Prokofiev Sergej

Sinfonia n°5

Herbert von Karajan si esibisce in due dei suoi cavalli di battaglia. Il primo lirico e estroverso, il secondo impressionante per i contrasti ritmici e violenti al limite della tonalità. Magnifici i Berliner Philharmoniker. Registrazioni eseguite dal 1969 al 1977. Audio eccezionale. Imperdibile.

Sinfonia n.5 in si bemolle maggiore op. 100

Le sette Sinfonie composte da Sergej Prokof’ev coprono un lungo arco di tempo, dal 1916 al 1952, l’anno che precedette la sua morte. Fra queste la Quinta in si bemolle maggiore op. 100 contende alla Prima in re maggiore op. 25 detta “Classica” il primato in fatto di notorietà e frequenza di esecuzione. Ben poco le accomuna: la “Classica”, concisa, scintillante, vaporosa, è un capolavoro di virtuosismo in punta di penna che si ispira, per ammissione dello stesso autore, a Haydn e alla tradizione settecentesca; l’assai più tarda Quinta, massiccia, granitica, solennemente cesellata, celebra tutt’altre certezze, infondendo nuovo vigore a un genere ormai prossimo all’estinzione ma tutt’altro

che refrattario a impennate orgogliose, estreme. Anzi, capace di accettare ogni tipo di sfida.
Che si tratti di una Sinfonia in piena regola lo dimostra anzitutto l’articolazione formale nei canonici quattro movimenti, invertiti però rispetto all’ordine usuale secondo l’alternanza di tempi lenti, qui i dispari, e veloci, conseguentemente i pari; a ciò si aggiunga la disposizione circolare delle tonalità, si bemolle maggiore all’inizio e alla fine, re minore e fa maggiore così accostati in successione nei movimenti centrali: uno schema che più elementare e chiuso non si può. La scelta è chiaramente intenzionale e dimostrativa, di una evidenza apodittica. Circostanza che ha contribuito al successo popolare della Sinfonia per la sua immediatezza comunicativa, creando però non pochi equivoci nelle conclusioni sulla sua vera natura.
Fu Prokof’ev stesso a indicare lo stato d’animo da cui essa era nata: «Nella Quinta Sinfonia ho voluto cantare l’uomo libero e felice, la sua forza, la sua generosità e la purezza della sua anima». Mettendo in relazione questa affermazione con il periodo in cui la Quinta fu composta, l’estate del 1944, e con le reazioni di entusiasmo suscitate dalla prima esecuzione avvenuta a Mosca il 13 gennaio 1945, si è soliti vederne un riflesso degli avvenimenti dell’epoca: l’eco trionfale della vittoriosa liberazione del territorio russo dalle truppe tedesche che l’avevano invaso, e l’adesione a un ottimistico spirito patriottico finalmente obbediente ai precetti del “realismo socialista”. Niente di più falso. La Quinta è la meno russa tra le Sinfonie di Prokof’ev e nello stesso tempo la più “tedesca” per appartenenza culturale: un modo davvero curioso di celebrare le sorti magnifiche e progressive propagandate dall’ideologia del suo Paese.
Le certezze di cui Prokof’ev si fa carico in questa partitura sono di altra natura: non meno utopica di quanto la sua franca, solare dichiarazione inviti a credere. La fiducia nell’uomo libero e felice che l’ispira è di ordine morale e autobiografico: in altri termini, quell’uomo non esiste se non nelle scelte personali dell’artista. E queste scelte travalicano le contingenze della storia, per proiettarsi in un mondo ideale, di ideali che si realizzano, a tacer d’altro, proprio nell’abolizione di barriere e separazioni, di guerre e rivendicazioni, di contrapposizioni di epoche e stili. La Sinfonia così come Prokof’ev la intende è terra d’incontro di spiriti eletti che non si curano delle atrocità della storia, qualunque sia il vincitore. La superano di slancio. E in questo stanno la forza e la generosità, da ultimo la purezza della loro anima.
La disciplina formale che Prokof’ev s’impone nella Quinta Sinfonia proviene dalla convinzione che solo un sistema di regole astratte possa contribuire concretamente a creare la libertà. E non è illusione, la sua. La Quinta è la più atemporale fra le sue Sinfonie, la meno condizionata da uno stile acquisito e riprodotto. L’invenzione si mantiene costantemente alta perché in alto mira la volontà di concentrarsi e di captare le associazioni fra i suoni; l’elaborazione è severa nella variazione delle cellule tematiche (primo movimento, Andante), nitida e vitale nel principio concertante delle famiglie strumentali che dialogano sommessamente e delicatamente, animate da una serena leggerezza anche nella intensificazione dei crescendo (ultimo movimento, Allegro giocoso).
Sergej Prokofiev

