Poulenc Francois

Stabat Mater

Splendide e storiche registrazioni bostoniane di Seiji Ozawa alle prese con i capolavori sacri di Francis Poulenc: tutto molto bello, coro, solista e orchestra meravigliosi. Ottimo sound DGR. Registrazione eseguita nel 1989. Altamente raccomandato.

Poulenc: Gloria e Stabat Mater
Affermare che nella produzione di Francis Poulenc (come nella sua vita, del resto) coesistono due atteggiamenti contrastanti – da un lato il piacere dello scherzo e del gioco del Poulenc mondano enfánt gaté per vocazione; d’altro la riflessione, la meditazione, la religiosità – è diventato una sorta di luogo comune.
Un luogo comune, però, tutt’altro che privo di fondamenta, se persino un musicologo come Claude Rostand, negli Entretiens col musicista parigino pubblicati nel 1954, parla espressamente, a proposito di Poulenc, di un coté voyou e di un coté moine.

Più interessante, semmai, è cercare di stabilire fino a che punto tali attitudini siano veramente in contrasto tra loro: lo stesso Poulenc era piuttosto scettico a proposito di questo insistito dualismo, che gli veniva attribuito costantemente già prima degli anni Cinquanta e che portava immancabilmente i suoi critici a separare in modo netto i suoi lavori musicali: quelli di ispirazione religiosa e gli altri. “Non possiedo che un’unica penna e un unico cuore, mutevole e ondeggiante”, diceva Poulenc …… “l’armonia è la stessa, identico il contrappunto…… solo l’intenzione è diversa…… Nelle Mamelles de Tirésias, per esempio nel coro dei venditori di giornali a Zanzibar, si potrebbe benissimo sostituire alle follie di Apollinaire un testo della liturgia cattolica: senza cambiare una nota si passerebbe dal riso all’emozione……”.
L’affermazione è meno paradossale di quanto potrebbe apparire a prima vista, anzi vi si potrebbero aggiungere, almeno per le opere composte dopo il 1936, altre movenze ancora: dal gioco allo sberleffo, al raccoglimento mistico, alla sensualità – quella che, ad esempio, pervade alcune delle mélodies (molte delle quali create per la voce di Pierre Bernac), il cui corpus costituisce certo uno dei momenti più significativi nella produzione del musicista francese.
Un fatto è innegabile: nella vita del compositore si produce con la conversione del 1936 una sorta di spartiacque. Gli effetti sulla musica sono immediati: le Litanies à la Vierge noire – il primo lavoro di ispirazione religiosa, dopo anni di quella che Poulenc definisce “une longue crise d’oubli religieux” – vengono iniziate il giorno stesso di quella che per il musicista si configura come una vera e propria folgorazione: la vista del Santuario di Rocamadour.
Negli anni successivi a questo avvenimento Poulenc – come chi riacquista finalmente una totalità, una pienezza a lungo accarezzate nella coscienza – si divide felicemente tra lavori per così dire profani e lavori religiosi, dando luogo in molti casi a una contaminazione schietta, non problematica, nella quale a fare da legame, e a determinare gli esiti vittoriosi, sono immancabilmente la spontaneità, la pregnanza e la grazia del dono melodico del compositore.

Lo Stabat Mater per soprano, coro misto e orchestra, composto nell’estate del 1950, è certamente una delle tappe più rilevanti nel percorso di Poulenc, e non solo del Poulenc mistico. La trasformazione del progetto originario, che prevedeva la composizione di una Messa da Requiem dedicata al pittore, scenografo e amico Christian Bérard, sottolinea una volta di più l’atteggiamento mentale di Poulenc, costantemente rivolto verso la naturalezza, contro ogni forma di artificiosità: il Requiem gli appare troppo formale, alto, “pomposo”: “…… ebbi allora l’idea di una preghiera di intercessione” – scrive – “e il testo sconvolgente dello Stabat mi parve assai adatto per affidare a Nostra Signora di Rocamadour l’anima del caro Bérard……”.
La composizione si dipana nei dodici versetti dello Stabat, per ciascuno dei quali Poulenc trova un colore, un’atmosfera particolari: l’incupita serenità dell’inizio; la pulsante e concisa veemenza del Cujus animam; la malinconica meditazione di O quam tristis; la grazia lieve, appena dolente di Quae maerebat; la violenza ritmica e la concitazione di Quis est homo e dell’avvio dell’Inflammatus; il festoso andamento di canto popolare, non privo di un ironico guizzo finale dell’Eja, Mater; passando per gli interventi del soprano solista, cui sono affidate le due lamentazioni del Vidit suum – dalle movenze di languida melopea orientale – e del Fac, ut portem, più l’intervento finale fiducioso, rasserenante, all’interno del Quando corpus morietur.

