Mahler Gustav

Sinfonia n. 8 in mi bemolle maggiore

“Sinfonia dei Mille”

Sono sicuro, o è una mia sensazione, che l’Ottava Sinfonia di Mahler sia eseguita al meglio con compostezza e raccoglimento da parte del conduttore, come in questo caso con il maestro Claudio Abbado. Mi spiego meglio, si tratta di un’esibizione dell’Ottava di Mahler che, almeno per me, sembra essere esattamente come dovrebbe: riflessiva e contemplativa, ma allo stesso tempo festosa. Un naturale riflusso della marea musicale. L’Ottava di Mahler si dispiega come un evento naturale. Credo che il suono registrato aggiunga qualcosa all’atmosfera di quest’esibizione, come se fosse un po’ esile, con strumenti che sembrano in qualche modo velati e leggermente distanti. Il risultato è una certa “delicatezza” dell’orchestra, ma tutto sommato il risultato finale è naturale. Allo stesso tempo, alcuni passaggi che sembrano essere ideati per un’orchestra da camera vengono resi in maniera delicata e dolce, anche con l’aiuto, ovviamente, della sensibilità di Claudio Abbado, quasi lirica. I cori si uniscono all’orchestra nel modo più naturale possibile, come se fosse la cosa più normale del mondo. Il maestro Abbado sa quali siano le differenze tra “p” “pp” e “ppp” (e anche “pppp?”), quindi nelle sue mani questa musica non sembra essere solo un’onda prorompente di forte e fortissimo come per altri conduttori. In una sola parola: adorabile. Tutto cattura la mia attenzione, come gran parte delle opere di Mahler condotte da Abbado, dall’inizio alla fine, ma soprattutto la meravigliosa concentrazione drammatica che riesce a mantenere Claudio Abbado, evidente in special modo nella II parte. Prendete per esempio la silenziosa intensità che il finale Coro Mistico e l’orchestra mantengono per due minuti e mezzo, intensità che solo dopo diventa più forte fino a costruire un energico epilogo. È sorprendente quanto sia differente dall’ispirazione di Berlioz che ha realizzato un epilogo molto cauto della sua La Damnation de Faust: più simile alla “Mater Gloriosa swebt einher” di Mahler…

Vorrei semplicemente attirare la vostra attenzione (dato che l’adoro) sulla dolce intensità di fraseggio quando Mater Gloriosa “si impenna”: è incredibilmente bella la sensibilità di Claudio Abbado, che rende la maggior parte delle piccole pause e degli effetti musicali belli senza mai farli diventare “sentimentali”. Assolutamente stupefacente!

Il canto non potrebbe essere migliore, secondo me. I cori sono tutti maestosi, ma allo stesso tempo chiari e possiedono un’articolazione nitida. E quanto è adorabile, sfacciatamente giovanile il Tölzer Knabenchor! Trasmette la sicurezza di sé di quelli che non sono mai stati tentati dalle prove della vita sulla terra, ma di chi risiede con gli angeli e alla luce del Creatore 😉 Non è sbagliata la dizione: (quasi) tutti i cori parlano tedesco, il che per me rappresenta una distrazione in molte registrazioni. E dopo Doctor Marianus di Peter Seiffert (sul quale si concentra il mio apprezzamento per qualsiasi sua sinfonia): adoro la sua voce e l’interpretazione del suo ruolo. La bellezza di Seiffert, direi quasi lirica, contiene, credo, la quantità giusta di struggimento e bramosia, e allo stesso tempo la necessaria impellenza…è così dolce! (come la Mater Gloriosa di Andrea Rost). Beh, per il resto, questo cast stellato è ovviamente quasi perfetto… mi chiedo come una bellissima esibizione eseguita da artisti meravigliosi possa essere questione di gusti: come si fa a dare a questa esibizione meno di “quattro stelle”? Vi potrebbe piacere un approccio differente a questa musica sbalorditiva (prendete Solti o Rattle), ma questa registrazione rimane una delle migliori.

