Dvorak Antonin
Sinfonie
Rafael Kubelik – direttore ceco piuttosto eclettico che spaziava da Mozart a Schumann a Mahler, di cui ci ha lasciato bellissime interpretazioni – diede peraltro il meglio di sé nell’esecuzione dei due compositori suoi conterranei più famosi, vale a dire Bedrich Smetana e Antonin Dvorak.
Del primo Kubelik incise l’intero poema sinfonico “Ma Vlast” (cioè “La mia Patria”, comprendente in particolare “La Moldava”) che resta ancor oggi l’edizione di riferimento, mentre di Dvorak il direttore cèco registrò negli anni Settanta gran parte delle composizioni sinfoniche e corali, tra cui l’intero ciclo delle nove sinfonie, contenute nel cofanetto di 6 CD
Di tale ciclo sono note e frequentemente eseguite soprattutto le ultime due sinfonie e, in particolare, la n. 9 (o n. 5 secondo la precedente numerazione) detta “Dal Nuovo Mondo”, essendo stata ispirata al compositore dal suo soggiorno negli Stati Uniti, sulla quale si sono cimentati tutti i principali direttori, da Toscanini a Karajan, da De Sabata ad Abbado.
Viceversa sono state decisamente trascurate le precedenti sinfonie, che meritano invece di essere ascoltate nella loro evoluzione, a riprova del faticoso e meritorio percorso di crescita compiuto da Dvorak: sono stati evidenziati echi di Wagner, poi di Schubert e di Brahms, mentre mi sembra che i temi e lo stile di Dvorak richiamino costantemente l’ambiente familiare, i paesaggi, la natura, gli accenti pastorali, le feste di paese, la malinconia per i luoghi così amati, sentimenti tutti ben presenti anche nelle due serie di “Danze slave” (queste sì fortemente richiamate nelle sinfonie, ad esempio nella sesta) e propri di quel folklore boemo che troverà spazio anche nell’ultima sinfonia, troppo spesso etichettata come “americana” (mentre evidenti anticipazioni sono già ben presenti nella quinta sinfonia).
Proprio a motivo della completa immedesimazione di tali musiche nell’ambiente familiare di Dvorak, i direttori che hanno affrontato l’esecuzione dell’intero ciclo sono generalmente conterranei del compositore, come nel caso di Kubelik, o comunque immersi nell’ambiente mitteleuropeo, come nel caso dell’ungherese Iván Kertész, i quali ci hanno lasciato le due migliori registrazioni al riguardo; cicli entrambi decisamente convincenti e fra i quali non mi sentirei di effettuare scelte di valore, privilegiando forse Rafael Kubelik per una linea più marcata e trasparente (anche per la presenza dei più energici Berliner), mentre Kertesz tende ad evidenziare più colori e sfumature (non sembra casuale la presenza della London Symphony Orchestra, utilizzata anche da Abbado nella registrazione del ciclo sinfonico di Mendelssohn).
Il cofanetto contiene anche il brioso Scherzo capriccioso Op 66, la scoppiettante ouverture Carnevale Op.91 bis 93 e l’idilliaco brano “La Colomba selvatica” Op.110, tutti resi brillantemente da Rafael Kubelik. Registrazioni eseguite dal 1966 al 1977. Audio ottimo.
Imperdibile!
Antonin Dvorák sinfonista di Karl Schumann
Antonin Dvorák aveva una grande e devota ammirazione per Beethoven, studiò le sue composizioni riprendendone la tecnica dell’elaborazione; fece quindi proprie le inflessioni liederistiche e pastorali di Brahms, da cui fu protetto; avvertì infine di frequente l’inquietante tentazione che proveniva da Liszt e da Wagner.
Ciò nonostante, fu l’opera di Schubert che ebbe su Dvorák effetti artisticamente risolutivi.
Schubert era stato il compositore sinfonico dell’area culturale austriaca (a quei tempi comprendente anche la Boemia e l’Ungheria) che aveva accentuato il momento linguistico “dialettale”: Schubert era stato non solo il primo ad introdurre un accento locale, paesaggistico e popolareggiante nei movimenti finali e in quelli in ritmo di danza – che a partire da Haydn e Mozart erano stati a volte infiltrati di toni “dialettali” – ma anche il primo ad impregnare quei
movimenti caratterizzati da un linguaggio più “letterario” – e cioè i movimenti iniziali e quelli lenti – di un tipo di musica d’ispirazione naturalistica, e spinta addirittura nella dimensione di un misticismo di natura.
A partire da Schubert l’elemento dialettale penetra nella costruzione tematica, nel ritmo, nell’armonia e nella configurazione timbrica della musica d’arte, qualificandovisi come un tratto sostanziale e non come un colore impiegato di tanto in tanto con compiacente condiscendenza.
Rafael Kubelik
Nella storia della letteratura questo processo può essere approssimativamente paragonato al passaggio dal latino alle lingue volgari. L’evolversi dei dialetti musicali ha significativamente coinciso con il formarsi delle scuole nazionali romantiche e con il nazionalismo politico; ma questa evoluzione non rappresenta l’apoteosi in termini “sonori” di tale patrimonio di pensiero, né si configura come un folklore alla buona, di spirito limitato e di carattere ingenuo. Si tratta in fondo di tener presente che nelle espressioni della complessa natura umana l’idioma dialettale, l’origine e lo spazio vitale rappresentano dei fattori determinanti. L’ambiente di Dvorák – a prescindere dall’infelice parentesi americana – era la vecchia Boemia dell’imperatore Francesco Giuseppe, la terra musicale sulla Moldava, dove fin dai tempi antichi il mondo austriaco e tedesco si era compenetrato con quello ceco e slovacco.
Non c’è stato nel secolo 19o quasi nessun compositore che abbia incontrato tante difficoltà quanto Dvorák. Era figlio di un oste di Nelahozeves, piccolo villaggio sulla Moldava, ed il primo di nove fratelli. Con il suo talento vitale e con il suo ambizioso impulso ad esprimersi, ma anche con un patrimonio culturale particolarmente esiguo Dvorák si trovò di fronte a una situazione musicale inquietante e piena di fermenti, dove erano ampiamente coinvolte ragioni letterarie, filosofiche e politico-sociali.
Di tutta questa problematica un contadinello e apprendista macellaio come Dvorák non poteva avere la più pallida idea.
Difficilmente potevano poi richiamare la sua attenzione a tutto ciò i suoi maestri, la cui rettitudine e probità si accompagnava a un indubbio provincialismo.
Bruckner, sotto certi aspetti paragonabile a Dvorák, proveniva pur sempre da una famiglia di insegnanti, Brahms era originario di una città anseatica, Ciaikovskij proveniva dai ceti superiori della provincia russa, Smetana faceva parte di quel ceto medio che godeva di una certa agiatezza. Il vero e proprio periodo di apprendistato di Dvorák ebbe luogo dapprima negli anni passati nell’orchestra dell’Associazione musicale di S. Cecilia di Praga, e quindi nei dieci anni nei quali egli fu impegnato come violinista nell’orchestra dell’Interimstheater (Teatro provvisorio), sempre a Praga.
Dvorák cominciò dunque dalla prassi esecutiva e si fece strada venendo per così dire dalla gavetta, e ciò non solo a causa della sua situazione economica ma anche della sua natura schietta, energica e sempre pronta all’apprendimento. Le persone pratiche sono di rado dei sovvertitori e Dvorák non era un rivoluzionario. Gli mancavano le caratteristiche intellettuali, l’individualismo e il fanatismo di un innovatore.
Nella sua nobile ingenuità Dvorák, la cui struttura emozionale era tipicamente slava, piena di empiti sentimentali e pronta ad abbandonarsi al proprio impulso espressivo, non conosceva quelle esitazioni nei confronti della sinfonia, che ad esempio aveva avuto Beethoven e da cui erano stati tormentati Brahms, Bruckner e Frank, che solo dopo un lungo esame di coscienza avevano osato confrontarsi con la forma della sinfonia.
Le prime Sinfonie
Nel 1865, all’età di 24 anni effettuò con grande slancio due prove nel genere sinfonico, della cui problematica non riusciva ancora ad avere una visione globale. Il suo primo tentativo sinfonico, che risale alla primavera 1865, è significativamente nella tonalità di do minore, in prossimità di Beethoven dunque.
Questa Prima Sinfonia ha tratti autobiografici, come era quasi inevitabile, e mostra comprensibilmente carenze tipiche in un esordiente e che indussero
Dvorák, dotato di senso dell’autocritica, a non dare alcuna importanza a questa partitura. Il titolo “Le campane di Zlonice” – i cui rintocchi sembra di poter udire soprattutto all’inizio della Sinfonia – fu aggiunto molto tempo dopo la morte del compositore. Questo titolo indica quel paese della Boemia in cui il garzone di macelleria Antonin Dvorák dopo lunghi travagli interiori si decise ad intraprendere la professione di musicista.
Antonin Dvorák
Nella tarda estate del medesimo anno (1865) Dvorák scrisse la sua Seconda Sinfonia in si bemolle maggiore op. 4, assai più profilata della precedente ed eseguita per la prima volta solo nel 1888. In tale occasione Dvorák riesaminò la Sinfonia, facendone una nuova e definitiva versione.
