Handel Frideric George

Messiah

Sento molto vicina la registrazione del Messia come concepita e diretta da Sir Neville Marriner con la sua Accademia di San Martino e col coro Fields nel 1992. Oggi non è difficile trovare registrazioni del Messia, ma trovare una prestazione così vitale registrata sui supporti moderni in un convincente stile barocco è un’altra questione.

La proporzione del coro rispetto al suono dell’orchestra è eccellente, i tempi e l’articolazione sono vigorosi e appropriati per le varie strutture musicali e le molte improvvisazioni richieste dall’interpretazione barocca sono di buon gusto e convincenti. L’esecuzione di Neville Marriner è raffinata e prossima alla perfezione in questa esecuzione dal vivo e il coro è eccezionale, canta costantemente con autorità e chiarezza. I solisti apportano a questa registrazione una particolare bellezza, in particolare Sylvia McNair e Michael Chance, anche se tutti e cinque sono eccellenti. Anche la scelta dell’organo e del clavicembalo conferisce un valore non comune. Se Handel potrebbe aver composto il Messia in tre settimane, questa esecuzione testimonia di ore incommensurabili di preparazione da parte di tutti i partecipanti. Raccomandato senza alcuna riserva.

Messiah

Haendel attese alla composizione del Messiah nel 1741, all’età di cinquantasei anni. Durante il suo soggiorno più che trentennale in Inghilterra si era dedicato, fino a quel momento, principalmente all’allestimento di opere italiane, nella doppia veste di compositore ed impresario. Furono gli ultimi disastrosi rovesci economici di questa attività che convinsero il compositore dell’opportunità di abbandonare l’opera e di ricercare il successo del pubblico per altre strade. Assai più che da un’intima esigenza religiosa – come pure talvolta si è sostenuto – l’approccio al genere oratoriale ebbe origine dunque da esigenze di puro mercato, da quell’ottica di consumo immediato che sovrintende a tutta (o quasi) la produzione barocca. I primi oratori inglesi di Haendel (primi dopo le sporadiche esperienze giovanili italiane), Esther, Deborah, Athalia, degli anni iniziali del 1730, Saul e Israel in Egypt, della fine dello stesso decennio, furono eseguiti nelle medesime sale che accoglievano le ultime opere italiane del compositore.

L’accoglienza dei primi oratori non fu, tuttavia, quella che Haendel avrebbe sperato; tanto che, nel 1741, dopo l’insuccesso delle opere Deidamia e Imeneo, il compositore si limitò a replicare il Saul, senza applicarsi a nuovi oratori; la sfiducia nel nuovo genere era pari a quella verso il vecchio, e più d’una testimonianza afferma l’intenzione di Haendel di abbandonare l’Inghilterra per tentare la sua fortuna nel continente. A modificare questo stato di cose dovevano giungere, nel luglio-agosto 1741, due eventi quasi contemporanei.

Il 10 luglio, infatti, il letterato Charles Jennens, che già aveva fornito a Haendel i libretti per il Saul e L’Allegro, il Pensieroso ed il Moderato, scriveva all’amico Edward Holdsworth: «spero di persuaderlo a musicare un’altra raccolta di passi biblici che gli ho preparato ed a farla eseguire a suo beneficio nella Settimana Santa. Spero che vi impieghi tutto il suo genio e la sua dottrina e che questa composizione possa sorpassare tutte quelle che finora ha scritto, giacché il
soggetto supera tutti gli altri. Il soggetto in questione è il Messia […]». Parole profetiche, che sarebbero però cadute nel nulla – difficilmente il compositore si metteva al lavoro senza una prospettiva di esecuzione – se nel volgere di breve tempo Haendel non avesse ricevuto l’invito a recarsi a Dublino per partecipare a una stagione di oratori, alcuni dei quali a fini benefici.

Neville Marriner

L’occasione era propizia per cambiare aria per qualche tempo e sfruttare un vasto ciclo di esecuzioni; il compositore si applicò così alacremente al lavoro, sul libretto che Jennens gli aveva appena fornito; il 22 agosto comincia la stesura, che il 12 settembre è completata: appena ventiquattro giorni per portare a termine la mirabile partitura, che, oltretutto, recava un numero piuttosto limitato di prestiti e autoimprestiti. Non meno alacre fu il lavoro all’altro oratorio che Haendel portò con sé a Dublino, il Samson. Il 18 novembre il compositore sbarcava a Dublino, e nei giorni seguenti organizzò le sue serate concertistiche.

