Liszt Franz
A Faust Symphony
Chi già conosce la registrazione di Leonard Bernstein della poderosa “A Faust Symphony” edita dalla Deutsche Grammophon di Franz Liszt sa cosa aspettarsi da questo DVD. Questo concerto è stato registrato in diretta nella Boston Symphony Hall nel luglio 1976, con l’Orchestra Sinfonica di Boston e il tenore Kenneth Riegel. Durante tutta l’esecuzione Lenny ottiene risultati meravigliosi dall’Orchestra di Boston – focalizzati, intensi, dettagliati e trasparenti -evidenziando l’ispirazione romanica di Liszt alla perfezione. La sua interpretazione è leggermente più lenta rispetto ad altre esecuzioni, donando ai passaggi delicati e poetici una particolare attenzione, mentre è febbrile il lato demoniaco della musica. Bernstein è inoltre supremo nel mantenere omogeneità nei lunghi movimenti e giunge al finale in un culmine travolgente di potere e di luce. È Liszt in tutti i suoi eccessi, ma è anche Liszt che si pone tra Berlioz e Wagner, e preannuncia Mahler. Il tenore Kenneth Riegel canta in modo entusiasmante. La qualità dell’immagine è tipica del periodo, con colori piuttosto tenui. La qualità del suono (in stereo PCM o artificiale DTS 5.1) è corretta ma meno incisiva rispetto a quella del CD. Il regista Humphrey Burton offre un mix piacevole di Bernstein e dell’orchestra.
Per una prima interpretazione di uno dei più grandi ma raramente eseguiti lavori sinfonici del XIX secolo, da uno dei suoi più forti sostenitori, questo DVD è scelta privilegiata.
Sinfonia Faust
La Faust-Symphonie debuttò a Weimar nel 1857, in occasione dell’inaugurazione del monumento in bronzo dedicato a Goethe e a Schiller, ritratti uno accanto all’altro, in piedi, lo sguardo fisso in avanti. Era tenace, allora, la fiducia nel futuro. Lo stesso Liszt ne è il primo direttore. La vastissima Sinfonia si divide in quattro movimenti. I primi tre il compositore li definisce Charakterbilder. Ritratti psicologici, dedicati alla trinità inseparabile del romanzo di Goethe; nell’ordine: lui-lei-l’Altro. Faust, Margherita, Mefistofele (e che Altro, indubbiamente ingombrante e più interessato a lui che a lei). Questo il progetto originario, sul quale, durante i tre anni che separano la conclusione del lavoro di scrittura dalla prima esecuzione, si innesta la decisione di aggiungere, come pannello conclusivo, un Chorus mysticus. I quattro episodi hanno durata decrescente. L’opera è dedicata a Hector Berlioz: lui e Liszt sono stati e rimangono per il momento i compositori attratti con maggior passione dal demonio, dai suoi orizzonti e abissi, dal suo fascino. Lo stesso anno del debutto, Eduard Hanslick, massimo tra i critici tedeschi di allora, propone questo ritratto, non privo di ironia, della Faust-Symphonie e, allargando lo sguardo, del carattere prevalente nelle opere sinfoniche di Liszt:
“Il virtuoso più dotato del nostro tempo, stanco dei trionfi riportati grazie alla musica composta da altri, si è deciso a sorprendere il mondo con le sue proprie creazioni magistrali. Ha concepito, con un solo tratto di penna, nove sinfonie, o “poemi sinfonici”, come lui li chiama, facendoli comparire con degli speciali programmi esplicativi (e qui Hanslick li cita tutti e nove n.d.r.). … Se poi si aggiunge che attualmente sta lavorando a una traduzione musicale degli Ideali
di Schiller, della Divina Commedia di Dante, del Faust di Goethe e di altre simili bagatelle, bisogna riconoscere che le sue aspirazioni sono elevate. Immagina la sua musica capace di imitare, negli strumenti ad arco come in quelli a fiato, i fenomeni più potenti della mitologia e della storia, i pensieri più profondi dello spirito umano”.
Leonard Bernstein
Insomma, a Hanslick il genere non garbava troppo, e soprattutto non gli garbava Liszt. Era persuaso che il suo gigantismo orchestrale e progettuale celasse un certo deficit di vera ispirazione. Sarebbe stato d’accordo con Alfred Hitchcock quando dirà: “Vuoi fare un buon film? Parti da un cattivo romanzo. Altrimenti il confronto ti schiaccerà”. Ma un programma di sala che si rispetti deve nascondere le ombre ed esaltare le luci di un’opera, e dunque largo ai meriti di questa speciale Sinfonia, ricordando che Liszt – l’ammirazione reciproca con Berlioz nasce anche per questo motivo – è il compositore che consapevolmente inserisce nella sua poetica quanto i canoni dell’estetica classica giudicano eccessivo, troppo, oltre.
