Schonberg Arnold
Gurrelieder
Gurrelieder è un lavoro complesso scritto per una grande orchestra, solisti e coro rafforzato. Questa registrazione è davvero eccellente. Soprattutto la voce di Jesse Norman, la meravigliosa esecuzione di Tatiana Troyanos nel Lied der Waldtraube, il coro formato da tre voci maschili nella terza sezione e l’esecuzione del coro formato da otto voci nella sezione finale. Seiji Ozawa conduce splendidamente la Boston Symphony Orchestra e il Coro. Oltre a questa composizione, non possiamo tralasciare la registrazione delle due Sinfonie da Camera eseguite da Eliahu Inbal sul podio dell’Orchestra della Radio di Francoforte, altrettanto bella. Registrazioni eseguite dal 1975 al 1979 e rimasterizzazione effettuata nel 1999. Audio ottimo. Consigliato soprattutto a coloro che amano questo compositore.
Gurrelieder
I Gurre-Lieder di Schönberg venivano considerati da Claude Rostand come una delle opere più importanti della storia della musica. Altri critici sottolineano il fatto che si tratta di un’opera giovanile del compositore in cui «l’onnipresenza di
Wagner è schiacciante» (Mila). Si tratta di giudizi apparentemente contrastanti, ma che in realtà non si escludono: vanno però interpretati.
Per poter valutare il posto, invero singolare, che i Gurre-Lieder occupano nell’ambito della creatività schönberghiana e in quello generale della musica europea tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nostro secolo, bisogna rifarsi alle circostanze e ai tempi che caratterizzarono la nascita di quest’opera. Come riferisce Alexander von Zemlinsky, il mentore del giovane Schönberg e suo futuro cognato, l’impulso iniziale per la composizione dei Gurre-Lieder fu costituito da un concorso indetto per la fine del 1899 dal Tonkünstlerverein di Vienna per un ciclo di Lieder per canto e pianoforte. Schönberg, il quale aveva, allora, venticinque anni e si trovava in grandi ristrettezze economiche, intendeva partecipare al concorso. Scrive Zemlinsky: «… Schönberg scrisse alcuni Lieder su poesie di Jacobsen. Glieli suonai. I Lieder erano bellissimi e di un genere veramente nuovo, ma entrambi ne ricevemmo l’impressione che, proprio per questo, non avrebbero avuto nessuna prospettiva nel concorso per un premio. Ciononostante Schönberg compose l’intero ciclo di Jacobsen. Non però per una sola voce di canto: vi si aggiunsero grandi cori, un melologo, preludi e interludi ed il tutto fu scritto per un’orchestra gigantesca».
Lo stesso Schönberg, in una lettera a Berg riprodotta nel grande Führer (più di cento pagine di guida all’opera) che lo stesso Berg pubblicò nel 1913, in vista della trionfale prima esecuzione che i Gurre-Lieder conobbero il 23 febbraio di quell’anno nel Grosser Musikvereinssaal di Vienna, sotto la direzione di Franz Schreker.
In questa lettera Schönberg precisa tempi e vicissitudini della composizione: «Nel marzo 1900 terminai le parti I e II e parecchio della parte III. Seguì una lunga pausa colmata con la strumentazione di operette. Nel marzo 1901 (cioè all’inizio di quell’anno) fu finito il resto. Poscia iniziò la strumentazione (impedita nuovamente da altri lavori, giacché sono stato sempre ostacolato nel comporre). Ho continuato a Berlino verso la metà del 1902. Poi ci fu una grande interruzione per via della strumentazione di operette. Finalmente ho lavorato nel 1903 terminando la partitura fino all’incirca la pagina 118 (corrispondente alla parte 105 della riduzione per pianoforte). Dopodiché ho lasciato la partitura abbandonandola completamente. L’ho ripresa nel luglio 1910 (a Vienna). Ho strumentato tutto salvo il coro finale, terminando quest’ultimo a Zehlendorf (presso Berlino) nel 1911. L’intera composizione era già compiuta, credo, nell’aprile o nel maggio 1901. Solo il coro finale si trovava allo stato d’un abbozzo nel quale, comunque, le voci principali e l’intera forma erano già interamente presenti. Solo molto poche indicazioni strumentali erano annotate nella composizione originaria. Allora, non notavo cose del genere, giacché la sonorità si ricorda. Ma pure prescindendo da questo: si deve proprio
vedere che la parte orchestrata nel 1910 e nel 1911, per quanto riguarda lo stile della strumentazione, è del tutto diversa dalla I e dalla II parte. Non avevo l’intenzione di nascondere questo. Al contrario, va da sé che a distanza di dieci anni strumento in modo diverso. Nel terminare la partitura ho rielaborato soltanto alcune, poche parti. Si tratta solo di gruppi di 8-20 battute; in particolare ad esempio nel pezzo: Klaus-Narr e nel coro conclusivo. Tutto il resto (anche qualcosa che avrei visto volentieri in modo diverso) è rimasto com’era allora. Non avrei centrato più lo stile e un conoscitore appena esercitato dovrebbe saper trovare senz’altro i 4-5 passi emendati. Queste correzioni mi hanno fatto più fatica che, a suo tempo, l’intera composizione».
La cosa è del tutto comprensibile se si pensa ai passi immensi, anzi ai salti vertiginosi che Schönberg aveva compiuto, tra il 1903 e il 1911, lungo l’itinerario stilistico che la sorte (ma egli parlava delle determinazioni di un «Supremo Comandante») aveva assegnato a lui e, insieme a lui, alla musica occidentale.