Elementi autobiografici – l’affetto per le due sorelle Cermák, la più giovane delle quali, Anna divenne nel 1873 moglie del compositore – hanno avuto ripercussioni sulla Seconda Sinfonia, sul ciclo di Lieder “Cipressi” (tematicamente legati alla Sinfonia e concepiti come una confessione intima) e ancora sulla più tarda Opera “Rusalka”.
Se la Prima Sinfonia, pur con tutte le sue incrinature, era una composizione vivacemente animata, la Seconda è invece di carattere più tranquillo, quasi pastorale. In queste due prime Sinfonie i movimenti più caratteristici sono gli Scherzi, dove l’elemento dialettale ha più favorevoli possibilità di penetrazione. Lo Scherzo della Prima sinfonia si sviluppa da un trotterellante motivo in 2/4 elaborato a canone; quello della Seconda procede da un tema in 3/4 cantabile ed elastico. Il Poco Adagio tripartito della Seconda Sinfonia è un notturno in sol minore, dove Dvorák non teme di utilizzare il ritmo di 12/8 del movimento lento della “Pastorale” di Beethoven.
La vicinanza beethoveniana si sente in molti passi di queste Sinfonie giovanili di Dvorák, nella tecnica della suddivisione motivica, nell’animazione delle voci intermedie e del basso (ripresa della scrittura quartettistica beethoveniana), nella funzione direttiva affidata ampiamente ai violini e nell’impulso ad utilizzare un materiale tematico conciso e al tempo stesso suscettibile di sviluppo, a volte costituito di accordi. Chiaramente influenzati da Mozart e Schubert sono la flessibilità degli strumenti a fiato, la lunghezza considerevole dei finali e l’armonizzazione.
Per un musicista come Dvorák che era legato alla tradizione e attento all’assunto formale, il principio tramandato dei quattro movimenti era quasi inviolabile. Quanto alla successione dei movimenti egli rimase sempre nell’ambito dello schema classico. Contrariamente a quanto si verificava in numerose Sinfonie di fine Settecento e dell’Ottocento, in Dvorák i movimenti iniziali non sono quasi mai preceduti da introduzioni lente. Sotto la chiara influenza “neotedesca”, Dvorák fece un’eccezione alla regola nella Terzo Sinfonia in mi bemolle maggiore, appunto priva del movimento in ritmo di danza.
Questa Sinfonia fu composta nel 1873 e l’anno seguente, per l’appoggio di Johannes Brahms, ottenne il Premio di Stato Austriaco. Tematica enfatica, motivi ininterrotti, inflessioni cromatiche, raffinata scrittura degli ottoni e ampliamento dell’organico strumentale (corno inglese, tuba, arpa, triangolo) stanno ad indicare come Dvorák, suonando nelle orchestre di Praga, avesse acquisito una diretta conoscenza delle composizioni di Liszt e Wagner.
Il motivo iniziale con la caratteristica quarta, che diviene nel basso il
fondamento del tema principale, quindi la figura di sei note modellata sul tipo di un gruppetto e ripresentata con funzione di collegamento nel secondo movimento, e infine lo slancio ascendente del tema principale in mi bemolle maggiore sono tutti fattori che lasciano intravedere un legame con il pathos dei neotedeschi, come del resto la scrittura orchestrale che è vicina a quella del “Tannhauser”.
Il principio ciclico e persino la struttura monotematica sul tipo di “Les Préludes” di Franz Liszt sono variati e trattati liberamente per dare una chiara espressione alla reale intenzione di questa Eroica di Dvorák: la concentrazione e la rigorosa organizzazione dei mezzi compositivi.
L’Adagio tripartito in do diesis minore e poi anche la marcia funebre, dove il ritmo di 2/4 contribuisce ad accrescere l’analogia con Beethoven. Il do diesis viene modificato enarmonicamente nel re bemolle che domina nella sezione centrale, costruita sul motivo con intervallo di quarta del movimento d’inizio e affine alla tematica del Walhalla di Wagner. Il Finale, in 2/4 e di tono spensierato, ha tre temi e si configura come una combinazione di rondò e forma-sonata.
Questo finale, anche se vi sono citati il motivo con l’intervallo di quarta, la figura simile ad un gruppetto e alcune reminiscenze del “Tannhauser” con accentuazioni boeme, è tuttavia il movimento della Sinfonia che meno degli altri è stato influenzato da Wagner e da Lizst. I rapporti di Dvorák con questi due compositori furono superficiali e temporanei; né le inclinazioni letterarie di Liszt né l’imponente apparato ideologico di Wagner potevano impressionare la sua sensibilità ingenua e semplice nel miglior senso dell’espressione.
Dvorák riprese e ammorbidì i timbri, i vari procedimenti di collegamento tematico e le figure melodiche. Ma l’autentico compositore neotedesco era contraddistinto da un certo pathos intellettualistico, e questo mancava senz’altro a Dvorák.
La Quarta Sinfonia in re minore del 1874, che Dvorák con il suo impeto compositivo scrisse in meno di tre mesi, è da un lato il cupo pendant della Terza Sinfonia, enfatica e con echi wagneriani, dall’altro è invece il preannuncio delle equilibrate Sinfonie del periodo centrale. L’inquietudine riflessa dai neoromantici tedeschi risuona ancora in questa Sinfonia, ma la sua configurazione tematica è divenuta più incisiva, più plastica e più diatonica, le possibilità dell’orchestra sono sfruttate in maniera più misurata – fuorché nello Scherzo in 6/8 di violenta impulsività – e ritornano inoltre i tradizionali quattro movimenti.
La mormorante introduzione dei bassi sembra ancora rifarsi al poema sinfonico di Liszt “Ce qu’on entend sur la montagne”, ma l’enunciazione nei clarinetti e fagotti del primo tema, costituito di terze e seste, mostra un’impronta tutta propria.
Alla piena sonorità dei strumenti a fiato è affidata anche l’enunciazione dei temi dell’Andante in si bemolle maggiore, che è il primo movimento sinfonico di Dvorák in forma di variazione.
Rafael Kubelk
Delle cinque variazioni le prime due sono di tipo figurativo, mentre la terza introduce nei violoncelli una melodia nuova, in realtà derivata dalla principale; la quarta variazione inizia con un canone alla quinta e l’ultima sviluppa la cantilena presentata nella terza variazione. Lo Scherzo è caratterizzato da recisi contrasti: ad una diabolica sezione principale in 6/4 segue un Trio che non è altro che una comoda marcia in 2/4. Il Finale in 2/4 che si conclude nel modo maggiore è un rondò lievemente anomalo con due temi. È significativo che Smetana, l’esponente boemo della scuola lisztiana che era 17 anni più anziano di Dvorák, si fosse entusiasmato per le Sinfonie in mi bemolle maggiore e re
minore, vicine ai suoi orientamenti artistici.
Smetana diresse nel 1874 a Praga la prima esecuzione assoluta della Terza Sinfonia e lo Scherzo della Quarta: era la prima volta che Dvorák poteva sentire una sua Sinfonia.
Le Sinfonie bucoliche nel periodo di mezzo
L’anno 1875 – quando Dvorák aveva cioè 34 anni – apportò stabilizzazione, sicurezza e un nuovo slancio. La difficile e scoraggiante situazione dei primi anni non aveva più ripercussioni ormai, ed era rimasta inalterata la capacità di Dvorák di comporre con rapidità e impulsività.
Così scrisse nell’estate del 1875 la sua prima Sinfonia matura, quella in fa maggiore op. 76 in sole sei settimane, con un impeto compositivo simile a quello del suo recondito modello Franz Schubert, di cui Dvorák anche in questa Sinfonia riprende l’arte di trattare i legni. In ciò Dvorák si poneva in antitesi alla maggior parte dei romantici, che a volte meditavano su una Sinfonia per anni interi. Il fatto che Dvorák componesse le sue Sinfonie sempre in tempi brevi non era segno di superficialità, di mancata serietà o di un atteggiamento di naturale ingenuità e leggerezza, ma era un fenomeno che dipendeva di fatto dall’indole del compositore. Il ritmo di lavoro di Dvorák pulsava con maggiore velocità che non quello dello scrupoloso Brahms, per esempio, o di Bruckner, che era estremamente autocritico.
Il tema in 2/4 all’inizio della Quinta Sinfonia si sviluppa in modo assai naturale dall’accordo perfetto di fa maggiore: terze e seste dei clarinetti, diatonismo, echi schubertiani, atmosfera bucolica con inflessioni boeme. Il tempo è Allegro, ma non troppo: un contenuto senso di felicità e libertà, lontano da ogni inquietudine del secolo.
È la prima volta che Dvorák in una sua Sinfonia riesce magicamente, già nelle battute iniziali, a trasportare l’ascoltatore nel suo paesaggio, nel suo ambiente. Un secondo tema cromatico non turba il carattere pastorale e fiorente del movimento; le alterazioni dell’impianto armonico sono inserite fermamente nella cantabilità della condotta melodica. Al posto dell’Adagio c’è un intermezzo lirico tripartito (Andante con moto, in la minore/la maggiore e in 3/8) sul tipo di una dumka. È un movimento semplice e melodioso, che è basato sul timbro degli archi e dei legni, inframmezzato da procedimenti tipici del principio formale della variazione, e vagamente affine ai movimenti di Schubert e Schumann.