Pierre Bernac & Francis Poulenc

Tre, dunque, gli interventi della voce solista nello Stabat e tre quelli, ancora una volta affidati al soprano, nel Gloria (per soprano, coro misto e orchestra), composto nel 1959 su commissione della Fondazione Koussevitzky ed eseguito per la prima volta a Boston nel 1961 sotto direzione di Charles Munch.
Il Gloria, che lo stesso autore definisce “una grande sinfonia corale”, si compone di sei parti che, come nello Stabat, percorrono un’ampia gamma espressiva, nella quale si stagliano – nella terza e quinta sezione, rispettivamente Domine Deus e Domine Deus, Agnus Dei – le liriche meditazioni del soprano, che contrastano nettamente con l’esultanza del Gloria iniziale e soprattutto con la seconda sezione, Laudamus te, fortemente ritmata e dal piglio certo assai poco ortodosso dal punto di vista religioso.
Alle prime esecuzioni questa parte del Gloria suscitò non poche critiche avverse, al punto di coinvolgere l’intera composizione, accusata di presentarsi quanto mai ibrida.
È nota la risposta di Poulenc a questi rilievi: “Mi chiedo perché la seconda parte del Gloria abbia fatto scandalo. Componendola, ho avuto in mente quegli affreschi di Gozzoli nei quali gli angeli tirano fuori la lingua e anche quei benedettini, così gravi, che un giorno ho sorpresi a giocare al pallone……” (e dunque, parafrasando Poulenc, si potrebbe dire di questo Laudamus te che, sostituendo al testo liturgico una delle follie di Apollinaire, si passerebbe tranquillamente dall’emozione al riso!).
Il Finale, Qui sedes, dopo un avvio estremamente solenne, si riporta invece a un’atmosfera di serena compostezza, in cui il breve intervento del soprano nell’Amen (proprio come il Paradisi gloria nello Stabat) si presenta come elemento di raccoglimento e di contemplazione, fino alla conclusione, in pianissimo, che si svolge in una sospensione rarefatta, ai limiti del silenzio.
Il Poulenc “monaco” e il Poulenc “ragazzaccio” vivono insomma nel Gloria in perfetta beatitudine.

Giorgio Corapi

Gloria in sol maggiore

Per capire il Gloria bisogna ricordarsi chi era Poulenc prima del 1936, prima cioè di quando la morte improvvisa di un amico caro avvicinò il compositore alla fede cattolica, trasformandolo nel prolifico creatore di musica sacra che firmò le Litanies à la Vierge Noire (1936), la Messa in sol (1937), i Quatre motets pour un temps de pénitence (1939), l’Exultate Deo (1941), il Salve Regina (1941), lo Stabat Mater (1950), i Quatre motets pour le temps de Noël (1952) e dunque il Gloria (1959).
Poulenc era stato il compositore autodidatta che dell’assenza di una formazione accademica aveva fatto il punto di forza per una curiosità e una voracità allegra ed onnivora. Senza i freni inibitori che si acquisiscono normalmente frequentando i Conservatori, Poulenc si era trovato particolarmente a suo agio nel Gruppo dei Sei che faceva scalpore nella Parigi degli anni Venti, rapido nel seguire gli esempi irriverenti del Satie che scriveva i Tre pezzi in forma di pera, pronto nel collaborare con Jean Cocteau e con il suo teatro dell’assurdo. Capace di spaziare dalla colonna sonora alla musica da camera, di creare un’opera surrealista come Les mamelles de Tirésias ma anche di manifestare il suo amore per la musica barocca nel Concert champêtre per clavicembalo e orchestra, Poulenc aveva un’idea vitale, persino vitalistica della musica e prediligeva l’invenzione alla ripetizione, la sorpresa alla prevedibilità formale.