Per la prima esecuzione il Messiah dovette aspettare il 13 aprile 1742, quando l’oratorio venne eseguito alla Music Hall in Fishamble Street, con finalità benefiche (gli incassi vennero devoluti ai detenuti e a due ospedali); parteciparono le forze locali, con i cori delle due cattedrali e alcuni cantanti attivi a Londra che avevano cortesemente seguito Haendel nella trasferta dublinese (Dubourg, Avoglio e Mrs. Cibbers). L’esito fu entusiastico, così come trionfale fu l’accoglienza complessivamente riservata al compositore a Dublino.
Haendel fece ritorno a Londra con una maggiore fiducia nel nuovo genere oratoriale, e tuttavia fu solamente con grande cautela – addirittura senza menzionarne il titolo, ma annunciando solo «un nuovo oratorio sacro» -che mise in programmazione il Messiah nella sua patria adottiva, il 23 marzo 1743; come già era avvenuto per Israel in Egypt, infatti, la circostanza che il testo dell’oratorio fosse tratto interamente dalle sacre scritture era destinata a sollevare l’indignazione di coloro che ritenevano scandalosa e blasfema l’esecuzione di un testo sacro in un ambiente teatrale. Di fatto il Messiah non conquistò affatto il cuore dei londinesi, e venne considerato un lavoro minore di Haendel; lo stesso Jennens, letterato presuntuoso e borioso, accusò il compositore di non essersi impegnato a fondo nella partitura, e gli suggerì alcuni ripensamenti che il compositore compiacentemente accettò.

Né si trattò dell’unica modifica che la partitura subì ad opera dello stesso autore; anzi, ad ogni esecuzione Haendel, seguendo un impulso del tutto pragmatico ed artigianale, compì qualche aggiustamento in funzione degli interpreti disponibili; stupirà, ad esempio il fatto che la versione originaria della partitura venisse concepita esclusivamente con l’accompagnamento degli archi e di una tromba solista, senza altri fiati (evidentemente l’autore non confidava troppo nelle forze dublinesi); e che solamente a Dublino Haendel inserisse gli altri strumenti. Ma la versione delle prove differisce in più dettagli da quella della prima esecuzione assoluta; e in seguito furono numerose le arie che vennero affidate ora a questo ora a quel registro vocale, o anche il cui testo venne riassunto per brevità in un recitativo. In sostanza, non si può parlare di una versione unica e autorizzata della partitura, ma piuttosto di molte versioni tutte ugualmente legittime e lecite.

Di fatto, il Messiah iniziò ad essere veramente apprezzato solo a partire dal 1750, quando venne eseguito annualmente con fini filantropici, che legarono così la partitura a un significato particolare; come del resto particolare era lo stesso assunto poetico, ispirato non a un qualsiasi argomento religioso, ma all’evento centrale della cristianità. La vera fortuna doveva arrivare postuma; proprio il soggetto sacro, e la particolare trattazione di cui si dirà, dovevano ribaltare l’accusa di contenuto blasfemo, e guadagnare alla partitura un’aura religiosa che creava un equivoco sul suo contenuto: non più un intrattenimento profano per quanto edificante, come gli autori avevano immaginato, bensì un’opera quasi chiesastica, spirituale, espressione di una religiosità romantica. Già nella seconda metà del secolo si moltiplicarono le esecuzioni con organici di smisurate dimensioni; lo stesso Mozart, a Vienna, venne richiesto di curare

una nuova strumentazione della partitura, che ne aggiornasse quei tratti troppo legati a una prassi strumentale ormai desueta.

Orchestra Academy of the St. Martin in the fields

In sostanza il Messiah rimase una delle pochissime composizioni che tennero vivo ed alto il nome di Haendel fra i posteri; non è esagerato affermare che nel lungo periodo intercorso fra la seconda metà del XVIII secolo e il secondo dopoguerra Haendel fu considerato quasi esclusivamente l’autore del Messiah. Non a caso le vicende oggettive della nascita dell’oratorio, che qui abbiamo riassunto, furono colorite di risvolti mistici, con la creazione di aneddoti sulla commozione dell’autore nel porre in musica il soggetto, senza altro stimolo della propria fede.