Registrazione live effettuata nel 1985. Audio ottimo ma leggermente distante. Imperdibile!

Mahler: Ottava Sinfonia – di Ernesto Napolitano

Siamo nel giugno 1906, Mahler è nella sua residenza estiva di Maiernigg per perfezionare la strutturazione della Settima. È invece investito, stando alle sue parole, dallo Spirito Creatore ed inizia a lavorare all’Ottava in uno stato di esaltazione tale da dargli l’impressione che la nuova opera non nasca da lui ma che gli “venga dettata” dall’alto.
Nascono due diversi schemi preparatori, ambedue aperti dall’inno medioevale Veni, creator spiritus. Ben presto l’idea si completa con l’intenzione di musicare quale seconda parte della Sinfonia l’ultima scena del Faust di Goethe.
Due testi, dunque, lontani quasi un millennio nel tempo, apparentemente incompatibili, ma in realtà legati, come Mahler intuisce, da precisi luoghi teologici.

Claudio Abbado

Il concetto di grazia (“Imple superna gratia”), l’aspirazione all’amore (“Infunde amorem cordibus”), l’idea d’una illuminazione divina (“Accende lumen sensibus”), esaltati nell’inno pentecostale attribuito a Rabano Mauro, tornano in altra veste nella lettura che Mahler dà della scena conclusiva del Faust. E dall’altra parte una profonda unità spirituale si costruisce fra le due parti attraverso mezzi puramente musicali: sorta di Leitmotive e di significative formulazioni tematiche s’intrecciano attraversando tutta la composizione, e costituendo anzi un’impressionante esegesi dei due testi.
Il dato fondamentale del Veni, creator risiede nell’integrazione della polifonia a
carattere religioso, di ascendenza qui barocca, con la forma-sonata. Ove l’esposizione terminerebbe, dopo l’interludio orchestrale di disperata gaiezza, successivamente all’intonazione, di carattere straordinariamente “malato”, dell'” Infirma nostri corporis”, e lo sviluppo si concluderebbe con la bellicosa parte in contrappunto avviata dalla doppia fuga del “Ductore praevio te”.
L’intero movimento è consegnato ad un ritmo di marcia che contrasta con l’effetto statico dovuto al permanere dell’armonia sempre nell’area di mi bemolle maggiore, infranta però già nel preludio orchestrale che avvia lo sviluppo, uno straordinario passaggio in cui il materiale motivico viene letteralmente disgregato, tanto da far pensare più ad un processo di distruzione che di creazione; e una seconda volta poi, clamorosamente nell’autentico colpo di scena che accoglie l'”Accende lumen sensibus”, con un andamento che diverrà sempre più determinato, quasi minaccioso.
È il tema che più frequentemente tornerà nella seconda parte, con l’idea che maggiormente sta a cuore a Mahler, quella dell’illuminazione divina e quindi dell’amore.
Tanto il primo movimento appare serrato e può far pensare ad una Sinfonia con voci e coro, quanto la seconda parte rinvia ad una serrata forma teatrale, scenico-drammatica. Dove la molteplicità delle soluzioni stilistiche mette assieme il brano strumentale, il corale, l’opera romantica, la cantata, l’oratorio e il lied sinfonico. Dopo l’estesa introduzione strumentale (fra i momenti più affascinanti dell’intero lavoro) che disegna il silenzioso scenario di rupi e di santi anacoreti distribuiti su per il monte immaginato da Goethe, il coro apre l’immensa pagina con indicibile senso di mistero e con il fervore di semplici incastri delle voci.
Prendono la parola il Pater ecstaticus, con appassionata sofferenza, ed il Pater profundus, secondo un canto irto di salti ascendenti, segnato da un cromatismo singolare in quest’opera sostanzialmente diatonica, ed assai vicino ad una temperie espressionista.