I Gurre-Lieder apparivano ai loro primi ascoltatori – ed oggi appaiono vieppiù a chi li recepisce con un orecchio passivo, non analitico – come un’opera immersa in un clima tardo-romantico, insieme post-wagneriano e post-brahmsiano. Ed è certamente quest’impressione che determinò il grande successo della prima esecuzione, di gran lunga il maggiore che Schönberg abbia mai potuto assaporare nella sua difficile carriera.
Ai Gurre-Lieder calza perfettamente quanto Schönberg, in suo abbozzo autobiografico, riferiva al Sestetto per archi Verklärte Nacht op. 4, scritto nel 1899, cioè nello stesso anno in cui aveva inizio la composizione che qui c’interessa: «… divenni brahmsiano incontrando Zemlinsky. Il suo amore abbracciava Brahms e Wagner e perciò divenni anch’io un loro seguace convinto. Nessuna meraviglia, dunque, se la musica che composi in quel periodo riflette l’influsso di quei due maestri, al favore per i quali si aggiunse quello per Liszt, Bruckner e forse pure Wolf. Questa è la ragione per cui […] la costruzione tematica vi è basata da un lato su di un “modello” e su di una “sequenza” sopra un’armonia circolare di tipo wagneriano, e dall’altro lato su di una tecnica di sviluppo della variazione brahmsiana. Pure a Brahms può essere accreditata la disparità delle misure […]. Ma il trattamento degli strumenti, il modo della composizione e gran parte delle sonorità sono strettamente wagneriani. Penso però che qualche elemento schönberghiano possa scorgersi nella lunghezza di alcune melodie, nella sonorità, nelle combinazioni contrappuntistiche e dei motivi, in certi movimenti armonici e semicontrappuntistici dei bassi nei confronti della melodia. Finalmente v’erano già alcuni passaggi di tonalità imprecisa che possono essere considerati premonitori del futuro».
Alexsander von Zemlinsky
La peculiarità più vistosa dei Gurre-Lieder risulta però dalle dimensioni degli organici sinfonico-vocali. Abbiamo già citato la constatazione di Zemlinsky che l’orchestra dei Gurre-Lieder era «gigantesca». In realtà i mezzi chiamati a raccolta per realizzare quest’opera superano quantitativamente ogni precedente ed ogni conseguente. La partitura richiede infatti: 5 cantanti solisti (2 tenori, 1 soprano, 1 mezzosoprano o contralto, 1 basso), 1 recitante; 4 complessi corali,
di cui un doppio coro misto a otto parti e tre cori virili a 4 parti ognuno; 4 flauti piccoli, 4 flauti grandi, 3 oboi, 2 corni inglesi (eventualmente 5 oboi), 3 clarinetti in la oppure in si bemolle, 2 clarinetti in mi bemolle, 2 clarinetti bassi in si bemolle (eventualmente 7 clarinetti in la), 3 fagotti, 2 controfagotti; 10 corni (eventualmente 4 tube wagneriane), 6 trombe in fa, si bemolle e do, 1 tromba bassa in mi bemolle, 1 trombone contralto, 4 tromboni tenor-bassi, 1 trombone basso in mi bemolle, 1 trombone contrabbasso, 1 tuba contrabbasso; 6 timpani, grande cassa rullante, piatti, triangolo, campanelli, cassa piccola, grancassa, xilofono, raganelle, alcune grandi catene, tam-tam; 4 arpe, celesta; una massa di strumenti ad arco in «molteplici raddoppi»: i violini I devono essere divisibili in 10, così anche i violini II, mentre viole e violoncelli devono permettere divisioni in 8 parti differenti. Non esisteva e non esiste in commercio carta da musica stampata sufficientemente grande per permettere la notazione di figure sonore realizzate da tante voci e da tanti strumenti. Schönberg fu obbligato dunque di farsi approntare dei fogli di carta da musica con ben 48 pentagrammi, di un’altezza che supera il mezzo metro (le dimensioni esatte di questi fogli sono 36×57,5 cm.).