Oggi che il movimento della Aufführungpraxis ha riportato alla luce tutta la produzione operistica, anglicana e strumentale del compositore, e che lo stesso Messiah è stato sottratto alle esecuzioni elefantiache per essere ricondotto alla sobrietà degli organici originali; oggi, insomma, che sembra definitivamente tramontato il pregiudizio romantico secondo il quale Haendel era grande solo per i suoi oratori, è certo più agevole valutare perché questa partitura rappresenti davvero uno degli esiti più alti del compositore di Halle. Innanzitutto, nella ricerca di nuove strade, di modelli oratoriali che risultassero accattivanti per un pubblico stanco dell’opera italiana, Haendel rese il Messiah un oratorio unico e atipico. Si è osservato come l’oratorio haendeliano sia diretta filiazione della produzione operistica, ma da questa si differenzi – oltre che nell’argomento prevalentemente tratto dalle scritture e nella forma concertistica – per un diverso uso degli ingredienti musicali, assai più vicini alla cultura inglese autoctona; innanzitutto una vocalità più sobria, aliena da quella scrittura acrobatica che contraddistingueva il canto dei virtuosi italiani; poi il peso dell’elemento corale che, pressoché assente nell’opera, si riallacciava compiutamente alla grandiosa tradizione purcelliana degli anthems, gli inni anglicani. A questo occorre aggiungere l’impiego della lingua inglese, volto a coinvolgere nel contenuto spirituale lo spettatore anglofono ed a sigillare la connotazione nazionale del nuovo prodotto.

Rispetto al modello prevalente dell’oratorio, tuttavia, il Messiah si differenzia per non essere narrativo, cioè con una azione precisa e lineare, sceneggiata da un librettista con versi propri, bensì “riflessivo”. Il libretto di Charles Jennens è un prodotto abilissimo; sintesi di passi tratti dal Vecchio e dal Nuovo Testamento e dal Prayer Book anglicano, senza alcun contributo del letterato, esso non segue la tradizione tedesca di narrare pedissequamente un’azione, ma rinuncia alla presenza dello storico e di personaggi ben definiti. Piuttosto si tratta di una esposizione dei contenuti fondamentali della dottrina cristiana, filtrati attraverso la figura del Redentore.

Sopra questo soggetto Haendel costruì una partitura che privilegia gli aspetti riflessivi su quelli narrativi; pochissimi sono i recitativi, numerose le arie affidate alle voci solistiche (queste sono almeno quattro: soprano, contralto, tenore, basso), ingenti gli interventi corali, due i brani orchestrali (l’ouverture alla francese – Grave, Allegro moderato – e una Sinfonia pastorale che ambienta la notte di Betlemme). Straordinaria la varietà espressiva dei singoli brani; guidato dal proprio intuito teatrale, il compositore ricollegò i contenuti delle arie agli affetti dell’opera italiana, supplendo all’uso più sobrio della vocalità con il maggiore rilievo dell’espressività strumentale.

Diverso il discorso per le pagine corali; a differenza dei libretti dell’opera italiana, il testo delle scritture si prestava ad immediati contrasti; ecco dunque che i cori adottano una scrittura estremamente mutevole che, ispirandosi alla grandiosità celebrativa degli anthems anglicani, si converte dall’andamento omoritmico alla più raffinata complessità contrappuntistica, sempre in relazione alle suggestioni del testo. Sotto l’aspetto del materiale musicale impiegato, insomma, il Messiah è l’opera di un grande compositore cosmopolita, che attinge liberamente a tradizioni culturalmente dissimili e conflittuali, plasmandole in un proprio linguaggio.

George Frideric Haendel

Più complesso è definire secondo quale logica sia organizzata l’architettura musicale dell’intero oratorio. È difficile riconoscere al Messiah, sotto questo punto di vista, una unità granitica; la successione dei numeri musicali (a volte associati a gruppi) si affida infatti a una logica non evolutiva e finalistica ma paratattica, che – come d’altro canto tutto il teatro barocco – potrebbe essere considerata frammentaria. Tuttavia è grazie a questa particolare costruzione che il Messiah viene ad essere un polittico che proprio per le sue sfaccettature consente una lettura allegorica. Questa chiarezza e universalità nell’esposizione del contenuto sono all’origine della straordinaria fortuna storica del Messiah; si tratta di fattori che oggi interessano meno, intrinsecamente, ma contribuiscono a delineare la poliedricità dell’arte haendeliana, quale prepotentemente emerge dagli studi e dalle proposte più recenti.

