Saint-Saens Camille
Concerto per violoncello e orchestra n. 1
Secondo i miei gusti musicali, Rostropovich è stato il più grande violoncellista del XX secolo e Giulini uno tra i direttori d’orchestra migliori. Metteteli insieme e avrete la migliore esibizione del concerto per violoncello di Dvorak che abbiate mai ascoltato. Il concerto di Saint-Saens, nonostante non raggiunga il livello del capolavoro di Dvorak, è tuttavia piuttosto notevole e l’esibizione è eccezionale. Non capisco per quale ragione la coppia Rostropovich/Giulini non ha avuto il successo meritato come quella pubblicata dalla DGR. Comunque sia abbiamo due registrazioni da sogno. Questo CD è un’occasione da cogliere finché è disponibile. Registrazione eseguita nel 1978 e rimasterizzazione effettuata nel 2001. Ultraraccomandato.
Saint-Saes: Concerto n. 1 in la minore per violoncello e orchestra op. 33
Il Concerto per violoncello e orchestra in la minore op. 33 fu composto tra il 1872 e il 1873. All’apparenza è in un unico movimento sinfonico, ma in realtà il Concerto è suddiviso in tre tempi veri e propri fra i quali però non è prevista pausa. L’omaggio formale palese è a Franz Liszt, sperimentatore della ‘forma ciclica’, tecnica basata sulla mutazione costante del materiale tematico che riappare quindi in tutti e tre i tempi. Tale struttura formale permette però di conservare le tensioni tipiche della vecchia ‘forma sonata’ (quella con cui Mozart, Haydn e Beethoven costruivano grosso modo le loro composizioni). Se da una parte dunque c’è il rispetto per le forme classiche, dall’altra c’è il gusto per la libertà creativa, la ricerca del colore e dell’impasto timbrico, la melodia insolita, l’interazione con forme ancora più antiche.
Carlo Maria Giulini
Si ascolti il tempo centrale del Concerto, Allegretto con moto, riconoscibile grazie alla comparsa di un Minuetto che fa da sipario all’entrata del violoncelli e che si aggiunge poi all’insieme con un controcanto. Tale ultimo tema del solista evolve velocemente in un valzer creando un’ambigua sfasatura della percezione storica che è forse la cifra creativa migliore di Saint-Saëns. Lo stesso accade quando il violoncello sembra preparare la scena dei suoni per l’entrata di un solista di canto. Ciò si nota subito all’inizio del Concerto: il primo tema ricorda una scena d’opera in un momento d’alto sapore drammatico. Lo stesso accade all’inizio del terzo tempo: qui il violoncello incarna un ruolo vocale in una dimensione sempre operistica, ma più distesa e lirica (non a caso una ‘forma- lied’).
Almeno per questo Concerto, il teatro d’opera e i suoi ‘atteggiamenti’ orchestrali sembrano proprio fare da collante all’eclettismo della partitura. L’influenza della realtà operistica era in ogni modo enorme nella vita parigina dell’epoca. Lo stesso Saint-Saëns ci darà un capolavoro in questo ambito con il Samson et Dalila del 1877. Non mancano tuttavia le caratteristiche del virtuosismo prettamente strumentale, soprattutto nei passi più funambolici del terzo tempo. Colpisce poi l’estrema raffinatezza dell’orchestrazione, principalmente per la creazione di affascinanti chiaroscuri che mettono l’autore in contatto con le tendenze più innovative della musica francese dell’epoca (soprattutto Ravel). Per questo aspetto, e per la superba capacità di giocare con la storia delle forme musicali, dando vita a stranianti impasti percettivi, Saint-Saëns finì per aggiungere un tassello importante alla costruzione del futuro musicale.
Dvoràk: Concerto n. 2 per violoncello e orchestra in si minore op. 104
Se una cifra comune si può rintracciare nel programma proposto, questa va ricercata nelle diverse declinazioni dell’uso di materiali di derivazione o di ispirazione popolare, e ciò ovviamente in gradazioni diverse a seconda degli autori, delle matrici culturali e del periodo storico interessato, in una gamma che va dal nazionalismo ottocentesco, alla citazione folclorica, alla ricreazione compositiva del materiale originale.
Il primo brano che si ascolterà, il Concerto in si minore per violoncello e orchestra op. 104 di Antonìn Dvorak, è anche quello di più ‘antica’ scrittura, collocandosi sul finire del XIX secolo, più precisamente nell’inverno newyorkese 1894-95. La sua struttura classica ci rinvia ancor più al passato, ma questo aspetto è controbilanciato da un uso coloristico e virtuosistico dello strumento, nonché dalla matrice popolare di alcuni temi musicali. Figlio di un macellaio che contemporaneamente gestiva una trattoria, suonava cetra e violino, ed era membro dell’orchestra del villaggio, Dvorak aveva ben presenti le radici popolari della musica boema, e avrebbe poi fatto opera di promozione della tradizione musicale ceca, assicurandosi così, in epoca di panslavismo, onori e riconoscimenti.
Mstislav Rostropovich
Tra i brani più eseguiti di Dvorak, il Concerto per violoncello fu scritto per il virtuoso Hanus Wihan, violoncellista del Quartetto boemo e amico del compositore; il brano fu poi però suonato per la prima volta da Leo Stern, in una esecuzione londinese diretta dall’autore il 19 marzo 1896 (all’ultimo momento il compositore si rifiutò di inserire nel finale la cadenza composta da Wihan per se stesso). Ultima opera scritta durante il secondo soggiorno americano, periodo in cui ricoprì l’incarico di direttore del National Conservatory of Music di New York, questa composizione denuncia musicalmente i suoi debiti con la musica popolare boema più che con le nuove suggestioni americane, fors’anche perché scritta dopo tre anni di lontananza dal paese natale.
Il Concerto si apre con una classica introduzione orchestrale bitematica, con il celebre primo tema affidato al clarinetto, reminiscenza della Quarta Sinfonia brahmsiana, cui segue un secondo tema affidato in pianissimo al corno. L’intero primo movimento (Allegro) è permeato dall’alternarsi di sonorità decise e di ripiegamenti: anche il violoncello fa così sfoggio sia della sua dimensione cantabile, sia di quella virtuosistica, e il compositore sfrutta appieno le possibilità del dialogo non solo tra solista e orchestra, ma anche tra violoncello e singoli strumenti dell’orchestra, con una particolare predilezione per i fiati.
Il secondo tempo, Quasi improvvisando: Adagio ma non troppo, si apre con un tema tra il popolare e il religioso, affidato a oboe, clarinetto e fagotto, e ripreso dal violoncello che inizia a elaborarlo per poi ripiegare su se stesso e tornare pienamente protagonista nella parte finale del movimento (quasi cadenza).
Una marcia grave apre l’Allegro moderato finale, con il tema staccato affidato ai corni, ma presto l’andamento marziale si scioglie con il riapparire del violoncello, il quale si inerpica nel suo registro acuto inanellando trilli e dando inizio a un crescendo di protagonismo che, attraverso una serie di episodi tematici, porta alla modulazione in si maggiore. Ha inizio così l’ultima sezione, nella quale crescono sonorità e dinamica, stemperate nel pianissimo della coda, dove il compositore inserisce una melodia (Puisse mon ȃme dei Quatre chants op. 82), in memoria della cognata Joséphine Kounicova, da poco scomparsa.
Non sfugga all’ascolto come in quest’ultimo movimento, attraverso la ripresa melodica di un tema del secondo tempo, venga usato il procedimento ciclico della Sinfonia “dal nuovo mondo”, scritta anch’essa a New York, nel periodo 1892-93.