Con il loro gigantismo orchestrale i Gurre-Lieder segnano il culmine di una tendenza che, attraverso Wagner e Berlioz, risale fino al Beethoven della Nona Sinfonia. Schönberg aveva subito indubbiamente anche l’influsso di Mahler, ma non è da escludersi che l’esempio dei Gurre-Lieder abbia poi contribuito a stimolare quest’ultimo nell’impresa della sua Ottava, cosiddetta «Sinfonia dei mille». Schönberg e Mahler erano amici e non è improbabile che Schönberg abbia mostrato a Mahler la ciclopica partitura alla quale stava lavorando, così come in precedenza ne aveva mostrato gli inizi a Richard Strauss il quale ne rimase molto impressionato, tant’è vero che, oltre a fargli assegnare il Liszt- Stipendium per il 1902 (un premio in denaro della Fondazione Liszt), gli procurò un posto di insegnante presso il Conservatorio Stern di Berlino. In modo certamente indipendente da Schönberg, Stravinskij concepì la grande partitura orchestrale del Sacre du printemps. Fu però l’esempio del Pierrot lunaire di Schönberg (che Stravinskij ebbe modo di ascoltare a Berlino nel 1912, prima cioè che i Gurre-Lieder avessero conosciuto la loro prima esecuzione) ad indurre l’autore del Sacre a troncare per sempre la tendenza di ogni gigantismo orchestrale. Per conto suo, Schönberg aveva già reagito contro il sovradimensionamento orchestrale, da lui stesso spinto oltre ogni precedente limite, iniziando fin dal 1906 il processo di un ridimensionamento cameristico dello stile sinfonico con la sua prima Kammersymphonie op. 19 per 15 strumenti. La svolta rivoluzionaria preannunciata da quel lavoro, non si limitò peraltro alle dimensioni estrinseche della compagine sonora, ma investì la musica in ogni sua più riposta piega, in ogni suo parametro. Nel secondo Quartetto d’archi op. 10 del 1908, pur designandolo ancora come «in fa diesis
minore», Schönberg arrivò a sospendere per lunghi tratti ogni tradizionale riferimento tonale; nei Quindici canti da Das Buch der hängenden Gärten di Stefan George op. 15 (dello stesso anno 1908), uscì definitivamente dai limiti del tradizionale sistema armonico-tonale; nei Sei piccoli pezzi op. 19 per pianoforte spezzò, nel 1911, ogni istituzionalizzata matrice formale e ridusse la musica a proporzioni di aforistica laconicità. Se Stravinskij potè sentire i due anni trascorsi tra le nascite dell’Uccello di fuoco e della Sagra della primavera come se pesassero per venti, Schönberg avrebbe dovuto sentirsi, nel momento in cui riprendeva la partitura dei Gurre-Lieder, a distanze stellari dal mondo in cui era stato concepito e progettato questo grandioso edificio sonoro. Ciononostante, ebbe il coraggio di tornare sui suoi passi per terminare, anche se con la ricordata fatica, l’opera incompiuta. Si trattò di un gesto che getta una luce significativa sull’ulteriore corso della sua attività creatrice. Parlando della Kammersymphonie op. 9, in uno scritto intitolato On revient toujours (datato 1948) Schönberg confessa: «…io dissi ai miei amici: “ora ho stabilito il mio stile. Ora so come devo comporre”. Ma la mia successiva opera mostrò una grande deviazione da questo stile; quello fu il primo passo verso il mio stile presente. Il mio destino mi ha costretto in questa direzione – non mi era dato di continuare nella maniera di Notte trasfigurata o dei Gurre-Lieder e persino di Pelléas e Mélisande. Il Supremo Comandante mi aveva ordinato di seguire una strada più dura. Ma la nostalgia d’un ritorno allo stile più antico rimase sempre vigorosa in me; e di quando in quando dovevo soddisfare quest’urgenza. Questa è la ragione per la quale io scrivo ogni tanto della musica tonale. Differenze stilistiche di tal genere non hanno speciale importanza per me. Non so quali delle mie composizioni siano migliori; le amo tutte, perché tutte mi piacquero quando le scrissi».
Con simili affermazioni e col suo effettivo comportamento nel campo del concreto lavoro compositivo, Schönberg diede una grande, anche se purtroppo non abbastanza seguita, lezione di tolleranza e di affrancamento da ogni tabù stilistico, sia a tanti suoi seguaci che non volevano ascoltare i suoi ammonimenti contro ogni eccessiva «ortodossia», sia in genere, a tutti coloro che, volendosi avanguardisti radicali, sono sempre tentati di esercitare veri e propri terrorismi culturali contro tutto ciò che differisce da uno stile considerato l’unico «attuale» in un determinato momento storico. Non per nulla Schönberg rifiutava di considerarsi un «compositore dodecafonico», ma voleva essere considerato per quello che egli si sentiva di essere realmente: un compositore che non si conforma a dei precetti, vecchi o nuovi che fossero, ma cerca solo delle verità.
Se i Gurre-Lieder si collocano virtualmente al polo opposto degli aforismi non tonali di Schönberg, non vi mancano tuttavia, come risulta già dalle citate frasi
del compositore, elementi che preannunciano i successivi aspetti rivoluzionari della sua arte. Tra questi l’uso dello Sprechgesang, cioè del «canto-parlato», una forma intermedia tra recitazione prosastica e intonazione cantata. Lo Sprechgesang caratterizzerà opere come il Pierrot lunaire e Moses und Aaron. Esso si trova prefigurato nel melologo Des Sommerwindes wilde Jagd (La caccia selvaggia del vento d’estate) che precede la conclusione dei Gurre- Lieder. In una lettera scritta quasi mezzo secolo più tardi, Schönberg avverte però: «La notazione delle altezze sonore non va presa qui in modo così rigoroso come nei melologhi del Pierrot. In nessun caso ne deve nascere una melodia parlata cantabile come succede in quest’ultimo. Bisogna osservare sempre il ritmo e l’intensità dei suoni (in modo corrispondente all’accompagnamento). In taluni passi, che appaiono quasi melodici, si potrebbe parlare in modo un poco (!!) più musicale. Le altezze dei suoni sono da considerarsi come “differenze di registro”; ciò significa: il passo rispettivo (!!! non la singola nota) deve essere parlato in maniera più acuta o più grave. Non però proporzioni di intervalli!».
