Rachmaninov Sergej
Concerto n. 4 per pianoforte in sol minore op. 40
Sono un fan di Arturo Benedetti Michelangeli (spesso trovo che il suo stile sia coinvolgente, in particolare nel quarto concerto di Rachmaninov), e, secondo il mio modesto parere, il concerto in Sol maggiore di Ravel è davvero uno dei migliori cha abbia mai sentito. È stupefacente, riesce ad articolare ogni nota del pezzo anche nei passaggi più difficili e audaci. Anche l’esibizione del quarto concerto di Rachmaninov non è meno espressiva. I movimenti sono ancora suonati con stupefacente chiarezza e avvincenti. Registrazione eseguita nel 1957 e rimasterizzazione effettuata nel 2000. Nonostante la datazione, l’audio è pulito e corposo. CD giustamente collocato dalla EMI tra le gradi incisioni del secolo scorso. Altamente raccomandato, per non dire imperdibile.
Rachmaninov Concerto n. 4 in sol minore op. 40 per pianoforte e orchestra
A differenza del Concerto di Ravel, che s’impose subito all’attenzione e riscosse dappertutto un successo unanime, il Quarto concerto per pianoforte di Rachmaninov ebbe una vita molto più travagliata. Il compositore russo iniziò ad applicarvisi nel 1925 e lo terminò nell’agosto dell’anno successivo (ma v’è ragione di credere che il Concerto sia stato concepito già nel 1913-14; infatti è notevole la somiglianza melodica e stilistica con altre opere di quel periodo, in particolare con la seconda Sonata per pianoforte). La prima esecuzione pubblica ebbe luogo il 18 marzo 1927 a Filadelfia, con Rachmaninov al pianoforte e Stokovsky sul podio; seguirono altre esecuzioni a Washington e a Baltimora. La critica fu unanime e severa: i più parlarono di un lavoro fuori della storia, di un «relitto del XIX secolo»; ci fu chi si spinse a definire il Concerto un’opera «prolissa, noiosa, insignificante, in certe parti di cattivo gusto». Nell’estate successiva, Rachmaninov riprese il Concerto per sottoporlo a revisioni importanti: ne ridusse considerevolmente le proporzioni e riscrisse alcune parti per intero. Lo propose al pubblico in questa nuova versione, prima a Londra nel novembre del 1929, poi in altre città europee; ma ancora una volta l’accoglienza fu tiepida, e il compositore decise di rinunciare definitivamente a eseguirlo. Non del tutto persuaso, tuttavia, verso la fine degli anni Trenta progettò di rimettervi mano ancora, convinto che i problemi stessero soprattutto nella debolezza strutturale del terzo movimento; si mise all’opera nel 1941: spinse ancor più a fondo la revisione del 1927, fece altri tagli, rivide l’orchestrazione e certi particolari della scrittura pianistica. Ma invano: il Concerto, eseguito in America in quest’ultima versione, fu accolto ancora una volta freddamente.
Le reazioni critiche al Quarto concerto di Rachmaninov sono facilmente comprensibili: negli anni Venti del Novecento, e ancor più nei decenni successivi, lo stile eloquente e melodico del compositore russo e l’impianto classicista della sua musica si esponevano facilmente all’accusa di inattualità. Sono Cajkovskij e il concerto solistico ottocentesco, infatti, i modelli cui guarda Rachmaninov, che così facendo si pone coscientemente al di fuori del suo tempo. Un altro fattore che dovette forse disorientare il pubblico fu la mancanza di quell’opposizione drammatica tra solista e orchestra che caratterizzava i precedenti concerti di Rachmaninov: qui invece la scrittura è prevalentemente concertante, il pianoforte intesse un dialogo costante con gli altri strumenti. Se quest’opera è definitivamente tornata a frequentare le sale da concerto, lo si deve soprattutto alla magistrale interpretazione di Benedetti Michelangeli, che ne ha messo in luce la profonda originalità e ne ha pienamente valorizzato la bellezza.
Il Quarto concerto, pur soffrendo di una certa disuguaglianza, vanta parecchi momenti di ispirazione autentica. Dalla ricca vena melodica di Rachmaninov le idee sgorgano copiose e accattivanti. I temi hanno in gran parte un’identica struttura «ad arco»: presentano cioè una lenta fase d’insorgenza, raggiungono il culmine e discendono gradualmente, ciò che dà loro il respiro di un’ampia campata. Il tema principale del primo movimento (Allegro vivace), che segue il breve crescendo dell’introduzione orchestrale, ne è un magnifico esempio: consiste in una melodia eloquente e appassionata, suonata a pieni accordi dal pianoforte. Più frammentaria è la condotta del discorso nella transizione, basata su un dialogo tra legni e pianoforte che si scambiano brevi incisi cromatici; un’ampia melodia del corno inglese e un accenno melodico del corno preparano e anticipano, rispettivamente, l’ingresso del secondo tema.