E fa pensare proprio a Schumann il passaggio di transizione allo Scherzo (in 3/8 e nella tonalità della sottodominante si bemolle maggiore). La sezione principale sciolta e pulsante, e il Trio sembrano quasi un’anticipazione delle Danze slave, che Dvorák cominciò a comporre nel 1878. Il focoso ed energico Finale è come un corpo estraneo in questa Sinfonia di carattere bucolico. La
tonalità fondamentale viene raggiunta solo dopo lunghi e drammatici passaggi attraverso la tonalità di la minore; l’impianto armonico di questo pezzo stranamente scisso è più orientato verso fa minore che verso fa maggiore. Dvorák, che è normalmente così corretto, sembra voler concludere in modo minore una Sinfonia in maggiore; in ogni caso egli rovescia le relazioni e contro ogni aspettativa pone un movimento segnato da conflitti e da tensioni alla fine della Sinfonia, invece che all’inizio.
Assai equilibrata nel suo carattere bucolico e pastorale è la Sesta sinfonia in re maggiore dell’autunno 1880. L’influenza della sinfonia n. 2 di Brahms si può ravvisare non solo nella tonalità ma anche nel ritmo di 3/4 del movimento iniziale, che inizia dolcemente con terze e seste e con imitazioni motiviche sopra l’accordo di re maggiore.
Il trattamento e l’elaborazione dei motivi, per esempio delle terze affidate ai legni nel passaggio di transizione, la struttura e l’enunciazione delle idee secondarie, lo sviluppo e l’istrumentazione sono di marca brahmsiana. Il loro accento ceco è però così chiaro che le affinità con Brahms non infastidiscono; tali riecheggiamenti di Dvorák hanno anzi tutta l’aria di esserne una versione in termini “rustici”.
L’Adagio in si bemolle maggiore (in 2/4) ricalca Beethoven; il primo tema è caratterizzato dall’intervallo di quarta ascendente, il tema secondario dall’imitazione a canone. Il Finale riprende la tematica in accordi che aveva contraddistinto l’inizio della Sinfonia. È una danza briosa nella tonalità fondamentale e al tempo stesso il pendant ottimistico, splendido e trepidante, del Finale della Quinta Sinfonia. Lo Scherzo il re minore (Presto, in 3/4) è costituito da un “Furiant”, stilizzazione sinfonica di una veloce ed energica danza paesana ceca, che qui compare per la prima volta in una Sinfonia di Dvorák. (La parola “Furiant” designa nel linguaggio corrente un campagnolo tutto pieno di sé e un po’ fanfarone).
Il carattere vorticoso di questa danza deriva dall’alternanza immediata di ritmi binari e ternari. Nella stilizzazione sinfonica il “Furiant” ha qui un tema secondario in fa maggiore e un Trio moderato in re maggiore.
Come tutti i pezzi ed episodi sinfonici di Dvorák che hanno un accento “tipicamente ceco”, anche il “Furiant” non è la trascrizione di un materiale tematico già reperibile nelle danze e nei canti popolari. Non diversamente da Smetana, Dvorák non era un “folclorista”, uno cioè che rileva le danze e i canti dei contadini per poi utilizzarli come materiale tematico.
I due compositori furono erroneamente considerati come “folcloristi”, e da questo sono derivati in misura considerevole i loro successi e la loro popolarità. In realtà Dvorák non ha quasi mai preso un tema dal patrimonio musicale popolare; egli ha invece creato nei suoi Lieder e Danze delle melodie di tono popolare, che utilizzano ritmi, metri e principi costruttivi del patrimonio
musicale nazionale solo come filo conduttore, per trasformarli e stilizzarli sinfonicamente.
Citazioni di musica boema originale non si presentano quasi mai in Dvorák. Egli scrive le sue composizioni sinfoniche nell’accento ceco tradizionale, che consiste anche nel diatonismo, nelle sfumature tra modo maggiore e minore (frequenti nella musica slava), nelle irregolarità metriche e in alcune particolarità d’istrumentazione tratte dalla musica della campagna, quali le delicate melodie ad intervallo di terza e sesta dei clarinetti, lo slancio dei violini, l’energia dei bassi e gli accenti robusti degli ottoni. Tali particolarità conferiscono una dimensione naturalistica a queste composizioni indubbiamente scritte come assoluta musica d’arte.
Le ultime tre Sinfonie
La Settima Sinfonia, composta nel 1884/85 per la Philharmonic Society di Londra, è nella fosca e appassionata tonalità di re minore, come la Quarta Sinfonia che ha del resto un carattere affine. La Settima Sinfonia è di fatto la “Patetica” di Dvorák.
L’intensificazione drammatica dell’espressione è sottolineata dalla concisione e chiarezza formale e da una sobrietà d’istrumentazione, dove gli ottoni sono a tratti impiegati solo come voci di riempimento.
L’affinità con il Brahms della Terza Sinfonia si spinge fin quasi alla citazione, ed esattamente nel secondo tema in si bemolle maggiore del movimento iniziale. Nei temi secondari dell’Adagio in fa maggiore si presentano per l’ultima volta in una Sinfonia di Dvorák vaghe reminiscenze wagneriane. Nel movimento iniziale in 6/8, di fattura chiara, il tema principale risuona su un pedale di re; da questo tema principale e soprattutto dal suo secondo periodo si sviluppa poi gran parte delle formazioni melodiche (di carattere patetico) del movimento. Questo movimento, che ha uno sviluppo breve e una ripresa stringata, acquista ulteriore compattezza dalla sua conclusione, che riprende l’atmosfera delle battute d’inizio.
Alla fine infatti il tema principale si trascina frantumandosi su quel medesimo pedale che nella sua prima apparizione, all’inizio del movimento, ne aveva costituito il sostegno. Il pathos che caratterizza questa Sinfonia si attenua appena nello Scherzo in 6/4: qui sotto il motivo in re minore, costituito di terze, si insinua nel basso un controcanto cupo e quasi d’effetto ritardante. È lo Scherzo di Dvorák che meno di tutti gli altri è pervaso da ritmi di danze boeme; è uno Scherzo cupo, ritroso e dominato dal modo minore, tranne però la sezione centrale in sol maggiore.
Il rude ed energico Finale, che attraverso situazioni espressive contrastanti perviene finalmente ad una conclusione in re maggiore, presenta al pari del movimento iniziale legami tematici ed espressivi con l’Ouverture “Husitska” op.
67. Neanche qui c’è del folklore; dappertutto domina il pathos tipico di una sinfonia romantica concepita come una confessione personale.
Antonin Dvorák
La Settima Sinfonia, eseguita per la prima volta a Londra nel 1885 sotto la direzione dell’autore, si è imposta relativamente presto all’attenzione generale grazie a Hans Richter, Hans von Bulow e Arthur Nikisch.
La relazione che intercorre tra la Settima Sinfonia e l’Ottava (1889) si può sintetizzare nei termini contrastanti conflittualità-distensione. La Sinfonia n. 8 in sol maggiore, la tonalità dei canti popolari che era stata evitata in larga misura dal sinfonismo romantico, è senz’altro quella più interessante, più moderna di Dvorák. È una composizione ricca di anomalie sapientemente misurate, di abbandoni lirici e melodici, e ancora di una semplicità diatonica e di una sonorità di trasparenza cameristica.
La condotta lineare degli strumenti, i numerosi e talvolta singolari assoli, la tecnica dello sviluppo e il carattere liederistico della melodia sono già un’anticipazione di Mahler, grande ammiratore ed interprete di Dvorák e quasi suo compatriota.
Come in Mahler, anche in Dvorák è il Lied che costituisce la base del tessuto sinfonico.
L’Ottava potrebbe essere definita come una Sinfonia liederistica o (parafrasando Mendelssohn) di romanze senza parole. L’articolazione e interiorizzazione della sonorità orchestrale, la rinuncia al cromatismo patetico e il tono lirico di base stanno a dimostrare che Dvorák non era una persona semplice e ingenua né un conservatore accademico, ma un compositore che aveva compreso appieno la problematica che verso la fine del secolo era legata alla concezione di una sinfonia.
Il problema dell’introduzione, da Dvorák fino ad allora eluso, viene risolto nel primo movimento di questa Sinfonia mediante un sapiente accorgimento: un tema con carattere di corale e ombreggiato dal modo minore, di cui vengono sviluppati unicamente dei frammenti di per sé già trasformati, è presentato come una breve introduzione prima delle sezioni principali del movimento, e cioè esposizione, sviluppo, ripresa.
Il tema principale vero e proprio, che inizia con l’accordo spezzato di sol maggiore, è sviluppato interamente dal carattere timbrico del flauto e risuona come una voce di natura. L’Allegro con brio iniziale è il movimento sinfonico più complesso di Dvorák; ciò per i procedimenti di collegamento motivico che precorrono quelli di Mahler, per le particolarità dell’istrumentazione, per le caute innovazioni, e in breve perché qui si realizza l’intento di Dvorák “di scrivere una composizione differente dalle altre Sinfonie, con idee individuali ed elaborate in modo nuovo”.
Nell’Adagio (in do minore e in 2/4) le terzine ascendenti nell’ambito della quarta sol-do costituiscono il materiale di base della sua tematica ricca di contrasti, che viene trasformata secondo un procedimento quasi cameristico.