Nel primo coro degli Angeli, su cui si aprirebbe una ideale seconda parte di questo movimento, è indicata la chiave della salvezza: “Colui che insonne lotta per ascendere, / noi lo possiamo redimere”. La redenzione di Faust è dunque nel suo Streben, nell’irrefrenabile tensione vitale. Mahler tuttavia non dà alcun risalto musicale a queste parole, ignorando così quello che per Goethe è il coronamento della vicenda di Faust.
Il coro degli Angeli novizii che si apre con “Jene Rosen aus den Handen” contiene probabilmente il tema più infantile che Mahler abbia mai concepito, quasi una regressione ad una semplicità narcisistica. Mentre il coro degli Angeli compiuti, che parlano di un residuo terreno, riprende il tema dell'” Infirma nostri corporis”, accomunando i due passi sul motivo della materialità che impedisce una piena disponibilità alla grazia.
L’ingresso del personaggio centrale del Doctor Marianus, a chiusura d’una possibile seconda parte, è preceduto dal coro dei Fanciulli beati che possiede accenti non lontani dal clima del Wunderhorn, con il suo sapore di allegrezza ingenua e visionaria. Ma la loro innocenza è troppo inconsapevole per valere quale via all’amore supremo, ed essi mostrano sul volto della beatitudine una sorta di enigmatico sorriso.

Gustav Mahler

Nel Doctor Marianus si personifica il “soggetto etico” del pensiero di Goethe, il quale ne fa il personaggio più vicino, nella sua visione estatica, alla contemplazione della felicità celeste. Mahler tuttavia lo tratta come una sorta di esaltato tenore amoroso, di provenienza dichiaratamente operistica e primo- wagneriana. Il suo tema d’amore, che svolge un ruolo fondamentale nel finale, è interamente ripreso dai violini nel momento in cui si avvicina la Mater gloriosa, in una tenue atmosfera disegnata dagli arpeggi delle arpe e dagli accordi tenuti dell’harmonium. A lei, “intatta e intangibile”, si rivolge con candido fervore un coro maschile, nella tonalità celestiale di mi maggiore.
In questa si nasconderebbe il simbolismo di ciò che è inattingibile, mentre il mi bemolle maggiore rappresenterebbe quanto può essere raggiunto. A lei rendono omaggio le tre Penitenti, che dopo aver cantato da sole in una soave leggerezza di accenti, si uniscono in una mozartiana innocenza seguendo un itinerario d’imitazione in canone da cantare “come un bisbiglio”. Un’altra Penitente, “chiamata un tempo Gretchen”, canta con disarmante pudore sul tema della Mater gloriosa il suo dolcissimo “Neige, neige” (“Deh, posa”). Si contempla così un’altra delle idee fondamentali del finale goethiano: il crescere ed il divenire, attraverso gesti di mutuo soccorso, in una sorta di moto a spirale. Ma anche a questa concezione Mahler sembra rimanere estraneo.
La Mater gloriosa si rivolge all’ultima Penitente sul proprio tema dell’arpa e ai flauti, ma sulla tonalità di Gretchen, mi bemolle maggiore: il tutto in un brillio ammantato di lustrini.

Siamo, dopo l’ultimo intervento del Doctor Marianus, alle soglie del conclusivo coro mistico. È qui l’orchestra fa ascoltare la pagina fosse più stupefacente dell’opera: una singolarissima musica delle sfere, in cui harmonium, arpe, celesta, pianoforte, ottavino generano un timbro che suona come un’eco vitrosa di glassharmonica.
Una pagina immobile. Mahler pensava ad un “risuonare e vibrare dell’universo”, ma qui non vi sono né pianeti né soli che ruotano: tutto prelude invece, con grande senso di teatralità, alla rivelazione carica di mistero, solenne ed intraducibile, del Chorus mysticus, che fa il suo ingresso in pianissimo. Questo interludio ce ne dà il senso assai più dell’immensa apoteosi che segue, dove autentiche ondate di sonorità sembrerebbero sommergere tutto. Ma è un brano di musica composta con precisi intenti simbolici. È ciò che resta, fra altri temi ignorati, del Paradiso immaginato in modi estetico-formali da Goethe. Vi si agita ancora, per l’ultima volta, il tentativo di ribadire all’estremo il desiderio di totalità, l’idea dell’amore come spirito generatore che pervade tutta l’opera. Il tema dell'”Accende lumen sensibus” ricompare, mentre trombe e tromboni fuori scena ripropongono, secondo un titanico intento di ciclicità, la trionfale esaltazione del Veni, creator.