Anche la complessiva articolazione formale dei Gurre-Lieder presenta aspetti del tutto singolari. Come s’è già detto, l’opera nacque come un ciclo di liriche. I testi sono forniti dalle serie di poesie Gurresange del poeta danese Jens Peter Jacobsen (1847-1885), tradotti in tedesco da Robert Franz Arnold (pseudonimo del filologo e filosofo viennese Levisohn, vissuto tra il 1872 e il 1938). Queste poesie presentano una continuità narrativa riferendosi alla trama di una leggenda diffusa nelle tradizioni popolari della Danimarca, della Svezia, dell’Islanda e delle Isole. Faröer. Tali tradizioni si basano su di una vicenda storica accaduta durante il regno di Valdemar il Grande (1157-1182) e successivamente attribuita all’epoca di Valdemar IV Atterdag (1340-1375), sviluppata in termini leggendari ed ambientata nei dintorni del sito di Gurre presso il lago Esrom, nel Seeland settenrionale. Secondo la leggenda il re ama di nascosto Tove Lille (la piccola Tove: nome che significa anche colomba). Presentimenti funebri aleggiano sui loro incontri amorosi nel castello di Gurre, in mezzo all’incantata natura nordica. Dopo una «notte trasfigurata» di ebbrezza erotica, una colomba silvestre (Waldtaube) si alza in volo per annunciare a tutte le altre colombe della foresta di Gurre che Tove è morta, uccisa per ordine della gelosa regina Helvig. Il re, disperato, accompagna la salma di Tove alla tomba. Impreca contro l’ingiustizia divina e chiama a raccolta i suoi guerrieri, vivi e defunti, per precipitarsi con loro in una selvaggia corsa verso l’abisso della morte.
Arnold Sconberg
Al termine della spettrale Caccia del vento d’estate, di questa variante maschile del Liebestod, della «morte d’amore» arciromantica, sorge il sole, quale simbolo e promessa di riscatto e risurrezione. Schönberg ha raggruppato venti liriche in tre parti, precedute da preludi e collegate da intermezzi orchestrali.
La prima parte inizia con un’ampia introduzione sinfonica che si svolge in una soffusa atmosfera crepuscolare e prepara tematicamente il primo canto di Waldemar: «Ora il crepuscolo smorza ogni suono / Di mare e di terra, / Le nubi volanti s’adagiano / Voluttuose sull’orizzonte». Segue il primo canto di Tove, tutto intriso di luce lunare: «Oh, quando i raggi della luna scivolano teneramente / e tutt’intorno si espandono pace e tranquillità». Un breve postludio e un passo di transizione orchestrale portano al terzo Lied, affidato nuovamente a Waldemar. Il brano ha la forma d’un Lied tripartito. Un primo episodio, Molto vivace, si riferisce all’impazienza del re che sprona il suo cavallo a galoppare sempre più velocemente verso il castello di Gurre dove l’attende Tove. Una parte centrale, in movimento Molto più lento, ritrae «le ombre del bosco che si estendono / Lontano su prati e stagni». La ripresa della parte iniziale (Tempo primo) culmina coll’estatico grido: «Volmer hat Tove gesehen» («Volmer ha visto Tove»). Senza alcuna soluzione di continuità, un interludio orchestrale porta all’estatico canto di Tove (IV Lied): «Sterne jubeln, das Meer, es leuchtet, / Presst an die Küste sein pochendes Herz» («Stelle giubilano, il mare splende, / Stringe alla sponda il suo cuore battente). Vi vengono sviluppati gli stessi temi del precedente canto di Waldemar, in varianti contrastanti, ma giuocate tutte su traslucidi, aerei registri sonori. «Come se venisse da un altro mondo» (E. Wallesz) risuona, allora il canto di Waldemar (V): «So tanzen die / Engel vor Gottes Thron nicht, / Wie die Welt tanzt vor mir» («Così nemmeno gli angeli / ballano davanti al trono di Dio, / Come il mondo mi balla davanti»). Questo Lied ha la semplicità popolaresca che troverà
tanti ulteriori esempi nei Wunderhorn-Lieder, nei «Canti del corno magico del fanciullo» nella Terza, Quarta e Ottava Sinfonia di Mahler. (Mahler amava tanto Schönberg, da preoccuparsi ancora sul proprio letto di morte della sorte difficile che attendeva il più giovane amico). Al canto della felicità quasi paradisiaca del re, segue immediatamente il canto appassionatamente sensuale di Tove: «Nun sag ich dir sum ersten Mal: / “König volmer, iche liebe dich!” Nun küß ich dich zum erstenmal, / Und schlinge den Arm um dich» («Ora te lo dico per la prima volta: “Re Volmer, ti amo! ” / Ora ti bacio per la prima volta, / E ti cingo col mio braccio»). Con le sue ampie volute ed i suoi grandi intervalli melodici (che Schönberg allargherà sempre di più nei suoi futuri lavori del periodo espressionista), questo motivo d’amore è destinato ad assumere la funzione di tema principale dell’intera opera. In molteplici varianti lo stesso tema ed i suoi derivati pervaderanno le parti principali e spesso anche quelle di accompagnamento nell’ulteriore decorso dei Gurre-Lieder. Nel susseguente canto di Waldemar (VII), «Es ist Mitternachtszeit / Und unselge Geschlechter / Stehn auf aus vergess’nen, eingesunk’nen Gräbern» («E tempo di mezzanotte / E gente funesta / Sorge da tombe obliate e sprofondate»), l’atmosfera espressiva si oscura. Vi si esprime la prima premonizione del fatale esito della vicenda. Risponde Tove (VIII) con una estasiata invocazione alla morte come romantico compimento supremo dell’amore: «Denn wir gehn zu Grab / Wie ein Lächeln, ersterbend / Im seeligen Kuß!» («Perché noi scendiamo nella tomba / Come un sorriso, morendo / nel bacio beato!»). L’ultimo brano di questo gruppo di canti d’amore è un Lied di Waldemar che porta la musica in una specie di Nirvana erotico, dove ogni desiderio sensuale si risolve e si dissolve in una perfetta, totale unione di due esseri: «Du wunderliche Tove! / So rei eh durch dich nun bin ich, / Daß nicht einmal mehr ein Wunsch mir eigen / … Denn mir ist’s, als schlüg in meiner Brust / Deines Herzens Schlag, / Und als höbe mein
Atemzug, / Tove , deinen Busen / … Und meine Seele ist still» («Strana Tove! / Sono ora così arricchitoda te / Che non possiedo più nemmeno un solo desiderio / … Perché è come se nel mio petto / battessero i battiti del tuo cuore / E come se il mio respiro sollevasse il tuo seno / … E la mia anima è silente»). Un ritorno del tema d’amore di Tove dà l’avvio ad un ampio Interludio orchestrale che si configura come una specie di sviluppo di tutti i principali elementi tematici della prima parte. Attraverso un lungo crescendo, quest’Interludio sfocia nel drammatico Lied der Waldtaube (Canto della colomba silvestre) che, a sua volta, culmina in una frase di un’intensità quasi espressionistica: «Helwigs Falke war’s der grausam Gurres Taube zerriß» («Fu il falco di Helwig che lacerò crudelmente la colomba di Gurre». Con quest’annuncio di morte termina la prima parte.