Introdotto da una ouverture – un Grave con ritmi puntati alla francese seguito da un Allegro moderato con una fitta scrittura contrappuntistica – il Messiah si divide in tre parti, una prima che tratta dell’avvento, una seconda della redenzione, una terza che preannuncia il ritorno del Cristo.
Nella prima parte sono riconoscibili quattro distinti momenti. I primi numeri sono dedicati alle profezie che precedono la nascita del Redentore; abbiamo così un Accompagnato del tenore, seguito da un’aria dinamica e ricca di fioriture, poi il primo scorrevole coro And the glory of the Lord, il recitativo e l’aria del basso (o del contralto) But who may abide, che alterna un Larghetto a un Prestissimo, e il magnifico coro And He shall purify, dove si palesa già la maestria del trattamento corale: il tessuto è sempre contrappuntistico, ma a tratti le quattro voci si impegnano in un’armonia massiccia, diversificando plasticamente le proprie funzioni.
Seguono la sezione dedicata alla nascita del Redentore, il recitativo e la riflessiva aria del contralto O thou that tellest good tidings, con la ripresa corale, poi l’accompagnato e l’aria del basso The people that walked in darkness, che procede per efficaci unisoni, e il memorabile coro For unto us a Child is born, tratto da un duetto italiano a due voci sole, No, di voi non vo’ fidarmi, dove, rispetto all’originale, Haendel introduce l’invocazione massiccia «Wonderful, Counsellor». Le pagine successive sono dedicate alla notte della natività, con la Pifa orchestrale, i recitativi del soprano, il coro Glory to God, e la giubilante, virtuosistica aria del soprano Rejoice greatly. Le ultime pagine della prima parte – aria, o duetto di soprano e contralto, seguito dal coro His yoke is easy – sono dedicate alla pace per l’umanità.

Anche la seconda parte dell’ oratorio si può dividere in quattro grandi sezioni, prima delle quali è quella dedicata alla passione. Si apre con il mestissimo coro Behold the Lamb of God, e prosegue con l’aria del contralto He was despised, con quattro differenti cori (gli ultimi due appena separati da un recitativo), magistrali per il contrasto delle tecniche di scrittura. Segue la sezione dedicata alla morte: le arie del tenore e del soprano (o solo dell’uno o dell’altro, a seconda delle varie versioni della partitura) sono seguite dal coro Lift up your heads, dove la grandiosa scrittura omofonica viene variata dalle differenti distribuzioni vocali e poi si sviluppa in inseguimenti polifonici; tecnica ripresa per il seguente Let all the angels of God, che immette nella sezione dedicata alla resurrezione e all’ascensione. Qui troviamo ancora l’impegnativa aria del basso (o del contralto) Thou art gone up on high, il breve e incisivo coro The Lord gave the word, l’aria pastorale del soprano (o del contralto; o duetto con coro) How beautiful are the feet of them, e il coro (o recitativo) Their sound is gone out. Spetta all’aria del basso Why do the nations, vera rigenerazione dell’aria “di furore”, aprire l’ultima sezione, dedicata al trionfo del cristianesimo; vi figurano ancora il coro polifonico Let us break their bonds asunder e il recitativo ed aria del tenore Thou shalt break them, prima del celeberrimo Hallelujah, la pagina che, in qualche modo, è diventata il simbolo della stessa arte musicale di Haendel; l’idea di base alterna, nelle diverse combinazioni, una intonazione di giubilo di molte voci corali a un incisivo unisono che propone invocazioni varie; e la dinamica sempre rinnovata di questo contrasto è uno degli esempi preclari del trattamento plastico, rigoroso nella logica del discorso e fantasioso negli spessori sonori e nelle aggregazioni, cui Haendel sottopone la massa corale.

Neville Marriner

La terza parte dell’oratorio è assai più breve delle due precedenti, e costituisce una sorta di appendice. È la parte profetica sul ritorno di Cristo; si succedono l’aria meditativa del soprano, il coro omofonico e massiccio, l’aria del basso The trumpet shall sound – che, con la tromba solista, richiama molte arie di battaglia della carriera operistica del compositore – poi il duetto riflessivo fra contralto e tenore Oh death, where is thy sting?, un nuovo variato coro, e l’aria If God be for us.

Si arriva così all’ultima pagina dell’oratorio, che è un coro diviso in molteplici e contrastanti sezioni; abbiamo prima un Largo e un Andante che si alternano; poi un fugato in Larghetto dal soggetto ribattuto; infine il grandioso Amen, dove, come scrisse il musicografo Charles Burney, «il soggetto viene diviso, suddiviso, rovesciato, contornato da vari controsoggetti e sottoposto a varie soluzioni, tanto ingegnose quanto nascoste, di ordine melodico, armonico ed imitativo». Come dire che, se l’Hallelujah che chiudeva la seconda parte mirava a conquistare il pubblico con il grande gesto retorico dell’anthem, qui Haendel punta invece a una maestria meno appariscente ma più profonda, incarnazione altrettanto mirabile del poliedrico genio barocco.