Mahler Gustav

Sinfonia n. 10 in fa diesis maggiore

Gustav Mahler ha iniziato la composizione della sua decima sinfonia senza arrivare a completarla. Se proprio volete ascoltare come (forse) potrebbe essere riuscita, allora questa è la prima scelta.
Infatti molti autorevoli interpreti di Mahler (Bernstein, Kubelik, Karajan) non hanno voluto eseguire questa sinfonia (completata da Cooke) se non il solo Adagio: l’unico movimento interamente scritto dal compositore boemo.
Simon Rattle è interprete sensibile e analitico, i Berliner Philharmoniker difficilmente insuperabili ed i tecnici del suono hanno svolto un ottimo lavoro. Altamente consigliato.

La composizione della Decima sinfonia, destinata a rimanere incompiuta, e pertanto a rappresentare l’interruzione, più che la conclusione, dell’esperienza creativa di Gustav Mahler, prese l’avvio nell’estate del 1910, a Toblach (l’attuale Dobbiaco in provincia di Bolzano). Al suo lavoro di compositore Mahler era infatti solito dedicare le vacanze estive, unico periodo dell’anno che lo vedesse completamente libero dagli impegni di una intensissima attività di direttore d’orchestra. Negli anni della sua reggenza artistica e organizzativa dell’Opera di Vienna il buen retiro di Mahler era stata la villa di Maiernigg, in Carinzia, sulle rive del Worthersee: fra il 1901 e il 1906, Mahler aveva trascorso qui le sue estati più felici, insieme con la moglie Alma Schindler e le due figlie; una casupola nascosta nel bosco, impenetrabile a chiunque, aveva veduto nascere i grandi capolavori della maturità: la triade delle Sinfonie «di mezzo».(Quinta, Sesta e Settima, puramente strumentali), i Kinderiotenlìeder, i Rückert-Lieder. Una consuetudine regolata da metodici ritmi di vita e di lavoro, bruscamente interrotta nel luglio 1907, subito dopo che Mahler aveva terminato la composizione dell’Ottava, dalla morte a cinque anni di Maria Anna, la primogenita. Mahler e Alma, sconvolti, fuggirono da Maiernigg: la triste estate fu conclusa a Schluderbach, in Tirolo, dove Mahler intraprese la composizione del Canto della terra (Das Lied von der Erde). Quell’estate 1907 segnò una svolta netta nella vita di Mahler: al dramma familiare si sommarono le dimissioni, dopo meschine polemiche, dall’Opera di Vienna, conclusione infelice dì un decennio veramente storico, e la prima diagnosi della grave malattia cardiaca del compositore. Questi eventi segnarono l’inizio di una nuova fase, l’ultima della vita di Mahler: quattro anni scarsi, che lo videro toccare a un tempo i vertici della sua creatività, con il Canto della terra (1907-08), la Nona sinfonia (1909-10) e l’incompiuta Decima, e le più gravi crisi interiori: ottenere i maggiori successi internazionali come direttore d’orchestra (con le due stagioni al Metropolitan e le tre alla testa della Filarmonica di New York), esser consacrato, con la prima monacense (nel settembre 1910) dell’Ottava sinfonia, interprete fra i massimi della civiltà spirituale germanica, e insieme affrontare pesanti delusioni spirituali.

Chiuso l’appartamento viennese, venduta la villa di Maiernigg popolata di memorie funeste, i poli dell’esistenza di Mahler furono in questi anni New York e Dobbiaco, con lo chalet riservato alla volontaria clausura creativa. Qui, nell’ultima estate di Mahler, cominciò a prender forma la Decima: gestazione resa faticosa dal precipitare della crisi umana del musicista, che giunse fino a farsi analizzare da Sigmund Freud. Il matrimonio dei Mahler stava attraversando una fase difficilissima: i problemi creati dalla differenza d’età fra i due coniugi si erano complicati, dopo la tragedia del 1907, anche su un piano più intimo: è Alma stessa a narrarci, con silenzi abbastanza significativi su alcune circostanze, della corte assidua che in quei mesi le era rivolta da un giovane artista (« X… », lo chiama lei: ed era Oskar Kokoschka, con il quale dopo la morte di Mahler ella avrebbe stretto una tempestosa relazione), e della sofferenza che ne derivò per il compositore. Il tutto era acuito dai presentimenti di morte — e i fatti li avrebbero pochi mesi dopo giustificati — che ossessionavano Mahler dopo la scoperta della malattia di cuore: in questa luce dev’essere giudicato l’apparente cedimento alla superstizione che aveva spinto Mahler a non contare Il canto della terra fra le sue Sinfonie, convinto com’era dopo gli esempi di Beethoven e Bruckner, che una «Nona» non avrebbe potuto che essere l’ultima; e così fu, che in questa psicotica partita a scacchi, Mahler non riuscì a truffare la morte che per una sola mossa.

