Niccolò Paganini
Concerti per violino e orchestra n. 1 & 2
L’esibizione di Accardo è semplicemente impeccabile. Semplicità, chiarezza e virtuosismo sono caratteriste peculiari di Salvatore Accardo e suppongo che queste esibizioni siano prossime a ciò che Paganini desiderava.
Questa registrazione beneficia anche di una meravigliosa collaborazione della London Philharmonic Orchestra diretta da Charles Dutoit. A differenza di altri concerti, come ad esempio quello di Beethoven, l’idea paganiniana di un concerto per violino era quella di mettere il violino in primo piano. La LPO rispetta perfettamente quest’idea, svolgendo un ruolo secondario perfetto.
L’accoppiamento con il secondo concerto per violino è un classico. Paganini ha un stile molto particolare e non è così semplice abbinarlo ad altri concerti. In questa splendida partitura il brano più conosciuto è il rondò finale, denominato “La Campanella”. Audio ottimo. Registrazione eseguita nel 1975 e rimasterizzazione effettuata nel 1987. Imperdibile!
Paganini: Concerti per violino e orchestra n. 1 & 2
Niccolò Paganini fu una delle incarnazioni più inquietanti del romanticismo: magro, febbricitante, “diabolico”, seduttore, capace di spettacolari slanci di generosità come della peggior avarizia, il personaggio recava in sé tutto quello che poteva colpire l’immaginazione del pubblico. Un “adulto prodigio”, un essere in cui lo spettacolo si era fatto persona.
Perfettamente cosciente del suo impatto, sapeva alimentare la sua leggenda con magistrali prodezze e folli audacie violinistiche che lasciavano comunque scettico qualcuno.
Perché se certi cronisti scrivevano: “Suona due note folgoranti, cabalistiche, per Satana che ogni volta le deposita alla cancelleria del Cielo come acconto sulla sua domanda di grazia a Dio”, Spohr, per non citare che lui, si mostrava più reticente: “Quello che interessa il pubblico volgare lo abbassa al rango di ciarlatano e non riesce a compensare i suoi difetti: un suono forte, un gran galoppo d’archetto e un fraseggio melodico che manca di gusto”.
Imbroglione dotato di un senso geniale degli affari (fu uno dei primi a ricorrere a un impresario) o gran maestro del violino in un’epoca in cui il pubblico si interessava soprattutto alle prodezze pianistiche? Non lo sapremo mai con certezza, ma resta innegabile che le sue opere propongono dei modi fino ad allora inediti di utilizzare il violino e che restano ancor oggi tra le più difficili del repertorio, malgrado una considerevole evoluzione della tecnica.
Questi due Concerti mostrano anche una grande facilità d’invenzione melodica (sovente vicina al belcanto rossiniano) e una capacità di trovare delle formule che colpiscono e si sviluppano.
È dunque musica, dimostrazione o coabitazione?
Il Primo Concerto dà già una risposta. Di struttura classica, unisce un audacie virtuosismo a dei begli sviluppi melodici che sono essi stessi il luogo di prodezze violinistiche. Il primo movimento, Allegro maestoso, presenta due temi principali, l’uno ironico e danzante, l’altro più calmo e anche melanconico. Lo sviluppo non è altro che un’orgia di suoni armonici, di doppie corde, di passaggi serrati, vertiginosi, il tutto accompagnato con discrezione dall’orchestra.
La ripresa non ha nulla da invidiare allo sviluppo: ci sono i pizzicati cari a Paganini, dovuti al suo interesse per la chitarra (si vedano le sue composizioni per violino e chitarra), le famose discese cromatiche che sono una specie di firma dei 24 Capricci, l’uso dell’arco soltanto, i suoni armonici, l’utilizzazione di un ambito molto ampio sulla corda di sol…… Un fuoco d’artificio che in definitiva eclissa un po’ la cadenza: difficile, in un simile Concerto, dire dove è situato il “pezzo di bravura”!
L’Adagio espressivo si apre con un intervento misterioso dell’orchestra. Il violino declama una melodia in risalto sui pizzicati degli archi. Poi il canto diventa più ampio e si fa più virtuosistico.
Il Rondò finale presenta un’abile utilizzazione della forma strofa-ritornello. Il violino suona i ritornelli, l’orchestra le strofe. Ogni ritornello è in realtà una variazione dell’enunciato d’origine, e il suo fine è di sfruttare ogni volta difficoltà tecniche differenti.
