Dvorak Antonin
Stabat Mater – Leggende
Rafael Kubelik, ha interpretato magistralmente questa composizione dvorakiana preservando i canoni della Chiesa Cattolica del XIII secolo.
Ecco in ordine le varie sequenze:
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I – Stabat Mater dolorosa
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II – Quis est homo, qui non fleret
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III – Eja, Mater, fons amoris
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IV – Fac, ut ardeat cor meum
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V – Tui Nati vulnerati
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VI – Fac me vere tecum flere
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VII – Virgo virginum praeclara
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VIII – Fac, ut portem Christi mortem
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IX – Inflammatus et accensus
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X – Quando corpus morietur
Registrazione eseguita nel 1977. Audio buono. Altamente raccomandato.
Composto fra il 1876 e l’autunno del 1877, lo Stabat Mater è strettamente legato a una catena di eventi luttuosi che avevano colpito in quel breve volgere di tempo la famiglia del musicista: la morte prematura, uno dopo l’altro, dei suoi tre bambini. Dvořàk, uomo di fede profonda, rimase tanto segnato da questi avvenimenti che cercò conforto in un archetipo del lutto materno e iniziò a mettere in musica, pur non conoscendo bene il latino, i versi duecenteschi della famosa Sequenza di Jacopone da Todi dello Stabat Mater: un percorso negli abissi del dolore scandito dalle invocazioni e dall’angoscia di una Madre, la Madre di Dio, in pianto presso la croce del divino suo Figlio. Partita come una confessione privatissima, l’opera si venne poi però sciogliendo in una semplicità rasserenante, appena velata da un’ombra, costante, di tristezza e confortata dai tratti di una partecipe coralità popolare. In altri termini, la tragedia personale dell’autore si stempera nell’afflato collettivo e il passo duro, aspro, legnoso del testo medievale si quieta in impreviste oasi di serenità. Atteggiamenti musicali tipici del dolore romantico (modi minori, andamenti cromatici, accordi di settima diminuita, rulli di timpani e simili) si alternano frequentemente a modi maggiori e a climi rasserenati, quasi a suggerire l’afflizione stessa come uno stato transitorio verso la beatitudine. In questa composizione solenne, ieratica e al tempo stesso delicata, di forte ispirazione sacra e religiosa ma non confessionale, con alcune puntate nella drammaticità di segno teatrale, Dvořàk conferì alla melodicità un tono alto, sempre sostenuto però dal respiro del patrimonio etnico della sua terra, e una compunzione classica che la eleva a un lirismo di richiamo quasi schubertiano, mentre la costruzione musicale è improntata a un’austerità che a momenti ricorda addirittura Händel. Molti compositori hanno composto questo inno religioso , Haydn, Vivaldi, Rossini, Scarlatti, Pergolesi e anche Verdi ma quella che amo di più è lo spartito di Dvorak. Questa partitura sacra è stata la prima creazione di Dvorak sull’oscurità della morte. L’ha completata nel 1877 nel mezzo di una tragedia personale, perse i sue tre bambini a causa di malattie o incidenti. Al di fuori di ogni contesto umano, Dvorak ha creato nella sua mente la sua immagine privata di questo grande componimento che coincide con il suo stesso strazio.
Stabat Mater . Leggende – Genesi e breve introduzione tecnica.
Gli anni dal 1873 al 1875 furono decisivi per Dvorák. Cresciuto nell’ambiente
musicale ceco, il compositore aveva man mano sviluppato uno stile influenzato dalla concezione artistica di Wagner, ma non era mai giunto a un’assimilazione che violasse i confini della maniera.
Dvorák aveva già attuato un ritorno agli ideali stilistici “classici” della gioventù – soprattutto Beethoven, per la concezione formale, e Schubert per l’inventiva melodica – quando ottenne una borsa di studio concessagli dal governo austriaco per intervento diretto del musicologo Hanslick e di Johannes Brahms. Il celebre compositore tedesco, già allora dittatore della vita musicale viennese, fu attratto dalla ricchezza di idee di Dvorák, ma soprattutto dalla matrice folklorica ravvisabile diffusamente nella sua produzione.
Rafael Kubelik
D’altra parte Dvorák ebbe modo di ricambiare la fiducia concessagli (e negata, per esempio, a Hugo Wolf), divenendo uno dei più accaniti diffusori delle idee formali di Brahms.
