e in concomitanza con questo grande evento artistico i Berliner Philharmoniker, Rostropovich e Herbert von Karajan avrebbero registrato sia questo concerto che le Variazioni su un tema rococò di Ciaikovskij.
Rostropovich vi si impegnò con tutto il brillante, intenso fervore del suo virtuosismo emotivo, Karajan con quella sovrana energia nel motivare e coordinare i Berliner Philharmoniker con quella vivacità e ricchezza timbrica che sapevano dispiegare in ogni esecuzione di un concerto, sì che le loro registrazioni divenivano esemplari documenti della perfetta collaborazione e del fecondo dialogo creati ogni volta con i solisti.

Peter Cossé

In quei giorni della tournée di Rostropovich a Berlino si parlò tanto più intensamente di dialogo e collaborazione anche a causa dei risvolti politici che un siffatto progetto discografico avrebbe indirettamente implicato.
Il celebre violoncellista e direttore originario di Baku, e professore ai Conservatori di Mosca e Leningrado, non aveva mai fatto mistero del suo atteggiamento dissidente.

Mstislav Rostropovich

Amico dei grandi compositori sovietici di questo secolo, Prokofiev e Shostakovich, e legato anche in stretta amicizia con Alexander Solgenitzin, Rostropovich non aveva esitato a render note in pubblico le sue “scomode” convinzioni. E lo fece senza alcun timore, naturalmente con tutta l’autorità su cui poteva contare, finanche ai vertici del potere politico, i più illustri musicisti dell’Unione Sovietica. Ma alla fine degli anni Sessanta Rostropovich rimase sempre più irretito in ostilità e calunnie.
Nel 1974 lasciò l’Unione Sovietica e nel 1978 gli fu anche tolta la cittadinanza. In questo clima di incertezze, tensioni e sempre rinnovate speranze di pace bisogna inquadrare quei segnali musicali provenienti da Berlino. La musica di Dvorák e Ciaikovskij non era dunque semplice espressione di un’arte autosufficiente, ma diveniva una possibilità di riaffermare la verità e di elevarsi sulla meschinità dei dissidi umani e politici tendendo la mano a popoli vicini “ufficialmente” costretti al ruolo di nemici.
E con questi intendimenti furono effettuate anche altre registrazioni, come quella del Concerto in si bemolle maggiore di Ciaikovskij con Svjatoslav Richter e Herbert von karajan alla guida dei Wiener Symphoniker e con Lazar Berman e i Berliner Philharmoniker. Si è trattato in tutti i casi di iniziative e tentativi d’instaurare, almeno con la musica, quel senso di solidarietà e concordia altrimenti sconosciuto nel confronto ostile tra i diversi sistemi politici.
Sia il Concerto per violoncello in si minore di Dvorák che le Variazioni sul tema rococò di Ciaikovskij – piacevoli, sinuose nelle loro movenze danzanti e nei loro toni di ballata, quasi testimonianza musicale di un creativo superamento del passato – sembravano scritti espressamente per la personalità di Rostropovich, vibrante, generosa nella sua schietta cordialità.
Né si deve qui dimenticare il suo prezioso pendant, lo strumento che non può essere separato da quel miracolo di vitalità che è Rostropovich. Quasi si potrebbe pensare che l’assoluta dedizione e la più compiuta maestria abbiano generato una simbiosi perfetta tra interprete e strumento, sì che non si possa più affermare con assoluta sicurezza se sia l’uno ad agire sull’altro o viceversa.

Peter Cossé
(Traduzione: Gabriele Cervone)

Secondo i miei gusti musicali, Rostropovich è stato il più grande violoncellista del XX secolo e Giulini uno tra i direttori d’orchestra migliori. Metteteli insieme e avrete la migliore esibizione del concerto per violoncello di Dvorak che abbiate mai ascoltato.

Il concerto di Saint-Saens, nonostante non raggiunga il livello del capolavoro di Dvorak, è tuttavia piuttosto notevole e l’esibizione è eccezionale. Non capisco per quale ragione la coppia Rostropovich/Giulini non ha avuto il successo meritato come quella pubblicata dalla DGR. Comunque sia abbiamo due registrazioni da sogno.