Niccolò Paganini
Il Secondo Concerto procede esattamente secondo gli stessi principi, solo i temi cambiano! Le melodie restano in mente forse più di quelle del Primo Concerto e la “Campanella” del rondò non ha sicuramente ancora finito di conoscere ora di gloria.
Due risposte s’impongono all’attacco di Spohr: se Paganini è stato veramente un ciarlatano, lo è stato in modo geniale perché è lui solo che ha permesso al violino, con le sue straordinarie invenzioni, di acquistare risorse emozionali almeno pari a quelle del pianoforte. Inoltre, se fu un cattivo compositore, non lo fu abbastanza da dissuadere Brahms, Lizst, Rachmaninov, Lutoslawski dallo scrivere delle variazione sui suoi temi, e fu un conoscitore delle risorse del violino sufficientemente temibile da scoraggiarli a destinarle al violino stesso.
Ariéle Butaux
(traduzione: Adriano Cremonese)
Primo Concerto per violino e orchestra in mi bemolle maggiore op. 6
Intorno a Nicolò Paganini sono fiorite numerose leggende assolutamente fantasiose, alimentate da una pubblicistica che già allora aveva imparato a creare eventi e personaggi sensazionali per attrarre lettori. Sono poche invece le testimonianze attendibili sulla sua arte. Particolarmente preziosa è l’ampia e particolareggiata analisi del suo modo di suonare lasciata dal violinista e direttore d’orchestra Karl Guhr, che l’aveva osservato e studiato a lungo di nascosto: “È evidente che tutto un mondo separa Paganini dagli altri violinisti; i quali, tanto dal punto di vista tecnico che da quello della sentimentalità erano riusciti, così pensavano, ad assicurare al violino il potere di commuovere l’animo umano. Ma costoro, per quanto si differenziassero per temperamento o nazionalità, si assomigliavano più o meno tutti nel modo di usare l’archetto, nel produrre il suono e nell’esecuzione. Arriva Paganini, con un colpo di archetto spezza la tradizione, aprendo uno spazio senza limiti alla fantasia, all’immaginazione e alla tecnica. Originalità terribile, che porta fatalmente con sé la sua debolezza: l’impossibilità di uscire dal proprio io! Ecco perché Paganini è tanto inferiore a se stesso quando esegue composizioni di altri maestri. La sua immaginazione è ardente e attiva, quando esprime poeticamente le sue sensazioni, mentre è imbarazzata quando si sforza di uscire da se stesso. Quando suona Beethoven o Mozart non riesce a spogliarsi del suo io: le sue idee filtrano attraverso quelle dei grandi maestri e, trascinato dalla propria prodigiosa facilità, è costretto a frenarsi per non mischiarvi qualche tour de force”. Entrando più nell’aspetto tecnico Guhr constatava che Paganini si distingueva dagli altri violinisti principalmente:
1. Per il modo di accordare il suo strumento
2. Per il modo di usare l’archetto
3. Per la fusione e il legame dei suoni prodotti dall’archetto con il pizzicato della mano sinistra
4. Per l’impiego di suoni armonici semplici o doppi
5. Per la sua esecuzione sulla corda di sol
6. Per gli incredibili tour de force
Guhr rivolge dunque la sua attenzione al Paganini violinista, trascurando il Paganini compositore: era un atteggiamento comune e questo spiega perché non ci si sia presa cura delle sue composizioni, tanto che di molte si persero le tracce per lungo tempo, o per sempre.
Per esempio, degli otto Concerti per violino elencati nella Nota manoscritta delle opere di Nicolò Paganini stilata dal figlio Achille, ne sono stati ritrovati soltanto sei, alcuni molto tempo dopo la morte dell’autore. L’ultimo è ritornato alla luce soltanto nel 1972 ma era stato composto prima del 1815: ne consegue che il Concerto n. 1 in re maggiore op. 6, risalente al 1815-1816 e pubblicato postumo nel 1851, è in realtà il secondo in ordine cronologico.
Il manoscritto originale di questo Concerto prevede un’orchestra formata da flauto, due oboi, due clarinetti, un fagotto, due corni, due trombe, un trombone e archi, ma sono state rintracciate parti d’orchestra staccate – alcune delle quali autografe – anche per un secondo flauto, un secondo trombone, trombone basso, serpentone, cimbasso, timpani, piatti, gran cassa e banda turca: in tal modo l’orchestra passerebbe da dimensioni mozartiane a sonorità alquanto bandistiche! Anche sulla tonalità del Concerto sono possibili due diverse soluzioni: l’originale infatti è in mi bemolle maggiore e prevede che il violino sia accordato un semitono sopra la norma, per ottenere un suono più brillante e penetrante; ma nella prassi esecutiva si è imposto l’uso di non “scordare” il violino e di suonare quindi il Concerto un semitono sotto, in re maggiore.