Lo Stabat Mater è la prima composizione realizzata secondo i canoni di un ritrovato equilibrio, ed è, insieme al Te Deum, il più importante lavoro prodotto dall’autore nel genere sacro.
La composizione fu iniziata nel 1876 e portata a termine l’anno dopo, mentre la partitura fu pubblicata da Simrock, l’editore berlinese di Brahms, nel 1881. L’opera, dopo la prima esecuzione di Praga, il 23 dicembre 1880, ottenne subito un successo internazionale, a Budapest, Vienna, ma soprattutto a Londra nel 1883.
Dvorák fu invitato a dirigerla in Inghilterra nel marzo dell’anno successivo, e nel settembre partecipò, ancora con lo Stabat Mater, alle celebrazioni per l’ottavo centenario della cattedrale di Worcester.
L’interesse suscitato in Gran Bretagna, il paese con la più antica tradizione corale d’Europa, è sintomatico delle qualità migliori dello Stabat: il coro vi è massicciamente impiegato, e insieme all’orchestra costituisce l’elemento di coesione della partitura, concepita secondo uno schema di Cantata sinfonica. Proprio per questo l’approccio di Dvorák alla celebre sequenza trecentesca di Jacopone da Todi differisce da quello dei più celebri compositori che l’avevano musicata prima di lui, come Pergolesi e soprattutto Rossini, che impiegò i solisti in otto delle dieci sezioni del testo, soddisfacendo sia le situazioni drammatiche postulate dai versi (si pensi al n. 8 “Inflammatus et accensus”) sia quelle specificamente formali (come per la doppia fuga dell'”Amen”, n. 10). Dvorák invece, concepisce lo Stabat come un momento di dolore collettivo, e in sette delle dieci sezioni impiegò il coro, sia da solo (nn. 3, 5, 7) che insieme ai solisti (nn. 1, 4, 6, 10): in quest’ultimo caso i componenti del quartetto hanno un ruolo che si può quasi definire “di concerto”.
L’espressione del dolore, che predomina nella Sequenza, è affidata da Dvorák al cromatismo. È quanto appare fin dal preludio: dopo aver fatto risuonare la dominante in ottave (fa diesis) appare un tema cromatico, ripreso dal coro sui versi iniziali, è sviluppato poi per progressioni. L’ingresso delle voci del coro contrappone in canone doppio il timbro maschile e quello femminile: l’incrociarsi dei due soggetti, rispettivamente discendente e ascendente, dà luogo a una figura musicale retorica, scelta che dimostra come Dvorák abbia affidato un po’ scopertamente alla tecnica il contenuto del testo.
La preoccupazione di determinare le giuste proporzioni formali traspare chiaramente fin dalla struttura del movimento iniziale, la cui tripartizione deriva dalla ripresa della sezione corale d’apertura in si minore, dopo i versi dei soli (dal “Cujus animam” all’ O quam tristis”) nel relativo maggiore (re).
Anche il Quartetto n. 2 (“Quis est homo”) è caratterizzato, come gran parte dei brani dell’opera, dall’impiego massiccio dell’imitazione canonica. Assai vigorosa è l’espressione corale nel successivo “Eja, Mater” in do minore (n. 3), mentre nel “Fac ut ardeat” (n. 4), destinato alla morbida vocalità del basso, si possono rilevare modulazioni originali.
Forse uno dei momenti più riusciti di tutto il lavoro è la sezione affidata al contralto l'”Inflammatus” in re minore (n. 9): la linea di canto della solista aderisce con autenticità, tramite insistite figure melismatiche, al drammatico
testo, e l’accompagnamento ostinato accresce la tensione.
Emulando Rossini, Dvorák determina la struttura ciclica del lavoro col riprendere, nell’ultimo numero (“Quando corpus morietur”), l’iniziale ripetizione ostinata della dominante nel preludio, nella stessa tonalità, si minore, e con lo stesso tempo, Andante con moto. Tale condizione è ribadita nell'”Amen” che conclude l’opera nell’obbligatorio omaggio al contrappunto osservato: anche il questa esposizione in doppia fuga, con scoperta coerenza, Dvorák impiega come soggetto e controsoggetto due frasi apparse nel n. 1, e in esso più volte ribadite e sviluppate.
