Schumann Robert

Concerto per violoncello e orchestra

Registrazioni in DDD eseguite dal 1986 al 1989. Audio ottimo. Altamente raccomandato.

Dvorák – Schuman

Concerti per violoncello

Nell’aprile del 1894 Dvorák, durante il suo incarico al Conservatorio di New York, ebbe modo di ascoltare il Secondo Concerto per violoncello e orchestra del collega Victor Herbert, il compositore di origine irlandese che, valente violoncellista, si sarebbe presto conquistato una buona notorietà soprattutto con le sue operette. Tale ascolto dovette così essere per Dvorák l’incentivo maggiore a scrivere un lavoro di uguale fattura; anch’egli invero era al suo secondo cimento del genere, ma il Primo Concerto, creato nel 1865, era rimasto allo stadio di abbozzo (sarebbe stato rivisto e orchestrato nel 1929 dal compositore tedesco Gunter Raphael).

Il Secondo invece, avviato nel novembre di quel 1894, giunse speditamente in porto, nel febbraio del 1895.
Si tratta di un lavoro che Dvorák licenziò con lo sguardo ormai rivolto verso casa: sempre nel 1894 infatti egli aveva deciso di non rinnovare il suo impegno con il Conservatorio newyorkese e con questo Concerto egli avrebbe così presentato il suo congedo dal suolo statunitense.
Ritornato in patria, Dvorák nella tarda primavera del 1895 rielaborò ancora il terzo movimento del lavoro: a ciò fu indotto dalla scomparsa della cognata Josefina Cermáková, che il musicista aveva amato in gioventù e che aveva fra l’altro ispirato la nascita dei 18 Lieder del 1865 intitolati “Cipressi”.
Durante la composizione del Concerto negli Stati Uniti Dvorák aveva già ricevuto da Josefina stessa (lettera del 26 novembre 1894) la notizia che ella era seriamente ammalata: proprio per tale contingenza aveva inserito nel secondo tempo un palese accenno al suo Lied op. 82 n. 1 (1887 – 88) Lasst mich allein (Lasciatemi solo con i miei sogni), un brano che l’amica aveva particolarmente a cuore.
La di lei scomparsa indusse così Dvorák a riprendere tale citazione (come del resto un accenno del primo tema del primo movimento) anche nel Finale ed a concludere così ciclicamente il lavoro in tono sostanzialmente elegiaco.
Il musicista dedicò il Concerto all’amico Hanus Wihan, rinomato violoncellista che aveva tra l’altro fondato il Quartetto ceco: proprio per evitare troppo gratuite manipolazioni Dvorák in una lettera del 3 ottobre 1895 aveva pregato il suo editore Simrock di non apportare cambiamenti se non da lui autorizzati, proprio perché consapevole che il lavoro per il suo tono sostanzialmente lirico era impermeabile a qualunque virtuosismo fine a se stesso.
Del resto l’impostazione generale del discorso è sapientemente sinfonica e l’orchestra non decade mai a mero palcoscenico per il solista; da qui fra l’altro l’assenza in tutti e tre i movimenti di una vera e ampia cadenza.
Tale scelta poetica non dovette entusiasmare Wihan: ulteriori problemi pratici (di date e di tempo) si aggiunsero quindi ad impedire che il dedicatario potesse presentare il lavoro, il cui battesimo venne così amministrato da Leo Stern durante l’ultimo viaggio di Dvorák in Gran Bretagna, alla Queen’s Hall di Londra presso la Philharmonic Society il 19 marzo 1896, con il compositore stesso sul podio: sempre Stern si sarebbe poi incaricato di diffondere il Concerto a Lipsia, Praga e Berlino.
Si tratta di un lavoro che è senz’altro uno dei migliori lasciti orchestrali di Dvorák e che si è facilmente conquistato un posto nella letteratura concertistica per violoncello.
Con il concorso della tonalità minore il frequente controcanto dei legni che contrappuntano in regione acuta con il solista è ad esempio uno dei più chiari espedienti atti ad accrescere l’impostazione lirica del lavoro: ma ogni svenevolezza è bandita, grazie alla complementare presenza di quelle risolute movenze epiche che già permeavano tanti passi della Sinfonia “Dal Nuovo Mondo” di poco precedente; del resto neanche qui mancano alcune peculiarità “esotiche” già riscontrate in quel lavoro, come ad esempio l’abbassamento del settimo grado e l’uso di passaggi pentatonici.
Un primo movimento in forma-sonata arcua il discorso fra due idee non solo espressivamente ma anche morfologicamente opposte: un’incisiva cellula di poche note ed un’espansa melodia cantabile a proposito della quale Dvorák stesso, in una lettera del 12 dicembre 1894 all’amico Alois Gobl, disse: “Mi emoziona ogni volta che la suono”.