L’istrumentazione è sciolta e senza convenzionalismi; vi mancano le dilatazioni sonore delle Sinfonie giovanili e del periodo di mezzo.
Altrettanto leggero è lo Scherzo in sol minore con la sua pacata cantabilità e la sua trattenuta malinconia. Una fanfara della tromba solista fa da introduzione al Finale, dove sono combinati il principio formale della variazione e quello dello sviluppo in una maniera che già anticipa Mahler. Il tema di questo Finale inizia con l’accordo spezzato di sol maggiore, proprio come il tema principale del movimento d’inizio. La correlazione motivica tra primo e ultimo movimento, la limitazione a elementi motivici sempre ricorrenti, e il tessuto compositivo trasparente e rifratto indicano già quelli che saranno gli sviluppi del linguaggio musicale di fine Ottocento e il primo Novecento.
L’Ottava è la Sinfonia di Dvorák in stile liederistico e da camera, un’opera prudentemente sperimentale, che già nel suo diatonismo indica un distacco dal pathos del tardo romanticismo.
Rafael Kubelik
La Sinfonia in mi minore “Dal nuovo mondo”, composta nel 1893 a New York, si distingue per la sua incisività lapidaria: temi brevi di quattro battute o al massimo di otto, tutti di estrema pregnanza; condotta melodica con impronta pentatonica; correlazioni tra i movimenti tramite un tema fondamentale in accordi, che viene ripetuto in conformità al principio ciclico e che nasce da alcune parti del breve Adagio introduttivo. Nella configurazione tematica si riscontra poi la tendenza a ritornare sempre sulla nota fondamentale; ne consegue quel tono melanconico di cui spesso si parla a proposito di questa Sinfonia.
Le enunciazioni dei temi e le esplosioni dinamiche che si producono sulle note tenute o sulle quinte del basso sono reminiscenze di semplici procedimenti della musica popolare.
Si è detto che Dvorák avrebbe qui citato musica folcloristica americana, da lui conosciuta durante la sua pluriennale permanenza negli Stati Uniti; ma fu lo stesso Dvorák a smentire questa insinuazione: “Io non ho utilizzato nessuna di queste melodie. Ho scritto semplicemente dei temi dalla fisionomia originale, nei quali ho integrato tratti caratteristici della musica indiana; e basandomi su questi temi mi sono preoccupato di svilupparli tenendo conto delle acquisizioni del linguaggio musicale moderno per ciò che riguarda ritmo, armonizzazione, elaborazione contrappuntistica, colorito orchestrale”.
Le melodie indiane o ceche si fondono le une nelle altre e risuonano parimenti tipiche per Dvorák. Il primo movimento in 2/4 è chiaramente costruito secondo lo schema classico; i gruppi tematici secondari sono scritti scolasticamente in sol minore e in sol maggiore; dove il tema in sol minore dei flauti e degli oboi riceve il suo caratteristico colorito dall’abbassamento del 7o grado.
Il Largo in re bemolle maggiore, con il suo tema intonato dal corno inglese che ricade di continuo nella triade armonica fondamentale e con la sua sezione centrale in do diesis minore, è una delle più felici e note ispirazioni di Dvorák. Lo Scherzo (in mi minore e in 3/4) è chiaro e differenziato, vario nei suoi episodi e coerentemente sviluppato.
Il Trio in do maggiore è un evidente segno dell’affettuosa ammirazione di Dvorák per Schubert. Quasi nel senso di una sinfonia gravitante verso il movimento finale, tipica di Mahler, l’ultimo movimento di questa Sinfonia di Dvorák si pone come il fulcro dell’intera composizione: i temi principali dei movimenti precedenti ritornano nel Finale, un’ampia costruzione che infrange le proporzioni classiche tradizionali; elaborazione, modulazioni e contrappunto sono realizzati con particolare accuratezza; i passaggi di transizione sono ottenuti trasformando il tema principale degli ottoni.
Questo Finale è al tempo stesso un movimento autonomo e una ripresa dei tratti salienti dell’intera Sinfonia.
Nell’Ottava Dvorák si era allontanato più che altrove dallo schema della forma- sonata, nella Nona egli invece vi ritorna attenendosi rigorosamente alle regole, ancor più raffermate dall’impiego del principio ciclico.
Nella numerazione delle Sinfonie di Dvorák vi sono state delle confusioni, dovute alla cronologia delle loro prime edizioni. La numerazione odierna, per cui si ha un totale di nove Sinfonie (un numero fatidico a partire da Beethoven!), corrisponde alla loro cronologia di composizione e ha il vantaggio di non dare luogo ad equivoci.
Tutte le Sinfonie di Dvorák sono state pubblicate dalla Casa editrice praghese Artia nell’ambito di un’edizione critica delle composizioni di Dvorák. L’apparato critico di questa edizione fornisce chiaramente delucidazioni su differenti versioni, divergenze, ecc. Le incisioni presentate in questo box si basano appunto sull’edizione critica Artia.
(Traduzione: Gabriele Cervone)
Scherzo capriccioso
Lo scherzo capriccioso op. 66 di Dvorák composto nel 1883 in un periodo di crisi spirituale, è un’opera dal carattere più appassionato di quanto possa indicare il titolo: essa consiste di una parte principale basata su due temi contrastanti, una parte centrale più calma, uno sviluppo e una ripresa.
La parte più interessante da un punto di vista stilistico è forse la prima: essa inizia nella morbida tonalità romantica di re bemolle maggiore e si conclude poi nella tonalità opposta seguendo un andamento ritmico piuttosto nervoso.
Carnevale
Le tre Ouvertures, composte da Dvorák nel 1891 all’età di cinquant’anni, appaiono da un punto di vista meramente formale come delle Ouvertures “a soggetto”, mentre possono essere viste come dei poemi sinfonici se si prende in considerazione il loro contenuto poetico, ed addirittura come un vero e proprio ciclo sinfonico di Pastorale, Scherzo e Finale se si tiene presente la loro unità di ispirazione.
Il titolo “Natura, Vita, Amore” offre già un primo accenno di quella passione per il simbolismo mistico che caratterizzerà in seguito le composizioni orchestrali di Zdenko Fibich o di Josef Suk, il genero di Dvorák.
La tecnica del Leitmotiv che qui viene ampiamente sfruttata, l’uso di temi secondari ben al di là ormai della forma-sonata tradizionale, come ancora gli intricati intrecci tematici: tutto ciò prelude già al linguaggio orchestrale di Janacek, amico e grande ammiratore di Dvorák. Addirittura, si può quasi dire che con le Ouvertures op. 91-93 Dvorák viene a formare i principi tecnici su cui si baserà la moderna musica ceca. Le tre opere rappresentano tre fasi distinte dell’umanità: l’originaria armonia dell’uomo nei confronti della natura, il senso gioiosamente panico della vita, l’amore come forza apportatrice di felicità ed allo stesso tempo distruttiva. La tonica “la”, simbolo dell’esistenza umana
ancora ignara di ogni conflitto e preoccupazione, fornisce la base della seconda Ouverture, che dal carattere sembrerebbe essere una sorta di Scherzo, nonostante la battuta “alla breve” e la forma-sonata; all’inizio Dvorák l’aveva intitolata “La vita” e solo in un ultimo momento, non senza qualche fraintendimento, “Carnevale”.
Il tema principale (Allegro) sfrutta fino in fondo le possibilità timbriche dei violini e prende slancio dopo una lunga ed energica ripetizione della tonica (la); esso si rafforza alla quarta battuta in un movimento discendente energico e motivicamente rilevante, e viene poi abbondantemente variato.
Dalla figurazione discendente del tema principale si sviluppano tutte le sezioni successive. In una fase culminante del vitalismo panico che caratterizza tutto il brano ricompare il tema della natura nei clarinetti, trasfigurato dall’andamento in 3/8, quasi un breve e lirico intermezzo in sol maggiore. La sensazione di essere parte integrante di un universo naturale riesce a ridare all’uomo una serenità perduta.
La colomba selvatica
I quattro Poemi sinfonici composti da Dvorák nel 1896 (“L’uomo delle acque”, “La strega di mezzodì”, “L’arcolaio d’oro” e “La colomba selvatica”) formano insieme un ciclo compiuto: essi sono la versione orchestrale di alcune ballate popolari che il poeta ceco Karel Jaromir Erben aveva composto sulla scorta di leggende e fiabe della sua terra e raccolte poi in un’antologia (divenuta presto famosa) dal nome “Il mazzo di fiori”.
Ciascuna di queste ballate sinfoniche di Dvorák prende le mosse da pochi nuclei tematici, per lo più brevi incisi melodici o semplici figurazioni, e sviluppa un discorso musicale autonomo che, per essere compreso, può tranquillamente fare a meno dei versi di Erben, ai quali pure dovrebbe ispirarsi. L’ordito quasi esclusivamente monotematico, la ricchezza dell’armonia e le frequenti irregolarità metriche, derivate direttamente dalla musica folklorica ceca, anticipano già lo stile di Janacek.
Il quattro Poemi sinfonici di Dvorák testimoniano dunque assai più delle sue Sinfonie il passaggio della musica ceca verso le nuove forme ed il linguaggio del Novecento.
