Liszt Franz
Le grandi trascrizioni
Le trascrizioni e le parafrasi hanno giocato un ruolo speciale nella vita professionale di Liszt. Diversamente da altri pianisti del suo tempo, non ha mai visto le trascrizioni come uno strumento per mostrate le abilità virtuosistiche. Liszt ha trascritto lavori di altri per promuovere la musica di quei compositori poco conosciuti dal pubblico. Nelle trascrizioni d’opera è riuscito a descrivere i personaggi e le idee nella loro complessità basandosi su piccoli frammenti delle opere. I lavori di Liszt contengono un numero sconvolgente di trascrizioni di opere al pianoforte di altri compositori. Alcune di queste sono fedeli all’originale, per esempio, le Sinfonie di Beethoven e di Schubert.
Altre sono più rapsodiche, prendendo temi qui e là da opere più ampie e trattandoli più liberamente come il Rigoletto di Verdi. Tutte le rappresentazioni contenute in questi due CD sono drammatiche e passionali, traboccanti di atmosfera teatrale. Questo è uno dei CD di Liszt che preferisco e se vi piacciono esecuzioni coinvolgenti sono sicuro che non rimarrete delusi. Registrazioni eseguite dal1972 al 1997 e rimasterizzazione effettuata nel 1997. Audio ottimo. Altamente raccomandato.
Claudio Arrau
Le grandi trascrizioni – Roberto Favaro
Nell’accostarsi alle trascrizioni elaborate da Franz Liszt per pianoforte, e tratte da melodie celebri di Gounod, Ciaikovskij, Meyerbeer, Wagner, Schumann, Bellini, Verdi e altri, occorre fare una premessa. Esiste infatti una prassi compositiva nell’Ottocento romantico che lega saldamente la propria esistenza a determinate richieste – per non dire necessità – di consumo, di diffusione, di studio, di esibizione musicali. La trascrizione, cioè la riscrittura di una data musica per uno strumento – o un mezzo folico – diverso da quello cui essa era in origine destinata, rientra pienamente in questo quadro di attività musicali. Nell’Ottocento la pratica trascrittiva copre, con gradazioni e livelli artistici naturalmente differenti, queste molteplici funzioni: la trascrizione per pianoforte dell’ampio repertorio sinfonico o operistico, presente o passato, è uno dei veicoli principali proprio per la diffusione di tanta musica da parte della borghesia, economica o colta, del secolo romantico.
Il pianoforte è non a caso lo strumento simbolo di quell’epoca, perfino al di là della sua stessa natura sonora, come vero e proprio modello di educazione o di appartenenza sociale, elemento imprescindibile del mobilio domestico, con forme e misure correlate al rango del padrone di casa. Sulla sua tastiera nascono i grandi capolavori concertistici ma anche i materiali sonori meno mobili e destinati ad un intrattenimento più leggero. È l’hobby di tanti uomini e donne, è lo studio di vaste schiere di fanciulle e fanciulli, è l’accompagnamento – la colonna sonora, verrebbe da dire – dei momenti intimi e di quelli della socialità. L’opera d’arte, come direbbe Walter Benjamin, non è ancora nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Non esistono il disco ne la diffusione radiofonica. L’uomo dell’Ottocento ha però questo affascinante strumento a disposizione di cui la trascrizione è il veicolo in grado di riportare proporzioni, rapporti tra voci e famiglie di strumenti e timbri pensati in origine per altra fonte sonora.
Questa premessa era indispensabile, perché colloca una pratica compositiva nel contesto socio-culturale che le appartiene, che l’ha promossa e resa fatto simbolico di un’epoca. Salvo ora precisare le sfumature, le differenze, i livelli artistici impliciti. Trovare insomma il posto e il ruolo occupato da Liszt. Perché se è vero che la trascrizione asseconda infine un bisogno collettivo, è naturale che la risposta abbia avuto gradazioni qualitative diverse. Per esempio di semplificazione dell’originale, per consentire l’esecuzione di una pagina complessa anche al dilettante impacciato; oppure di spunto per elaborare una nuova, originale composizione. Tanti grandi compositori ottocenteschi vi si sono dedicati, ma uno su tutti emerge per la quantità e la qualità delle sue trascrizioni.