Prokof’ev alza il tiro della decantazione lirica, dell’eleganza timbrica, dell’iridescenza armonica: mai come nella tersa distensione dell’Adagio, aperto da una sinuosa frase dei clarinetti arabescata dagli archi, si percepisce la nostalgia di un’intatta purezza, che esiste solo per essere continuamente desiderata. A poco a poco la tensione pare montare, sprofonda nei registri gravi dell’orchestra, si acuisce nella drammaticità delle iterazioni, per sciogliersi arcanamente in progressiva dissolvenza. E quale gioia nel riconoscere ora la funzionalità degli incastri, il sorriso di un’ironia bonaria, ammiccante, nell’equilibrio della totalità idealmente ricostituita, nella misura delle proporzioni ampliate ma non sfigurate.
Solo nell’Allegro marcato questo sorriso diviene ghigno beffardo e sberleffo. Par di assistere, nelle trovate geniali di questo Scherzo con Trio, a una caricatura che ricorda di quale sarcasmo fosse capace Prokof’ev. Il gesto graffiante, nel rincorrersi ostinato di frammenti lanciati per aria all’impazzata, nella baldoria da circo o da banda di paese un pò alticcia, o magari di parate militari che sfilano impettite nel loro stupido orgoglio, è quello di chi sapeva guardare il mondo con divertimento misto a orrore: un umorismo grottesco. L’eco della guerra, e sia pure di una guerra vinta, è tutta nella musica militare di questo movimento, ritmata dalla batteria: un grido lancinante camuffato da insensata allegria, un brivido di angoscia che non trova pace neppure quando è passata la paura. Non v’è trasfigurazione in questa musica ebbra di frenesia, rigonfia di artefatta volgarità. Giacché di fronte alla guerra ogni artista riconosce solo la propria impotenza e, se può, passa oltre, a reinventare in sogno la vita.

Igor Stravinsky La sagra della primavera

Durante la primavera del 1910, mentre a Pietroburgo stava terminando le ultime pagine della partitura dell’Uccello di fuoco, Stravinskij ebbe come una visione. Racconta egli stesso nelle Cronache della mia vita: “un giorno – in modo assolutamente inatteso, perché il mio spirito era occupato allora in cose del tutto differenti – intravidi nella mia immaginazione lo spettacolo di un grande rito sacro pagano: i vecchi saggi, seduti in cerchio, che osservano la danza fino alla morte di una giovinetta che essi sacrificano per rendersi propizio il dio della primavera. Fu il tema del Sacre du printemps. Confesso che questa visione m’impressionò fortemente; tanto che ne parlai subito all’amico pittore Nikolaj Roerich, specialista nell’evocazione del paganesimo. Egli accolse l’idea con entusiasmo e divenne mio collaboratore in quest’opera. A Parigi ne parlai pure a Djagilev, che si entusiasmò subito di tale progetto”.
Nonostante la folgorazione e l’entusiasmo di Djagilev, che immediatamente ne vide le potenzialità per un nuovo balletto, la realizzazione non seguì immediatamente. Stravinskij fu occupato dalla composizione di Petruska che lo impegnò dalla metà del 1910 alla metà del 1911: solo dopo la sua rappresentazione, avvenuta nel giugno del 1911, poté pensare alla stesura della