Purtroppo i titoli romanticheggianti ed oleografici hanno impedito che queste partiture di Dvorák, da un punto di vista stilistico le sue partiture più avanzate, godessero del dovuto riconoscimento al di fuori dei confini patrii.
“La colomba selvatica”, che dal titolo farebbe pensare ad un idillio agreste, sta invece a simboleggiare la cattiva coscienza all’interno di una tragedia paesana scaturita dalla cieca passione e dal delitto.
Un’ardente e vitale donna di paese ha avvelenato il proprio marito; sulla tomba di questi è cresciuto un albero tra i cui rami ha fatto il nido una colomba.
Lungamente ammonita e terrorizzata dal tubare dell’uccello, quasi un’implicita accusa della propria colpa, la contadina, che nel frattempo si è risposata con un uomo più giovane di lei, cade nella più totale disperazione e finisce per togliersi la vita.
Antonin Dvorák
Dvorák trasforma la ballata in un’ampia marcia funebre interrotta e spezzettata da interludi nettamente contrastanti; alla fine essa modula dal do minore iniziale al do maggiore. Il monotematismo, già alla base dei “Préludes” di Liszt, viene qui applicato in modo assolutamente rigoroso: tutti i temi del brano sono derivati direttamente dalla marcia funebre iniziale, sia l’episodio del giovane sposo, affidato alle trombe, sia il tema d’amore della vedova (è il tema stesso della marcia funebre ma in misura ternaria), sia il ballo nuziale, sia ancora l’etereo assolo di violino in conclusione del brano.
Un esempio notevole del realismo dvorakiano, che sembra anticipare chiaramente l’arte di Janacek, è l’Andante della colomba, subito dopo il ballo nuziale: tremolo sull’accordo di settima diminuita, trilli dei flauti, movimento per gradi congiunti degli oboi ed infine il tocco magico e leggero dell’arpa. I clarinetti bassi ed i corni riprendono subito dopo il tema della colpa e del cordoglio; la marcia funebre è portata gradualmente verso un ultimo apice espressivo (il suicidio della donna) per dissolversi poi in un conciliante modo maggiore.
“La colomba selvatica” fu eseguita per la prima volta nel 1898 a Brno sotto la direzione di Leos Janacek e poi ripresa a Vienna nel 1899 da Gustav Mahler. Entrambi i direttori-compositori erano ben consapevoli delle notevoli affinità stilistiche che “il più moderno” dei poemi sinfonici di Dvorák presentava nei confronti delle loro composizioni, in particolar modo per quanto riguardava la tecnica della variazione, le arditezze armoniche e gli effetti timbrici magico- realistici; tracce tangibili di tutto ciò si ritroveranno chiaramente, ad esempio, nella “Jenufa” e nel “Taras Bulba” di Janacek.
(Traduzione: Marco Marica)
Sinfonia n. 4 in re minore, op. 13
Insieme a Smetana e Janàcek, Dvoràk è il più degno e autorevole rappresentante della musica boema. Benché influenzate nella struttura armonica e formale dal sinfonismo tedesco, le sue composizioni sono dominate da elementi tradizionali dell’anima cèca e si ispirano ai sentimenti della società contadina, che egli esprime con un linguaggio musicale spontaneo e melodicamente fluente. Musicista essenzialmente sinfonico (ma importante è anche la sua produzione quartettistica), si impose all’attenzione del mondo artistico non solo europeo con le nove sinfonie scritte tra il 1865 e il 1893, che rappresentano il momento più alto della sua indefessa attività. Di esse il compositore pubblicò solamente le ultime cinque, che entrarono nel repertorio con la numerazione dall’1 al 5, mentre le prime quattro, pubblicate postume, assunsero la numerazione dal 6 al 9. Oggi la numerazione delle sue sinfonie rispetta l’ordine cronologico ed è disposta nel seguente modo: la numero 1 in do minore, detta «Le campane di Zlonice» (1865, ritrovata nel 1923), la numero 2 in si bemolle maggiore (1865), la numero 3 in mi bemolle maggiore (1873), la numero 4 in re minore (1874), la numero 5 in fa maggiore, già conosciuta come numero 3 (1875, modificata nel 1887), la numero 6 in re maggiore, già conosciuta come numero 1 (1880), la
numero 7 in re minore, già conosciuta come numero 2 (1884-’85), la numero 8 in sol maggiore, già conosciuta come numero 4 (1889) e la numero 9 in mi minore, detta «Dal nuovo mondo», già nota come numero 5 (1893).
Si sa che nel primo periodo della sua attività di sinfonista Dvoràk non sfuggì alle seduzioni dell’armonia e della strumentazione wagneriana, così che non è difficile riscontrare nelle sinfonie in do minore, in si bemolle maggiore, in mi bemolle maggiore e nella Quarta echi della musica del creatore del Tristano e Isotta, anche se non manca quella freschezza melodica e popolaresca tipica del compositore boemo. Del resto non c’è da stupirsi che nel decennio fra il 1865 e il 1875 un artista si sentisse attratto dal canto della sirena wagneriana, soprattutto per l’aspetto originale dell’orchestrazione, insostituibile punto di riferimento per chiunque volesse esprimersi nelle forme sinfoniche e operistiche. Wagner aveva ampliato, sviluppato e potenziato l’orchestra beethoveniana, adeguandola perfettamente al suo mondo espressivo e alla sua grandiosa concezione del dramma musicale e le sue esperienze erano oggetto di studio e anche di polemiche nella vita artistica tedesca ed europea. Dvork non poteva rimanere estraneo a questa «querelle», ma è evidente che le sue preferenze andavano a Beethoven e Schubert, i più autorevoli rappresentanti del classicismo tedesco, e quando Brahms, suo malgrado, divenne il portabandiera dell’antiwagnerismo e il simbolo degli ideali legati al razionalismo della forma- sonata, il musicista boemo si schierò con i seguaci del neo-classicismo sorretti dall’autorevole critico Eduard Hanslick e dal direttore d’orchestra Hans Richter. Lo stesso Brahms espresse chiaramente la sua stima per il giovane compositore cèco, che raccomandò all’editore berlinese Simrock perché pubblicasse le sue opere.
Si può dire che la Sinfonia op. 13 si collochi sullo spartiacque di questa crisi nella scelta del linguaggio attraversata da Dvorak e in essa si riscontrano echi wagneriani, specialmente nel secondo movimento, inseriti in una solida struttura tematica, su cui spira a volte il dolce vento primaverile delle reminiscenze beethoveniane e schubertiane. La sinfonia si apre con un motivo vigoroso ed energico, al quale subentra in contrasto un secondo tema in si bemolle maggiore di straordinaria effusione lirica. Ritorna l’ostinato del registro basso insieme alla fanfara dei fiati e poi si riascolta, tra modulazioni e varie trasformazioni, il secondo tema in uno slancio strumentale di derivazione bruckneriana, prima della ricapitolazione finale sfociante in una breve coda. L’Andante affidato alle trombe, ai corni e ai clarinetti utilizza la stessa tonalità e le stesse armonie della celebre marcia del Tannhäuser: un tema di largo e possente respiro sul quale Dvorak elabora delle variazioni di pungente efficacia strumentale e rivelatrici dello schietto temperamento musicale del compositore, che in questo caso si avvicina molto all’intimismo brahmsiano. I suoni dei violini, dei violoncelli, dell’oboe e del clarinetto risaltano con notevole evidenza timbrica e producono un sentimento di profonda tenerezza romantica. Lo Scherzo, almeno inizialmente, è la pagina che trovò subito immediato consenso nel pubblico, da quando, estrapolato dalla sinfonia, lo diresse Smetana in un concerto a Praga nel maggio 1874 (l’esecuzione completa della sinfonia avvenne nel 1892 sotto la direzione dello stesso autore, che l’aveva composta tra il gennaio e il marzo del 1874). E’ una pagina estroversa e brillante, dal ritmo vivace e popolaresco, rievocante certamente il clima delle feste contadine nei villaggi boemi. E’ veramente un piacevole brano di musica all’aperto, i cui accordi finali alludono alle cesure degli scherzi beethoveniani. L’Allegro dell’ultimo movimento è costruito secondo il tradizionale schema ternario, in cui affiora una cantabilità espansiva di ascendenza schubertiana e di sicuro effetto psicologico (si vede in controluce anche il profilo beethoveniano con un tema riecheggiante la Nona sinfonia). Lo sviluppo del discorso strumentale è piuttosto esuberante e impegna tutta l’orchestra, impostata su un organico ottocentesco, arricchito però nella percussione e con la presenza di due arpe e tre tromboni.