È quasi inconcepibile che si possa ascoltare l’ottava sinfonia di Mahler nei confini della propria casa. La casa discografica Decca ha investito molte risorse nel mettere insieme quello che può essere descritto come uno dei risultati più straordinari nella storia della musica registrata.
La Chicago Symphony Orchestra, con una sezione di fiati portentosa, appropriata per quest’impresa, fu trasferita a Vienna per unire le forze con tre cori eccezionali (il Coro dell’Opera di Stato di Vienna, il Singverein di Vienna e il Coro dei ragazzi di Vienna ) in una sede di registrazione molto più adatta alle grandi forze di quella che sarebbe stata disponibile a Chicago (la Sofiensaal di Vienna dove fu registrato anche il famosissimo “ Ring” wagneriano) e dove c’era un organo di gran lunga migliore per catturare l’apertura con tutta la sua magnificenza. Inoltre, tutti gli otto solisti sono di prim’ordine. Potente e mistico il finale. Non ripeterò ciò che tanti altri hanno detto riguardo al suono. Secondo me è un miracolo. Imperdibile!

Registrazione eseguita nel 1972 e rimasterizzazione effettuta nel 1985.

Sinfonia n. 8 in mi bemolle maggiore “Sinfonia dei Mille”
«Ho appena finito la mia Ottava. È la cosa più grande che io abbia fatto finora. È così fuori dal comune nel contenuto e nella forma che non è possibile scriverne. Provate a immaginare che l’universo cominci a produrre musica e a
risuonare. Non sono più voci umane, ma, pianeti e soli che ruotano». Con queste parole, indirizzate al direttore d’orchestra Willem Mengelberg in una lettera dell’estate 1906, Gustav Mahler annuncia la nascita della sua nuova sinfonia. E qualche tempo dopo, all’amico Richard Specht: «È un dono alla Nazione […]. Le altre mie opere sono tragiche e soggettive. Questa è una immensa dispensatrice di gioia». Nell’economia della produzione sinfonica mahleriana, l’Ottava getterebbe dunque un fascio di luce radiosa in un regno popolato da ombre inquietanti, rappresentando un esperienza isolata, tutt’al più ricollegabile con l’anelito alla redenzione della Seconda Sinfonia. La felicità stessa dell’ispirazione che permise al suo autore di completare l’opera in otto settimane, sembrerebbe confermarlo: «È stata come una visione fulminea: improvvisamente tutto stava davanti ai miei orchi […]. Per caso mi è recentemente capitato fra le mani un vecchio libro, e l’ho aperto sull’inno «Veni, creator spiritus», e d’un tratto tutto mi sta davanti: non solo il primo tema, ma l’intero primo tempo».