Christian Bérard

Le citazioni di musica altrui, i prestiti, lo scorrere a piacimento il catalogo della storia della musica dal canto gregoriano al burlesque non erano per lui
ammiccamenti, doni segreti per ascoltatori preparati, ma piuttosto manifestazioni d’affetto, che segnarono tutta la sua carriera e non soltanto gli anni giovanili, quando è più frequente che i compositori si appoggino al repertorio esistente nell’affinare le proprie armi e forgiare il proprio stile: le sue tarde Sonate per clarinetto e per oboe, ad esempio, evocano coscientemente le qualità distintive di Prokof’ev e di Honegger, senza per questo rinunciare ad essere fortemente tipiche del suo stile. Come Stravinskij, Poulenc sapeva cogliere qui e là ciò che di volta in volta gli serviva, sempre, beninteso, con la grazia e l’allegria di chi ama, non di chi rapina.
Sono dati che vanno tenuti presenti nell’avvicinarsi al suo Gloria perché, per certi versi, qui si tratta di una appropriazione non di caratteri musicali altrui ma del testo stesso, dell’idea del Gloria di una messa latina da applicare alla propria musica. Verrebbe da dire che Poulenc non ha messo in musica il testo sacro ma ne ha utilizzato il suono, il ritmo, aggiungendoli alla propria paletta sonora. Si ascolti dove cadono gli accenti, ad esempio: quel Gloria in èxcelsis Deo, quei Benedicimùs te che fecero storcere il naso a certa critica, guadagnando al compositore accuse di irriverenza. Lui reagì con l’intelligenza e con la delicatezza che gli erano proprie, rispondendo: “Nello scrivere ho semplicemente pensato a quegli affreschi di Bozzoli nei quali gli angeli tirano fuori la lingua e anche a quei seri monaci benedettini che un giorno sorpresi a giocare a pallone”.
Una buona dose di spregiudicatezza investe anche gli interventi del soprano nella terza e nella quinta sezione, che presentano all’ascolto melodie splendide ma spigolose, con intervalli pericolosamente ampi, nei quali il testo si inserisce talora più come ornamento che come motore primo; e di una continua sorpresa bisogna parlare per la quarta parte, che non arriva a un minuto e mezzo di durata, dove si alternano una piccola serie di brevi melodie, sapientemente incastrate, e tutto si può temere tranne che di annoiarsi.
Accade così anche nel Qui sedes ad dexteram patris, la cui conclusione è del tutto imprevedibile: a dare un colore inatteso all’Amen finale, quasi ad esplorarne le diverse possibilità di intonazione, dopo le precedenti affermazioni perentorie del coro e dell’orchestra, il brano infatti scarta di lato e affida al solista una melodia sinuosa (ripresa dalla Messa in sol) che inviterà il coro a una conclusione sussurrata, inimmaginabile dopo ciò che si era ascoltato pochi istanti prima.
Come quasi sempre nella sua produzione, dunque, anche nel Gloria la destinazione sacra non trasforma la musica in veicolo della preghiera, taxi per il testo: è la musica stessa ad assumere su di sé la funzione religiosa, e lo fa in modo potente e bellissimo, con una forza di fronte alla quale è difficile rimanere indifferenti.

Testo

I. GLORIA
Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis.

II. LAUDAMUS TE
Laudamus te, benedicimus te, adoramus te, glorificamus te, Gratias agimus tibi propter magnam gloriam tuam.

III. DOMINE DEUS
Domine Deus, Rex coelestis, Deus Pater omnipotens.

IV. DOMINE FILI UNIGENITE Domine fili unigenite Jesu Christe! Domine Deus unigenite Jesu Christe!

V. DOMINUS DEUS, AGNUS DEI
Domine Deus, Agnus Dei, Filius Patris, Rex coelestis Deus, Qui tollis peccata mundi, miserere nobis,
Suscipe deprecationem nostram.

VI. QUI SEDES AD DEXTERAM PATRIS Qui sedes ad dexteram Patris miserere nobis. Quoniam tu solus Sanctus, tu solus Dominus, Tu solus Altissimus Jesu Christe,
Cum Sancto Spiritu in gloria Dei Patris Amen.

Stabat Mater

Lo Stabat Mater, per soprano solo, coro misto e orchestra è una composizione di Francis Poulenc scritto fra il 1950 e il 1951. La composizione è dedicata alla memoria di Cristian Bérard, artista profondamente legato al compositore francese, prematuramente scomparso nel febbraio 1949
Francis Poulenc, compositore dallo spirito vivace e mondano, si avvicina alla sfera sacra dell’arte dopo la morte di un suo caro amico nel 1949. In quell’anno si reca in pellegrinaggio al Santuario di Rocadour dove riscopre le sue radici cristiane e scrive le “Litanies a la Vierge Noir”. La perdita del suo amico, Christian Bérard apprezzato scenografo con cui aveva condiviso l’esperienza della rinnovata fede, lo portarono a scrivere questo grande affresco sacro, modellato su una delle più toccanti poesie cristiane, anche se l’idea originaria era quella di scrivere un Requiem.

Seiji Ozawa

La dedica recita:
«à la mémoire de Christian Bérard pour confier son ame à Notre-Dame de Rocamadour»
L’orchestrazione è molto impegnata e variegata, nello stile del Poulenc maturo: i temi usano armonie modali, tonali e politonali. Sono presenti sia maestosi ripieni orchestrali assieme al soprano e al coro, che momenti di grande intimità (cfr. Fac ut ardeat strutturato come mottetto a tre voci). L’organico è quello di una grande orchestra sinfonica romantica.

Struttura

1. Stabat mater dolorosa (Très calme)
2. Cujus animam gementem (Allegro molto – Très violent)
3. O quam tristis (Très lent)
4. Quae moerebat (Andantino)
5. Quis est homo (Allegro molto – Prestissimo)
6. Vidit suum (Andante)
7. Eja mater (Allegro)
8. Fac ut ardeat (Maestoso)
9. Sancta mater (Moderato – Allegretto)
10. Fac ut portem (Tempo di Sarabanda)
11. Inflammatus et accensus (Animé et très rythmé)
12. Quando corpus (Très calme)