Sinfonia n. 6 in re maggiore, op. 60 (B. 112)
Dvoràk scrisse nove sinfonie, così come Beethoven e Bruckner, e insieme con Smetana e Janàcek è la personalità più rappresentativa della corrente musicale nazionalistica cèca, tesa a valorizzare certe caratteristiche del folclore e del canto popolare boemo così intriso di lirismo, di struggente malinconia ed anche di quel gusto tutto slavo per le danze contadine e zingaresche, che spesso non sono rifacimenti e adattamenti, ma creazioni autentiche di un artista dall’accesa e fervida fantasia romantica. Solo recentemente la produzione sinfonica di Dvoràk, che sin dall’inizio ha registrato una larghissima diffusione in Europa e fuori, ha avuto una definitiva classificazione che sarà bene ripetere per motivi di chiarezza agli odierni ascoltatori. La Sinfonia n. 6 un tempo era conosciuta, infatti, come la Sinfonia n. 1, la quale in realtà è quella in do minore detta “Le campane di Zlonice” (1865). Le altre sinfonie sono catalogate nel seguente modo: la n. 2 è in si bemolle maggiore (1865), la n. 3 è in mi bemolle maggiore (1873), la n. 4 è in re minore (1874), la n. 5 è in fa maggiore ed era nota come la n. 3 (1875), la n. 6 è in re maggiore (1880), la n. 7 è in re minore ed era nota come la n. 2 (1884-85), la n. 8 è in sol maggiore ed era nota come la n. 4 (1889), la n. 9 è in mi minore, quella soprannominata “Dal nuovo mondo” e già conosciuta come la n. 5 (1893).
La Sesta Sinfonia fu scritta fra il 27 agosto e il 20 settembre del 1880 e completata in partitura il 15 ottobre dello stesso anno. La diresse per la prima volta a Londra il 15 maggio 1882 il famoso Hans Richter della Filarmonica di Vienna, anche se una precedente e incompleta esecuzione aveva avuto luogo nel marzo del 1881 a Praga sotto la direzione di Adolf Cech. Lo stesso autore diresse nel 1884 questa sinfonia a Londra e fu un trionfo: da allora entrò nel repertorio delle migliori società concertistiche, apprezzata ovunque per la sua spontanea pienezza melodica e per il fascino sonoro e sensuale dell’orchestra, in cui si avvertono a volte reminiscenze brahmsiane.
L’Allegro non tanto del primo movimento è bitematico; si alternano e poi si fondono fra di loro due temi, il primo gioioso e ricco di splendore strumentale e il secondo più lirico e cantabile preannunciato dal violoncello. La caratteristica di questo tempo è data dalla varietà del materiale orchestrale che fluisce con un empito inarrestabile e travolgente.
Il secondo movimento (Adagio) è un delicato Lied strumentale con i legni e i corni che fanno da romantico sfondo al canto morbidamente disteso dei primi violini. Lo stesso tema ritorna due volte, sempre variato e arricchito da altre «voci» dell’orchestra. Non mancano una parentesi zingaresca e una cadenza del flauto che rendono più pungentemente agreste l’intero quadro di questo tempo.
Lo Scherzo è impostato su un ritmo di danza popolare detto furiant, costruito da tre battute binarie e due battute ternarie. L’effetto è davvero straordinario per la vivacità e l’inesauribile slancio dell’orchestra. Al centro del movimento si distende, come una pausa contemplativa, un trio di sapore schubertiano con l’intervento di fanciullesca purezza del flauto piccolo. Poi tutto si conclude festosamente e con lo stesso piglio aggressivamente ritmico dell’inizio.
La composizione termina con un Allegro con spirito di vigorosa e impetuosa forza sinfonica, illuminata da una felicità e da una brillante invenzione timbrica che la rendono ancora oggi sinceramente viva, tra le più tipiche manifestazioni del mondo espressivo del musicista boemo.
Sinfonia n. 7 in re minore, op. 70 (B. 141)
La Settima Sinfonia di Dvoràk risale all’epoca delle prime affermazioni internazionali del compositore. Il lavoro nacque su richiesta della Società Filarmonica di Londra, che glielo commissionò sull’onda degli strepitosi successi da lui ottenuti durante la sua prima visita a Londra del marzo 1884, quando furono eseguite con successo parecchie composizioni, tra cui la Sinfonia in re maggiore (l’unica fino ad allora pubblicata) e lo Stabat Mater. Non bisogna dimenticare che fino a quel momento la notorietà internazionale di Dvořàk era legata soprattutto alla caratterizzazione esplicitamente folklorica delle Danze slave, la cui prima serie, subito trascritta per orchestra dall’originale per pianoforte a quattro mani, proprio Simrock aveva caldeggiato e pubblicato nel 1878. II successo colto a Londra aveva convinto Dvořàk, allora impegnato a coltivare soprattutto il sogno del teatro, a riprendere in mano il discorso della Sinfonia: decisione che, almeno a giudicare dagli abbozzi e dalle lettere ad
amici ed editore, gli costò una fatica più grande e una meditazione più profonda di quanto fosse stato richiesto prima da qualunque altro suo lavoro. Il modello perseguito è esplicitamente quello di Brahms, la cui Terza Sinfonia, diretta dall’autore, Dvořàk aveva ascoltato a Vienna nel 1883 e poi nuovamente con ancor maggiore impressione a Berlino alla fine di gennaio del 1884. Da queste premesse discende il carattere della Settima Sinfonia, alla cui severa tensione calata in un clima espressivo perfino austero parve confarsi uno di quei sottotitoli cari all’immaginario poetico dell’individualismo romantico: “del tempo torbido”. In essa Dvořàk tentò una delle sue più ambiziose mediazioni: dare a un contenuto tragico una dimensione epica senza perdere di vista l’ideale di una riflessiva e omogenea coesione formale, attraverso e oltre Brahms.
Nata tra la fine del 1884 e la metà di marzo del 1885 (per l’esattezza la data finale apposta sulla partitura è 17 marzo 1885), fu eseguita per la prima volta al St. James Hall di Londra il 22 aprile dello stesso anno sotto la Direzione dell’autore. Nonostante la buona accoglienza, Dvořàk ebbe dei ripensamenti e ne rielaborò alcuni passi, soprattutto del movimento lento. Ma la sensazione di aver colto nel segno Dvořàk la ebbe soltanto allorché assistette, il 27 e il 28 ottobre del 1889, a due straordinarie esecuzioni dirette a Berlino da Hans von Bülow a capo dei Filarmonici: il suo entusiasmo fu tale che volle inserire un ritratto del celebre direttore nel frontespizio della partitura, aggiungendovi sotto queste parole: “Che Lei sia lodato! Lei ha portato alla vita il mio lavoro!”.
Il contenuto espressivo del primo movimento, che può degnamente essere accostato all’illustre modello bramhsiano, è sintetizzato dal tema appassionato e gravido di presagi che viole e violoncelli espongono all’inizio: quasi un misterioso sospiro venato di disperazione, ma con un senso crescente di tensione. Si oppone ad esso un secondo tema più affabile e disteso, in si bemolle maggiore, nella cui cantabilità virilmente malinconica luccicano altre reminiscenze brahmsiane, per esempio del tema principale dell’Andante del Secondo Concerto per pianoforte. Gli interventi su questa melodia alleggeriscono la tensione che gli elementi tematici e ritmici del primo tema comunicano all’intero movimento, pervadendone lo sviluppo, breve e pregnante, e soprattutto la ripresa assai accorciata, che sfocia in una coda in fa maggiore di tono dichiaratamene epico: giubilo che subito si spegne nel ritorno a re minore e nella poetica conclusione, quando – quasi depurato della sua carica emotiva – il tema è echeggiato dolcemente da due corni fino a dissolversi nel silenzio.
Rafael kubelik
Il secondo movimento è in fa maggiore, secondo la più classica delle relazioni tonali. Esso oscilla tra serenità e inquietudine: all’inizio e alla fine l’atmosfera è di una calma, quasi spirituale rassegnazione, di impronta elegiaca; ma in mezzo trovano spazio molte esplosioni di contrastante passione. Qui un lirismo di derivazione marcatamente romantica, non privo di colorature naturalistiche – si noti l’impiego in chiave evocativa del timbro nobilmente appassionato del corno – lascia affiorare memorie lisztiane ed echi wagneriani, culminanti in una quasi citazione tristaniana. L’arte della strumentazione sfrutta un’ampia tavolozza di colori orchestrali, quasi perdendosi nel sogno di un paesaggio mitico, arcadico: tanto che vien quasi la tentazione di considerare questo movimento come un ricordo di visioni lontane, arcanamente trasfigurate dall’emozione.
Conformemente alla tradizione classica la tonalità principale (re minore) ritorna nel terzo movimento, che nonostante il titolo “Scherzo” è in effetti un robusto furiant basato su due melodie esposte simultaneamente sui metri contrastanti di 6/4 e 3/2. II clima elegiaco del secondo movimento si dissolve nella baldanzosa energia di un ritmo di danza rinvigorita da energiche sottolineature contrappuntistiche. La medesima sovrapposizione ritmica persiste lungo il Trio, imperniato nella tonalità contrastante di sol maggiore; ma qui il materiale tematico è prevalentemente in 6/4, mentre il ritmo in 3/2 è affidato alle figure di accompagnamento.
La struttura del Finale si ricollega a quella del primo movimento, quasi a voler stabilire una correlazione simmetrica improntata alla stessa circolarità. L’inizio, senza preamboli, è tenebroso e carico di tensione, ma lo sviluppo si rasserena
fino alla comparsa di una struggente melodia esposta dai violoncelli che non può non far pensare all’equivalente momento del Finale della Terza di Brahms. La cifra espressiva conferma la parabola emotiva dell’intero lavoro ma nello stesso tempo la trascende verso una conclusione senza meno positiva, guidata dai due energici temi principali ora riuniti in una perorazione trionfale, sigillata a piena orchestra in apoteosi dalla coda in re maggiore.