Sagra e alla sua concretizzazione scenica, in collaborazione con Roerich. Il balletto, con il sottotitolo di “Quadri della Russia pagana”, si suddivide in due parti: “L’adorazione della terra” e “Il sacrificio”. In una lettera a Djagilev, Roerich così descriveva l’azione: “Nel balletto Le sacre du Printemps, così come lo abbiamo concepito io e Stravinskij, il mio scopo è presentare un certo numero di scene che manifestano la gioia terrena e il trionfo celestiale secondo la sensibilità degli slavi. La prima scena deve trasportarci ai piedi di una collina sacra, in una pianura rigogliosa, dove le tribù slave sono riunite per celebrare i riti della primavera. In questa scena c’è una vecchia strega che predice il futuro, un matrimonio dopo un rapimento, danze in tondo. Poi viene il momento più solenne. Il vecchio saggio è condotto dal villaggio per imprimere il suo sacro bacio sulla terra che ricomincia a fiorire. Durante questo rito la folla è in preda a un terrore mistico. Dopo questo sfogo di gioia terrestre la seconda scena suscita intorno a noi un mistero celestiale. Giovani vergini danzano in circolo sulla collina sacra, fra rocce incantate: poi scelgono la vittima che vogliono onorare. Immediatamente ella danzerà davanti ai vecchi vestiti di pelli d’orso per mostrare che l’orso era l’antenato dell’uomo. Poi i vecchioni dedicano la vittima al dio Jarilo”.
La prima rappresentazione del balletto ebbe luogo a Parigi al Théâtre des Champs-Elysées per la stagione dei Rallets Russes il 29 maggio 1913 (coreografo Vaslav Nijinskij, direttore Pierre Monteux) e suscitò uno scandalo rimasto memorabile. Stravinskij abbandonò la sala dopo le prime battute del preludio, che sollevarono immediatamente risa e canzonature. “Queste manifestazioni”, ricorda il compositore nelle Cronache della mia vita, “dapprima isolate, divennero presto generali e, suscitando d’altra parte delle opposte manifestazioni, produssero in breve un chiasso infernale. Durante tutta la rappresentazione rimasi tra le quinte, a fianco di Nijinskij. Questi stava in piedi su una sedia e gridava a squarciagola ai ballerini: “Sedici, diciassette, diciotto…” (si servivano di un conteggio convenzionale per segnare le battute). Naturalmente i poveri ballerini non sentivano niente a causa del tumulto della sala e del loro calpestio. Io ero costretto a tenere per il vestito Nijinskij, fuori di sé dalla rabbia e in procinto di balzare in scena, da un momento all’altro, per fare uno scandalo. Djagilev, per far cessare il fracasso, dava ordini agli elettricisti, ora di accendere, ora di spegnere la luce nella sala. È tutto ciò che ricordo di quella ‘prima’. Fatto strano, alla prova generale a cui assistevano, come sempre, numerosi artisti, pittori, musicisti, letterati e i rappresentanti più colti della società, tutto si era svolto in modo calmo e io ero lontano mille miglia dal prevedere che lo spettacolo avrebbe provocato quella gazzarra”.