Di particolare efficacia l’attacco del controsoggetto cromatico discendente, affidato al soprano: il richiamo semantico alle parole con cui era stato esposto in precedenza (“juxta crucem lacrymosa”), conclude un’opera in cui il sentimento del dolore è descritto con commossa lucidità.
Nel 1881, anno in cui l’editore Simrock pubblicava la partitura dello Stabat Mater, Dvorák finì di comporre le Legendy (Leggende). Come il capolavoro corale, anche queste ultime sono indissolubilmente legate a Brahms, e qui specificatamente alla sua concezione dell’elemento popolare integrato nella musica colta. Il riferimento più esplicito va alle Danze ungheresi che l’amburghese compose dapprima per pianoforte a quattro mani, orchestrandone poi tre nel 1873.
Dvorák seguì il suo esempio orchestrando la prima serie delle Danze slave, composte nel 1878 per pianoforte a quattro mani, e allo stesso modo si comportò con le Leggende.
Se la versione pianistica si rende preferibile perché riflette meglio di carattere delicato e sovente intimistico dei dieci brani che compongono l’opera, tuttavia quella orchestrale, condotta con notevole abilità, deve al timbro molta della propria forza evocativa. Le Leggende rientrano a pieno titolo infatti nell’ambito della produzione di Dvorák che si rifà al patrimonio dell’etnia ceca – fase che precede di parecchi anni il vero e proprio approccio con la musica a programma – il cui modello ideale è costituito dalle Rapsodie slave op. 45 (1878).
Rispetto a queste ultime la spontaneità inventiva risulta minore, e un certo manierismo viene dall’enfatizzazione, dovuta a scelte timbrico-dinamiche, delle più evidenti qualità melodiche e ritmiche di questi dieci brani.
Dvorák rese ancor più palese il suo legame con la sfera estetica di Brahms dedicando l’opera con riconoscenza a Eduard Hanslick, che lo ricambiò calorosamente descrivendola in termini quasi entusiastici: “Non è importante sapere quale sia la più bella di queste dieci Leggende: sono tutte stupende! Ognuna ha il suo carattere; alcune lasciano trasparire l’affascinante aria di danza, altre un tenero lirismo, altre ancora un’atmosfera grave e quasi mistica”.
Sostanzialmente le parole di Hanslick si attagliano bene al carattere delle Leggende. Sono composizioni di medie dimensioni, per la maggior parte in forma tripartita. La scelta del titolo non comporta alcun intento programmatico, e gli episodi si alternano l’uno all’altro con naturalezza ed equilibrio senza quasi soluzione di continuità.
Forse l’elemento prevalente è il frequente emergere di un sentimento elegiaco, come accade già nella parte centrale della prima Leggenda. In questo senso il vertice viene raggiunto nella n. 6, pervasa in tutte le sue componenti da una nobile malinconia.
Antonin Dvorák
Non mancano nella raccolta composizioni più elaborate, ed è questo il caso della seconda Leggenda, in cui il rapporto fra il tema principale e la melodia iniziale è abilmente condotto nel segno della variazione, della “maestosa” quarta, con un ampio e sostenuto movimento dei bassi, e della quinta, armonizzata e acorale.
Evocano un clima di danza invece la terza Leggenda, la settima, entrambe col tema puntato, e la nona, una suggestiva mazurca con interessate condotta imitativa delle parti.
Se l’ottava richiama il mondo lirico di Schumann, la prima parte della decima si
riporta in un’atmosfera elegiaco-malinconica, ma la sezione conclusiva, col passaggio da si bemolle minore a maggiore, ristabilisce un sentimento di serenità nel cui segno la raccolta si conclude.