Maria Anna Mahler

La quarta estate, quella che avrebbe potuto veder completata la Decima sinfonia, non venne mai: dopo il trionfo dell’Ottava ci fu la massacrante tournée americana dell’inverno 1910-11, interrotta al quarantottesimo concerto diretto in meno di tre mesi; il 22 febbraio il fisico di Mahler cedette, e cominciò la lunga e vana lotta contro la morte, che sarebbe giunta in maggio dopo un penoso calvario da una clinica all’altra.
Della Decima non rimase quindi altro che quanto Mahler era riuscito a buttar giù fra il luglio e il settembre 1910: l’Adagio, unico movimento portato a termine, un Allegretto moderato, intitolato Purgatorio (oder Inferno), incompleto nella strumentazione, e una grande quantità di abbozzi per altri tre movimenti. Su questo materiale, il musicologo inglese Deryck Cooke ha tentato una sua ricostruzione della Decima, molto discussa, e comunque non attendibile: non solo per quanto riguarda la realizzazione dei movimenti lasciati da Mahler allo stato di abbozzo, la strumentazione e altri problemi specifici, ma anche per l’assetto complessivo dell’opera, essendo le intenzioni di Mahler a questo proposito documentate tutt’altro che chiaramente; del resto il lavoro del compositore fu interrotto troppo presto perché si possano legittimamente prendere per definitive le soluzioni da lui adottate, tanto più che il modus operandi di Mahler era caratterizzato da ripensamenti continui, e ripetute modifiche all’ordine di successione dei vari tempi delle sue composizioni. Sicché la vera immagine della Decima è quella che la presenta limitata a un unico movimento, questo Andante-Adagio, o tutt’al più al dittico composto dall’Adagio stesso e dall’Allegretto nella strumentazione curata da Ernest Krenek, marito di Anna, secondogenita di Mahler.

Stando a quanto si evince dai manoscritti mahleriani, la Decima, al pari della Settima, avrebbe dovuto constare di cinque movimenti: l’Adagio (più esattamente Andante-adagio), un primo Scherzo, il Purgatorio, un altro Scherzo, un vasto Finale in tempo lento con una sezione centrale Allegro moderato. Ancor più arduo, vista la scarsa affidabilità della ricostruzione di Cooke, è immaginarsi cosa avrebbe potuto essere la Decima per quanto riguarda il «programma interiore», che come nelle altre Sinfonie avrebbe dovuto determinarne la fisionomia senza comparire pubblicamente. I manoscritti recano drammatiche annotazioni, difficilmente interpretabili perché con tutta probabilità collegate alla vicenda privata di Mahler: «Tod! Verk!» («Morte! Trasf[igurazione]!») a pag. 4 del Purgatorio, e più sotto «Erbarmen! O Gott! O Gotti Warum hast du mich verlassen!»; nel quarto tempo (il frontespizio reca anche «I Scherzo» e «I Tempo») «Der Teufel tanzt es mit mir» («Il Diavolo lo danza con me), «Wahnsinn, fass mich an, Verfluchten! Vernichte mich dass ich vergesse, dass ich bin, dass ich aufhöre zu sein, dass ich ver…» («Follia, afferrami, me maledetto! Distruggimi, che io dimentichi che sono, che io finisca di essere, che io…» e verso la fine «Du alìein weisst was es bedeutet, Ach! Ach! Ach! Leb wol metti Saitenspiel! Leb wol, Leb wol, Ach wol! Ach! Ach!» (« Solo tu sai che cosa significa! Ah! Ah! Ah! Addio mie corde! Addio! Addio! Ah, Addio Ah! Ah!»); nel Finale, per due volte, «Für dich leben, für dich sterben! Almschi!» («Vivere per te, morire per te! Almschi!»). Più che allusioni autobiografico-coniugali e riferimenti danteschi (nelle intenzioni di Mahler la Sinfonia avrebbe dovuto recare un titolo, forse Dante o Inferno), il progetto della Decima non sa offrire, a chi tenti di individuarne l’assunto complessivo: resta, grosso modo, l’idea che con essa Mahler si sarebbe attenuto alla poesia assoluta della sola composizione strumentale, come aveva fatto nelle Sinfonie posteriori alla Quarta, salva la ricaduta non sempre felicissima dell’ambiziosa e colossale Ottava, e la deviazione sublime del Canto della terra.