La seconda parte consta praticamente di un solo brano: un dolente compianto di Waldemar, il quale si ribella a Dio: «Herrgott weisst du, was du tatest, / Als
klein Tove mir verstarb?» («Dio, sai tu quel che facevi, / quando mi morì la piccola Tove?»). L’introduce un breve preludio orchestrale (che s’avvia da, cupi accordi, simili a quelli che avevano suggellato la prima parte) e lo chiude un conciso, agitato postludio sinfonico.
La terza parte è intitolata Die wilde Jagd (La selvaggia caccia: ma forse sarebbe meglio tradurre: La selvaggia corsa). Questa parte finale include nove brani che si susseguono però ugualmente senza interruzioni. Un breve Preludio orchestrale riprende Molto lentamente, il tenebroso motivo del canto di mezzanotte di Waldemar. Al suono delle tube wagneriane, il re chiama a raccolta i suoi guerrieri vivi e defunti: «Erwarcht, König Waldemars Mannen wert!… Heute ist Ausfahrt der Toten» («Svegliatevi, prodi di re Waldemar! Oggi è l’uscita dei morti»). Segue un episodio macabro-grottesco di un contadino che fa scongiuri rituali contro gli spiriti maligni: «Deckel des Sarges klappert und klappt» («Il coperchio della bara crocchia e sbatte»). Al culmine del pezzo, il canto si trasforma in grido articolato e stilizzato, in qualcosa come uno «Schreigesang», un «canto-gridato» o, se si vuole, un «grido-cantato»: in ogni caso una rottura di sapore pre-espressionista della normale maniera di cantare. Finita la spettrale cavalcata, si ode la voce di Waldemar il quale rievoca la desiata Tove: «Mit Toves Stimme flüstert der Wald, / Mit Toves Augen schaut der See, /Mit Toves Lächeln leuchten die Sterne» («Con la voce di Tove sussurra il bosco, / Con gli occhi di Tove guarda il lago, / Col sorriso di Tove luccicano gli astri»). La nostalgica melodia di questo quarto Lied dell’ultima parte si dipana sostenuta e avvolta da intrecci canonici di una variante della melodia d’amore di Tove. Un elaborato interludio sinfonico prepara la bizzarra scena di Klaus-Narr (Klaus il folle – V). Ed è da questo punto che si avvertono più chiaramente differenze nella scrittura orchestrale rispetto alle parti strumentate prima del 1903. Il disporsi dei singoli timbri serve anzitutto all’individuazione delle trame polifoniche in un gioco di straordinario virtuosismo orchestrale. L’ironia macabra cede alla disperazione nella conclusiva invettiva contro Dio: «Na, dann mag Gott sich selber gnaden» («Allora Dio perdoni se stesso»). Riprende Waldemar (VI): «Du strenger Richter droben, / Du lachst meiner Schmerzen, / Doch dereinst, beim Auferstehn des Gebeins / Nimm es dir wohl zu Herzen: / Ich und Tove, wir sind eins» («Tu, severo giudice lassù, / Ridi dei miei dolori, / Ma, nel momento della risurrezione dello scheletro / Prenditelo a cuore: / Uno siamo io e Tove»). Altrimenti il re minaccia di dare l’assalto al cielo. Ma comincia ad albeggiare e la cavalcata demoniaca è finita. Il coro degli Uomini di Waldemar canta il richiamo delle tombe (VII): «Der Hahn erhebt den Kopf zur Kraht… Mit offenem Munde ruft das Grab… O, könnten wir in Frieden schlafen» («Il gallo alza la testa pel canto… Con bocca spalancata chiama la tomba… Oh, potessimo dormire in pace»). I colori notturni trapassano gradualmente in quelli
dell’incipiente alba. Comincia Des Sommerwindes wilde ]agd, (La selvaggia corsa del vento estivo – VIII). I legni tutti iniziano il movimento con impalpabile lievità. Ed è qui, che, una volta di più, si chiariscono le ragioni che avevano spinto Schönberg a scegliere un così mastodontico organico sinfonico- vocale: non tanto per ottenere massicci effetti di sovradimensionate sonorità, quanto per poter conferire colori omogenei ad interi complessi armonici. Così, ad esempio, la presenza in orchestra di otto flauti, permette a Schönberg di conferire un timbro unico ad accordi di otto parti, realizzando aerei «doppi cori» strumentali. Come s’è già detto, la sezione iniziale di questo Finale, è concepita come un melologo (Melodram). In questo brano Egon Wellesz (fedele allievo ed acuto esegeta del primo Schönberg), scorgeva «la chiave per la comprensione delle opere che Schönberg doveva scrivere più tardi. Come egli stesso ebbe ad esprimersi in un passo della Harmonielehre, tutto ciò che è nuovo sgorga da un sentire cosmico, dalla relazione tra l’io e il mondo. Qui, la natura è vista attraverso l’esperienza dell’anima. I sentimenti di Waldemar diventano quelli dell’ascoltatore, verso il quale si eleva la voce di Tove emergendo tra i suoni della natura. È stato un colpo di genio che permette di incrementare l’effetto del coro finale mediante la concezione dell’ultimo pezzo precedente il coro come un melologo. […] Qui, l’insieme dell’orchestra viene trattato come un corpo di strumenti solisti, in modo che il recitante non ne risulti “coperto”». Prima che dall’orchestra sorga il motivo dell’amore di Tove, nella sua originaria forma tematica, Schönberg prescrive, sulla partitura, anche l’atteggiamento e la mimica del recitante: «Con sguardo ansiosamente teso; trasformandosi lentamente in amichevole sorpresa, seguendo la musica». Finalmente rientra il