Michele Girardi
Stabat Mater per soli, coro e orchestra, op. 58
Lo Stabat Mater apre il capitolo della musica religiosa di Dvorak nel segno di una felice disposizione naturale per il vasto e colorito affresco sinfonico corale; ispirazione che dovrà esplicarsi nella sua pienezza con gli estremi capolavori del Requiem e del Te Deum. Principiata nel febbraio 1876 sotto la diretta suggestione di un lutto che in quel tempo aveva funestato la sua famiglia – la morte della figlia Josefa – la partitura fu portata avanti da Dvorak con inconsueta lentezza insieme con altri lavori, non senza che gli affetti paterni del compositore venissero, nel contempo, sottoposti ad altre durissime prove, con le morti quasi consecutive della primogenita e di un bimbo di quattro anni. L’incidenza dei casi autobiografici – e nella fattispecie, di quali casi – nella vita creativa di un artista è, lo sappiamo, argomento riprovato dalle migliori scuole di estetica. E, ciò nonostante, è cosa di cui tanto meno ci si può sbarazzare di leggieri, quanto più si consideri ciò che in linguaggio dotto si chiama l’eterogenesi della creazione artistica e in discorso piano le mille e una via che in arte portano a una scelta, a una espressione, e a quelli soli e non ad altri. Senza contare che al connubio tra vita ed arte un uomo come Dvorak, il meno intellettualistico e il più sorgivamente spontaneo musicista del tardo romanticismo europeo, non poteva non credere con tutta la mente e con tutto il cuore. La partitura venne ultimata a Praga il 13 di novembre 1877 e la prima esecuzione avvenne solo tre anni più tardi, il 23 dicembre 1880, per conto dell’Associazione degli artisti della musica di Praga, cui Dvorak dedicò la composizione. Un anno e mezzo dopo l’opera ebbe altre due esecuzioni praghesi, ed una a Budapest. Nel marzo 1884, sotto la direzione dell’autore, lo Stabat ottenne un grandioso successo alla Royal Albert Hall di Londra, cui tennero dietro altre numerose esecuzioni europee.
Dalla raccolta intimità cameristica dello Stabat pergolesiano per due voci femminili, archi e continuo (l’aggiunta del coro è, come si sa, un abuso perpetrato incredibilmente anche in recentissime edizioni dovute a bacchette famose), la drammatica sequenza di Jacopone da Todi, via via gonfiatasi come fiume in piena, era pervenuta al vasto polittico rossiniano, denso di colorito pathos melodrammatico e informato alla più geniale e quasi provocatoria spregiudicatezza nei confronti della tradizione accademica e di quel «ritorno all’antico» propugnato dai coevi movimenti riformatori di tipo ceciliano. Ma tradizione e misticismo cattolico-romantico erano componenti cui Dvorak non
poteva facilmente sottrarsi: tanto vicini ed incombenti avvertiva il candido ma tutt’altro che sprovveduto cèco i modelli di Berlioz, di Liszt, di Bruckner, autori di «affreschi» sacri gravidi di compromessi col passato e di un eloquente, estatico misticismo già corrotto – è il caso di Liszt – da ben consapevoli e compiaciuti atteggiamenti estetizzanti. La necessità, per l’artista uscito dal crogiolo romantico, di servire Dio e insieme Mammona (intendendo con tale termine lo spirito dei tempi, che l’antico maestro di cappella, autore di messe e mottetti concepiti secondo uno stile prestabilito detto appunto «da chiesa», non era affatto tenuto a seguire), indusse anche Dvorak a vestire le vetuste strofe della sequenza per la Passione dei panni sontuosi di una «sacralità» da concerto in cui convergono molteplici conponenti. Vi è l’elemento sinfonico, rilucente di densità timbriche e di sonorità per lo più compatte e rintrecciate mediante l’uso frequente di raddoppi tra la compagine degli archi e quella dei legni; questi ultimi prevalgono nel colore generale, secondo un tratto tipico della musica sacra viennese, illustrato da Bruckner e, risalendo nei tempi, da Schubert e da Salieri, maestro a Schubert, per tacere della pleiade dei minori. Vi è il contrappunto, trattato da Dvorak in alcuni passi con intenti prevalentemente scenografici, senza saggiarne altrimenti le possibilità costruttive. Importanza assai maggiore consegue a tale fine un declamato di tipo salmodico, per lo più piegato ad accenti di un drammaticismo eloquente: a tale forma di espressione vocale il compositore ricorre nei momenti di maggiore tensione patetica, ottenendo notevoli effetti mediante una sapiente e ben calcolata distribuzione delle varianti ritmiche di detto declamato attraverso le parti dei soli e del coro. I risultati (e si veda in primis il mirabile «Eja Mater, fons amoris») suonano inequivocabilmente moderni e persino avveniristici, anche se in essi Dvorak risulta ampiamente debitore a Liszt.