Sinfonia sui generis, l’Ottava costituirebbe, secondo Theodor Adorno, il momento di «identificazione passiva con l’aggressore». Mahler celebrando con essa ciò contro cui si era rivolta indirettamente tutta la sua musica precedente. «Tutto qui pende da un filo – sono ancora parole di Adorno -, l’integra utopia come la regressione della grandiosità decorativistica. Il pericolo che corre Mahler è il pericolo di chi vuole accorrere in salvataggio dell’umanità». Dopo la «maledetta» Quinta, la tragica e dolorosa ipersoggettività della Sesta e la straziante confessione della Settima, l’estroversione celebrativa e ottimistica dell’Ottava Sinfonia non può non suonare in qualche misura problematica. Dopo che in particolare, con la Settima, aveva sperimentato l’impossibilità di un ritorno alle origini, attraverso il recupero di reperti di un passato personale attinto da distanze invalicabili, con l’Ottava Mahler sembra aggrapparsi con autentica, disperata forza d’amore alla volontà di arginare angoscia e disfacimento, di innalzarsi oltre il limite della propria persona e della propria sofferenza, in uno slancio vitalistico, in direzione di quell’amore che chiama i popoli a un abbraccio universale. Quanto di ottimistico e di celebrativo vi è nell’Ottava non può che muovere, secondo queste premesse, dallo strappo doloroso proprio di chi cerca disperatamente di ritrovare il discorso semplice che faccia comprendere le grandi cose, in un momento in cui. «dopo l’esperienza esistenziale del periodo viennese, dei Lieder di Rückert e della Sesta, non vi può essere più una possibilità del genere, perché la misura di ciò che è grande è irrimediabilmente perduta» (Duse). Liquidare l’Ottava Sinfonia come capolavoro «ufficiale» equivarrebbe pertanto a disconoscere la verità interiore di cui si nutre l’anelito mahleriano a superare l’esistenza terrena.
«La natura di Mahler – ha scritto Bruno Walter – sembra, di questa specie: cerca Dio da questa terra di cui sopporta il dolore»: e se egli non raggiunse il possesso durevole di nessuna acquisizione spirituale, tuttavia «i pensieri e le aspirazioni (sue) tendevano verso “l’altro mondo” /…/. L’uomo faustiano, tale dobbiamo considerarlo, si sentiva spinto continuamente a ricercare il senso profondo dell’essere e del divenire, e allo stesso tempo migliaia di vincoli e interessi lo tenevano legato all’essere e al divenire terreno, attento alla vita spirituale dell’umanità. /…/ Goethe risplendeva come un sole nel cielo del suo mondo spirituale». Non stupisce allora come Mahler potesse giudicare la scena finale del «Faust II» come la risposta più bella all’inno patristico di Rabano Mauro.

Willem Mengelberg

Posto che nel «Veni, creator spiritus» Mahler non invoca lo Spirito Santo dell’ortodossia religiosa, l’ideale elemento di congiunzione fra i due testi, musicati rispettivamente nella prima e nella seconda parte della sinfonia, sarebbe, secondo la concezione di Mahler, un amoroso principio motore dell’universo, che, invocato in un passo cruciale del primo movimento («Accende lumen sensibus,/ infunde amorem cordibus»), egli faceva risalire -ome si evince in una lettera indirizzata alla moglie nel giugno 1910 – a Platone, per poi riconoscerlo nuovamente in Goethe. Questa interpretazione riceve conferma sul piano più strettamente musicale: il tema di «Accende lumen sensibus» costituisce infatti, stando a Mahler, «il cardine dell’opera e il ponte di collegamento con la scena degli anacoreti».

Cosicché la diversità dei due testi che appartengono a lingue, culture ed epoche assai lontane fra loro, e che Mahler avrebbe affidato a forme musicali altrettanto dissimili (l’una chiesastica, serratamente polifonica e calata nello schema della forma-sonata, l’altra invece articolata a blocchi, secondo un impianto formale assai libero), e di fatto musicalmente collegata da una fitta rete di rapporti tematici e motivici. In nessun’altra opera come in questa. Mahler ha posto in atto quel concetto di polifonia che nel 1907 espresse con grande chiarezza, dichiarando – secondo la testimonianza di Anton Webern – che «un grande affresco sonoro dovrebbe svilupparsi a partire da un solo motivo che contiene la cellula madre dell’intero organismo musicale». Ciò ha fatto dire ad Arnold Schönberg che «quando ci si sforzi, di comprendere che i due movimenti dell’Ottava non sono in realtà che un’unica idea […] si resta attoniti dinanzi alla potenza di questa mente, che se negli anni della, giovinezza già possedeva la padronanza sufficiente per compiere prodigi straordinari, in questo caso ha, realizzato un capolavoro assolutamente incredibile».