coro (o meglio: i cori) per annunciare il sorgere del sole, simbolo e pegno della risurrezione: «Seht die Sonne! / Farbenfroh am Himmelssaum, / Östlich grüßt ihr Morgentraum» («Guardate il sole! / In gioia di colori sul bordo del cielo / Saluta dall’Oriente il suo sogno mattutino»). A questo punto, come per chiudere il cerchio architettonico dell’opera, viene ripreso nella luminosa tonalità di do maggiore, il disegno del crepuscolare Orchester-Vorspiel iniziale, per terminare i Gurre-Lieder in un tripudio di voci, suoni e colori. Come si può desumere da questa sommaria descrizione, Schönberg ha conferito al suo ciclo di Lieder strutture di tipo sinfonico e nello stesso tempo ha configurato l’insieme dell’opera seguendo il filo narrativo del testo poetico in maniera che ne risulta un grande affresco melodrammatico, una vera e propria opera «da mirarsi con la mente».
Seiji Ozawa
Ciclo di Lieder; sinfonia. drammatica; oratorio; opera latente: una simile polivalenza formale è davvero senza precedenti nella storia della musica (non potrebbero certo pretendere tanto lavori come Der Rose Pilgerfahrt op. 112 di Robert Schumann, la Rapsodia per contralto, coro maschile e orchestra op. 53 di Brahms su poesie da Harzreise im Winter di Goethe, opere non dotate di reali dimensioni sinfonico-drammatiche).
Un esempio successivo (se si tiene conto delle date reali della composizione dei Gurre-Lieder, nella loro sostanza musicale, date che s’iscrivono, come abbiamo detto, tra il 1899 e il 1903), lo si può ravvisare invece nel Lied von der Erde (Il canto della terra) di Mahler, concepito intenzionalmente ed espressamente come un ciclo di Lieder, travasati e formulati come una vera e propria Sinfonia (si sa che, così facendo, Mahler s’illudeva di eludere quello che gli sembrava il divieto fatale di oltrepassare la soglia d’una «Decima Sinfonia» solo dopo aver terminata la sua Nona. Non lo fece e iniziò un’altra «Decima»: ma non gli fu permesso di compierla).
Schönberg non cercò mai di andare contro quello che sentiva essere il suo destino. Non era tentato da Decime Sinfonie. Cercava solo le sue verità in ubbidienza ai dettami di una forza superiore che sentiva in sé. Non esitava mai ad andare contro quelle che, volta per volta, potevano apparire come le correnti principali e le vie maestre di quella che avrebbe dovuto essere la sua storia e la storia in generale. Così potè sembrare a volte un rivoluzionario sovversivo e presentarsi altre volte come un conservatore reazionario. In realtà fu sempre e solo se stesso. Perciò, a dispetto di certi prematuri ed incauti proclami, Schönberg non è morto. La sua musica non morirà.
Chamber Symphony n. 1 in mi maggiore op. 9
La prima Kammersymphonie op. 9, finita nella versione per quindici strumenti solisti il 25 luglio 1906 ed eseguita a Vienna nel 1907 dal Quartetto Rosé con altri strumentisti, è un’opera di svolta nella produzione schönberghiana, una pietra miliare sulla strada della sua evoluzione artistica. Senza voltare del tutto le spalle al passato, suo e della tradizione musicale a lui più vicina, Schönberg vi sperimentò con decisione, forse anche con intenti programmatici, nuove soluzioni espressive, estendendo la sua ricerca a tutti gli elementi del comporre: dalla elaborazione tematica al rapporto tra contrappunto e armonia, dalla configurazione formale all’assetto strumentale. E’ quest’ultimo l’aspetto più caratteristico, ma anche più problematico, della prima Sinfonia da camera: titolo già ambivalente nella sua formulazione. E’ chiaro che con la scelta di un organico di quindici strumenti solisti (flauto, oboe, corno inglese, clarinetto in re, clarinetto in la, clarinetto basso, fagotto, controfagotto, due corni in fa, primo e secondo violino, viola, violoncello e contrabbasso) l’autore intendeva allontanarsi dal gigantismo orchestrale del sinfonismo romantico e tardo romantico, da lui già accostato in precedenti lavori, e puntare con risolutezza verso uno stile breve e conciso, estremamente concentrato, che gli consentisse di indagare, per così dire allo stato puro, complessi problemi di linguaggio rinunciando alle ripetizioni, alle progressioni e allo sviluppo tematico. E’ interessante a questo proposito riportare quando Schönberg stesso ebbe a dichiarare molti anni dopo, nel 1949: “Se questa composizione è un vero punto di svolta nella mia evoluzione da questo punto di vista, esso lo è ancor più per il fatto che presenta un primo tentativo di creare un’orchestra da camera. Si poteva forse già prevedere il diffondersi della radio, e un’orchestra da camera in questo caso sarebbe stata in grado di riempire la stanza di un appartamento con una quantità sufficiente di suono. C’era forse la possibilità, in prospettiva, di poter provare con un gruppo ristretto di strumentisti a costi inferiori in modo più approfondito, evitando le spese proibitive delle nostre orchestre-mammuth. La storia mi ha deluso da questo punto di vista: la mole delle orchestre ha continuato a crescere, e nonostante il gran numero di composizioni per piccolo complesso, anch’io ho dovuto tornare a scrivere per grande orchestra”.