Questo Concerto testimonia la raggiunta maturità come compositore del trentaquattrenne Paganini ed è considerato una delle sue opere migliori, capace di unire, all’interno di una forma ampiamente sviluppata, un caldo eloquio melodico di grande e immediata presa ai dirompenti procedimenti virtuosistici, di volta in volta turbinosi o brillanti.
Due temi contrastanti – marziale il primo, lirico ed espressivo il secondo – sono presentati dall’orchestra nell’ampia introduzione al primo movimento, Allegro maestoso. Al suo ingresso in scena il violino riprende il primo tema, con acrobatici salti, arpeggi funambolici verso l’acuto e verso il grave, perentori ed energici accordi, che sono il “biglietto da visita più paganiniano che si possa immaginare” (Alberto Cantù). Ma è paganiniano, sul versante della cantabilità romantica, calda e avvolgente, anche il secondo tema, che il violino riprende dapprima sul cantino (la corda più acuta del violino, e in generale degli strumenti a corda con manico, n.d.r.) per poi passarlo alle corde più gravi, dove si espande con accenti pieni di cuore e di dolore” (Albert Bachmann).
Charles Dutoit
Nello sviluppo questi due temi sono messi da parte: s’incontra dapprima un Recitativo, con spunti dal colore ungherese o zigano; poi un episodio di marcato virtuosismo in tonalità minore, con decime acutissime che precipitano improvvisamente nel registro centrale e con bicordi alternati a difficoltosissimi passaggi con l’arco “gettato”; quindi un’oasi di vibrante lirismo, affidata prevalentemente al timbro grave e caldo della quarta corda, ma conclusa nel registro acuto; infine il ritorno dell’episodio in minore. Il movimento si conclude col secondo tema e con una breve coda virtuosistica, ovviamente preceduta dalla regolamentare cadenza solistica, non scritta da Paganini ma lasciata alla libera scelta del violinista, che può improvvisarla o (più frequentemente) suonarne una delle tante scritte da grandi virtuosi come Karl Flesch e Fritz Kreisler.
L’Adagio, in si minore, è noto come “aria della prigione”, perché ha qualche carattere stilistico in comune con questa tipologia di Aria, molto diffusa nel melodramma italiano, dal periodo barocco fino a Verdi. Esiste anche una spiegazione più aneddotica: Paganini si sarebbe ispirato a una scena in cui il celebre attore Giuseppe De Marini invocava in una cupa cella “la morte come unico rimedio per porre fine alle sue sofferenze”. Si basa su un’ampia e patetica
melodia cantabile, ornata con misura da espressive fioriture, che viene intervallata da due episodi secondari, il primo dal tono più sereno e quasi arcadico, il secondo agitato e melodrammatico.
Conclude il Concerto un Rondò, in tempo Allegretto spiritoso: è un pezzo dal carattere spigliatamente popolaresco e di contagiosa vivacità, in cui l’estro di Paganini può sbrigliarsi in una pirotecnica varietà di acrobazie virtuosistiche di trascendentale difficoltà: tra l’altro compaiono qui per la prima volta in un Concerto quegli armonici doppi che, secondo il citato Guhr, erano uno dei marchi distintivi del violinismo paganiniano.
Secondo Concerto per violino e orchestra in si minore op. 7
L’uomo Paganini è misterioso e impenetrabile, per le contraddizioni dell’intricata personalità, la singolarità del comportamento, i molti amori attribuitigli ma non sempre accertabili, con l’aggravio del fatto che a lungo le sue biografie hanno riportato voci e leggende largamente inattendibili più che fatti documentati. Ma anche l’artista Paganini è un mistero. I contemporanei ne erano talmente abbagliati che nemmeno provavano a dare una spiegazione tecnicamente motivata delle sue esibizioni, ma preferivano piuttosto descriverne gli sconvolgenti effetti psichici sul pubblico o tesserne lodi entusiastiche ed iperboliche. C’è bisogno di ricordare ancora una volta la leggenda del patto col diavolo? Questa fantasiosa trovata giornalistica – forse avvalorata dall’interessato stesso, che aveva una modernissima capacità di usare i naenti mass media per farsi pubblicità – è meno risibile di quanto si sia portati a pensare oggi, perché rifletteva l’attrazione romantica per gli aspetti oscuri che si aggrovigliano nelle profondità dell’animo umano, per le forze sovrannaturali che irrompono nella normalità quotidiana, per le tentazioni faustiane che seducono i mortali: dal mitico Faust di Goethe ai personaggi in apparenza normali e grigi dei racconti di Hoffmann, sono molte le testimonianze di quest’attrazione.