Quanto all’Andante-Adagio che solo è rimasto a rappresentarla, salve le sporadiche esecuzioni della versione Cooke e quelle in cui esso è abbinato al Purgatorio, non c’è molto altro da dire se non che si tratta di una pagina fra le più alte di Mahler, ferma restando la difficoltà di astrarre un singolo movimento sinfonico dall’ampio contesto musicale e metafisicamente drammaturgico delle composizioni mahleriane. E per accorgersene non c’è sicuramente bisogno di cedere all’indubbia suggestione che spira da ogni grande progetto artistico incompiuto, né di ripetere scontate riflessioni sulla crisi estetica e sociologica che, certo non casualmente, ebbe a coincidere storicamente con l’esperienza creativa mahleriana — e specialmente con i suoi momenti ultimi —; tanto più ghiotte nel caso di un’opera rimasta interrotta pochi anni prima della dissoluzione dell’Impero austro-ungarico, manco a impedire a Mahler di portarla a termine fosse stata la grande guerra — del resto non imminente — e non l’endocardite da streptococcus viridans.

Certamente la trasfigurata invenzione melodica — dipanata sul filo della variazione perpetua secondo la lezione dell’ultimo Beethoven — che percorre l’Adagio, con il ricordo scoperto, ma sottilmente venato di dubbi e inquietudini, della purissima cantabilità dell’Adagietto della Quinta, e la prosecuzione di quella «psicologia dell’Adagio» tanto altamente manifestata nei due movimenti estremi della Nona, inducono irresistibilmente alla tentazione di fare di questo torso mùtilo un estremo epicedio alla grande Sinfonia viennese, divenuta moderna con l’Eroica di Beethoven e resa «inattuale» dalle grandi esperienze mahleriane. Certamente un atteggiamento sarcastico come quello che informa il secondo tema dell’Adagio, anche se più metafisico che graffiante, ci ripropone un Mahler cosciente rivelatore di quella crisi artistica e culturale, o comunque mancanza di certezze, che irrimediabilmente minò i cruciali primi anni del nostro secolo.

Simon Rattle

Certamente le non celate reminiscenze tristaniane del tema di base, affidato in apertura alle viole sole, ci appaiono come una impressionante sottolineatura della presenza, già in un periodo assai precedente, di sottili veleni decadentistici. Così, guardando le cose dalla parte opposta, quella che guarda verso il futuro, l’Adagio della Decima si mostra arditamente profetico di tante esperienze novecentesche: nella sua allucinata poesia di timbri, nelle sue laceranti tensioni armoniche, nella violenza pre-espressionista del drammatico episodio che a circa due terzi del brano aggrega in un catastrofico fortissimo nove suoni diversi, nella estremizzata polifonicità di un discorso compositivo che sembra voler assegnare un ruolo solistico a ogni strumento della grande compagine orchestrale (flauti, oboi, clarinetti e fagotti a tre, quattro corni, quattro trombe, tre tromboni e tuba, arpa e archi). Ma non è poi tanto scontato che la prima cura di Mahler, nel concepire questa e le altre Sinfonie, fosse quella di fare il funerale del passato, di mettere in crisi il presente e di inventare il futuro, e meno ancora, forse, erano nelle sue previsioni i fiumi di parole e le elucubrazioni filosofiche onde tante esegesi affliggono trucemente l’opera sua.
Sicché forse il modo migliore di prepararsi all’ascolto dell’Adagio della Decima è quello di tener presente che esso consiste in uno sterminato processo di variazioni di un unico gruppo motivico, quello esposto in tempo Andante dalle sole viole in apertura, che cita — più o meno deliberatamente — qualche frammento della melopea del corno inglese nel terz’atto del Tristano; che da questo nascono due temi principali, uno gonfio di espressiva cantabilità, esposto per la prima volta dai violini, l’altro caratterizzato dai pizzicati dell’accompagnamento come stilizzazione stravolta e metafisica di modi di canzonetta; che in una meditata disposizione degli accadimenti musicali il motivo delle viole giunge sovente a interrompere il flusso — una «melodia infinita» in senso ancora più spinto che in Wagner — delle distese proposizioni cantabili; che l’episodio grandioso e impressionante cui si accennava dianzi, e dove la disposizione strumentale realizza una sonorità come di organo gigantesco, smorzandosi bruscamente a lasciare scoperto il grido lancinante della prima tromba, annuncia una sorta di ripresa dei due temi dell’Adagio, prima del respiro immenso e trasfigurato della coda che chiude — o interrompe — il brano in una sospensione gravida di significati inespressi.