Arturo Benedetti Michelangeli
L’intensità raccolta ed espressiva di quest’ultimo contrasta efficacemente con lo slancio magniloquente del tema principale. Una nuova breve idea, ricavata dalla testa del secondo tema, dà origine all’episodio successivo: si tratta di un motivo di quattro note (un salto di nona che risolve sull’ottava), ritmico e incisivo che si rivelerà importante negli sviluppi successivi. Un’ultima effusione lirica chiude l’Esposizione: gli archi propongono un tema cantabile, derivato dalla parte finale del tema principale, che si alterna a floride volate del pianoforte. Lo Sviluppo è costruito come un ampio e impressionante crescendo tensivo. La sezione si espande a partire da una melodia ondeggiante del pianoforte; poi l’orchestra assume un ruolo sempre più marcato, l’intensità dinamica aumenta, il tempo si fa più incalzante, finché, con un effetto trascinante, è raggiunto il climax. La Ripresa propone nuovamente il materiale dell’Esposizione, ma ne sovverte l’ordine: si presentano dapprima il secondo tema, poi la melodia che chiudeva l’Esposizione e gli incisi della transizione; infine, preparato da accordi vibranti, ricompare il tema principale, liricamente intonato dai violini nel registro acuto e sostenuto dagli arpeggi avvolgenti del pianoforte. La musica, ora, sembra esaurirsi in un grande decrescendo: v’è ancora spazio per una breve cadenza del corno inglese, prima che una coda fulminea porti a termine il movimento.
Un vagare incerto del pianoforte, indefinito nel ritmo e nella melodia (vi si avvertono lontane reminiscenze motiviche del primo movimento), fa da preludio al Largo centrale. Il tema principale del movimento consiste in un brevissimo «motto», una semplice formula di tre note discendenti che contrasta in modo acuto con le ampie melodie ad arco precedenti. Data la sostanziale assenza dell’interesse melodico, il brano vive della grande varietà armonica e ritmica cui soggiace il motivo nel corso delle sue lunghe peregrinazioni. La stessa parte centrale, che introduce una nota di agitazione maggiore nel discorso, non fa che mostrare aspetti differenti nel medesimo materiale melodico. La Coda, infine, funge da chiusura e al tempo stesso da preparazione graduale del movimento successivo: che prende il via (Allegro vivace) con una volata imperiosa, nella quale è riconoscibile il motivo marcato del primo movimento.
Lo stesso motivo costituisce lo scheletro anche del propulsivo tema principale, presentato dal pianoforte in un episodio veloce e leggero; gli si contrappone un secondo tema squillante, dal carattere di fanfara. Lo Sviluppo, che attacca riproponendo ancora una volta il motivo d’apertura, esplora a fondo il tema principale, e porta con sé una certa rarefazione ritmica e sonora, culminante in una eloquente pausa generale; è a partire da questo punto che il moto riparte, crescendo gradualmente fino a raggiungere un significativo apice dinamico ed espressivo. La forma, ora, si allontana da ogni schema prestabilito. V’è dapprima un richiamo letterale all’introduzione orchestrale con la quale si era aperto il Concerto; poi, in luogo della canonica Ripresa, una libera rielaborazione dei temi presentati nell’Esposizione. Gli accordi massicci del tema principale del primo movimento, infine, danno il via a una Coda che chiude il Concerto nel segno dell’enfasi e della sonorità più sfolgorante.
Ravel Concerto in sol maggiore per pianoforte e orchestra
Un secco colpo di frusta, un tappeto statico di arpeggi bitonali del pianoforte, poi l’ottavino suona un tema vivace di danza rustica (è una specie di bransle, un antico ballo francese): così inizia il Concerto per pianoforte e orchestra di Ravel, progettato nel 1929 e portato a termine nel 1931. Questa piccola fanfara caricaturale riflette perfettamente lo spirito che, secondo una dichiarazione dello stesso Ravel, governa il Concerto: si tratta di musica brillante e serena, che rifugge dagli effetti drammatici e dai contrasti marcati del concerto solistico romantico. È lo stesso spirito che spiega, all’interno dello schema classico della forma-sonata e delle simmetrie che reggono il piano delle modulazioni, la
presenza di una grande ricchezza di idee tematiche e dei frequenti avvicendamenti stilistici.