Faust, all’inizio. Un autoritratto? La sistole e la diastole, le opposte complementari pulsioni del battito cardiaco – contrazione, apertura – possono ben descrivere gli opposti “spiriti” dell’amplissimo quadro d’apertura. Il Lento assai del primo tema, l’Allegro agitato del secondo disegnano bene il complesso carattere del personaggio, giovane, inquieto, ambizioso, fragile: psicotico, diremmo noi oggi, smaliziati di psicanalisi e cinici. Se questa partitura piace ai musicisti, direttori, compositori, orchestrali, molto lo deve agli enigmi con cui inizia il cammino: le prolungate incertezze tonali, il senso di circolarità non di vettorialità che prevale, il progressivo addensarsi dell’orchestra, l’impazienza contraddetta, contrastata dal dubbio. L’anelito, la corsa, il ripensamento di Faust. Si pacificheranno mai i contrasti? Così promette il terzo tema, quel motivo discendente, perfino ipnotico, affidato agli oboi e ai clarinetti, poi esteso alla sezione degli archi, che sembra placare le angosce. Però non risolvono, non giungono a una meta, piuttosto si guardano attorno, increduli, come per sincerarsi che quella calma – la dolce forza dell’amore… – sia credibile. Non lo è, infatti.
Si delinea precisamente la drammaturgia sonora dell’ultima sezione del primo tempo del film sinfonico: la tempesta monta di nuovo, il respiro dell’orchestra si affretta, l’arpa emerge per un breve protagonismo, ma una wagneriana (o lisztiana?) montagna di suono è in agguato, si avvicina, riallontana, eccola di nuovo affrettare i suoi passi, ancora nascondersi. Si scaldano gli ottoni dell’orchestra, prima come macchie che incupiscono appena l’orizzonte, poi più presenti, incalzanti, ma non vincenti. E il movimento, con sovrana prova di maestria nell’orchestrare le idee, termina nel simultaneo apparire e confondersi di tutti i temi che lo hanno attraversato. Un finale aperto, che guarda già al personaggio successivo, Margherita. Eccola, trasfigurante, “soave” nel suo Andante. Angelica, ovviamente, in equilibrio tra archi e fiati, mentre la voce della sua anima è affidata all’oboe, in una melodia che Bellini avrebbe apprezzato: fatta di nulla, distesa nell’aria. L’orchestra si placa, si accarezza, racconta di lei, anche dei suoi ultimi dubbi amorosi, quando emerge la voce sinuosa del clarinetto. Che pensi a lui, Soave con amore, lo dice chiaramente la ricomparsa dei più miti tra i temi faustiani. Una calma senza tempo, ipnotica, dilaga e vince, fino alla fine. Margherita, ignara di quanto sta per abbattersi su questo abbandonato rève d’amour.
Ed eccolo, infine, il demone. Nel ritratto di Mefistofele Liszt si rivela eccellente anticipatore di un genere che nei secoli successivi sarebbe diventato potentissimo: quello della colonna sonora. Che pretende, anche, effetti descrittivi, visivi, come se in quel momento la musica si facesse ancella di immagini che però a quel tempo ancora non era possibile vedere. Liszt stabilisce qui i paradigmi di come debba apparire il “Diavolo in musica”, che rimarranno validi almeno fino a Fantasia di Walt Disney. Distorsioni, sberleffi,
sghignazzi tipici di una deformazione caricaturale: Allegro vivace, ironico è il carattere qui prescritto.
Boston Symphony Orchestra
L’idea geniale è l’assenza di temi che possano essere attribuiti al sommo tra i Demoni (delle sue genealogia e qualità è imprudente parlare qui, figurando tra gli Accademici di Santa Cecilia il più illustre tra i demonologi laici italiani, il professor Quirino Principe). Mefistofele è “lo spirito che tutto nega”: dunque, nulla gli appartiene, ma di tutto può impossessarsi e infatti il suo “quadro” è una metamorfosi-riappropriazione dei temi apparsi nella prima sezione della Sinfonia. Ma quando incontra il tema di Margherita, quello no, quello non può rubarlo: e infatti ritorna tale e quale. Intatto, intangibile.
Funambolica nella sezione dello “Scherzo”, libera nella scelta tonale fino ad avventurarsi nelle regioni dell’atonalità, la sezione mefistofelica è anche la più “danzante” dell’opera, come se Liszt – che di lavori per il teatro musicale ne ha abbozzati uno soltanto, da adolescente – avesse in mente una wagneriana opera d’arte totale, però tutta da immaginare, non sensibile, non realista, senza scene, senza costumi, senza teatro, se non quello possibile ad un’orchestra. La sua orchestra, visionaria e febbrile, capace di parlare non solo per sezioni, ma nel protagonismo dei singoli strumenti.
La Sinfonia si conclude con un Chorus mysticus, la sezione più breve. Soltanto ora intervengono il coro maschile e il tenore solista. L’esempio della Nona di Beethoven ha iniziato a dare i suoi frutti. Il testo è tratto, ovviamente, da Goethe: analoga scelta compirà, molti anni dopo, Gustav Mahler nei passaggi conclusivi della più irrisolta, e meno mahleriana, tra le sue Sinfonie, l’Ottava, la Sinfonia dei Mille.
“Tutto ciò che passa, è soltanto un simbolo (Gleichnis)”: esordisce così il coro, mormorando. Risponde il tenore solo: Das Ewig-Weibliche /zieht uns hinan, l’eterno femminile ci attira verso l’alto. Il suo è un canto di grazia, lontano da ogni affermazione stentorea. La voce si espande con interiore dolcezza, con trasfigurata luminosità, ricordando il simile passo degli archi ascoltato all’inizio del percorso e poi “visto”, sentito da Margherita. La fine come l’inizio, l’inizio come la fine, o quasi: perché spetta al coro il sigillo definitivo dell’opera, accompagnato dall’abbraccio imponente dell’organo. Mistico e spettacolare. Liszt.