Misha Maisky

Fa seguito uno splendido Adagio, ma non troppo che incunea all’interno del suo discorso in sol maggiore una virile sezione in sol minore con la citazione del Lied di Josefina.
Il Finale, di nuovo in si minore, si muove fra andamenti marziali ed altri di struggente, un po’ enfatica poesia; la necessità di conservare un nerbo di ferma robustezza induce poi il musicista a inserire una coda (Andante maestoso) con la quale coronare, anzi addirittura solennizzare (emblematica la modulazione a si maggiore) la stimmung del Concerto.

Ferruccio Tammaro

Robert Schumann – Concerto per violoncello e orchestra

Un eccezionale arricchimento del (limitato) repertorio di concerti per violoncello è dato dal Concerto in la maggiore op. 129 di Schumann, abbozzato e strumentato dal 10 al 24 ottobre 1850 a Dusseldorf.
Con i suoi fluidi passaggi fra i tre movimenti e i molteplici nessi tematici, questa composizione lascia intravedere di nuovo la particolare propensione del compositore per la strutturazione ciclica.
Il Concerto appare in egual misura liberamente rapsodico e formalmente compiuto, e dischiude al solista ampie possibilità di sviluppi sonori e tecnici. Anche se esso è stato scritto completamente “per questo bello strumento” (Schumann) e il solista rispetto all’orchestra ha una parte decisamente dominante, tuttavia gli elementi virtuosistici sono sempre sottomessi all’espressione musicale. Ogni volta i magnifici temi e passaggi affidati al violoncello avvincono con il loro fascino, mentre la vasta gamma sonora ed espressiva dello strumento è utilizzata in varie maniere: sia nel primo movimento, segnato da un tema elegiaco-cantabile e da intensificazioni ricche di tensione, sia nel canto romanticamente appassionato nella parte centrale o nella gaiezza piena di brio del Rondò finale.

Siegmar Keil
(Traduzione: Alessandra Castriota)

Dvoràk: Concerto per violoncello n. 2 in si minore op. 104

Se una cifra comune si può rintracciare nel programma proposto, questa va ricercata nelle diverse declinazioni dell’uso di materiali di derivazione o di ispirazione popolare, e ciò ovviamente in gradazioni diverse a seconda degli autori, delle matrici culturali e del periodo storico interessato, in una gamma che va dal nazionalismo ottocentesco, alla citazione folclorica, alla ricreazione compositiva del materiale originale. Il primo brano che si ascolterà, il Concerto in si minore per violoncello e orchestra op. 104 di Antonìn Dvorak, è anche quello di più ‘antica’ scrittura, collocandosi sul finire del XIX secolo, più precisamente nell’inverno newyorkese 1894-95. La sua struttura classica ci rinvia ancor più al passato, ma questo aspetto è controbilanciato da un uso coloristico e virtuosistico dello strumento, nonché dalla matrice popolare di alcuni temi musicali. Figlio di un macellaio che contemporaneamente gestiva una trattoria, suonava cetra e violino, ed era membro dell’orchestra del villaggio, Dvorak aveva ben presenti le radici popolari della musica boema, e avrebbe poi fatto opera di promozione della tradizione musicale ceca, assicurandosi così, in epoca di panslavismo, onori e riconoscimenti. Tra i brani più eseguiti di Dvorak, il Concerto per violoncello fu scritto per il virtuoso Hanus Wihan, violoncellista del Quartetto boemo e amico del compositore; il brano fu poi però suonato per la prima volta da Leo Stern, in una esecuzione londinese diretta dall’autore il 19 marzo 1896 (all’ultimo momento il compositore si rifiutò di inserire nel finale la cadenza composta da Wihan per se stesso).

Hanus Wihan

Ultima opera scritta durante il secondo soggiorno americano, periodo in cui ricoprì l’incarico di direttore del National Conservatory of Music di New York, questa composizione denuncia musicalmente i suoi debiti con la musica popolare boema più che con le nuove suggestioni americane, fors’anche perché scritta dopo tre anni di lontananza dal paese natale.
Il Concerto si apre con una classica introduzione orchestrale bitematica, con il celebre primo tema affidato al clarinetto, reminiscenza della Quarta Sinfonia brahmsiana, cui segue un secondo tema affidato in pianissimo al corno. L’intero primo movimento (Allegro) è permeato dall’alternarsi di sonorità decise e di ripiegamenti: anche il violoncello fa così sfoggio sia della sua dimensione cantabile, sia di quella virtuosistica, e il compositore sfrutta appieno le possibilità del dialogo non solo tra solista e orchestra, ma anche tra violoncello e singoli strumenti dell’orchestra, con una particolare predilezione per i fiati.
Il secondo tempo, Quasi improvvisando: Adagio ma non troppo, si apre con un tema tra il popolare e il religioso, affidato a oboe, clarinetto e fagotto, e ripreso dal violoncello che inizia a elaborarlo per poi ripiegare su se stesso e tornare pienamente protagonista nella parte finale del movimento (quasi cadenza).
Una marcia grave apre l’Allegro moderato finale, con il tema staccato affidato ai corni, ma presto l’andamento marziale si scioglie con il riapparire del violoncello, il quale si inerpica nel suo registro acuto inanellando trilli e dando inizio a un crescendo di protagonismo che, attraverso una serie di episodi tematici, porta alla modulazione in si maggiore. Ha inizio così l’ultima sezione, nella quale crescono sonorità e dinamica, stemperate nel pianissimo della coda, dove il compositore inserisce una melodia (Puisse mon ȃme dei Quatre chants op. 82), in memoria della cognata Joséphine Kounicova, da poco scomparsa.
Non sfugga all’ascolto come in quest’ultimo movimento, attraverso la ripresa melodica di un tema del secondo tempo, venga usato il procedimento ciclico della Sinfonia “dal nuovo mondo”, scritta anch’essa a New York, nel periodo 1892-93.