Lo Stabat Mater s’apre con un brano affidato al quartetto dei soli e al coro: vi predomina un frammento tematico contraddistinto dall’intervallo di ottava e da un breve melisma discendente che, variamente trattato, regge le strutture delle effusioni corali e solistiche che seguono alla imponente introduzione orchestrale. Un certo anelito a un’impossibile purezza ceciliana trapela dal lento sillabare, inframmezzato da pause suggestive, delle voci, tese a una esteriore mimesi delle caste imitazioni palestriniane; troppa colorita enfasi gestuale gronda, in realtà, da tali note e ne costituisce la ragion d’essere e il segno dell’autenticità espressiva. Una siffatta temperie caratterizza pure il successivo quartetto dei soli «Quis est homo», impreziosito da un sensualissimo gruppetto wagneriano che ricorre nelle quattro voci sovrapponentisi in libere entrate canoniche. Anche l’orchestra asseconda il canto con disegni più flessuosi e vocalistici. Vario di inflessioni ed accenti, il quartetto si conclude nel contrasto fra i risentimenti melodrammatici del basso («Pro peccatis») e l’impressionante mormorio delle voci inchiodate sull’unisono di un mi afono e spento («Vidit
suum dulcem natum») di cherubiniana memoria. Dopo il già ricordato «Eja Mater», affidato al coro, il susseguente «Fac ut ardeat» ripropone l’eloquente intervento del basso solista che predomina sull’intero episodio, mentre un coro femminile sillabato, sostenuto dalle note dell’organo, gli fa alternativamente da sfondo: il teatrale effetto ottenuto è indicativo dell’innata, ingenua estroversione illustrativa del talento di Dvorak, fedele ai propri moduli espressivi anche nella manifestazione di una religiosità indubbiamente autentica e profondamente sentita.
Il quinto episodio, tra i più felici dell’intera composizione, si articola al ritmo ideale di una pastorale animata da una sottile inquietudine che verso la metà del brano esplode in cruda concitazione drammatica («Tui Nati vulnerati»); nel complesso, si tratta di uno tra i rari momenti dello Stabat in cui l’espressione musicale, sotto la suggestione di modelli classici (e quello di Bach, con le sue arie e i suoi cori in ritmo di pastorale, appare evidente) si affina e si interiorizza dietro lo schermo di una simbologia rettorica ricuperata con intenti allusivi: l’umanità di Cristo collegata alla Natività e alle sue tipiche raffigurazioni musicali. Il brano successivo, «Fac me vere tecum fiere» trae, al contrario, la sua forza di persuasione dalla sin troppo facile cantabilità del «solo» tenorile, che vi si effonde in frasi simmetriche alternate, come già nel «Fac ut ardeat», alle risposte del coro. Tale esuberanza melodica, nel «Virgo virginum praeclara», affidato al coro, si decanta in puri accenti di quasi classica compostezza, appena agitata da una più vibrata declamazione alle parole «fac me tecum piangere». Una ricorrente figurazione ritmica, costruita da due semicrome e una croma, è la struttura predominante del duetto Soprano-Tenore su «Fac ut portem»: essa percorre l’intera compagine orchestrale, ora contrapponendosi alle melodie intrecciate delle due voci, ora al canto dispiegato dei violini, immergendosi e riaffiorando da una scrittura orchestrale di particolare ricercatezza. L’«Inflammatus» è un solo di contralto, animato da enfasi melodrammatica sopra un vigoroso inciso dell’orchestra; mentre nell’ultimo e più vasto episodio, «Quando corpus morietur», la composizione tende a raggiungere un’ideale unitarietà inventiva atraverso il ricupero e la rielaborazione, in un più complesso quadro formale, di tutti quegli elementi che costituivano le strutture della parte introduttiva: in primo luogo, del tema fondamentale, che qui riappare potenziato e come esaltato da un più sontuoso apparato timbrico e polifonico.
Testo
N. 1 – QUARTETTO E CORO
(Andante con moto – Molto tranquillo)
Stabat Mater dolorosa
juxta crucem lacrimosa,
dum pendebat Filius.
Cuius animam gementem,
contristatam et dolentem
pertransivit gladius.
O quam tristis et afflicta
fuit illa benedicta
Mater Unigeniti,
Quae maerebat et dolebat,[pia Mater] et tremebat, dum videbat
Nati poenas incliti.