Questo CD è un’occasione da cogliere finché è disponibile. Registrazione eseguita nel 1978 e rimasterizzazionne effettuata nel 2001. Entrambi ultraraccomandati.

Il Concerto per violoncello in si minore è stato scritto espressamente per il grande esecutore Hanus Wihan, violoncellista del Quartetto boemo e amico di Dvorak. La composizione fu ultimata alla fine del secondo soggiorno americano, fra il Novembre 1894 e il Febbraio 1895, a New York, ed eseguita la prima volta a Londra il 19 marzo 1896, sotto la direzione dell’autore e nell’interpretazione solistica di Leo Stern. La concezione generale pare più
quella di una sinfonia con violoncello obbligato che quella di un concerto tradizionale. In tutti e tre i movimenti l’orchestra ha un ruolo essenziale nell’individuare temi e strutture, senza tuttavia sommergere la voce scura del violoncello. Il più ispirato è il movimento centrale, dove la cantabilità baritonale del solista si fonde col controcanto degli strumenti d’orchestra con intensa partecipazione drammatica. Il fervore romantico non manca neppure nel primo movimento, dominato da un perentorio tema principale. Ritmicamente ben squadrato si staglia anche il motivo fondamentale del finale, che coordina gli episodi secondari in uno dei quali è ripresa, secondo il procedimento ciclico della Sinfonia “dal Nuovo Mondo”, una melodia del secondo tempo che va poi ad alimentare la conclusione di grande effetto.

Carlo Maria Giulini

Altra rappresentazione di tutto rispetto. Registrazioni in DDD eseguite dal 1986 al 1989. Audio ottimo.