Tuttavia l’unità dell’opera, nonostante l’eterogeneità dei testi, discende non soltanto dal materiale tematico comune alle due parti che la compongono, ma anche da una tensione che la pervade tutta, in vista della sua conclusione finale. L’Ottava fu data con vibrante successo in prima esecuzione al Palazzo delle Esposizioni di Monaco di Baviera il 12 settembre 1910, davanti a un pubblico di tremila persone. Il grande numero degli esecutori. schierati nella Neue Musik-Festhalle, ispirò all’impresario Emil Gutmann la definizione di Symphonie der Tausend («Sinfonia dei Mille»). Fra il pubblico figuravano molte personalità di primo piano della cultura europea: fra gli altri, Richard Strauss, Thomas Mann, Stefan Zweig, Willem Mengelberg, Arnold Schönberg, Anton Webern, Alfredo Casella, Bruno Walter, Leopold Stokovski. Riferisce Quirino Principe: «Nelle eccellenti intenzioni, degli uditori, che si alzarono in piedi in silenzio quando Mahler comparve sul podio prima dell’esecuzione, c’era forse, un cattivo presagio: quel trionfo ebbe qualcosa di conclusivo, il monumento all’artista vivente si colorì di luce tombale, il giubileo parve, anticipare l’omaggio postumo. L’Ottava fu l’ultima opera che Mahler abbia offerto, sua creatura, in prima, esecuzione, al pubblico, l’ultima sua composizione che alibia potuto udire in pienezza di suono, la sua ultima e forse unica grande, festa».

Parte prima: «Veni, creator spiritus»

Il carattere giubilante dell’inno si modella sullo schema della forma-sonata, con una poderosa doppia fuga al termine dello Sviluppo, in cui l’energica complessità polifonica della scrittura musicale raggiunge il suo apice.

Dopo una misura di introduzione, in cui con un fragoroso accordo, l’organo stabilisce la tonalità principale di mi bemolle maggiore, i due cori all’unisono espongono il lapidario primo tema (A1): «Veni, creator spiritus». Le diverse componenti di questo tema (a cominciare dagli intervalli iniziali di quarta discendente e di settima ascendente) rivestiranno un ruolo determinante nella strutturazione di altri temi, in entrambe le parti di cui si compone la sinfonia. Ma già alla quinta battuta (sulla parola «spiritus»), tromboni e trombe riprendono il tema principale in una variante (A’), il cui profilo caratteristico si riconoscerà in molti luoghi della partitura. Al carattere energico del tema principale si contrappone l’effusivo lirismo del secondo tema (B1), alle parole «lmple superna gratia». Dopo una sorta di falsa ripresa dell’iniziale «Veni, creator spiritus», un interludio strumentale, basato sull’amplificazione e trasformazione delle diverse componenti del tema principale, approda a uno stupendo episodio corale in re minore, affidato a un nuovo tema (C), derivato dal tema principale. È uno squarcio di pensosa mestizia che si apre in corrispondenza delle parole «Infirma nostri corporis», quando cioè il testo fa esplicito riferimento alla debolezza e fragilità umane, mentre l’invocazione alla saldezza della virtù divina giunge dalla voce del contralto solista, che svetta, con grande espressività, su un nuovo tema (D), mutuato contemporaneamente dal tema principale e da quello secondario. A sua volta articolato in quattro sezioni, lo Sviluppo inizia con un interludio orchestrale, ritmicamente e timbricamente frammentato, il cui materiale è interamente basato sulla inversione della variante A’ del tema principale. Una diafana successione di accordi di flauti e violini introduce il primo episodio vocale dello svolgimento, che muove dalla rimeditazione della fragile condizione umana, questa volta su un nuovo tema (E) – variante di A’ -, già accennato da fagotti e violoncelli nell’interludio che precedeva il tema C. La seconda sezione dello Sviluppo prosegue in un’atmosfera rasserenata, fino ad approdare a un improvviso fortissimo orchestrale (naturalmente su A). È l’inizio della terza sezione dello Sviluppo, in cui i cori irrompono sulla scena, intonando all’unisono, su un nuovo tema (F). L’«Accende lumen sensibus», ovverossia – secondo le parole di Mahler – «il cardine dell’opera e il ponte di collegamento con la scena degli anacoreti».