Schumann: Concerto in la minore per violoncello e orchestra op. 129

Nei primi mesi del 1850 Robert Schumann è a Dresda; sin da aprile riceve lo stipendio da Düsseldorf per il posto che assumerà però ufficialmente soltanto in settembre. A ottobre è a Düsseldorf dove, nel giro di una sola settimana, compone il suo Concerto per violoncello op. 129; questa meravigliosa pagina (un «pezzo sereno», come afferma lo stesso Schumann in una lettera a Breitkopf & Hàrtel del 3 novembre 1853) non fa trasparire le condizioni mentali di Schumann, che di lì a poco sarebbero precipitate irrimediabilmente. Assorbito dal suo incarico di direttore musicale a Düsseldorf e totalmente immerso nella composizione della Sinfonia Renana, Schumann non trova un
solista all’altezza del suo concerto e cominciano a sorgere in lui alcuni dubbi sul reale valore dell’opera, che viene rivista in alcuni punti. Solo nel novembre del 1852 l’autore scrive al suo editore comunicandogli che il Concerto è pronto per essere dato alle stampe, cosa che avverrà solo nel febbraio del 1854. Il 27 dello stesso mese Schumann tenterà di suicidarsi gettandosi nel Reno. La prima esecuzione pubblica di cui si abbia notizia avverrà, postuma, il 9 giugno del 1860 nel corso delle celebrazioni per il cinquantesimo anniversario della sua nascita.
Il Concerto si articola nei canonici tre movimenti; il primo, Nicht zu schnell (Non troppo allegro), viene introdotto da un delicato “sipario” di quattro battute affidato alle armonie dei legni e al “pizzicato” degli archi: la voce del violoncello, calda e intensa, espone poi il primo tema in la minore, appassionato e romantico, come l’anima musicale del miglior Schumann. L’orchestra, che aveva mancato il tradizionale “tutti” introduttivo, si lancia ora in una transizione che porta a do maggiore, tonalità nella quale appare il secondo tema del violoncello, brillante e solare. Il discorso musicale viene condotto essenzialmente dal solista: l’orchestra si limita ad accompagnare, a sottolineare, a riprendere gli spunti motivici che nascono dalle sue corde. La sezione di sviluppo si basa su un nervoso motivo in terzine di crome, che circola in orchestra, mentre il solista prosegue il suo canto appassionato, fatto di rimembranze del primo tema e di slanci melodici ascendenti. L’ultima sezione dello sviluppo, che porta alla ripresa del tema principale, è costituita da un dialogo fra solista e orchestra basato su un energico spunto motivico discendente. Alla ripresa del tema principale fa seguito la transizione orchestrale, che conduce ora a la maggiore, tonalità nella quale riappare il secondo tema.
Manca la tradizionale cadenza del solista e allora, senza soluzione di continuità, si sfocia nel secondo movimento, Langsam (Adagio), in fa maggiore, una delle pagine più struggenti e romantiche dell’intera produzione schumanniana. Protagonista assoluto è il violoncello solista, il cui canto intenso viene delicatamente sostenuto dall’orchestra; verso la fine i fiati alludono al tema principale del primo movimento che subito riaccende la passione focosa nel violoncello che, in un breve passaggio solistico, porta direttamente all’ultimo movimento, Sehr lebhaft (Molto vivace). L’energia e la vitalità di questa pagina si manifestano subito fin dal tema principale, costituito dalla doppia ripetizione di due secchi accordi orchestrali seguiti da un guizzo melodico ascendente del violoncello.

Leonard Bernstein

L’episodio che segue è condotto dal violoncello in agili e virtuosistiche figurazioni che richiamano il guizzo del primo tema, la cui figura ritmica si trasforma in vari modi, assumendo infine un aspetto più lirico con l’approdo al secondo tema. La sezione di sviluppo è lineare e scorrevole, regolare la ripresa che culmina in una cadenza del solista ampia e articolata, alla quale non mance il sostegno ritmico dell’orchestra, cosa che sconcertò non poco i primi esecutori scontenti per l’anticonvenzionalità delle cadenza che appariva probabilmente a loro occhi poco “gratificante”. La breve coda conclusiva, Schneller, riprende per l’ultima volta lo spunto motivico iniziale del tema principale.