Paganini ha affascinato col suo violino non soltanto i pubblici più suggestionabili ma anche grandi musicisti – Schumann e Liszt, per citarne solamente due – che vedevano nei suoi prodigi virtuosistici una sfida romantica ai limiti materiali della natura umana e soprattutto sapevano valutare concretamente le nuove possibilità aperte dal violinista genovese al suo strumento. Il virtuosismo di Paganini infatti consisteva non tanto nell’esibire una mano e un archetto più veloci, più precisi, più forti di qualsiasi altro violinista quanto nel dimostrare che nel violino erano racchiusi suoni che fino ad allora nessuno aveva neanche sospettato. Chi aveva mai osato far convivere sul violino la melodia suonata con l’archetto e l’accompagnamento in pizzicato della mano sinistra? E infiniti altri prodigi uscivano dal suo Guarneri del Gesù: i suoni armonici, i raddoppi, i bicordi, gli accordi, gli arpeggi, la varietà dei colpi d’arco, le spericolate arrampicate verso l’acuto, lo sfruttamento del registro grave della scomoda quarta corda, il caratteristico dialogo di timbri ottenuto passando repentinamente da un registro all’altro.
Il virtuoso Paganini è morto, ma restano le sue composizioni a testimoniare ciò che egli sapeva fare col violino, sebbene molti dei suoi prodigi – forse i più sbalorditivi – fossero legati all’estro momentaneo dell’improvvisazione. Ma non bisogna credere che il Paganini compositore sia interessante soltanto come eco del Paganini violinista, perché ha un suo autonomo valore. Purtroppo i posteri si sono accontentati di ascoltare sempre le stesse poche composizioni, con la “complicità” di Paganini stesso, che in vita pubblicò pochissimo – perché le sue composizioni erano prima di tutto una miniera cui attingere per le sue proprie esibizioni – e che lasciò i suoi manoscritti in estremo disordine.
London Philharmonic Orchestra
Questa scarsa cura di Paganini stesso per le sue composizioni coinvolge anche i Concerti, alcuni dei quali sono andati perduti, mentre altri ci sono giunti incompleti, senza la partitura orchestrale. Questi problemi non toccano il Concerto n. 2 in si minore, op. 7, composto a Napoli nel 1826 in vista della grande tournée europea iniziata da Paganini nel 1828. L’orchestra è di ampie dimensioni: significativamente l’organico usuale dei concerti e delle sinfonie romantiche (due flauti, due oboi, due clarinetti, fagotto, due corni, due trombe, tre tromboni, timpani e archi) è arricchito con alcuni strumenti tipici di un’orchestra operistica (o d’una banda) quali il serpentone, il cimbasso, la grancassa e il campanello. Il Concerto stesso non ha molto della struttura classica. Il primo movimento, Allegro maestoso, dopo un’ampia introduzione orchestrale, è infatti formato da tre episodi quasi irrelati tra loro (ognuno presenta un tema diverso, subito seguito da una libera appendice virtuosistica), dove è il solista a far da mattatore. Un riepilogo orchestrale conclude il movimento.
L’Adagio centrale si apre con un’introduzione orchestrale dapprima cupa, poi maestosa, con alcuni bei tocchi strumentali (ma il passaggio iniziale dei corni è copiato quasi letteralmente dal Concerto n. 24 di Viotti). Con l’entrata in scena del solista queste premesse sinfoniche vengono a cadere: il carattere è infatti quello di un’aria operistica, ma la melodia è così pura e limpida, arricchita da abbellimenti rispondenti a precise esigenze espressive, da far apparire pedante ogni critica. (Nel manoscritto autografo esiste anche un altro tempo lento, alternativo a questo, che poi Paganini stesso accantonò).
Il finale è il celeberrimo Rondò (Andantino allegretto moderato), che ha dato il nome al Concerto e che è stato rielaborato da Liszt, da Busoni e da tanti altri compositori, grandi e piccoli. È caratterizzato dalla presenza in orchestra d’un campanello, che suona durante i “tutti” e soprattutto dialoga col solista, in una sorta di botta e risposta, in cui gli armonici del violino gareggiano coi suoi argentei tintinnii. Quest’effetto originale ed incantevole viene proposto nei tre refrain, interrotti da due couplet, dando vita a una parata di spunti virtuosistici, non privi d’una loro eleganza.