Si tratta di un tema, imparentato con quello principale, i cui elementi costitutivi informeranno in effetti ampie sezioni della parte «faustiana», a cominciare dall’esteso preludio orchestrale che ne caratterizza l’apertura. L’episodio prosegue con un nuovo tema (G) intonato dal coro di voci bianche, per approdare, dopo una crescita di tensione e densità dell’ordito polifonico, a una zona di inattesa violenza espressiva, quando cori e soli lanciano, a distanza di quattro battute, un doppio grido di guerra alla parola «hostem» (salti di nona ascendente e di settima discendente), poi ripetuto alla parola «pacem» (nona ascendente e undicesima discendente). Una poderosa doppia fuga, basata su diversi elementi del primo tema («Ductore te praevio»), imprime nuovo impulso alla musica, in direzione della Ripresa, procedendo oltre, lungo il testo, ma anche ripercorrendo retrospettivamente temi e versi, con rinnovato slancio, attraverso una serie ininterrotta di modulazioni.
Abbreviata e variata, la Ripresa («Veni, creator spiritus») recupera temi musicali e parole del testo, in ordine differente e con nuovi rilievi espressivi. Di particolare efficacia risultano l’invocazione «Da pacem, protinus. dissolve litis» e l’episodio immediatamente successivo, in cui le parole «pacem» e «hostem» tornano ai cori, non più per essere gridate con violenza, ma intonate con espressione riconciliata. Spetta quindi al coro infantile avviare la coda conclusiva, costituita dal «Gloria» prima sul tema (E) che aveva caratterizzato la seconda sezione dello Sviluppo, quindi sul primo tema, con trombe e tromboni che chiudono la prima parte della sinfonia, scandendo trionfalmente il tema F di «Accende lumen sensibus».

Parte seconda: Scena finale dal «Faust II» di Goethe

Alla monolitica compattezza della prima parte della sinfonia, la seconda contrappone un impianto formale assai libero, direttamente modellato sulla struttura episodica dell’ultima scena del secondo «Faust». Tuttavia il giudizio di Adorno è, a questo riguardo, molto chiaro: «Questo pezzo così vasto, realizzato a grandi blocchi, non è più una sonata, ma non è nemmeno una mera successione di arie e di cori contrastanti bensì, sommerso com’è da una sotterranea, possente corrente di evoluzione, è una “sinfonia” nel senso in cui è sinfonia il Lied von der Erde, con cui ha straordinarie affinità».
E mentre la serrata compattezza polifonica e, con essa, l’immane costruzione del «Veni, creator» glorificano lo sforzo umano, mostrando quanto la prima parte della sinfonia sia ancora profondamente radicata in questa terra, la seconda inizia un lungo percorso di ascesa al cielo {«L’eterno femminino» che «ci attira in alto»).