Stava la madre dolorosa
Vicino alla Croce lacrimosa
Mentre appeso stava il figlio.
La cui anima gemente,
Rattristata e dolente
La spada colpì di taglio.
O quanto triste e afflitta
Fu lei benedetta
Madre dell’Unigenito!
Quanto si rattristava e si doleva,
La pia Madre tremava, mentre vedeva
Le pene dell’inclito suo Nato.
Quis est homo, qui non fleret,
Matrem Christi si videret
in tanto supplicio?
Quis non posset contristar!,
Christi Matrem contemplari
dolentem cum Filio?
Pro peccatis suae gentis
Jesum vidit in tormentis
et flagellis subditum,
Vidit suum dulcem
Natum moriendo desolatum
dum emisit spiritum
Chi tra gli uomini non piangerebbe
Se la madre di Cristo vedesse
In tanto supplizio?
Chi non si potrebbe rattristare,
La Madre di Cristo nel contemplare
Dolente assieme al Figlio?
Per i peccati della sua gente
Vide Gesù tra i tormenti,
E ai flagelli sottostava.
Vide il suo dolce Nato
Morente, abbandonato,
Mentre lo spirito esalava.
N. 3 – CORO
(Andante con moto)
Eja Mater, fons amoris,
me sentire vim doloris
fac, ut tecum lugeam.
Madre, fonte dell’amore,
Fa’ che io senta la forza del dolore
Fa’ che con te io pianga!
N. 4 – BASSO SOLO E CORO
(Largo – Più mosso)
Fac, ut ardeat cor meum
in amando Christum Deum
ut sibi complaceam.
Sancta Mater, istud agas,
Crucifixi fige plagas
cordi meo valide.
Fa’ che arda il cuore mio
Nell’amore di Cristo Dio,
A che gradito a sé divenga.
Santa Madre, ciò persegui,
Del crocifisso infiggi le piaghe
Al mio cuore con forza.
N. 5 – CORO
(Andante con moto quasi allegretto – Un poco più mosso)
Tui Nati vulnerati,
tam dignati pro me pati
poenas mecum divide.
Di tuo Figlio di ferite colpito
Che tanto per me di soffrire ha consentito,
Con me dividi le pene.
N. 6 – TENORE SOLO E CORO
(Andante con moto – Poco più mosso)
Fac me vere tecum fiere,
Crucifixo condolere,
donec ego vixero.
Juxta crucem tecum stare
te libenter sociare
in planctu desidero.
Fa’ che con te io pianga,
Con Cristo crocifisso io mi dolga
Finché sarò in vita.
Vicino alla croce con te stare,
Unito a te volentieri
Nel cordoglio io voglio.
N. 7 – CORO
(Largo)
Virgo virginum praeclara,
mihi jam non sis amara,
fac me tecum plangere.
Vergine tra le vergini chiara,
A me non essere amara,
Fa che con te io pianga.
N. 8 – SOPRANO E TENORE
(Larghetto)
Fac, ut portem Christi mortem,
passionis fac consortem
et plagas recolere.
Fac me plagis vulnerari
cruce hac inebriari
ob amorem Filii.
Fa’ che la morte di Cristo io porti,
Della passione fammi parte
E delle piaghe sempre mi sovvenga.
Fa’ che dalle piaghe io sia vulnerato,
Fa’ che dalla croce io sia inebriato
Per amore del Figlio.
N. 9 – CONTRALTO SOLO
(Andante maestoso)
Inflammatus et accensus
per te, Virgo, sim defensus
in die judicii.
Fac me cruce custodiri,
morte Christi praemuniri,
confoveri gratia.
Dalle fiamme e dal fuoco
Da te, Vergine, io sia salvato
Nel giorno del giudizio.
Fa’ che io sia protetto dalla Croce,
che io sia fortificato dalla morte di Cristo,
consolato dalla grazia.
N. 10 – QUARTETTO E CORO
(Andante con moto – Allegro molto)
Quando corpus morietur,
Fac, ut animae donetur
paradisi gloria.
Amen.
Quando il corpo morirà,
Fa’ che all’anima sia data
Del Paradiso la gloria.
Amen.
(Traduzione di Emanuela Andreoni)