Schönberg non si riferiva soltanto alle Variazioni per orchestra, di cui diremo tra poco, ma anche alla versione per grande orchestra della stessa Kammersymphonie op. 9, realizzata nel 1935 e frutto di un ripensamento del rapporto fra ricerca linguistica e realizzazione strumentale. Presupposto del lavoro è infatti la assoluta equiparazione tra i quindici strumenti solisti, con la parziale eccezione dei corni in numero di due e con funzione di guida. Questo equilibrio di fondo, improntato a rigorosa unitarietà nonostante le continue asprezze e deformazioni timbriche, è il tratto distintivo della nuova concezione schönberghiana: in prospettiva, superamento della poetica espressionista e punto di partenza sulla strada della dodecafonia. La tendenza alla condensazione e alla funzionalità di ogni singola unità si estende a tutti i piani della composizione: non a caso l’autore riconosceva, con evidente soddisfazione, che qui “veramente è stabilita un’intima reciprocità fra melodia e armonia in quanto ambedue riconnettono in una perfetta unità lontane relazioni di tonalità, traggono conseguenze logiche dai problemi affrontati e contemporaneamente compiono un grande progresso in direzione dell’emancipazione della dissonanza”.
Non altrettanto logiche e conseguenti, e quindi soddisfacenti, dovettero sembrargli invece le ragioni, in via di principio ineccepibili, che avevano portato alla scelta della insolita strumentazione. Ancora nel 1916 il compositore notava: “Credo che in fondo questo uso solistico degli archi in rapporto a tanti fiati sia un errore. Viene infatti meno la possibilità che un solo strumento ad arco, per esempio un violino solo, possa dominare al di sopra di tutti gli altri quando questi suonano insieme”. Non bisogna dimenticare che Schönberg, anche prima di affrontare alla radice il tema della comunicazione nella sua opera-testamento Moses und Aron, era ossessionato dal problema della comprensibilità e temeva che le sue novità, della cui necessità era convinto, incontrassero ostacoli non in quanto tali, ma in quanto non rese completamente percepibili all’ascolto. E per quanto per esempio si adombrasse non poco con Busoni allorché questi nel 1909 aveva pensato di trascrivere il secondo dei Drei Klavierstücke op. 11 in una “interpretazione da concerto” proprio per renderlo più pianistico e più accessibile all’ascoltatore, il dubbio che il “difetto” della sua opera giovanile, che il vecchio Mahler aveva confessato di “non capire”, risiedesse nella strumentazione, lo spinse alla decisione della tarda versione orchestrale, in una fase di riordinamento delle sue stesse innovazioni.
A noi oggi, forse anche grazie ai progressi in fatto di consapevolezza e qualità esecutiva che i cinquant’anni trascorsi dalla morte dell’autore hanno assicurato, la versione originale appare non soltanto preferibile ma addirittura irrinunciabile. Essa sta all’altra posteriore un po’ come un testo ostico e assai complesso ma folgorante sta al suo commento esplicativo: questo aiuta a comprendere l’altro, ma non sostituisce o modifica il testo stesso. Basta ascoltare il memorabile inizio, con l’idea armonica del pezzo (ossia la serie per quarte sovrapposte) prima distribuita in accordi (“Lento”) e poi esposta melodicamente dal corno solo (“Molto presto”), per rendersi conto della necessità di una scrittura brusca e aggressiva, accumulata su superfici sonore crude. Essa, nella sua rudezza, è coerente con il processo innovativo in cui si incarna il legame tra verità interiore ed espressione esterna, rappresentata dalla stessa compresenza di un’armonia tonale (mi maggiore, perfino indicata in chiave) con un’armonia liberamente atonale. La fittissima densità della scrittura polifonica è l’esatto corrispettivo di una concentrazione formale che costringe nell’arco ininterrotto di un solo movimento frastagliato i caratteri dei quattro tempi tradizionali di una sinfonia. Non un poema sinfonico, ma un delirio incandescente e razionale nel quale una mostruosa forma-sonata pentapartita ingloba, dopo l’esposizione dell’Allegro di sonata, uno Scherzo seguito dalla Durchführung (davvero più “svolgimento” che “sviluppo”) e, prima della ripresa, che funge anche da finale, un Adagio dolcissimo e bruciante. Per questa cavalcata selvaggia alle soglie di allucinate introspezioni non occorre un’intera orchestra, ma una rappresentanza scelta di apostoli.