Si ascolti, ad esempio, la seconda idea melodica, presentata dal pianoforte: il tempo si fa più lento e flessibile (Meno vivo) e il contrasto di stile è assai netto; è una frase jazzistica, che evoca il colore del blues, completata da un disegno dei fiati – il clarinetto piccolo, la tromba con sordina – nello stesso carattere. Con la musica jazz Ravel era venuto a diretto contatto durante la tournée americana del 1928, quando aveva anche avuto occasione di conoscere Gershwin (al quale, come noto, il compositore francese rifiutò di dare lezioni con la celebre frase: «perdereste la grande spontaneità della vostra melodia per fare del cattivo Ravel»). In Ravel, tuttavia, il gusto per il jazz era ancora anteriore al soggiorno americano; elementi del blues affiorano palesi, ad esempio, già nella Sonata per violino, ed è risaputo che il compositore amava frequentare – come numerosi altri artisti e intellettuali dell’epoca – i ritrovi parigini nei quali si esibivano pianisti jazz.
Altri due temi, presentati nuovamente dal pianoforte nello stesso tempo moderato, intervengono nel corso dell’Esposizione; il secondo dei due è particolarmente lirico ed espansivo. Il ritorno al tempo vivace e la ricomparsa del tema iniziale segnano l’avvio dello sviluppo, interamente attraversato da un impulso ritmico-motorio che si sfoga nella breve cadenza del solista, una serie concitata di figure ascendenti interrotte bruscamente da un violento colpo di grancassa. È questo il segnale che dà il via alla Ripresa.
Le idee dell’Esposizione, ora, vengono ripresentate in episodi che a volte ne trasformano il carattere. Il terzo tema, ad esempio, è affidato ai quasi impercettibili armonici dell’arpa, suonati con la mano sinistra, mentre la destra accompagna con liberi glissandi: l’atmosfera è rarefatta e sognante; e poco dopo lo stesso tema è intonato liricamente dal corno, su rapide scale e arpeggi dei legni: anche qui, l’episodio assume il carattere di una fascinosa rèverie. Il quarto tema, invece, è utilizzato dal pianoforte per un’ampia cadenza solistica. La mano sinistra suona il tema e lo avvolge in una «romantica» trama di arpeggi, la destra orna il tutto con catene di trilli: uno stile e un’atmosfera che ricordano certi notturni di Chopin. Con l’episodio finale riprende l’impulso ritmico; la corsa verso la conclusione si fa sempre più precipitosa, finché una scala discendente di accordi suonati a piena orchestra viene a chiudere con decisione il movimento: un gesto perentorio ed enfatico, un po’ volgare, che richiama il modo in cui un’orchestrina di varietà chiude pomposamente un can-can.
Michelangeli – Ettore Gracis
Col secondo movimento (Adagio assai) Ravel tocca i vertici di un lirismo altissimo. In semplice forma lied tripartita, il brano imposta alla mano sinistra del pianoforte una formula assai antica d’accompagnamento, dal ritmo stereotipo; su questo sfondo la destra alza un canto spoglio, intensamente espressivo seppure controllato: un lunghissimo monologo, che possiede
l’ampiezza di una frase infinita. Ancor più vibrante si fa la melodia quando, al termine della parte centrale, è intonata dal timbro malinconico del corno inglese, ornata dal pianoforte che la circonda di una catena ininterrotta di figure efflorescenti. Fu lo stesso Ravel a dichiarare d’aver scritto il movimento prendendo a modello il Larghetto del Quintetto con clarinetto K. 581 di Mozart, una pagina dal lirismo altrettanto nobile ed effusivo.
Con l’ultimo movimento (Presto) il tributo di Ravel all’art nègre si fa più marcato: spunti jazzistici affiorano di continuo nei ritmi, nel linguaggio armonico, negli effetti strumentali. I rapidi accordi spezzati del pianoforte nel tema principale, le veloci concatenazioni di quinte parallele, le armonie politonali, gli interventi dei legni, gli «stacchi» di tromba e corni, i glissati del trombone: tutto ciò riporta alla mente l’età d’oro dello stile New Orleans. Impressiona, soprattutto, la folle corsa dell’orchestra, lanciata a una velocità vertiginosa (con un effetto che a volte rasenta ìa caricatura, come avviene nel passo in cui i fagotti non sono in grado di suonare con altrettanta chiarezza e velocità le rapidissime figure del pianoforte): un impulso motorio vitalistico e inesorabile, che non può non ricordare il perfetto meccanismo di un orologio.