Vaslav Nijinskij

Anche in seguito a quella storica serata, la partitura del Sacre rimase a lungo il simbolo della musica moderna, in ogni senso: se da un lato la sua apparizione parve sconvolgere tutti i canoni della bellezza e del gusto per l’inaudita violenza con cui si evocava l’irruzione di forze selvagge e primordiali, d’altro canto l’originalità della sua lingua barbarica e “primitiva” esercitò un influsso
notevole, e non solo tra le avanguardie musicali del tempo. La radicale novità della partitura, percepibile soprattutto nell’invenzione ritmica, di una ricchezza e complessità senza precedenti, ma estendibile anche ai parametri armonici e melodici, si basava su una visione formale profondamente emotiva, ma improntata anche a una evidenza insieme classica e popolare. Non a caso Jean Cocteau definì il Sacre “le georgiche della preistoria”, ponendo l’accento su una rappresentazione delle forze della natura che per quanto rovesciata in confronto alle visioni idilliche della primavera ne serbava il carattere mitico e l’aura sacrale; mentre Stravinskij stesso, ancora anni dopo la composizione, ribadì che a influenzarlo era stata l’esperienza della “violenta primavera russa, che sembra iniziare in un’ora ed è come se la terra intera si spezzasse”: un’esperienza che risaliva alla sua infanzia e che si intrecciava con il ricordo dei riti propiziatori della tradizione popolare. Gran parte del fascino incomparabile della partitura sta proprio in questa strettissima commistione di artificio e natura, mitologia e folklore, simmetria e asimmetria. pulsione vitale e istinto di morte, dinamicità e staticità.
L’Adorazione della terra si apre con il celeberrimo assolo del fagotto impiegato in una tessitura acuta, su una melodia popolare lituana. Fin dall’inizio si stabilisce un clima di arcaica staticità, cui ben si attaglia il titolo di “Notte pagana” suggerito dal compositore per il grande sacrificio: qui è come se la musica volesse rappresentare il timore suscitato dalle grandi forze cosmiche della creazione, “il risveglio della natura, lo stridio, il rodio, i movimenti di uccelli e bestie”, secondo un’indicazione del compositore stesso. Alcuni caratteri fondamentali si delineano già in questa introduzione: i motivi si riducono per lo più a frasi brevi e incisive, quasi formule elementari, che hanno però già in sé le forze della propria trasformazione; il ritmo, anche attraverso l’uso frequente dell’ostinato, provoca l’impressione di un impulso inarrestabile, che non è solo quello realistico della danza, ma assurge anche a valore simbolico di esasperazione del movimento; le sovrapposizioni politonali, congiunte da un lato con procedimenti modali e dall’altro con il libero trattamento delle dissonanze che non eliminano l’esistenza di centri tonali, creano un antagonismo che acquista via via un sempre più marcato senso drammatico (massimamente nel Gioco del rapimento, culmine anche di un crescendo dinamico di forza esplosiva). Ad episodi di crescente tensione fanno seguito zone di quiete e di rarefazione: così le Ronde primaverili vengono introdotte da un lungo trillo dei flauti che preludono a un movimento “sostenuto e pesante”, dove i clarinetti danno voce a una melodia di sapore popolare che ricorda il Chorovod, la danza circolare in onore della primavera.
Pierre Monteux

I trilli dei flauti fanno nuovamente da preludio al Gioco dalle città rivali, in cui entrano con prepotenza le percussioni, che assumono l’importanza quasi di una sezione orchestrale a sé stante. La tremenda tensione interna tra la semplicità del materiale tematico e la discordante complessità della tessitura ritmica e armonica è acuita dalla strumentazione, che utilizza mezzi estremamente sofisticati per ottenere un effetto volutamente elementare, primitivo. Episodi di opposta spettacolarità sono il Corteo del saggio, che culmina nella straordinaria magia evocativa del “bacio della terra”, e la vorticosa Danza della terra, momento di estrema forza centrifuga che chiude la prima parte con l’esplosione di un caos primordiale. La seconda parte si apre con una nuova Introduzione, di
segno diverso: sono, secondo Roman Vlad, “sonorità glaciali, da notte polare”, che creano il clima di attesa sacrificale. Nei freddi armonici degli archi e negli echi dei corni si fa luce un tema d’un singolare, astrale lirismo.
Nei Cerchi misteriosi degli adolescenti, intrisi ancora della medesima atmosfera velata, questo tema si dispiega in un incedere quasi ipnotico, trepido e struggente. A questo momento di ripiegamento lirico, segue, avviata dal tamburo, in un brusco accelerando, la Glorificazione dell’eletta, originariamente pensata come una selvaggia cavalcata delle amazzoni; la solenne Evocazione degli antenati ristabilisce il carattere religioso del sacrificio, a cui l’episodio successivo, Azione rituale degli antenati, conferisce sussulti e spasimi di sinistra irrevocabilità. Si avvicina così l’epilogo, la danza sacrale della vittima designata a morire per propiziare il rinnovarsi della primavera. Nella Danza dell’eletta, il furore ritmico raggiunge l’apice del più orgiastico parossismo, rimettendo in gioco tutte le possibilità strutturali sperimentate nell’opera e non lasciando più dubbi sul carattere barbarico del sacrificio. Eppure, proprio da questa identificazione con le crudeltà del rito che si è appena compiuto, si rigenera una sorta di euforia vitale, di panica rivelazione del mistero della rinascita, di tragica consapevolezza del ciclo eterno degli inizi e delle fini scandito dalle leggi immodifìcabili della natura.