Franz Liszt, appunto. Il quale a sua volta concepisce la trascrizione almeno in due diverse direzioni. Innanzitutto in quella della diretta riproduzione sulla tastiera di una composizione esistente: è il caso del liebeslied (Widmung) di Schumann, trascritto nel 1848 e qui proposto. In secondo luogo nella direzione della ripresa di un tema noto per trarne una composizione originale. A questo secondo gruppo appartengono le altre trascrizioni qui proposte da chiamare allora più correttamente “parafrasi” o, come le indicava lo stesso Liszt, “reminiscenze” o “fantasie”.
E particolarmente celebri oltre che affascinanti sono le trascrizioni-parafrasi tratte da alcune fra le opere liriche più belle del 19o secolo. Queste trascrizioni si distribuiscono lungo tutta la vita di Liszt, dal 1841 delle Reminiscenze dalla Norma di Bellini, al 1882 della Marcia festiva dal Parsifal di Wagner, passando per l’Illustrazione n. 2 dal Profeta di Meyerbeer (1849), l’Ernani (1849), il Trovatore e il Rigoletto (1859), il Don Carlos (1867-68), l’Aida (1871) di Verdi, o ancora il Coro delle filatrici dall’Olandese volante (1860) e la Processione nuziale di Elsa dal Lohengrin di Wagner (1852) ed infine la Polonaise dall’ Evgenij Onegin di Ciaikovskij (1880).
Michele Campanella
In tutti i casi l’ascoltatore troverà la matrice inconfondibile dell’azione trascrittiva e soprattutto rielaborativa di Liszt: che significa naturalmente virtuosismo, cioè spiccata elaborazione delle acrobazie esecutive, portate ai massimi livelli, ma poi soprattutto prospettive timbriche, armoniche e formali nuove, plasmate e fatte nascere con tecnica compositiva insuperabile dagli altrettanto magnifici modelli originali. La struttura che ne nasce è infatti quella di una composizione nuova, spesso di nuove ipotesi e prospettive poetiche avanzate.
Ma il fascino di queste pagine sta allora proprio nell’essere dei luoghi semantici dalle infinite, possibili rifrazioni. Perché se da un lato le parafrasi pongono all’ascoltatore, anche a quello di oggi, problematiche di tipo tecnico elaborativo, dall’altro assolvono in pieno anche ai diversi, molteplici compiti richiesti dalla società ottocentesca. Compiti pedagogici e culturali, ricreativi e spettacolari, pienamente assecondati, con la riproduzione nella miniatura della home borghese o nella magnificenza delle sale da concerto della straripante articolazione del melodramma. Così la stessa storia dell’opera, le stesse trame, le stesse evocazioni tematiche verdiane, wagneriane, ciaikovskiane, belliniane, schumanniane, ecc., portano con sé la loro storia, che da allora e fino a noi si è andata stratificando, è penetrata nel nostro sentire comune, nel nostro lessico di ascolto e di educazione, intrecciandosi qui con le idee, le storie, le suggestioni immaginate da Liszt.
Questi piccoli gioielli pianistici sono allora dei contenitori culturali tutti da scoprire, ancora oggi, o tutti da leggere e rileggere, come dei romanzi ottocenteschi, che forse più e meglio dei libri di storia, o comunque con maggiore nostro godimento, ci raccontano e ci fanno immaginare quei mondi, quei salotti, quelle sale, quell’umanità complessa e anche problematica che è stata la borghesia dell’Ottocento. Ma allora, per chiudere, lo stesso virtuosismo, categoria quanto mai lisztiana, deve far pensare alle prospettive, alle proiezioni in avanti, alle conseguenze che una nuova gestualità avranno, anche a partire da questa pratica trascrittiva, sulle generazioni future, su compositori che anche proprio da Liszt recepiranno segnali e stimoli compositivi fondamentali.