Sinfonia n. 8 in sol maggiore, op. 88
Nella seconda metà dell’Ottocento i musicisti dei paesi slavi ebbero una disposizione creativa divisa tra rispetto, o anche soggezione, ed esplicita indipendenza verso la musica strumentale e sinfonica austro-tedesca. La volontà di autonomia si manifestò nella valorizzazione delle varie tradizioni musicali locali, che a Vienna da un secolo avevano trovato accoglienza già da sole. E anche Haydn, Beethoven, poi Brahms (citando solo i maggiori) per bisogno di novità e di colore si servivano felicemente di temi popolari dall’intera area danubiana. Questo spiega perché nell’Ottocento Vienna sia stata la città di riferimento dei musicisti slavi, oltre Praga che era la sede naturale delle tendenze musicali etniche.
Fu appunto Brahms, con Eduard Hanslick e Joseph Joachim, a “scoprire” il giovane Dvorak e a metterne in luce l’eccezionale talento e l’originalità di invenzione, anche amichevolmente criticandolo: però Brahms, infallibile giudice in argomento di musica, nelle sue critiche difficilmente era cauto e accomodante. Se ne dovette accorgere anche Dvorak, dopo più di un decennio di familiarità tra loro, quando il suo amico Brahms conobbe la Sinfonia in sol maggiore, l’Ottava, e si dichiarò infastidito dalla costruzione, che gli parve «troppo frammentaria, con troppi elementi secondari […] e nessun contenuto sostanziale [“zu viel Fragmentarisches, zu viel Nebensächliches… keine Hauptsachen”]» (del resto a Vienna non pochi furono delusi dalla nuova sinfonia del musicista fino ad allora stimato). Il giudizio di Brahms aveva un fondamento ma fu forse troppo aspro.
Dvorak compose questa sua Ottava Sinfonia nell’autunno del 1889, quando aveva quasi cinquanta anni (era nato nel 1841). Da qualche anno il suo senso delle forme strumentali classiche si stava intenzionalmente indebolendo in favore della composizione libera, descrittiva, letteraria, dunque in favore del poema sinfonico, del sinfonismo rapsodico, insomma della tendenza estetica lisztiana e wagneriana invisa a Hanslick, ai circoli del Conservatorio di Vienna, e anche a Brahms.
Che ormai la sua disposizione creativa fosse questa, riconobbe Dvorak stesso – con l’ingenua franchezza sua personale – proprio qualche mese prima di iniziare a comporre l’Ottava (i primi abbozzi portano la data del 26 agosto 1889): «Ogni brano avrà un titolo e vuole esprimere qualche cosa: in altre parole, in un certo senso è musica a programma» (lettera del 19 maggio 1889 all’editore Fritz Simrock, a proposito dei 13 Poetisene Stimmungsbilder op. 85), «Qui [ancora per l’op. 85] io sono non un musicista assoluto soltanto, sono un poeta. Non mi derida!» (lettera del 19 giugno 1889, all’amico Emanuel Chvàla). Un’attitudine tanto confidente, cordiale, autonoma, fu ammirevolmente produttiva in lavori di quell’ultimo periodo, lirici e cameristici, concepiti per immagini, memorie, emozioni, ancora giustamente celebri (per esempio il Trio “Dumky” del 1890, il Quartetto “Americano” del 1893, il Quartetto in sol maggiore del 1895) e fu produttiva perfino in una sinfonia autobiografica e descrittiva, come è l’altro lavoro “americano” di Dvorak (1893), la famosissima Sinfonia “Dal nuovo mondo” (che piacque a Brahms, fattosi per l’occasione addirittura correttore delle bozze): ma questa attitudine generò qualche incertezza in una composizione sinfonica che intese rispettare la forma classica e che invece dette la prevalenza ai sentimenti immediati e singoli.
Dunque, l’Ottava Sinfonia è un esempio di sinfonismo poematico, anche se non proprio di poema sinfonico. L’organizzazione tradizionale dei quattro tempi a carattere contrapposto (un Allegro, un movimento lento, un tempo di danza, un Allegro finale) qui è rispettata ma con leggere alterazioni: Allegro con brio, Adagio, Allegretto grazioso (qui una specie di Ländler come un piccolo valzer), Allegro ma non troppo. Tuttavia il rigore formale nei rapporti fra i temi entro ogni movimento e dei quattro movimenti tra loro è secondario rispetto alla libertà dell’invenzione melodica, che è ricca e attraente. Questa qualità Brahms la riconosceva («musikalisch fesselnd und schön»), ma di quelle che a lui sembravano, e in qualche parte sono davvero, incoerenze della costruzione, non poteva proprio goderne. Forse è ingiusto giudicare un vero artista come Dvorak sempre e solo sulla misura e sui pensieri di Brahms, ma è anche vero che il sinfonista più giovane (di otto anni) è stato troppo vicino a colui che, più anziano e molto più autorevole, gli fu per qualche anno esempio, e che dopo il 1883 era rimasto il massimo sinfonista nel mondo.
L’Allegro con brio si avvia con il primo tema, che è una bellissima melodia, lunga, densa e patetica, cantata da clarinetti e fagotti, corni, violoncelli. Il colore e il gusto esotici li dà anche l’estensione “irregolare” delle parti in cui questa melodia si articola, sei battute, più cinque, più sette, mentre la nostra percezione di ascolto è abituata a melodie di quattro battute o di multipli di quattro. Poi, senza transizioni, il flauto presenta una squillante anticipazione del secondo tema, per ora una melodia naturale (che vuol dire formata solo dalle note dell’accordo fondamentale: qui siamo in sol maggiore, l’accordo è sol, si, re). Subito all’inizio, nel diretto accostamento dei due temi è deciso lo spirito di questo Allegro con brio, che sarà anche l’ispirazione di tutta la sinfonia: le emozioni di un animo poetico in mezzo ai suoni e ai colori della natura e alle feste paesane. Dunque, senza esitazioni avvertiamo che l’ispirazione nasce dal più schietto romanticismo, anzi dal romanticismo nazionalista slavo: da qui il sapore esotico del primo tema. Già nel corso dell’esposizione dei temi (che sono almeno quattro) e ancora più nello sviluppo, le immagini di paesaggio si fanno più ricche e grandiose, e più intense, a momenti drammatiche, si fanno le emozioni del poeta. Ma dobbiamo anche notare che certe transizioni sono meccaniche, che i particolari descrittivi danneggiano la continuità, e che in qualche caso l’espressione affettiva è enfatica. È qui (l’abbiamo detto e non sarà necessario ripeterlo per gli altri movimenti) lo scompenso caratteristico del compromesso tra sinfonismo e invenzione libera. Ma tutta la lunga conclusione (la Coda), che si avvia quando il corno inglese, poi il clarinetto, poi il flauto ripetono, cantandolo con trasporto, il secondo tema – la conclusione, dicevo – ha l’esultanza della vera felicità intcriore.
Un sospiro malinconico e ripetuto sentiamo nel primo tema, in do minore, dell’Adagio. Quando agli archi si uniscono i legni la tristezza si addentra in una specie di sogno oscuro: il commovente disegno cromatico deve essere un omaggio al genio di Cajkovskij (erano amici e si stimavano). Ma la serena allegria di una festa rurale (passaggio a do maggiore) disperde per un po’ la malinconia, che tuttavia investe di nuovo i pensieri, anche con forza angosciosa.
L’Allegretto grazioso, in sol minore, ha la forma tradizionale dello Scherzo (tema A, tema B, ripetizione di A), in un incantevole ritmo di danza popolare (alla lontana, un modello sono state le Danze ungheresi di Brahms). Col passaggio al secondo tema, in sol maggiore, flauti e oboi con uno scattante accompagnamento ritmico degli archi, il ballo e il canto popolari si animano. Dopo il regolare ritorno del tema A l’animazione diventa una chiassosa ebbrezza.
Ripetuti squilli delle trombe annunziano, all’inizio dell’Allegro ma non troppo, un qualche evento degno di attenzione: che è un bel tema di danza avviato dal violoncello con contrappunto del fagotto e quindi riccamente elaborato in variazioni, senza che mai si allenti la spedita tensione dei passi e dei gesti. Un esteso episodio centrale, in diverse tonalità, affollato di immagini diverse, precede una nuova serie di variazioni del tema, ora quiete e meditative, come un ricordo delle prime. Ma lo spirito della festa irrompe (ripetizione marcatamente ritmica di tutti i temi in un fortissimo dell’orchestra al completo) e cancella allegramente i ricordi.