Chamber Symphony n. 2 in si bemolle minore op. 38
Capostipite della seconda scuola viennese, così chiamata per distinguerla dalla prima, comprendente i nomi di Haydn, Mozart, Beethoven fino a Brahms, Schönberg occupa un posto fondamentale nella storia della musica del Novecento per aver aperto nuovi orizzonti linguistici all’arte dei suoni, sia sotto l’aspetto dottrinario che concretamente compositivo. In un primo momento egli subì l’influenza di Wagner e di Brahms, come si legge nelle sue brevi note autobiografiche scritte due anni prima di morire e riguardanti gli Zwei Lieder per baritono e pianoforte op. 1, i Lieder dell’op. 2 e op. 3, il sestetto per archi Verklärte Nacht (Notte trasfigurata) op. 4 sul poema Zwei Menschen (Due umane creature) di Richard Dehmel e i GurreLieder per soli, recitante, tre cori virili, coro misto e orchestra su testi di Peter Jacobsen. Egli stesso disse esplicitamente: «Divenni brahmsiano incontrando Alexander von Zemlinsky [fratello della futura prima moglie del musicista – n.d.r.]: il suo amore abbracciava Brahms e Wagner e perciò divenni presto anch’io un loro convinto seguace. Nessuna meraviglia, quindi, se la musica che composi a quel tempo rispecchia l’influenza di quei due maestri, al favore per i quali s’aggiunse quello per Liszt, Bruckner e forse anche Wolf.
Eliahu Inbal
Questa la ragione per cui nella mia Verklärte Nacht la costruzione tematica è basata da un lato su un “modello” e su una “sequenza” sopra un’armonia circolare di tipo wagneriano e dall’altro su una tecnica di sviluppo della variazione brahmsiana… Ma il trattamento degli strumenti, il modo della composizione e gran parte delle sonorità sono strettamente wagneriani. Penso però che qualche elemento schoenberghiano possa ritrovarsi nella lunghezza di alcune melodie, nella sonorità, nelle combinazioni contrappuntistiche e dei motivi, in certi movimenti armonici semicontrappuntistici e dei bassi verso la melodia. Finalmente v’erano già passaggi di tonalità imprecisa che possono essere considerati premonitori del futuro». Successivamente Schönberg approda all’atonalismo, preludio alla svolta decisiva della dodecafonia, con i Sechs Orchesterlieder op. 8, con la Kammersymphonie in mi bemolle maggiore per 15 strumenti solisti op. 9 e con i Dreì Klavierstucke op. 11, per poi sfociare, al culmine della ricerca espressionista, in alcune composizioni significative in senso più specificatamente dodecafonico, come, tanto per citarne alcune, Erwartung (Attesa) monodramma per voce di soprano e orchestra op. 17, Die glückliche Hand (La mano felice) dramma musicale per baritono, coro misto e orchestra op. 18 e i ventuno poemi del Pierrot lunaire op. 21, composto nel 1912 a Berlino, su un ciclo di poesie di Albert Giraud. A questo punto l’attività creatrice schoenberghiana si indirizzò in modo netto e preciso verso un approfondimento e una codificazione organica e razionale della tecnica dodecafonica, cioè dell’uso costante ed esclusivo di una serie di dodici note diverse, secondo un criterio certamente antitradizionale di organizzazione della materia sonora. Nacquero allora i Fünf Klavierstücke op. 23, la Serenade per
clarinetto, clarinetto basso, mandolino, chitarra, violino, viola, violoncello e voce baritonale op. 24, la Suite per pianoforte op. 25, il Quintetto per flauto, oboe, clarinetto, fagotto e corno op. 26, il Terzo Quartetto per archi op. 30 e man mano tanti altri lavori, composti o ultimati in terra americana, come i due Concerti op. 36 per violino e op. 42 per pianoforte e orchestra, A Survivor from Warsaw (Un superstite di Varsavia) per voce recitante, coro misto e orchestra op. 46 e Moderner Psalm per voce recitante, coro misto a quattro voci e orchestra op. 5Oc, per finire con l’opera incompiuta Moses und Aaron (Mose e Aronne), uno dei tentativi più arditi e difficili nel vasto campo dell’arte lirica.
Ora, nel contesto dell’intera produzione schoenberghiana, la Kammersymphonie n. 2 op. 38 si colloca in due periodi diversi nell’arco creativo dell’autore e risente di due modi di organizzare i suoni, che in un certo senso si integrano e si amalgamano fra di loro. Questo lavoro fu cominciato a scrivere nel 1906, appena conclusa la Kammersymphonie op. 9, ma successivamente l’opera venne interrotta e ripresa soltanto nel 1939, data effettiva di nascita della partitura, di cui esiste anche una versione per due pianoforti, op. 38b, elaborata tra il 1941 e il 1942. In sostanza la Kammersymphonie n. 2 può essere considerata uno studio sulla variazione di derivazione brahmsiana su una forma di tecnica dodecafonica. Tutti e due i movimenti sono strettamente connessi, secondo il principio della variazione a largo sviluppo, come la chiamò Schönberg, ma non escludono frazionamenti e irregolarità che si richiamano o si avvicinano al linguaggio dodecafonico. Va aggiunto che nel 1939 Schönberg aggiunse, tra l’altro, una fuga di quindici misure all’Adagio iniziale, preoccupandosi di costruire tematicamente il secondo tempo (Con fuoco) sulla base del primo, nell’ambito della migliore valorizzazione dello stile orchestrale da camera.