Sofiensaal di Vienna

Un’introduzione lunga 170 battute svela un arcano paesaggio nordico, popolato da boschi, rupi e gole montane. Sul motivo letteralmente trasfigurato di «Accende lumen sensibus» (affidato a violoncelli e contrabbassi in pizzicalo), si staglia pianissimo in flauti e clarinetti il tema (H) dell’introduzione, che, costituito da elementi già noti, anticipa il coro iniziale e altri episodi successivi, contenendo, a sua volta, il germe del conclusivo coro mistico «Alles Vergängliche…».
Alla fine dell’introduzione si collega il primo coro (inizialmente limitato alle sole voci maschili) che riprende, variandolo e con suggestivi effetti d’eco, il materiale tematico dell’inizio. Carattere operistico e di tormentata vocalità presentano invece gli a-solo del Pater ecstaticus («Ewiger Wonnebrand») e del Pater profundus («Wie Felsenabgrund…»), rispettivamente su una libera trasformazione del tema dell’introduzione e su un nuovo tema (I). Affidata prevalentemente alle voci femminili e infantili, la seconda parte dell’Esposizione annuncia, per bocca del coro degli angeli, il principio di salvazione di Faust («Chi si affatica a tendere più oltre,/ noi possiamo redimerlo»). Nuovi temi (L, M, N) caratterizzano il delizioso «Jene Rosen…» degli angeli novizi, mentre la terza parte dell’Esposizione riproduce l’«lnfirma nostri corporis» dell’inno, unitamente ad altri temi della prima parte della sinfonia.

Annunciato dalla marcia gioiosa degli angeli novizi, l’ingresso dell’anima di Faust segna quindi l’inizio dello Sviluppo mentre il Doctor Marianus insieme al coro, in un clima vieppiù religioso invocante la Vergine, prepara l’apparizione della Mater Gloriosa. Con la didascalia «Mater gloriosa schwebt einher» («la Mater gloriosa si libra in volo») ha inizio la seconda sezione dello Sviluppo: un Adagissimo lungo il quale, ai violini primi, su un accompagnamento di arpe e armonium, si dispiega lo splendido «tema d’amore», vagamente schumanniano e forse memore dell’Adagietto della Quinta Sinfonia, che di qui in poi si rivelerà determinante.

Seguono tre distinti interventi vocali femminili su testi di Luca (VII, 36, Magna Peccatrix) bo, Giovanni (IV, Mulier Samaritana) [14.01] e degli Acta Sanctorum (Maria Aegyptiaca), interventi poi ricongiunti in un trio canonico sul tema d’amore. Dello stesso disegno melodico si vale poi Margherita (Una poenitentium) nel primo dei suoi due episodi vocali («Neige, neige…»), mentre nel secondo («Vom edlen Geisterchor umgeben»), dopo l’ultimo intervento dei fanciulli beati, riprende il tema di «Imple superna gratia», unitamente ad altro materiale tematico dell’inno. «Komm! Komm! Hebe dich zu höhern Sphären!» («Vieni! Vieni! Sollevati alle sfere più alte!») canta quindi la Mater Gloriosa a inizio della terza sezione dello Sviluppo. Sul «tema d’amore» il canto si distende (dolcissimo) in un’ultima, ampia e sospesa zona lirica, per poi essere raccolto dal coro maschile che, quasi in eco, ripete «Vieni! Vieni!» Ho]. Segue «al modo di un inno» l’in¬vocazione («Blicket auf…») del Doctor Marianus («col volto chino, in preghiera»), su un ennesimo nuovo tema, mentre il coro, ora anche con soprani e contralti, ripete l’esortazione «Vieni! Vieni!».

Un interludio orchestrale distende allora un velo di tersa luminosità e di quiete carica d’attesa, approdando all’entrata «wie ein Hauch» («come un soffio») del «chorus mysticus», su una variante del tema introduttivo. Inizia quindi un lungo, lento crescendo sul «tema d’amore», che culmina nel fortissimo di orchestra e cori, con organo a piena potenza. La parola «hinan» («verso l’alto») viene ripetuta da sola, mentre corni e tromboni richiamano simbolicamente la fine del canto di Margherita, quindi il tema di «Accende lumen». All’ultima battuta del coro entrano gli ottoni isolati con una poderosa evocazione in valori aumentati del «Veni, creator» con cui si conclude trionfalmente la sinfonia.