Sinfonia n. 9 in mi minore “Dal Nuovo Mondo”, op. 95
Quando nel 1891 Jeannette Thurber, mecenate e fondatrice del National Conservatory of Music di New York propose ad Antonìn Dvoràk di trasferirsi negli Stati Uniti per dirigere quel Conservatorio, offrendogli una somma di 15.000 dollari annui, si rivolgeva ad uno dei compositori più famosi di tutta Europa, che aveva ricevuto anche due lauree honoris causa conferitegli rispettivamente dall’Università di Praga e dall’Università di Cambridge. Dopo le prime perplessità Dvorak si risolse a partire, e il 17 settembre 1892 si imbarcò per l’America insieme con la moglie e due dei figli. Accolto con grande entusiasmo, tenne il suo primo concerto il 21 ottobre, proprio in coincidenza con il quarto centenario dello sbarco di Colombo, e tre mesi dopo iniziò a comporre la Sinfonia in mi minore detta “dal Nuovo Mondo”. Suo primo lavoro “americano” e ultima delle sue Sinfonie (inizialmente numerata come quinta perché, delle nove Sinfonie di Dvoràk, le prime quattro furono pubblicate postume), appare permeata dalla nuova atmosfera nella quale si trovò a vivere il compositore, che affermava: «Mi piace molto e si distingue in modo sostanziale dalle mie precedenti composizioni. Certamente l’influenza dell’America può esser sentita da chiunque abbia un naso». E ancora: «Credo che la terra americana influenzerà in modo benefico i miei pensieri, e potrei quasi dire che qualcosa del genere si sente già nella nuova Sinfonia». Sin dalla sua prima esecuzione, avvenuta alla Carnegie Hall di New York il 16 dicembre 1893, la Sinfonia “dal Nuovo Mondo” ebbe un successo enorme e acquistò da allora una grandissima popolarità nel repertorio sinfonico. Molti vollero vedervi, equivocando, una musica piena di sentimenti patriottici, costruita su melodie della tradizione popolare negra o indoamericana, salutando addirittura la nascita di una scuola nazionale statunitense, è vero che Dvorak fu molto attratto da alcune musiche americane, soprattutto dagli spirituals («nelle melodie dei neri d’America ho potuto trovare tutto ciò che serve a una grande e nobile scuola di musica.
Rafael kubelik
Esse sanno essere patetiche, tenere, appassionate, malinconiche, solenni, religiose, vigorose, amabili allegre […] Non vi è nulla in tutta la varietà del comporre che non possa essere detto con questi temi») e dai songs di Stephen Collins Poster, che aveva conosciuto grazie al giovane cantante di colore Harry Burleigh. Ma nella sua nuova Sinfonia non citò alcun tema e, pur condividendo l’idea che si trattasse di una “Sinfonia americana”, non voleva che si facesse
troppo caso al titolo, aggiunto all’ultimo momento prima di inviare la partitura al direttore d’orchestra Anton Seidl che ne diresse la prima. Alla vigilia della prima, in un’intervista sul New York Herald del 5 dicembre, dichiarò: «È lo spirito delle melodie negre e degli indiani d’America che mi sono sforzato di ricreare nella mia nuova Sinfonia. Non ho usato neanche una di quelle melodie. Ho semplicemente scritto dei temi caratteristici incorporando in essi le qualità della musica indiana, e usando questi temi come mio materiale li ho sviluppati servendomi di tutti i moderni mezzi del ritmo, del contrappunto e del colore orchestrale». Come in altre Sinfonie di Dvorak si coglie il sapore boemo senza che vi siano citate melodie popolari boeme, così in questa Sinfonia sono semplicemente alcune strutture ritmiche e intervallari (matrice ricorrente è la successione di una terza minore ascendente, una nota ribattuta e un frammento di scala discendente, associata spesso a un ritmo giambico) ad alludere alla musica americana, e i suoi temi sono semmai più vicini all’idealizzazione di un canto popolare che all’ipotetico originale.
La partitura, portata a termine il 24 maggio 1893, mostra la chiara impronta della scrittura sinfonica tedesca, soprattutto brahmsiana, una rigorosa forma classica, ma anche una concezione ciclica data dal ricorrere del tema principale (esposto nel primo movimento dal corno, dopo l’introduzione lenta), che affiora nei movimenti successivi, e dalla ricapitolazione di tutto il materiale tematico nel finale. Il movimento più celebre della Sinfonia è il Largo, che si apre con un corale modulante degli ottoni seguito da una nostalgica melodia del corno inglese (divenuta molto popolare negli Stati Uniti); melodia ripresa alla fine del movimento, dopo un episodio dal carattere pastorale, introdotto da un disegno staccato dell’oboe, caratterizzato da un’amplificazione del tessuto orchestrale, nella quale si innesta ancora il tema ciclico. Questo movimento e il successivo Scherzo sono entrambi ispirati a un poemetto di Henry Longfellow, intitolato Song of Hiawatha, che Jeannette Thurber aveva donato al compositore: il Largo evoca i funerali della sposa dell’eroe; lo Scherzo richiama una danza di pellirosse nella foresta, che si trasforma in una musica piena di vitalità, costruita con una parte principale divisa in due episodi distinti, un doppio Trio, e una coda che ripresenta più volte il tema ciclico. La Sinfonia si conclude con il trascinante finale, Allegro con fuoco, che ricapitola, come già detto, i temi della Sinfonia, riproponendo il tema principale con la forza di una apoteosi, e che appare, nel suo sviluppo multiforme e nella duttilissima orchestrazione, come una perfetta sintesi delle componenti boeme, mitteleuropee e americane del linguaggio sinfonico di Dvorak.
Karneval, ouverture da concerto, op. 92, B. 169
A giusta ragione Dvorak viene considerato, insieme a Smetana, il più autentico e autorevole rappresentante della musica nazionale cèca della seconda metà dell’Ottocento. Però, mentre Smetana si richiama nella sua produzione operistica e sinfonica ai motivi eroici e leggendari della Boemia in lotta, spesso aspra e difficile, per la propria libertà e indipendenza, Dvorak esalta gli aspetti popolareschi e contadini della sua terra. Infatti in questo artista, stimato e benvoluto da Liszt, Brahms, Hanslick e Bùlow, si incarna la tradizione più schietta e pura del musicista boemo, legato profondamente al patrimonio folclorico, ai costumi e alle cerimonie liete e tristi di una popolazione campagnola e rusticana, ancora lontana dai problemi di urbanizzazione e di industrializzazione. Per tale ragione la sua musica, contraddistinta da inesauribile freschezza melodica e da straordinaria spontaneità inventiva (qualche musicologo lo ha paragonato a Schubert), è ricca di danze e di ritmi nostalgici e allegri, sentimentali e festosi che provengono dalla cultura boema e slava, anche se reinventati e rielaborati con un gusto e una sensibilità di piacevole effetto armonico e strumentale.
Natura cordialmente istintiva, sinceramente ottimistica, sorretta da una schietta fede in Dio, Dvorak non ha nulla del compositore intellettuale alla ricerca di messaggi ideologici e filosofici e tormentato da problematiche tecniche e linguistiche: nella sua concezione sonora, sia sinfonica che da camera e operistica, tutto procede limpidamente e alla luce del sole, su un piano di assoluta chiarezza di idee espresse con una straripante varietà di temi, innestati saldamente in una orchestrazione molto descrittiva e comunicativa e densa di colori timbrici e armonici di penetrante suggestione poetica.
Cresciuto sotto l’influsso delle teorie sulla canzone popolare esposte da Herder, Goethe e i fratelli Grimm, i quali contribuirono alla conoscenza e alla diffusione delle varie letterature autoctone e dialettali, Dvorak si muove nel grande alveo del folclore romantico, in cui trovano largo spazio le tipiche danze di estrazione panslavica, come il furiant, la polka, il rejdovak, la sousedskà, lo skocnà, l’odzemek slovacco, il kolo serbo e la mazurka polacca. Ciò spiega tra l’altro la vastissima diffusione sin dal primo momento delle sue sinfonie e soprattutto delle due raccolte di Danze slave, dell’op. 46 e dell’op. 72, ordinategli dall’editore Fritz Simrock di Berlino per essere lanciate sul mercato insieme a quelle ungheresi di Brahms. Ad una certa distanza come popolarità, anche se rivelatrici del temperamento melodico del musicista boemo, si collocano le tre ouvertures per grande orchestra raggruppate sotto lo stesso titolo di «Natura, vita e amore» che comprende Nel regno della natura, Karneval e Othello, tre brani scritti nel 1891 (l’ultimo fu terminato nel 1892) da un Dvorak cinquantenne. In origine il musicista aveva pensato ad un ciclo denominato semplicemente Pastorale, Scherzo e Finale, ma successivamente volle imprimere un tono più descrittivo, alla maniera di Liszt, a questa trilogia sulla natura, senza tuttavia comporre una vera e propria musica a programma. Il secondo pezzo Karneval è la più eseguita e apprezzata delle tre ouvertures, sin da quando l’autore la diresse prima di partire nel 1892 per gli Stati Uniti, dedicandola all’Università di Praga, che l’aveva nominato dottore honoris causa per i suoi meriti di musicista di fama nazionale. L’ouverture Karneval, inizialmente chiamata Karneval ceco, è contrassegnata dalla tonalità di la maggiore, quasi a significare l’inquietudine e l’insoddisfazione che sono alla base della vita umana. Essa è articolata in forma di sonata, con un tempo allegro vigoroso e pieno di slancio orchestrale, con un andantino in sol maggiore di sapore agreste, inserito come un breve intermezzo lirico, e infine con una ripresa del primo tema ritmicamente festoso, a completamento delle alterne, vivaci ed estrose apparizioni di varie scene del carnevale, visto come un quadro di danze brillanti e di ritmi policromi, odorosi di aria nativa e campagnola.