Dvorák – Schuman
Concerti per violoncello

Nell’aprile del 1894 Dvorák, durante il suo incarico al Conservatorio di New York, ebbe modo di ascoltare il Secondo Concerto per violoncello e orchestra del collega Victor Herbert, il compositore di origine irlandese che, valente violoncellista, si sarebbe presto conquistato una buona notorietà soprattutto con le sue operette. Tale ascolto dovette così essere per Dvorák l’incentivo maggiore a scrivere un lavoro di uguale fattura; anch’egli invero era al suo secondo cimento del genere, ma il Primo Concerto, creato nel 1865, era rimasto allo stadio di abbozzo (sarebbe stato rivisto e orchestrato nel 1929 dal compositore tedesco Gunter Raphael).
Il Secondo invece, avviato nel novembre di quel 1894, giunse speditamente in porto, nel febbraio del 1895.
Si tratta di un lavoro che Dvorák licenziò con lo sguardo ormai rivolto verso casa: sempre nel 1894 infatti egli aveva deciso di non rinnovare il suo impegno con il Conservatorio newyorkese e con questo Concerto egli avrebbe così presentato il suo congedo dal suolo statunitense.
Ritornato in patria, Dvorák nella tarda primavera del 1895 rielaborò ancora il terzo movimento del lavoro: a ciò fu indotto dalla scomparsa della cognata Josefina Cermáková, che il musicista aveva amato in gioventù e che aveva fra l’altro ispirato la nascita dei 18 Lieder del 1865 intitolati “Cipressi”.
Durante la composizione del Concerto negli Stati Uniti Dvorák aveva già ricevuto da Josefina stessa (lettera del 26 novembre 1894) la notizia che ella era seriamente ammalata: proprio per tale contingenza aveva inserito nel secondo tempo un palese accenno al suo Lied op. 82 n. 1 (1887 – 88) Lasst mich allein (Lasciatemi solo con i miei sogni), un brano che l’amica aveva particolarmente a cuore.
La di lei scomparsa indusse così Dvorák a riprendere tale citazione (come del resto un accenno del primo tema del primo movimento) anche nel Finale ed a concludere così ciclicamente il lavoro in tono sostanzialmente elegiaco.
Il musicista dedicò il Concerto all’amico Hanus Wihan, rinomato violoncellista che aveva tra l’altro fondato il Quartetto ceco: proprio per evitare troppo gratuite manipolazioni Dvorák in una lettera del 3 ottobre 1895 aveva pregato il suo editore Simrock di non apportare cambiamenti se non da lui autorizzati, proprio perché consapevole che il lavoro per il suo tono sostanzialmente lirico era impermeabile a qualunque virtuosismo fine a se stesso.
Del resto l’impostazione generale del discorso è sapientemente sinfonica e l’orchestra non decade mai a mero palcoscenico per il solista; da qui fra l’altro l’assenza in tutti e tre i movimenti di una vera e ampia cadenza.
Tale scelta poetica non dovette entusiasmare Wihan: ulteriori problemi pratici (di date e di tempo) si aggiunsero quindi ad impedire che il dedicatario potesse presentare il lavoro, il cui battesimo venne così amministrato da Leo Stern durante l’ultimo viaggio di Dvorák in Gran Bretagna, alla Queen’s Hall di Londra presso la Philharmonic Society il 19 marzo 1896, con il compositore stesso sul podio: sempre Stern si sarebbe poi incaricato di diffondere il Concerto a Lipsia, Praga e Berlino.
Si tratta di un lavoro che è senz’altro uno dei migliori lasciti orchestrali di Dvorák e che si è facilmente conquistato un posto nella letteratura concertistica per violoncello.
Con il concorso della tonalità minore il frequente controcanto dei legni che contrappuntano in regione acuta con il solista è ad esempio uno dei più chiari espedienti atti ad accrescere l’impostazione lirica del lavoro: ma ogni svenevolezza è bandita, grazie alla complementare presenza di quelle risolute movenze epiche che già permeavano tanti passi della Sinfonia “Dal Nuovo Mondo” di poco precedente; del resto neanche qui mancano alcune peculiarità “esotiche” già riscontrate in quel lavoro, come ad esempio l’abbassamento del settimo grado e l’uso di passaggi pentatonici.
Un primo movimento in forma-sonata arcua il discorso fra due idee non solo espressivamente ma anche morfologicamente opposte: un’incisiva cellula di poche note ed un’espansa melodia cantabile a proposito della quale Dvorák stesso, in una lettera del 12 dicembre 1894 all’amico Alois Gobl, disse: “Mi emoziona ogni volta che la suono”.
Fa seguito uno splendido Adagio, ma non troppo che incunea all’interno del suo discorso in sol maggiore una virile sezione in sol minore con la citazione del Lied di Josefina.
Il Finale, di nuovo in si minore, si muove fra andamenti marziali ed altri di struggente, un po’ enfatica poesia; la necessità di conservare un nerbo di ferma robustezza induce poi il musicista a inserire una coda (Andante maestoso) con la quale coronare, anzi addirittura solennizzare (emblematica la modulazione a si maggiore) la stimmung del Concerto.

Ferruccio Tammaro

Misha Maisky

Un eccezionale arricchimento del (limitato) repertorio di concerti per violoncello è dato dal Concerto in la maggiore op. 129 di Schumann, abbozzato e strumentato dal 10 al 24 ottobre 1850 a Dusseldorf.
Con i suoi fluidi passaggi fra i tre movimenti e i molteplici nessi tematici, questa composizione lascia intravedere di nuovo la particolare propensione del compositore per la strutturazione ciclica.
Il Concerto appare in egual misura liberamente rapsodico e formalmente compiuto, e dischiude al solista ampie possibilità di sviluppi sonori e tecnici. Anche se esso è stato scritto completamente “per questo bello strumento”
(Schumann) e il solista rispetto all’orchestra ha una parte decisamente dominante, tuttavia gli elementi virtuosistici sono sempre sottomessi all’espressione musicale. Ogni volta i magnifici temi e passaggi affidati al violoncello avvincono con il loro fascino, mentre la vasta gamma sonora ed espressiva dello strumento è utilizzata in varie maniere: sia nel primo movimento, segnato da un tema elegiaco-cantabile e da intensificazioni ricche di tensione, sia nel canto romanticamente appassionato nella parte centrale o nella gaiezza piena di brio del Rondò finale.

Siegmar Keil
(Traduzione: Alessandra Castriota)